
Amos Oz
Una Spoon River israeliana sepolta tra parole e fumetti
Amos Oz vive da sempre in Israele, ha lavorato in un kibbutz per trent'anni, ha partecipato da riservista alle guerre del 1967 e del 1973, ha alle sue spalle molti libri importanti, significativi, medi, sufficienti, controversi, e oggi, a settant'anni, ha scritto un capolavoro, uno di quei libri che possono da soli giustificare un'esistenza da scrittore: il libro si intitola Scene dalla vita di un villaggio, è tradotto da Elena Loewenthal ed è pubblicato da Feltrinelli. Raccontare il romanzo in forma di racconti di Oz è impossibile: si potrebbe forse dire che le vite degli uomini, donne, vecchi, adolescenti, mogli, mariti che vivono in una sorta di Spoon River israeliana misteriosa e sperduta, in cui i segreti dei vivi e i silenzi dei morti si intrecciano, sono le nostre stesse vite; si potrebbe dire che queste storie raccontano amori adolescenti, rancori di vecchi, matrimoni spenti, fantasmi erotici della vita che fluisce crudele e festosa, piena di senso proprio quando più sembra svuotata di senso; si potrebbe dire di una straordinaria atmosfera sospesa, in cui tutto appare reale e dettagliato e in cui tutto assume una lieve, ebbra, terribilmente essenziale qualità allucinatoria; ma non si direbbe ciò che conta: il modo in cui tutto ciò è raccontato, il fatto che in questo ultimo Oz la letteratura sembra scomparire e indicare al lettore, con un gesto quasi ammutolito, la pura realtà: e non è vero, è solo un'illusione prospettica. Quella che Oz racconta non è la «realtà» di Israele, del sionismo, del rapporto con gli arabi, della politica israeliana, delle passioni e dell'intimità in un mondo assediato dal rancore e dalla imitatività reciproca e distruttiva, no: è un mondo parallelo a questo mondo, un mondo creato dall'immaginazione in cui il lettore si può guardare, a seconda del proprio livello di energia, come in uno specchio deformato o come in uno specchio rivelatore. In Scene dalla vita di un villaggio il realismo sublime di Tolstoj è passato attraverso i colpi d'ascia intellettuali di Kafka, ha perso le sue già scarse certezze e si è avventurato in un territorio dove nessuna spiegazione ideologica è valida, e la sola spiegazione, come nella poesia, sta nei corpi, nelle parole, nelle passioni dette e taciute dai personaggi e dalle cose. Di fronte a un libro come Scene dalla vita di un villaggio si capisce che ogni grande libro contiene già in sé la propria critica, e che non ha bisogno di critica, ma di dedizione e apertura, di disponibilità a fissare, sia pure solo per un istante, la verità in volto, sfuggente, ambigua ed enigmatica come è: tutto il resto è superfluo. Ma quanto è influenzata la creatività che si rifà all'ebraismo dal luogo in cui si vive, soprattutto un luogo di tensioni contrastanti come è lo stato di Israele? Un giovane e già famoso autore francese di fumetti, Joann Sfar, al contrario di Oz, che ha scelto di vivere fisicamente e culturalmente l'avventura del sionismo, sostiene l'importanza culturale della diaspora, e la mette all'origine di Klezmer. Conquista dell'Est: una graphic novel pubblicata nella bella collana Lizard della Rizzoli, che aveva pubblicato l'altrettanto riuscito Il gatto del rabbino. Al centro di Klezmer c'è l'avventura picaresca allo stato puro: la storia di un ragazzino, che viene espulso dalla sinagoga e smette di credere in Dio, si intreccia ai vagabondaggi di musicanti rom e klezmer, all'incontro con selvatiche e erotiche ragazze, ai massacri di ebrei e zingari negli anni tra i pogrom degli Zar e quelli che preparano Hitler, alle feste di villaggio negli shtetl, al mondo defunto e magico delle comunità ebraiche dell'Est dell'Europa. Joann Sfar lavora le sue tavole all'acquerello, con colori insieme violenti e onirici, e sa restituire l'atmosfera dell'epoca con grande bravura, come se un illustratore avesse incorporato dentro di sé i Racconti di Odessa e L'armata a cavallo di Isaac Babel', e da essi lasciasse sprigionare l'elemento fiabesco, surrealmente poetico, popolaresco come una canzone di strada. Attraverso il fumetto Sfar riesce a far sentire il tempo della musica klezmer, il violino, la voce, la fisarmonica, il passare da una languida e zigana tristezza mortale a una sfrenatezza ubriaca da pranzo di nozze, l'elemento di improvvisazione che è anche alla base del jazz, il senso di una musica che appartiene agli ultimi, ai vagabondi, ai liberi, a tutti quelli che rifiutano le servitù e le religioni di massa, di qualsiasi genere siano. Un racconto come Klezmer dimostra che il fumetto ha ancora risorse inaspettate, e vie nuove da indicare, anche alla letteratura: perché, come dice Sfar, il fumetto non vuole il gurdante passivo del cinema o di internet, non vuole la spettacolarizzazione ma un lettore-guardante inventivo e creativo, che completi il movimento, che partecipi in pieno e ricavi dai segni geroglifici la pienezza del narrare. Insomma, la letteratura salvata dai fumetti? Chissà! Purché una salvezza ci sia, andrebbe bene anche Topolino...
Il Mattino, 12 aprile 200
condivido totalmente l'ottimo commento sull' ultimo libro di Oz, è un piccolo capolavoro. Come spieghi l' ultimo racconto, una nostalgia, una immagine del Messia che è arrivato e nessuno se ne accorto? Pare che non abbia nulla a che fare con i racconti precedenti. Oppure sì?
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