sabato 14 marzo 2009

Circa 2500 anni fa il popolo degli Ebrei viveva prigioniero del regno di Babilonia. Regnava nel paese il re Artaserse. Questi si era scelto per moglie una giovane di quel popolo, Ester, nipote di un suo consigliere, Mardocheo. Il re, però, ignorava che i due giovani fossero parenti e anche che fossero ebrei. Un giorno Mardocheo venne a sapere che alcuni servitori congiuravano per uccidere il re: avvertì Ester, e il complotto fu sventato. Il re, salvo, fece segnare sui suoi registri il nome di Mardocheo per poterlo ricompensare. Il primo ministro del re, un certo Aman, soprannominato "Fanfarone", odiava Mardocheo e tutti gli Ebrei, perciò non perdeva occasione per parlar male di loro con il sovrano. A forza di calunnie, riuscì a convincere il re di dare l'ordine che questo popolo fosse sterminato in tutto il paese.Venutolo a sapere, Mardocheo chiese l'aiuto di Ester. Benché regina, secondo le usanze del tempo, la giovane donna non poteva presentarsi al Re senza un suo invito ma decise ugualmente di rischiare: andò da Artaserse e lo invitò a un banchetto per il giorno dopo. Quella notte, Artaserse, pensando al complotto sventato da Mardocheo, non riuscì a prendere sonno; il giorno dopo chiamò il suo primo ministro e gli chiese: "Come potrei onorare un uomo che mi ha reso un grande servizio?". Pensando che stesse parlando di lui, Aman rispose: "Fagli indossare il tuo manto e portalo in trionfo attraverso la città". "Questo farò per Mardocheo" disse il re. E il primo ministro, verde di rabbia, dovette eseguire questa cerimonia e portare in trionfo il suo nemico. Più tardi, al banchetto, Ester rivelò di fronte a tutti la congiura di Aman contro gli Ebrei. Allora il re ordinò che Aman fosse impiccato, che tutti gli Ebrei fossero liberi. Ester a sua volta ordinò che da allora in poi gli Ebrei festeggiassero quel giorno, che fu chiamato Purim, con festeggiamenti pari a quelli che si fanno per un matrimonio. Gli Ebrei ubbidiscono ancor oggi a quest'ordine: la festa di Purim viene celebrata con banchetti e grande allegria. www.ilpaesedeibambinichesorridono.it/

Orecchie di Haman (Ricetta Tradizionale per Purim)

Hamantascen sono biscotti a tre punte ripieni di ogni tipo di cose buone. Per esempio, si possono usare datteri macinati, miele mescolato con albicocche secche o noci tritate. marmellate ecc.
Ingredienti:4 bicchieri di farina ,4 uova, 3/4 di bicchiere di zucchero,250 gr. di margarina, 1 cucchiaio di succo d'arancia ,4 cucchiaini di lievito in polvere ,1 cucchiaino di vanillina, buccia d'arancia quanto basta. Mescolare a mano tutti gli ingredienti per formare un impasto. Stendere la pasta molto sottile su un piano infarinato. Infarinare il bordo del bicchiere e tagliare dei cerchi. Mettere il ripieno preferito nel mezzo di ciascuno (vedi il disegno). Per dare la forma triangolare alle Hamantascen attaccare insieme verso il centro i lati AB e AC. Prendere il lato BC e aggiungere agli altri lati. Mettere sulla piastra del forno ben unta. Cuocere a 150 °C per 20 minuti circa finché siano leggermente dorati. Tratto dal "Lubavitch News" N. 22

libro di Ester, Musée du quai Branly, Parigi

La ricorrenza di Purim che festeggiamo oggi trova la sua origine negli avvenimenti narrati nel libro biblico di Ester. Nel racconto ci viene presentato un campionario variegato di forze che interagiscono: il bene, il male, i nemici, gli amici, e i neutrali. In ogni situazione assistiamo al gioco di queste forze, dalle relazioni private fino a quelle politiche internazionali, e anche in ragione di ciò Purim appartiene a tutti i tempi. Tutti i protagonisti di questa vicenda sono doppi e ambivalenti soprattutto nel caso del re Assuero. Assuero è il paradigma della passività e della neutralità; vuole rimanere estraneo, neutrale a questo conflitto. E’ un po’ il gioco del potere, fondamentalmente amorfo, che si autoalimenta sui conflitti altrui non sporcandosi mai le mani. Firma il decreto, poi fa marcia indietro… è sballottato tra le forze del bene e del male. Non agisce ma reagisce e basta. Talvolta si fa il male perché si viene spinti a farlo fintanto che arrivano “minoranze che agiscono”. Ester che all’inizio si rifiuta di agire passa poi all’azione cambiando il corso della storia facendo pendere questa neutralità dalla parte del bene. Il passaggio chiave in questa paradigmatica storia è nella tentazione di Ester di restare neutrale, di cedere al gioco del potere, finché Mordekhai, il suo mentore, le dice: “ se tu taci in questa circostanza …tu e la casa di tuo padre perirete…”. L’alternativa all’azione è l’estinzione, se non agiamo la nostra vita diviene insignificante. La sindrome di Ester prima maniera, è la tentazione d’essere come gli altri, nell’ottica della normalizzazione del destino ebraico. Ester non era affatto convinta di doversi distinguere, stava bene a palazzo, tranquilla nell’assoluta neutralità. Le sorti si capovolgono solo quando accetta la sfida di rischiare, di mettersi in gioco accettando e valorizzando la propria diversità. Capisce che il suo destino personale è indissolubilmente legato a quello del suo popolo. 10.3.09, Roberto Della Rocca,rabbino, http://www.moked.it/

Tel Aviv
Tel Aviv sceglie la bici

Nella città israeliana per rispondere alle crisi energetiche e al traffico, da anni, si utilizzano le biciclette. I ciclisti sempre più padroni delle strade. Un esperimento ha dimostrato che le auto, per muoversi in città, sono i mezzi più lenti dietro al servizio pubblico e alle biciclette. Il ciclista tipo è donna, ha tra i 20 e i 30 anni e appartiene a una classe media o medio alta.In anni di crisi energetiche ricorrenti, che però qui non sembrano particolarmente sentite, Tel Aviv si muove a due velocità: da un lato le automobili, più lente perché impastoiate nel traffico, dall'altro le due ruote. Che, a differenza di molte città italiane come Roma o Napoli, girano mosse non da un motore a scoppio, ma da vigorosi colpi di pedale.I ciclisti stanno diventando sempre di più padroni della metropoli israeliana e signori quasi incontrastati della viabilità. L'ultima, cocente frustrazione gli automobilisti l'hanno provata nei giorni scorsi. In un esperimento comparato organizzato dal gruppo ecologista SPNI e dal "Green Forum", consistente nel coprire i sei chilometri di distanza tra il sobborgo di Petah Tikva e la stazione ferroviaria di Tel Aviv in un'ora di medio traffico, le macchine sono arrivate ultime, dietro ai mezzi pubblici e alle trionfanti biciclette.Del resto la città si presta, perché nonostante Tel Aviv significhi "collina della primavera", è vera solo la seconda parte del nome. Colline infatti ce ne sono ben poche, a eccezione di qualche dislivello di poche decine di metri. Favoriti anche dall'istituzione di piste ciclabili in quasi tutti i quartieri, i ciclisti approfittano del nuovo spirito ecologico che anima gli amministratori municipali e non si fermano davanti a nulla e nessuno, comportandosi come se fossero pedoni, quasi ignorando sensi di marcia, precedenze, semafori o marciapiedi.Colpisce che difficilmente si sentono i pedoni veri protestare per le "soperchierie" delle biciclette. Che sfiorano i passanti, incuranti dell'età o del fatto che possano spingere una carrozzina con dentro un bambino, cosa molto più comune che nella vecchia Europa.Volendo tentare di dipingere il ciclista di Tel Aviv, non si deve pensare a una classe di cittadini meno abbienti, attenti al portafogli e ambientalisti giocoforza. Il pedalatore tipico è tra i 20 e i 30 anni e appartiene a una classe sociale media o anche medio alta. Qualche volta è un dirigente che, tra i 'fringe benefit', gode anche quello di poter fare la doccia in ufficio.Uno 'yuppie' che, senza particolari traumi, potrebbe trapiantarsi in qualsiasi grande contesto urbano della post-motorizzazione, come Londra o New York, e che ha superato la fase dello struscio con la fuoriserie da 300 cavalli, che pure in Israele - e soprattutto a Tel Aviv - si vede con frequenza anni fa impensabile.
I ciclisti però appartengono a un'altra categoria. Fatta di zainetti, anarchico sprezzo del codice della strada e minimalismo, che nel caso delle ragazze - forse più numerose degli uomini - si riflette nella quantità di stoffa servita a confezionare pantaloncini e gonne, così mini da sembrare cinture.Oltre a questa Tel Aviv, ce n'é un'altra che pure va sulle due ruote mosse dalla forza dei muscoli. Sta nel quartiere ultraortodosso di Bnei Brak, dove i molti 'haredim' che si muovono sulle bici, spesso vecchi arnesi neri come le loro palandrane, lo fanno per ragioni soprattutto economiche. Uno scenario che (a parte l'onestà cui sono tenuti i timorati) potrebbe sembrare una ricostruzione ebraica del set di 'Ladri di biciclette'.3.10.08 http://lanuovaecologia.it/

orchestra soldati israeliani

Compagnia israeliana trasforma il traffico in fonte di energia

Un'azienda emergente israeliana di energia vuole trasformare l'irritante traffico dell'ora di punta in una fonte di elettricità.Innowattech, affiliata dell'Istituto di Tecnologia Technion di Israele, sostiene che generatori speciali posizionati sotto strade e autostrade possano raccogliere dai veicoli di passaggio energia sufficiente a produrre grandi quantità di elettricità.Questi generatori contengono un materiale che produce elettricità quando gli viene applicata una forza meccanica come la pressione delle ruote dei veicoli che passano.Il processo, noto come piezoelettricità, viene già usata da anni su scala più ridotta, per esempio per accendere i barbecue o nei pavimenti delle discoteche che si illuminano con la pressione dei passi.Uri Amit, presidente di Innowattech, ha detto che quella implementata dalla sua azienda sarà la maggiore applicazione di piezoelettricità mai vista fino ad ora: un km di una sola corsia di autostrada potrà infatti fornire fino a 100 kw di elettricità, sufficiente a dare energia a circa 40 case.Questa tecnologia però è soggetta ad alcune limitazioni dal momento che può raccogliere un'elevata quantità di energia solo da strade molto trafficate. Ma Amit ha argomentato che in ogni caso il picco della domanda di energia nelle ore del mattino e della sera coincide con il traffico intenso all'inizio e alla fine della giornata lavorativa.
"Possiamo produrre elettricità ovunque ci sia una strada trafficata usando energia che solitamente viene sprecata", ha detto Amit.La prima sperimentazione, ha aggiunto, inizierà nei prossimi mesi su 30 metri dell'autostrada fuori da Tel Aviv, e progetti simili potrebbero partire a livello internazionale nel 2010.Efstathios Meletis, direttore del dipartimento di Scienze Materiali e Ingegneria all'Università del Texas di Arlington, ha definito la tecnologia di Innowattech una "buona idea teoricamente fattibile".Ma, ha aggiunto, potrebbero sorgere dei problemi nell'implementazione e nella coordinazione necessaria per posizionare i generatori sotto grandi tratti di strada e binari ferroviari. 10-03.09,

venerdì 13 marzo 2009

Sono passati 150 anni dalla nascita dello scrittore yiddish Shalom Aleichem. Una troupe televisiva ucraina è venuta a Manhattan per girare un documentario sugli ultimi anni della sua vita, passati nel Bronx. Hanno chiesto alla nipote Bel Kaufman, 98 anni, di descrivere il nonno. Lei lo ha fatto citando Isaac Bashevis Singer: "Puo' uno scrittore popolare essere un genio e un genio pensare come un uomo qualsiasi? Se tale fenomeno è possibile, Shalom Aleichem è quanto più gli assomiglia". Maurizio Molinari, http://www.moked.it/
Nato a Perejaslav [Ucraina] nel 1859 (morto a New York nel 1916), il suo vero nome era Shalom Rabinovitz. E' considerato tra i fondatori della letteratura jiddish moderna. Dopo il cheder, la tradizionale scuola ebraica, frequentò il ginnasio russo e iniziò a pubblicare i suoi primi scritti in ebraico e in jiddish su riviste. Fu per breve tempo rabbino, poi commerciante sfortunato finché il fallimento economico del 1890 lo indusse a occuparsi soltanto di letteratura. Nel 1906 lasciò la Russia e si stabilì a New York, ma viaggiò molto in diversi paesi europei. Shalom Aleichem (o Sholem Aleykhem in altra grafia [1]) è autore molteplice, capace di una immaginazione sbrigliata che lo pongono ai livelli di Charles Dickens o di Mark Twain. Nel 1892 uscì la prima serie di racconti intitolati, dal nome del protagonista, Menakhem Mendl, serie proseguita fino al 1913. Nel 1894 uscì la prima serie di Tewjè il lattaio proseguita fino al 1916. In questi racconti, costruiti secondo la tecnica del monologo e del racconto epistolare, Shalom Aleichem fonde in una geniale invenzione linguistica umorismo e tragicità, tenerezza e demistificazione della realtà. Kijev la città dei traffici e dei commerci diventa la comica e bislacca Jehupez. Dalla prospettiva ingenua di Menakhem Mendl, l'eroe travolto dalla speculazione in borsa ma indistruttibile nel suo candore, il meccanismo della società moderna appare come una girandola assurda e insensata. Allievo ideale di Dickens, Sterne, Cervantes, Shalom Aleichem crea con la figura di Tewjè, l'arguto e savio lattaio, un personaggio immortale della letteratura mondiale, un don Qujote che ha dentro di sé anche il proprio Sancho Panza. La sua odissea è quella dell'individuo contemporaneo, simboleggiato dall'ebreo, il quale nelle sue sconfitte conserva, pur senza illudersi, la capacità di amare e di ridere, di dominare stoicamente il dolore e di godere gli attimi di gioia.http://www.zam.it/


Il Mar Morto si sta pericolosamente restringendo, colpa dell'uomo


Il Mar Morto si sta restringendo, l'uomo e lo sfruttamento ai fini industriali ne sarebbero la causa. Il lago ha perso, solo negli ultimi 30 anni, un volume pari a 14 chilometri cubi di acqua. A rivelarlo uno studio di Shahrazad Abu Ghazleh dell'università di Tecnologia di Darmstadt, Germania, pubblicato sulla rivista Naturwissenschaften. Il Mar Morto che deve il suo nome alla sua estrema salinità viene utilizzato da aziende israeliane e giordane per l'estrazione della potassa (elemento utile per la fabbricazione di saponi) ma anche di altri sali. Ora il Mar Morto potrebbe morire davvero, infatti anche le acque degli immissari (come i fiumi Yarmuk e Giordano) vengono 'depredate' per l'irrigazione. La proposta degli studiosi è di realizzare un collegamento fra il Mar Rosso o il Mediterraneo, per arrestare la sempre più rapida 'agonia' del lago. 4.03.09, http://www.moked.it/

Haifa

Come molti avranno già letto, il convegno di ieri su Durban è stato un successo sia nella qualità degli interventi dei relatori (a me è piaciuto moltissimo l’intervento del Ministro Frattini), che con la partecipazione del pubblico.Per chi non ne fosse a conoscenza e desiderasse ascoltare quanto è stato detto, può farlo visitando il sito di Radio Radicale:
http://www.radioradicale.it/scheda/274688/convegno-dal-titolo-durban-2-una-conferenza-antisemita-contro-la-democrazia
Shabbat Shalom e Buona Domenica a tutti Marcello

Nell’inferno sovietico


di Irena Moczulska, Zane Editrice Euro 20,00
Se la storiografia sui lager nazisti è ampia e numerosi sono i saggi e le memorie dei sopravvissuti che raccontano l’indicibile tragedia del popolo ebraico non si può dire lo stesso per la produzione letteraria sugli strumenti di potere utilizzati dal totalitarismo sovietico: i gulagLa tremenda realtà dei gulag sovietici, rivelata in occidente per primo da Solgenitsin come aberrante fenomeno dell’epoca staliniana si è andata rivelando nella sua vasta dimensione di tragedia umana da un paio di decenni a questa parte, anche a seguito delle aperture democratiche, attraverso le memorie dei sopravvissuti, storie intense di vita vissuta.In questo filone si colloca lo straordinario libro di memorie di Irena Moczulska che, grazie all’efficace traduzione di Augusto Fonseca, giunge al pubblico italiano come un nuovo tassello, un prezioso frammento nella conoscenza di un periodo storico caratterizzato dal genocidio rosso-sovietico ancora poco conosciuto.“Nell’inferno sovietico” ripercorre con una prosa scorrevole e coinvolgente la vita di Irena Moczulska dal maggio del 1939, quando nel cortile del ginnasio-liceo Pilsudski ritira il diploma di maturità liceale, al suo ritorno nell’amata Polonia dopo i duri anni trascorsi come deportata nel Kazakistàn.Dopo la stupenda descrizione della città di Pinsk “scrigno dei miei anni più belli”, e della rigogliosa natura che la circonda e dopo il ricordo struggente degli adorati professori – l’insegnante di canto Witezak, quello di biologia Tadeusz Srela, il sacerdote Don Szczerbicki, uomo di grande umanità e attivo nell’Associazione Scout Polacchi – l’autrice in un crescendo di emozioni ci conduce nel vortice della guerra e della deportazione.
Il 17 settembre 1939 segna l’avvento dell’era comunista in Polonia: Irena Moczulska, insieme ad altri giovani, entra a far parte di un’organizzazione clandestina chiamata Pow allo scopo di lottare contro l’occupazione sovietica.Per questa sua appartenenza viene arrestata nel febbraio 1940 e senza alcun processo deportata in un campo di concentramento nel Kazakistàn settentrionale.
Per Irena Moczulska inizia un inferno che durerà sei lunghi anni descritto nei particolari più duri, restituendoci l’orrore della vita carceraria con la sporcizia, le sevizie e lo squallore quotidiano prima nel carcere di Pinsk, poi in quello di Minsk, “il vecchio castellaccio di Sapieha” dove spesso sarà costretta a vivere in isolamento nelle celle di rigore della torre.E ancora la descrizione del viaggio verso Dolinka che durerà più di tre settimane “rinchiusi in carri bestiame” in una lotta quotidiana per “non perdere la dignità di persone, per non finire come gli animali” colpisce per l’intensità emotiva e per la crudeltà degli aguzzini ma anche per la forza d’animo che Irena ha sempre conservato anche nei momenti più difficili.Il libro è arricchito dalla presenza di personaggi indimenticabili, Ingusci, ebrei, russi e polacchi, che accompagnano Irena, la madre e la sorella condividendone le disavventure negli anni della deportazione: ad ognuno di loro l’autrice dà voce rendendoli in tal modo immortali.Non mancano il freddo, la fame e le malattie ma anche gli strenui tentativi di Irena di affrontare ciò che la vita le riserva con coraggio e con quella fede radicata in Dio che testimoniano l’alta figura morale di questa giovane donna.
Dopo l’amnistia concessa ai cittadini polacchi in Russia che permette a Irena Moczulska di tornare in patria si aprono nuovi orizzonti di speranza.Tuttavia la strada che porterà l’autrice a Wroclaw e a ricostruirsi una vita normale passerà ancora attraverso mille peripezie che non sveliamo ai lettori per non privarlo del piacere di una lettura affascinante e terribile al contempo.
Una bellissima immagine delle gemelline di Irena con il vestito da ballerina, in occasione di un saggio di fine anno della scuola, al termine del libro racchiude ancor più di qualsiasi parola il messaggio di speranza, di amore e di fiducia nella vita che l’autrice con grande sapienza narrativa e intensità emotiva ha saputo trasmetterci.E’ un libro che merita di essere conosciuto e al quale le nuove generazioni dovrebbero accostarsi con rispetto per cogliere il valore di una testimonianza unica perché ogni uomo è unico nella sofferenza che ha vissuto e che gli ha forgiato la vita.Consiglio la lettura del libro di Irena Moczulska per non dimenticare mai che “è in gioco la memoria del mondo, è in gioco il ricordo che sapremo o non sapremo trasmettere alle giovani generazioni e a quelle che verranno, è in gioco il rispetto dei milioni di persone che finirono là, subirono i maltrattamenti più bestiali e furono assassinati. Salvare la Memoria è un dovere e responsabilità di ciascuno di noi” (Boris Pahor). Giorgia Greco

Ripensare l’Olocausto


di Yehuda Bauer, Baldini Castaldi Dalai Euro 18,50
L’Olocausto, l’immane tragedia che ha colpito il popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale è un evento che ha influenzato la civiltà contemporanea in modo durevole e ha rappresentato “un autentico spartiacque nella storia umana”.Dopo più di sessant’anni, dopo l’istituzione della Giornata della Memoria che commemora le vittime dello sterminio nazista, dopo la pubblicazione di libri, biografie e saggi sulla Shoah, c’è ancora qualcosa che il mondo dovrebbe conoscere e di cui fare tesoro?A lettura ultimata del saggio dello storico israeliano Yehuda Bauer, “Ripensare l’Olocausto”, la risposta è senz’altro affermativa.Pubblicato originariamente in lingua inglese nel 2001 con il titolo Rethinking the Holocaust, è ora riproposto dalla casa editrice Baldini Castaldi Dalai nell’ottima traduzione di Giuseppe Balestrino.
Considerato fra i più importanti storici viventi dell’Olocausto, Yehuda Bauer nasce a Praga nel 1936, emigra successivamente con la famiglia in Palestina dove combatte nella guerra arabo-israeliana del 1948. Professore alla Hebrew University di Gerusalemme e consulente dello Yad Vashem è insignito nel 1998 del prestigioso Premio Israele e nel 2001 diviene membro dell’Accademia israeliana delle scienze.Se nel suo saggio “Ebrei in vendita” pubblicato da Mondadori nel 1998 Bauer ricostruisce le trattative, gli interessi e le passioni che indussero alcuni leader di organizzazioni ebraiche a cercare di salvare le vite di ebrei corrompendo gli ufficiali nazisti, in quest’ultimo volume lo storico offre un quadro molto ampio di studi, ricerche e metodologie intorno all’evento più drammatico del XX secolo.L’opera si articola in undici capitoli nel corso dei quali Bauer segnala ed esplora con rigoroso metodo scientifico alcuni importanti filoni. Alcune delle tesi esposte sollecitano in modo particolare l’attenzione del lettore e scardinano molte convinzioni preconcette.Innanzitutto l’Olocausto non era inevitabile e si trattò di uno degli sviluppi possibili della situazione europea, ma non l’unico; come pure non fu affatto un fenomeno inesplicabile, anzi “…l’Olocausto può ripetersi, anche se esso rappresenta la forma più estrema di genocidio finora conosciuta”.Dopo aver analizzato con perizia le differenze con gli altri genocidi si sofferma nella disamina dell’ideologia antisemita nazista, che deve la sua immagine degli ebrei all’antisemitismo cattolico e che costituì il fattore maggiormente determinante dell’Olocausto.Un capitolo di estremo interesse, anche per il lettore che non conosce in modo approfondito la storiografia sulla Shoah, riguarda il confronto che Bauer instaura con intellettuali e storici come Bauman, Wiesel, Hilberg, Aly, Goldhagen dei quali analizza le tesi e pone in evidenza le incongruenze nelle loro interpretazioni storiche.Non meno importante è la sezione dedicata alla resistenza ebraica, armata e disarmata, in cui lo storico affronta il concetto innovativo di “amidah” intendendo con tale termine la resistenza che include sia le azioni armate che quelle disarmate quali il contrabbando di cibo nei ghetti, le attività culturali educative, religiose e politiche volte a rafforzare il morale, l’opera dei medici e delle infermiere.
Bauer si sofferma inoltre con particolare scrupolo nell’analisi del ruolo degli Judenrate: quali erano le intenzioni dei suoi membri? Cosa cercarono di fare per proteggere le loro comunità? Come contrastarono gli oppressori? Domande complesse alle quali lo storico risponde con pagine dense sotto il profilo storico, etico e morale.Come è stato possibile l’Olocausto? Dov’era Dio? Perché non ha salvato il suo popolo? Per Bauer la teologia non ha trovato una risposta all’indicibile tragedia e pur trattandosi di un mistero dal quale originano riflessioni profonde non è in grado di offrire alcuna “spiegazione”, ammesso che sia possibile, ad esempio allo sterminio di un milione e mezzo di bambini. Infine lo storico israeliano esplora il legame fra l’Olocausto e Israele e ritiene un errore pensare che Israele rappresenti una conseguenza della Shoah: lo Stato ebraico è, innanzitutto, “la creazione delle generazioni che hanno preceduto l’Olocausto e che hanno gettato in Palestina le basi di una lotta per l’indipendenza, e grazie alle quali i sopravvissuti hanno potuto esercitare la propria influenza”.Questo saggio, frutto di studi e ricerche approfondite, offre numerosi spunti di riflessione circa l’unicità dell’Olocausto e l’interesse che questo tragico evento della storia europea continua a suscitare nell’opinione pubblica.Ripensare l’Olocausto è un testo che consigliamo soprattutto agli educatori e ai giovani, ancor più attuale dopo che tesi revisioniste e negazioniste si sono manifestate anche in ambienti ufficiali a dimostrazione che, a distanza di sessant’anni, sono ancora presenti i semi dell’odio che hanno portato allo sterminio degli ebrei d’Europa.Per commemorare le vittime dell’Olocausto, per impedire che un simile abominio possa ripetersi, “è necessario ripensare ciò che accadde allora”.Giorgia Greco

Un gangster ebreo” (di Joe Kubert, Planeta De Agostini)


è stato pubblicato nel 2005 ed è la storia di Ruby Kaplan, un giovane ebreo di Brooklyn, che rimane affascinato dai soldi facili. La storia ha origine dalle raccomandazioni che il padre di Kubert faceva al figlio: non fare il gangster. Sicuramente una delle indicazioni più diffuse all’epoca. La storia è ambientata negli anni venti-trenta, quando con la mafia italiana e irlandese, fiorì anche una attività gangsteristica che coinvolgeva anche ebrei.Kubert ricostruisce, come Eisner, grazie alla sua esperienza diretta, il quartiere di New York, le abitudini e le difficoltà che gli emigranti andavano a incontrare quando decidevano di tentare la fortuna negli USA. Ruby affronta i sentimenti di frustrazione per le difficoltà economiche della famiglia, così come l’invidia per la ricchezza che ostentano quelli che fanno i soldi facili. La famiglia deve anche affrontare un paradigma sociale diverso da quello della Polonia. L’ambizione di Ruby quando inizia a fare il corriere per i gangster è “papà non dovrà lavorare... e mamma non dovrà più cucinare per altri.” L’ansia di riscatto fa sempre vittime quando non si combina con la saggezza e il buon senso. La storia di Ruby sarà una ascesa fino alla caduta con la sorella vittima delle vendette degli avversari gangster del fratello.Kubert in realtà racconta due storie, le tristi vicende di Ruben sono in realtà un filo sottile e amaro che racconta la storia degli emigranti. Da Ellis Island alle strade di New York. Al tratto dalla linea concreata e graffiata, che da corpo a ogni immagine, l’autore inserisce piccole fotografie disegnate che rappresentano immagini della sua memoria: come il venditore di stoviglie, oppure Coney Island coperta dalla neve, il ponte di Brooklyn o la stessa Ellis Island. Un doppio binario narrativo per raccontare il coraggio di chi emigrò.Forse c’è una terza storia, quella dei gangster ebrei, una storia dai doppi risvolti, se da una parte furono veri criminali, droga, prostituzione, alcool, più di una volta si occuparono di difendere il loro popolo e contribuirono come Bugsy Siegel a finanziare la nascente armata che avrebbe restituito libertà e indipendenza a Israele.Tante storie che si accavallano per raccontare la complessità della vita e le sue difficoltà.
Kubert è nato in Polonia, Yseran, nel 1926. Ad appena due mesi dalla nascita emigra negli Stati Uniti con tutta la famiglia che lo incoraggia a disegnare. Già all’età di dodici anni guadagna cinque dollari a pagina, una bella cifra per l’epoca. In questi anni di grandi successi non ha mai dimenticato le sue origini ebraiche disegnando diversi fumetti: Yossel, una storia incentrata sulla tecnica del What if, cioè cosa sarebbe successo se... in questo caso se non fosse emigrato negli USA e il suo destino nel ghetto di Varsavia. Poi diverse storie per l’organizzazione Lubavitch e il Moshiach Times, dal titolo “Le avventure di Yaakov e Yosef” negli anni Ottanta.
Andrea Grilli, http://www.moked.it/

Logica: Israele è stata esclusa dai prossimi Giochi del Mediterraneo di Pescara per una questione meramente logica. Mica potevano escludere i Paesi arabi. Il Tizio della Sera

Giochi del Mediterraneo. Il villaggio "targato" Chieti

Giochi senza Israele, un'occasione persa

La motivazione ufficiale è pilatesca: siccome essi non partecipano ai Giochi del Mediterraneo dal 1951, non sono stati invitati nemmeno stavolta. E già che c’erano, per evitare rogne gli organizzatori hanno evitato di chiamare anche i palestinesi...
NE' ISRAELE né i palestinesi parteciperanno ai Giochi del Mediterraneo (Pescara, 26 giugno-5 luglio). Per quanto riguarda gli atleti ebrei, la motivazione ufficiale è pilatesca: siccome essi non partecipano alla manifestazione dal 1951, non sono stati invitati nemmeno stavolta.E già che c’erano, per evitare rogne gli organizzatori hanno evitato di chiamare anche i palestinesi, così in Abruzzo tutti saranno più tranquilli e chissenefrega se sarà stata sprecata un’occasione preziosa. Tutto questo avviene mentre il governo italiano annuncia che, in segno di protesta, diserterà la conferenza contro il razzismo, in programma a Ginevra a metà aprile perché, come già accadde a Durban, in realtà si trasformerà in un festival mondiale dell’antisemitismo e del negazionismo, su ispirazione di buona parte delle nazioni islamiche, Iran in testa. Una volta tanto e sorprendendo tutti, a cominciare da se stesso, l’esecutivo di Berlusconi ha preso un’iniziativa importante in politica estera dove, peraltro, glissa sul Tibet che martedì 10 marzo ricorderà il primo anniversario del massacro cinese a Lhasa.Per i Giochi del Mediterraneo, invece, nessuno da Roma ha informato il comitato organizzatore di Pescara, dove, per non sapere né leggere né scrivere, hanno ignorato sia Israele sia i palestinesi. Il nostro sito internet «www.quotidiano.net» ha ricostruito l’ultima schizofrenia politico-sportiva di cui è teatro un Paese che, per bocca del suo premier, sa essere tanto amico di Israele quanto dei palestinesi, ai quali nei giorni scorsi a Sharm el Sheik, il Cavaliere in persona ha promesso aiuti per 100 milioni di dollari da impiegare nella ricostruzione di Gaza.I Giochi del Mediterraneo sarebbero stati un’opportunità per trasformare un evento sportivo in un incontro di pace. Anche perché, dalla strage ai Giochi di Monaco ’72 in poi, gli sportivi israeliani hanno dovuto subire ignobili boicottaggi e razzistiche discriminazioni che devono finire. Nella stessa misura in cui gli atleti palestinesi hanno il diritto di rappresentare il loro popolo dovunque questo sia possibile. Frattini faccia una telefonata a Pescara e chiarisca le idee al Ponzio Pilato di turno. Non è mai troppo tardi per mostrare di avere coraggio.http://quotidianonet.ilsole24ore.com/


Davis: Israele esulta, sconfitto odio Nazionale ai quarti nonostante manifestazioni violente

(ANSA) - GERUSALEMME, 9 MAR - Esulta la stampa israeliana per la vittoria in Svezia in coppa Davis nonostante le violente manifestazioni filopalestinesi. I tennisti israeliani 'hanno sconfitto l'odio' e' il titolo di uno dei servizi sul quotidiano Yedioth Aharonoth. 'Malgrado l'odio e la violenza - scrive il giornale - i tennisti israeliani sono riusciti a superare la Svezia e a entrare nei quarti di finale della Coppa Davis per la prima volta dopo 22 anni'.


http://www.malainformazione.it/

Il sito ci aiuta a smascherare le bufale nell'informazione su Israele.
Sulla destra troverete l'invito ad iscrivervi alla newsletter: a voi iscrivervi non costa niente, al gestore del sito invece un sufficiente numero di iscrizioni garantirà la prosecuzione del finanziamento che gli permetterà di proseguire un lavoro da cui tutti noi potremo trarre indubbia utilità. Quindi vi invito ad iscrivervi e a segnalare a vostra volta il sito alle vostre mailing list e nei vostri blog.

giovedì 12 marzo 2009

Karma Kosher, i figli d'Israele tra sogni di pace e rock'n'roll

di Daniela Amenta http://www.unita.it/, 01 marzo 2009
La copertina è del fumettista israeliano Mish: ritrae una combriccola che beve, mangia, cazzeggia. Mish pubblica le sue strisce su Achbar Ha ‘Ir che spiega Anna Momigliano “è la rivista più figa di Israele”. E allora benvenuti nel party di Karma Kosher, sottotitolo “i giovani israeliani tra pace, guerra, politica e rock’n’roll”, il libro della Momigliano per Marsilio (144 pagine, 12 euro). Lei, giornalista, si è presa la briga di raccontare la generazione Rabin, i modi di dire, le fughe e la musica dei ragazzi di Israele. I figli laici e progressisti degli anni Novanta. Quelli che dopo Gaza hanno gli attacchi di panico e le crisi di ansia, quelli che vivono con la sensazione di una bomba pronta ad esplodergli sopra la testa o nell’angolo di una discoteca, quelli che subiscono le strategie politiche ma fanno i conti con l’anagrafe, la voglia di vivere, di divertirsi. Spiega l’autrice: “Scrivere di Israele senza scrivere di politica non avrebbe senso, perché lì il pubblico diventa quasi sempre privato. Ma scrivere di Israele riducendolo solo a un simbolo politico non renderebbe giustizia a questa nazione unica. Avere la pretesa di raccontare in un solo libro Israele in tutta la sua storia e in tutte le sue sfaccettature, poi, sarebbe impossibile”. Però il punto di vista scelto da Anna Momigliano è inusuale. Così ne viene fuori un ritratto generazionale tra tic e slang, rock e passioni, droghe e draghi. E soprattutto ricerche di vie di fuga. Per lasciarsi alle spalle le tensioni, le paure, le coliti, la leva obbligatoria nell’esercito. Se ne vanno in India, questi figli floreali e spaventati d’Israele, come i freakettoni degli anni Settanta. Vanno a Goa, la Tel Aviv Beach, a celebrare rave, sedute psicoanalitiche collettive, un po’ psichedelici e un po’ new agers, talvolta Buddisti, più spesso semplicemente disincantati eppure legatissimi all’identità nazionale, al concetto di terra, alla metafora di Patria. Karma Kosher descrive con leggiadria ma senza sconti gli ex bambini d’Israele alle prese con lo Zen e l’arte della manutenzione del sé. Voglia di libertà e paure nel “balagan” che descrive il caos e le situazioni che non migliorano. Eppure, eppure Karma Kosher suona come un assolo rock vibrante, rappresenta un percorso forte, schizoide tra vittorie e sconfitte, manifestazioni di piazza e solitudini privatissime. Sarà che Anna non ha ancora trent’anni e sa trovare in fretta le parole per raccontare i suoi simili, sarà che questo libro non ha pretese semiologiche e attraversa la realtà con passo lieve. Il risultato è un testo appassionato, come una fotografia con un taglio di luce imprevisto. Lo dice l’autrice stessa: “tra le guerre, gli attentati, la nevrosi collettiva e le piccole assurdità quotidiane, non esiste al mondo un posto vivo, disperatamente attaccato alla vita e alla gioia di vivere, come Israele". E Karma Kosher è, soprattutto, un omaggio alla vita.

Passaggio in Yemen


La seconda parte del mio diario di viaggio sullo Yemen è dedicata agli ebrei e a ciò che resta dell’ebraismo yemenita. Forti di libri letti sulla antichissima e affascinante comunità ebraica yemenita, di qualche cena a ristoranti yemeniti in Israele, nonché di confuse notizie carpite da Internet e volenterosi ricercatori su presunti superstiti ebrei in villaggi a nord di Sana’a e nel governatorato di Sa’dah, io e le mie tre compagne di viaggio appena arrivati a Sana’a ci siamo armati di pazienza e siamo corsi alla shurta sahafiya (meglio nota come tourist police) per avere il permesso di andare, accompagnati da un autista yemenita, a Ra’idah, un ameno villaggio a nord della capitale dove le notizie in nostro possesso situavano il grosso degli ebrei yemeniti rimasti. Dopo aver scovato tre poliziotti sdraiati per terra a masticare qat, aver telefonato all’autista, coinvolto un poliziotto come traduttore telefonico dall’arabo all’inglese, otteniamo l’agognato permesso per Ra’idah. Inutile il tentativo per Sa’dah, zona tribale per la quale ci sarà negato il permesso.Al mattino alle otto arriva l’autista che, subito, si convince che noi siamo quattro ebrei alla ricerca di propri confratelli dispersi. A nulla varranno i nostri tentativi di parlare arabo, sviare la conversazione eccetera. Ad ogni posto di blocco, l’autista ci presenta (più o meno) come ‘arba italiyyin o meglio: yahud. Evvai!!! Arriviamo a Ra’idah, salutiamo l’autista che va a pranzare per i fatti suoi e noi, subito, notiamo un bambino con le pe’ot, i riccioli degli ebrei ortodossi. Lo seguiamo e in men che non si dica ci troviamo in casa di una famiglia (moooolto allargata) di ebrei yemeniti, uomini, un vecchio pazzo che protesterà per l’assenza delle pe’ot a lato delle mie orecchie. Per farla breve, armati di registratore vocale e di fotocamere digitali, il nostro animo di antropologi e ebraisti prende il sopravvento e iniziamo a fare domande sulle sinagoghe, quanti sono, dove sono, se hanno rapporti con Israele, di cosa vivono, quali sono i rapporti coi vicini musulmani, le feste, come fanno a mantenere la kasherùt e molte altre domande. La conversazione, metà in ebraico, un po’ in arabo e ogni tanto col soccorso estremo dell’inglese, è alquanto bizzarra. Gli ebrei di Ra’idah parlano un ebraico talmente arabizzato da risultare a tratti incomprensibile, in più spesso si contraddicono tra loro (ad es. su quanti ebrei siano rimasti, nonché su altri argomenti). Qualche tazza di té dopo, un ebreo sulla quarantina che da subito era sembrato il più propenso al dialogo si offre di portarci al vecchio cimitero ebraico. Inizia un lento viaggio in jeep col nostro autista ormai definitivamente convinto di avere adesso addirittura cinque ebrei sulla sua macchina. Dopo aver sbagliato strada tre o quattro volte, arriviamo ai piedi di alcune montagne, in mezzo a campi coltivati e qualche rara casupola. Poi, poco più in là, nel bel mezzo del nulla: un campo di pietre bianche, quasi tutte rotte, mezze interrate, con erba e sterpi dappertutto. Io e la mia guru universitaria abbiamo un tuffo al cuore: è il cimitero. Ci avviciniamo e increduli riusciamo a leggere due lapidi, una soprattutto è piuttosto ben conservata: Rachel bat Avraham, Rachele figlia di Abramo. Sono in Yemen, sto parlando ebraico e mi trovo di fronte ad una tomba ebraica di chissà quale epoca. Se è un sogno, non svegliatemi. Ma il meglio deve ancora venire.Ancora storditi da quanto visto, torniamo a Ra’idah e da lì il nostro Yosef/Yusuf ci accompagna al villaggio accanto, dove c’è un’altra sinagoga (anch’essa però è chiusa perché il detentore delle chiavi è assente) e, soprattutto, due piccole scuole ebraiche per bambini e bambine. Arriviamo in un cortile inondato dal sole e, dietro una porta, in una stanza piena di polvere, troviamo una classe di nove o dieci bambine ebree che salmodiano in ebraico guidate da una maestra. Velate e/o con le colorate cuffie della tradizione ebraico-yemenita, ripetono parole in ebraico. Alle pareti l’alfabeto ebraico, libri che arrivano da Israele o con sovvenzioni di associazioni ebraiche americane. La scuola maschile è poco distante, e lì una classe di ragazzini con le pe’ot ripete altre parole in ebraico. Il maestro, da buon yemenita, mastica qat.Dopo molti shalom, migliaia di barukh ha Shem (”benedetto il Signore”), todah (”grazie”) eccetera, totalmente abbacinati da quanto visto, fieri delle nostre foto, filmati e registrazioni, torniamo a Sana’a dopo il tramonto.In Yemen sono rimasti qualche centinaio di ebrei (200, 400: non si sa con precisione). Alcuni a Sa’dah, a Ra’idah, altri a Sana’a (dove esiste ancora un vecchio quartiere ebraico, con stelle di David su alcuni edifici e qualche ricordo carpito dagli abitanti più anziani, nella zona di El-Gah che abbiamo visitato qualche giorno dopo). Gli ebrei che abbiamo incontrato, tra i venti e i cinquant’anni (bambini esclusi), sembrano vivere in modo piuttosto semplice, isolati dal resto della comunità non ebraica, limitati in molte cose da proibizioni governative. Alcuni vogliono emigrare in Israele e raggiungere parenti a Beer Sheva, Ashdod o negli USA. Parlano e scrivono in ebraico, spesso parlano arabo yemenita ma non sanno leggerlo perché è loro vietato frequentare scuole altre da quelle ebraiche del villaggio.Fino agli anni ‘50 gli ebrei yemeniti erano più di cinquantamila, oggi quasi tutti in Israele. Il futuro degli ebrei yemeniti sembra irrimediabilmente segnato, andando ogni giorno di più in direzione dell’estinzione. Eppure la diaspora yemenita è una delle comunità più antiche e affascinanti della storia ebraica. Una storia che inizia con re Salomone e la regina di Saba e attraversa i secoli per giungere fino a noi negli occhi pieni di speranza di dolcissime bambine ebree che ripetono preghiere in ebraico, così come facevano le loro madri e le loro nonne, e così all’indietro nel tempo fino a quella Rachel bat Avraham (e mi sia concesso dire: zichronah li-vrachah, “sia benedetta la sua memoria”: e che sia davvero benedetta, se nel 2007 io ho potuto leggere il suo nome su una lapide semi distrutta) che, oggi, riposa in un cimitero abbandonato e ignoto a tutti, ai piedi delle alte montagne dello Yemen. Dario, 4.12.07 http://sanpolo2035.wordpress.com/

Gerusalemme

Cara Chicca, ti immagino ancora in viaggio ma voglio che al tuo rientro trovi il mio saluto. Un saluto che in realtà è un grazie, un grazie "alto fino al cielo " come dice la mia nipotina Isidora. Vivere con voi quei giorni è quanto di piu bello e coinvolgente mi potesse capitare ;ringrazio Dio per avermi dato la possibilità di conoscere persone come te ed Angela ,persone stupende che in più mi hanno dato e mi daranno ancora la possibilità di approfondire un mondo che ho sempre amato ma su cui ho tanto da apprendere. Il mio attuale stato d'animo mi tiene laggiù ,il mio cuore è proteso verso quel popolo cosi unico. Grazie ancora perchè ci sei e per come sei. Un abbraccio forte, a presto Tea (Padova, viaggiatrice del viaggio di febbraio-marzo 2009)

Dr. Haim Yassky (at right) treating eyes at Haifa Hospital

Convoglio ospedaliero bombardato e bruciato. Il personale dell'ospedale Hadassah e dell'università bersagliato da colpi d'arma da fuoco

Estratto dal Palestine Post del 14 aprile 1948.
Un convoglio dell'ospedale Hadassah, composto da 10 veicoli con a bordo medici, infermieri, pazienti, personale dell'Università Ebraica e viveri destinati al Monte Scopus, è stato pesantemente attaccato per sette ore dagli arabi mentre attraversava il quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme poco prima delle 10 di ieri mattina. Tra le vittime ebree si contano 35 morti e 20 feriti. Tutti i morti, tra cui il dr. Haim Yassky, direttore dell'organizzazione medica Hadassah, erano sul convoglio, i cui veicoli erano in parte chiaramente contassegnati con il simbolo della Magen David Adom o della Croce Rossa.Il convoglio era partito dal quartiere Beit Israel dopo aver ricevuto dalla polizia la comunicazione che la strada era libera.Mentre il veicolo di testa si avvicinava a un punto sul Monte Scopus vicino al Karem el Mufti (la casa del Mufti), solitamente occupato dalla signora George Antonius, ma che ora funge da postazione militare, un impulso elettrico ha fatto esplodere una mina vicino a un cratere causato da un'altra mina che era esplosa sotto a un altro veicolo ospedaliero alcune settimane fa.Il veicolo di testa è riuscito ad evitare il cratere, ma i due veicoli che lo seguivano sono rimasti bloccati. Altre sei autovetture sono riuscite a tornare in città sane e salve. Uno degli autisti, benché ferito al volto, è riuscito a portare in salvo i suoi passeggeri.Subito dopo l'esplosione della mina, gli arabi – che si erano appostati in una trincea nei pressi del Karem el Mufti – hanno aperto un pesante fuoco incrociato contro i veicoli che si erano arenati, due autobus Hamkashar, un'ambulanza e un veicolo di scorta, riuscendo a forare le gomme. Benché in grave inferiorità numerica, la scorta è riuscita ad evitare che gli attentatori sopraffacessero subito il personale medico ed universitario sotto assedio.Tra le 11 e mezzogiorno è arrivata un'unità militare britannica e il comandante ha cercato di negoziare un cessate il fuoco. Il fuoco ebraico si è fermato, ma le vedette nel quartiere Beit Israel hanno notato che un gran numero di arabi provenienti dalla città vecchia stava convergendo sul posto. La tregua stava per finire; alle 2 del pomeriggio il distaccamento dell'esercito aveva già abbandonato la scena.Nel frattempo l'esplosione e gli spari avevano attirato un'unità di rinforzo dell'Haganah, che cercava di impegnare gli attentatori (tra i quali c'erano molti iracheni) in uno scontro a fuoco.Alle tre è tornato l'esercito con le armi pesanti e ha sparato parecchi colpi, uno dei quali è caduto vicino alle linee di difesa ebraiche, che fino a quel momento erano riuscite ad impedire che la folla degli arabi, guidata – si dice – dai capi delle bande della zona di Gerusalemme, si avvicinasse troppo al convoglio intrappola.Poi, lanciando bombe molotov e granate, gli arabi si sono avvicinati quanto bastava per incendiare uno degli autobus.Costretti dalle fiamme e dal fumo ad uscire dal veicolo, i passeggeri venivano colpiti mentre rotolavano fuori. È stato allora che il dr. Yassky, che sedeva vicino all'autista nell'ambulanza dell'ospedale Hadassah, è stato colpito tre volte, l'ultima a morte. Sapendo che stava per morire ha detto "Shalom" alla moglie e ai suoi collaboratori ed è spirato pochi minuti dopo. La signora Yassky, che doveva raggiungere il suo appartamento in ospedale, è rimasta incolume.Erano le cinque del pomeriggio quando le truppe hanno fatto scendere cortine fumogene. A quel punto uno degli autobus era completamente bruciato e l'altro in fiamme. Un'ora dopo le prime vittime venivano portate via dall'esercito. Solo sette delle 60 persone che erano a bordo di quei veicoli ne sono usciti incolumi. Si sono diretti tutti verso l'ospedale.Del convoglio facevano parte anche due camion carichi di materiale edile che doveva servire a costruire le cisterne dell'acqua dell'ospedale; due ambulanze con a bordo due malati e il personale medico; due autobus con a bordo il personale dell'ospedale e dell'università e i veicoli di scorta.Si tratta dell'attacco più pesante registrato fino ad oggi sulla strada che porta al Monte Scopus. Si è verificato lungo un breve tratto di strada che viene colpito da quando sono iniziati i disordini lo scorso dicembre. Secondo un annuncio del governo della scorsa notte un distaccamento militare è arrivato sulla scena alle 12:30 e i rinforzi due ore dopo. Appena arrivati, i rinforzi hanno sparato colpi di mortaio contro gli arabi che sono stati visti ritirarsi in direzione della porta di Erode.
Le vittime militari sono un soldato ucciso e due gravemente feriti.Un poliziotto è stato ferito gravemente. Ufficialmente risulta che un arabo è morto e quattro sono stati feriti gravemente. Sempre ufficialmente la zona era di nuovo tranquilla prima delle 4:30 del pomeriggio.
http://old.kh-uia.org.il/

Il cimitero ebraico di Bozzolo

Di generazione in generazione Cronaca domestica degli Ancona dal XIV al XXI secolo

La fotografia sulla copertina – padre e figlio (Gabriele e Davide) che, per mano e con la kippah, vanno incontro alle tombe dei loro avi nel cimitero di Bozzolo - ben sintetizza il libro di Gabriele Ancona: di generazione in generazione. E’ la storia di una famiglia ebrea. Tutto comincia ad Ancona (da qui il nome della famiglia) dove nel 1370 circa nasce Joseph. Dalla città marchigiana le generazioni successive si spostano a Cremona, Livorno, Padova, Carrara, Rovigo (queste sono solo alcune delle città citate) per giungere a Milano, dove vive l’autore. Nei secoli un ramo della famiglia si stabilisce in Venezuela. Attraverso le loro vicende ripercorriamo la storia d’Italia. Dall’Emancipazione al Risorgimento; dalle Leggi Razziali alla Liberazione. Molti gli incontri interessanti. Uno fra tutti: Livio Ezio Ancona che trascorre gli ultimi anni presso una casa di riposo gestita da suore. Il suo funerale è celebrato da quattro sacerdoti. Il padre dell’autore lo definiva “un ebreo morto in odore di santità”. Apprendiamo anche che i bisnonni di Gabriele Ancona e della moglie si conoscevano: un fatto singolare. Tutto scorre: in un sapiente equilibrio tra pubblico e privato. Ma il libro non è solo questo. E’ anche un viaggio alla scoperta delle proprie tradizioni familiari che termina con la conversione di Gabriela Ancona all’ebraismo guidata da Bruno Di Porto e Rabbi Barbara Irit Aiello. Il volume non è in commercio e può essere richiesto all’autore gabriele.ancona@fastwebnet.it. Tonino NOCERA

STEPHEN DALDRY THE READER –A VOCE ALTA
(Titolo originale THE READER; USA / GERMANIA, 2008)

Siamo nel 1958. In una triste cittadina della Repubblica Federale Tedesca, dove sono ancora ben visibili le tracce della guerra, il sedicenne Michael Berg (David Kross), colto da malore dovuto alla scarlattina, viene soccorso da una ancor giovane donna ed aiutato a ritornare a casa. Ripresosi qualche mese dopo dalla malattia, il giovane si reca da lei per ringraziarla. Tra i due nasce un’immediata, travolgente relazione sessuale. Ella, un’attraente bigliettaia di tram trentacinquenne, Hanna Schmitz (Kate Winslet), chiede al suo partner, di leggerle ad alta voce, durante gl’incontri amorosi, lunghe pagine tratte dai classici della letteratura che egli sta studiando a scuola. Si va da Omero a Saffo, da Lessing a Cechov. Michael è attratto in modo irresistibile da questa donna, che ha il doppio dei suoi anni, non solo per l’affascinante carnalità, ma anche per la misteriosa freddezza che ne promana; eloquente a quest’ultimo proposito è l’abitudine di Hanna di non chiamarlo mai per nome, ma, in modo distaccato, “Ragazzo”. Un giorno lei scompare, senza dare spiegazioni. Circa un decennio dopo, quando è studente di Giurisprudenza all'Università di Heidelberg, Michael assiste, insieme all’illustre Prof. Rohl (Bruno Ganz, in una breve, ma assai incisiva, parte) ed alcuni compagni di corso, ad un processo promosso contro un gruppo di donne, sorveglianti delle SS durante il conflitto, accusate, tra l’altro, di aver lasciato morire trecento persone rinchiuse in una chiesa durante un incendio. Tra le donne il giovane riconosce Hanna. Colpisce il contrasto tra l’aria dimessa di quest’ultima e l’atteggiamento arrogante e improntato a sicumera delle altre imputate, tutte ben vestite e pettinate. Dell’orrenda strage esse danno tutta la colpa a lei, accusandola di aver scritto da sola il rapporto che le incrimina. Hanna potrebbe smentirle in un attimo ed alleggerire così la sua posizione: sarebbe sufficiente rivelare quel segreto che ha sepolto nel più intimo del suo essere, ma tace, anzi avalla in qualche modo l’accusa; come tace, non visto dal suo posto in tribuna, lo stesso Michael, profondamente turbato. La Corte, composta da giudici ottusi ed ipocriti, impegnati anzitutto a lavarsi la coscienza dalle corresponsabilità che diversi di loro verosimilmente hanno avuto durante il non lontano periodo nazista, condanna ad una mite pena le altre SS, ma irroga ad Hanna l’ergastolo. A questo punto………
Tratto da un romanzo del tedesco Bernhard Schlink, Der Vorleser (In italiano, A voce alta, ed. Garzanti), del 1995, “The Reader” è un film di indubbio impatto emotivo, che si avvale, in primo luogo, della forte interpretazione di Kate Winslet (Oscar meritatissimo, il suo) e della rivelazione David Kross, Michael da giovane. Quella dedicata alla relazione sessuale tra i due è, a mio parere, la parte più intensa della pellicola perché sa dar voce alle pulsioni, ai sentimenti intensi e contraddittori di un adolescente, alle prese con la scoperta del proprio essere uomo, che sarà segnato a vita dal rapporto con una donna più matura, ma così significativa per lui; ben lontana dalla sua conformista famiglia di origine. La storia narrata intende trasmetterci un messaggio? E, in caso positivo, quale?Siamo di fronte ad una Germania che, da un lato sta cercando di capire come sia stato possibile l’orrore del nazismo; ma, dall’altro, c’è chi (i giudici, per esempio), va alla ricerca di colpevoli ben definiti, così da eliminare le proprie responsabilità: “Le società credono di agire secondo una cosa chiamata morale…ma non è così” rileva il Prof. Bohl mentre discute con i suoi studenti, tra cui Michael, tra una fase e l’altra del processo.E Hanna, come si pone di fronte alla propria storia? Al processo, ha l'onestà, a differenza delle cotonate complici, di raccontare la tragedia del rogo esattamente com'è avvenuta, ma giustifica il proprio comportamento (“Non potevamo lasciar fuggire i prigionieri”) e non domanda perdono a nessuno. In occasione di una gita in bicicletta con Michael aveva pianto dopo che, entrata in una chiesa di campagna, aveva visto e udito dei ragazzini cantare. Rimorso al pensiero di “quella chiesa”, dalla quale uscivano le urla dei prigionieri intrappolati o che altro? Il valore da proteggere in assoluto è un certo segreto che condiziona la sua esistenza e pone tutto in secondo piano. Una sorta di nucleo di ghiaccio, che si scioglie solo alla fine, quando ella si uccide, poco prima di uscire dal carcere, dopo che la pena le è stata condonata. Tale gesto estremo, tuttavia, sembrerebbe determinato più dal terrore di affrontare di nuovo la vita là, in un mondo esterno, ostile ora più che mai, che dal peso per il crimine commesso. Sembrerebbe, ma il dubbio resta. Certo, al di là della bravura degl’interpreti, non siamo ai vertici, per limitarci a storie romanzate, di Schindler's List di Spielberg o de Il Pianista, capolavoro del “diabolico” e tormentato Polansky. L’enormità della Shoah non è colta; ciò forse è percepito con maggiore sensibilità da parte di chi, come la scrivente, ha passato, solo pochi giorni fa, alcune ore allo Yad Vashem di Gerusalemme.
Una nota stonata: il solito conformismo di presentare la piccola sopravvissuta al rogo, cui Michael maturo (un inespressivo, almeno in questa occasione, Ralph Fiennes) si presenta a New York, come un’algida, elegante ricca signora ebrea americana, chiusa nelle sue sicurezze, che ritiene di ristabilire un’approssimativa equità accaparrandosi il barattolo di latta dove Hanna aveva raccolto i suoi risparmi, destinati a lei, a risarcimento tardivo della scatoletta, piena di ricordi di famiglia, che al lager le avevano portato via.Chi ha passato certe esperienze non pensa alle scatolette di latta, né ha una simile freddezza negli occhi e nel cuore.
Mara Marantonio Bernardini, 8 marzo 2009

Beaufort di Joseph Cedar

Amore, guerra e voglia di futuro Seconda Rassegna del Cinema Israeliano

A Milano, allo Spazio Oberdan, i grandi film e documentari del nuovo, giovane, cinema israeliano. Ma anche imperdibili classici e alcuni capolavori. Nel sud del Libano c’è un antico castello crociato, Beaufort, che da secoli, passa da una mano all’altra, dall’uno all’altro esercito. Gli israeliani lo controllano dal 1982 ma nel 2000 deve tornare nelle mani di Hezbollah. Per un giovane ufficiale dell’esercito israeliano la difesa di quel castello diventa un’ossessione, una ragione di vita; l’uomo finirà così per coinvolgere la pattuglia dei suoi uomini in azioni militari assurde e insensate contro un nemico invisibile, un fantasma, soldati immersi in un tempo dilatato, lento e metafisico. Vincitore dell’Orso d’Argento per la miglior regia al Festival di Berlino 2007, una nomination all’Oscar come miglior film straniero, Beaufort di Joseph Cedar, è una delle pellicole più attese della Seconda Rassegna del Cinema Israeliano che si svolgerà a Milano dal 14 al 19 marzo allo Spazio Oberdan, organizzata dal Cdec, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, in collaborazione con la Fondazione Cineteca Italiana. Dopo il successo avuto l’anno scorso, questa edizione permetterà così al pubblico milanese di guardare ai grandi miti della storia d’Israele (il Sionismo, il Kibbutz, l’Esercito, Gerusalemme città santa), come tessere di un mosaico fatto di successi e fallimenti, ideali e illusioni perdute. Una filmografia che per l’impegno dei contenuti e l’originalità delle tecniche utilizzate, ha ottenuto ormai i più importanti riconoscimenti nel mondo. “Un cinema sospeso tra reale e surreale che affonda le radici nella società, nei moti dell’animo, nella carne, ma che allo stesso tempo anela all’evasione.E’ questa la cifra del nuovo cinema israeliano. I film selezionati offrono allo spettatore la possibilità di scoprire le tendenze della nuova cinematografia israeliana e rappresentano la varietà tematica e stilistica di questo vivacissimo cinema che oggi vuole raccontare la realtà: quella sociale e politica del Paese, le storie personali, ma che al tempo stesso cerca “vie di evasione” e le trova nell’immaginario, nel surreale, nell’arte”, spiegano Dan Muggia e Ariela Piattelli, direttori artistici della Rassegna nonchè del Pitigliani Kolno’a Festival di Roma. “Il cinema israeliano di oggi punta a creare un discorso dialettico: tra la realtà che ci tiene con i piedi per terra, e la fantasia che ci permette di evadere dal reale. Beaufort di Joseph Cedar, Qualcuno con qui correre di Oded Davidoff, Noodle di Ayelet Menachemi, Vasermil di Mushon Salmona, sono film che affrontano, ognuno a suo modo, la perenne tensione tra reale e immaginario. Con Avanti Popolo di Rafi Bukai, un evergreen del cinema israeliano (è del 1986), abbiamo riproposto una pellicola indimenticabile nella quale un regista israeliano affronta per la prima volta il tema del conflitto dal punto di vista del “nemico”. In questo film memorabile è l’altra faccia della medaglia a emergere: il soldato di Tzahal scende dal piedistallo e viene portato sul campo di battaglia, un campo meno eroico e ben più rischioso. E poi i documentari, con alcune storie straordinarie: in Champagne Spy, il regista Nadav Schirman ci racconta la storia avvincente e drammatica di una spia israeliana che ha vissuto per decenni una doppia vita. Mentre in Children of the Sun di Ran Tal, viene alla luce un incredibile ritratto del kibbutz tra gli anni ’30 e ’80, in cui uomini e donne, cercando di realizzare l’ideale socialista della vita collettiva, rivoluzionavano i cardini della società.Nei documentari The House on August Street di Ayelet Bargur e The tree of life di Hava Volterra, due voci femminili affrontano il tema della memoria collettiva, partendo dalle loro storie personali e intime. Infine con The Chicken or the Egg di Alon Alsheich e Eran Yehezkel, abbiamo voluto fare un omaggio al dipartimento di cinema e televisione del Sapir College, la scuola vicina a Sderot, che malgrado i continui bombardamenti di missili Kassam provenienti da Gaza, continua ad essere una tra le realtà artistiche più interessanti di Israele”, concludono i curatori. In un momento così difficile per l’area mediorientale, questa rassegna ha la virtù di offrire un panorama cinematografico che, al di là del suo intrinseco valore, dimostra la straordinaria capacità di un paese di sottoporsi ad autocritiche spietate. Milano, Spazio Oberdan,via Vittorio Veneto 2,dal 14 al 19 marzo 2009
Dal Bollettino della Comunità Ebraica di Milano

Beaufort di Joseph Cedar
Dirigere a ventidue anni una piazzaforte in agonia con un manipolo di coetanei atterriti e inesperti è insensato ma questa storia è la storia di molte guerre volute da chi non combatte, imposte senza se e senza ma in nome di valori decisi in parlamento o nei quartier generali e poi delegati in un misto di convinzione e di inganno. Gli obiettivi sono chiari e perentori, le modalità assai meno. La storia raccontata da Joseph Cedar, benché riferita ad un episodio molto preciso e forse estremo (l’ultima settimana del plurisecolare forte di Beaufort, costruito dai crociati e conquistato in tempi ben più recenti dagli israeliani in occasione della prima occupazione del Libano) rispetta queste modalità e questa insensatezza. E’ una storia insiene estrema ed esemplare, racconta, tratta dal libro del giovane giornalista israeliano Ron Leshem, la settimana di passione di un gruppo di giovani soldati, quasi abbandonati dai loro capi ma con una missione terribile: quella di sopravvivere ancora qualche giorno ai razzi e alle granate lanciate da hezbollah prima di mettere in atto i piani per il ritiro e di dare una prova spettacolare della volontà di pace di Israele con la distruzione del forte. Non una storia di guerra la definisce il suo autore, ma la storia di una ritirata. Ma prima che questa ritirata avvenga e che il forte, il 24 maggio del 2000, esploda in una, anche simbolica, lunga fiammata, il giovane Liraz Liberti, nella piccola enclave isolata dal nemico e dalle forze amiche, dovrà condurre una tremenda battaglia, dare un senso alla vita dei giovani incastrati nell’operazione, spiegare il perché degli attacchi improvvisi e delle morti casuali dei suoi, dare un senso ai momenti di pace, dare una ragione ai sopravvissuti, e dare una sepoltura ai morti. Dovrà cercare anche di dare un senso ai morti nella difesa di quella piazzaforte che deve essere distrutta, annullando così il senso di tutte quelle morti, anche le più recenti, come quella del giovane artificiere che valuta perfettamente la pericolosità della sua missione e a cui lo stato maggiore non dà alternative (straordinaria nella sua solennità premonitrice la scena della vestizione in quella tuta difensiva che si trasformerà in sudario). In questo bel film la perdita di senso (ammesso che le guerre ne abbiano uno) è assoluta, le giovani morti sono, programmaticamente, superflue, la paura, la disintegrazione psicologica, sono, programmaticamente, effetti collaterali da dimenticare nell’attimo stesso in cui l’esplosione metterà fine al simbolo. Nessuno è al suo posto nella guerra, ma questo film diretto da un giovane e intrepretato da giovani coetanei dei personaggi rende come mai era forse stato fatto finora il senso dell’errore, delle distorsione, del tradimento che c’è in ogni guerra. http://www.drammaturgia.it/

Alon Altaras

Per gli israeliani la letteratura italiana è viva e lotta insieme a loro

Chi ha letto sul Corriere della Sera di martedì scorso l’ottima corrispondenza di Francesco Battistini dalla ventiquattresima Fiera del libro di Gerusalemme è rimasto forse un po’ sorpreso. Infatti, dal dibattito serale tra Roberto Calasso e Amos Oz, al Caffè letterario della kermesse gerosolimitana, è emerso che per lo scrittore israeliano la letteratura italiana è apprezzabile perché non “anemica”. Una dichiarazione imprevedibile, visto che in patria, sulla nostra letteratura, si pensa al contrario che sia un po’ asfittica, minimal, intimista, di respiro piuttosto corto. Quando non direttamente ombelicale.Questa la frase, per intero, dell’autore di “Non dire notte”: “Una delle cose che mi affascinano della letteratura italiana del XX secolo, e anche di adesso, è la sua vivacità. E’ piena di vita, di humour, di gusto. Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Italo Calvino. Tutto il contrario di quell’anemica letteratura che arriva da molti paesi europei: negli ultimi anni, per dire, avrò trovato uno o due libri francesi che mi hanno emozionato davvero”. E, se è vero che gli autori citati non sono propri contemporaneissimi e non esattamente di primo pelo, Oz con l’espressione “anche di adesso” estende anche all’hic et nunc il suo entusiasmo per gli scrittori nostrani.In effetti, quanto a letteratura, da qualche tempo sembra fluire una corrente costante tra Roma e Gerusalemme. Nella nostra lingua sono tradotti decine di scrittori che scrivono in ebraico e l’apprezzamento per la loro tutto sommato ancora giovanissima letteratura è in persistente aumento. E, accanto ai big (Avraham Yehoshua, lo stesso Amos Oz, David Grossman), si fanno strada nelle nostre librerie anche autori meno conosciuti come Etgar Keret, i cui libri appesi a una sghemba ironia sono pubblicati in italiano per i tipi di E/o. E gli scrittori israeliani sono stati di recente omaggiati anche dalla Fiera del libro di Torino che nel 2008 li ha voluti come ospiti di onore; si ricordano ancora le piuttosto pretestuose polemiche al riguardo, polemiche che molto avevano a che vedere con paturnie ideologiche e ben poco con i libri.Il rapporto è biunivoco, cioè a doppia circolazione. Se in Italia cresce l’interesse per gli scrittori israeliani, allo stesso modo nello Stato ebraico aumenta la curiosità per la nostra letteratura. Come informava qualche mese fa sul suo giornale Giacomo Kahn, direttore del periodico romano Shalom, “l’italiano è diventato la terza lingua tradotta in ebraico, preceduta soltanto dall’inglese e dal tedesco”. L’interesse italofilo che si è manifestato alla Fiera di Gerusalemme non è infatti un fenomeno estemporaneo. Già a novembre dell’anno scorso, a margine della visita del presidente Giorgio Napolitano in Israele, l’Istituto italiano di cultura di Tel Aviv aveva organizzato il convegno “Dialoghi letterari” con la partecipazione di un’eterogenea pattuglia composta da qualche decina di intellos e scrittori italiani da Alessandro Piperno a Claudio Magris ad Alain Elkann a Susanna Tamaro. E, anche in quel caso, riflettori accesi.Alon Altaras, scrittore israeliano (nella nostra lingua sono usciti “La vendetta di Maricika” e “Il vestito nero di Odelia”, entrambi per Voland) e traduttore in ebraico di molti autori italiani conferma a L’Occidentale l’interesse dei suoi compatrioti per la cultura italiana. “Il bestseller italiano in Israele è stato ‘La Storia’ di Elsa Morante, che ha venduto più di 60 mila copie”. Altri autori molto amati sono Primo Levi, Erri De Luca, Natalia Ginzburg, Eugenio Montale. L’origine ebraica di alcuni di loro - spiega Altaras – non c’entra, “anche perché, ad esempio, nei libri della Ginzburg c’è ben poco di ebraico”. Ma non tutti gli scrittori italiani tradotti in ebraico hanno suscitato uguale entusiasmo tra i lettori israeliani. Altaras ha tradotto Antonio Tabucchi (“che è piaciuto molto agli scrittori, ma meno ai lettori”), una scelta dei “Quaderni del carcere” di Gramsci (“che hanno avuto una diffusa circolazione in ambito universitario”), “Seta” e “Oceano Mare” di Alessandro Baricco che sono stati accolti con un po’ di indifferenza.Chiacchierando con Altaras, che ora è impegnato a volgere in ebraico “Caos Calmo” di Sandro Veronesi e “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano, si alternano conferme e sorprese: in Israele piace Italo Calvino, mentre Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri, pur pubblicati a più riprese, sono stati accolti con grande freddezza. Ancor peggio è andata a “Gomorra” di Roberto Saviano che è stato tradotto in ebraico ma, dice Altaras, “è come se non fosse neppure uscito”. Un insuccesso? “No, è proprio come se non fosse neppure uscito”. Sciascia, Camilleri, Saviano. Una volta segnalate tutte le non piccole differenze tra questi tre scrittori, sembra che, in controtendenza con molti altri paesi, in Israele regni il più totale disinteresse per una certa narrativa del Mezzogiorno. Eppure “Gomorra”, inteso come film, nelle sale di Tel Aviv non sta andando male. http://www.loccidentale.it/ 22 Febbraio 2009


Via a un progetto pilota per 50 posti. Shimon Peres: «Ognuno di loro vive con speranza»
In Israele i disabili entrano nell'esercito

Shimrit Kroiteru è una ragazza down: ha già indossato la divisa dei riservisti
«Sono contenta. Contentissima. Oh, come sono contenta…». La simpatia irresistibile di certi ragazzi, quando ridono senza contegno. Shimrit sale sul piccolo podio, arrossisce, le dicono di parlare più vicino al microfono, lei fa una risata: «Sono contenta. Ho realizzato il sogno della mia vita. Volevo fare la soldatessa. Mi trattano come una soldatessa vera. Mi hanno dato anche delle cose da fare. Il primo giorno, non sapevo bene i miei compiti. Ma adesso ho imparato ed è tutto più facile». DIVISA DEI RISERVISTI - Shimrit Kroiteru è davvero come gli altri ragazzi israeliani, adesso: ha la divisa dei riservisti, sta facendo anche lei il servizio militare obbligatorio, poi si congederà e tornerà alla sua vita normale. Normale e con qualche difficoltà: Shimrit è una ragazza down. Non s’era mai visto. Una naja che arruola i disabili. Quelli che una volta erano i riformati per antonomasia, che non dovevano nemmeno sottoporsi alla visita militare perché tanto li scartavano subito, adesso avranno un posto in uno degli eserciti più forti, più armati, meglio addestrati e motivati del mondo: Tsahal. Per quasi sessant’anni, anche le forze armate israeliane hanno di regola evitato d’arruolare persone con problemi mentali. Da qualche tempo però, un’associazione che si batte per i diritti di chi soffre d’handicap gravi, Akim, ha intrapreso una battaglia per ottenere piena cittadinanza, anche nei doveri. PROGETTO PILOTA PER 50 DISABILI - C’è voluto in po’, ma alla fine l’idea è passata: quest’anno, il ministero per gli Affari sociali e l’esercito partono con un progetto-pilota e tentano l’inserimento di 50 giovani disabili nelle forze armate. Shimrit e un suo commilitone, Gilad Rozdial, i primi due, sono stati seguiti con particolare attenzione. Un documentario sui loro primi giorni in divisa è stato presentato anche a Shimon Peres, il presidente, che li ha ricevuti privatamente nella sua residenza: «Ognuno di loro vive con speranza – ha detto il presidente israeliano – e noi non sappiamo quali scoperte mediche, in futuro, li aiuteranno a sopravvivere alle loro difficoltà. Però sappiamo che oggi, per aiutarli, non c’è migliore medicina della nostra disponibilità». Shimrit e Gilad prestano servizio nella Sar-El, un’unità speciale di volontari, e naturalmente non partecipano a operazioni militari in senso stretto: fanno pulizie, custodiscono gli equipaggiamenti, aiutano nella logistica. «Non c’è ragione di escludere le persone disabili dalle attività dell’esercito – spiega il generale Ami Zamir, che ha preso in carico il progetto -. Tutti quanti in Israele condividiamo lo stesso destino». L’iniziativa, molto propagandata dal governo israeliano, è già finita sui blog arabi, con qualche ironia: «Non sanno più cosa inventarsi per farci la guerra. Arruolano anche gli handicappati» (Herzum76); “suggerisco a Netanyahu di dare più soldi per i poveri di questo Paese, invece di metterli in uniforme” (YoffaMan). Se ne devono fare una ragione: se il progetto funziona, nel 2010 ne metteranno in divisa altri cento. http://www.corriere.it/ 26.02.2009

Tempio di Gerusalemme

I cristiani visti dagli ebrei israeliani

Un sondaggio mette in evidenza profonde differenze di opinione fra laici e religiosi, mentre si prepara il viaggio del Papa in Terrasanta. Si avvicina il viaggio del Papa in Terrasanta, e mentre si stanno spegnendo le ultime fiammate polemiche cresce l’interesse dei media in Israele per la visita. Un sondaggio pubblicato dal sito web dello Yedioth Ahronoth e realizzato dall'Istituto Smith su un campione di 500 persone offre indizi interessanti su come laici e religiosi israeliani vedono il cristianesimo e i cristiani. La maggioranza degli israeliani di religione ebraica ritiene che nelle scuole debbano essere insegnate nozioni sul cristianesimo, ma non sul Nuovo Testamento, e che lo Stato debba inoltre garantire la libertà di culto ma non permettere agli enti ecclesiastici cristiani di acquistare terreni a Gerusalemme. Il 60 per cento degli ebrei ortodossi e ultra-ortodossi si dice poi disturbato dalla vista di una persona con indosso una croce, mentre per la stragrande maggioranza dei laici (il 91 per cento) questo non costituisce un problema. Su quasi tutte le questioni i laici dimostrano dunque di avere un approccio più aperto rispetto agli ortodossi. I primi sono ad esempio in grande maggioranza (68 per cento) a favore dell'insegnamento del cristianesimo nelle scuole (il 52 per cento anche del Nuovo Testamento), mentre gli ortodossi e gli ultraortodossi sono nettamente contrari (rispettivamente il 73 per cento e il 90 per cento). Più del quaranta per cento degli ebrei israeliani , e fra questi l’80 per cento degli ortodossi, pensano che gruppi ebraici non dovrebbero accettare la carità dei cristiani evangelici. Lo studio ha messo in evidenza notevoli differenze di opinione fra laici e religiosi sul Cristianesimo, ed è stato pubblicato in un momento di crescente appoggio finanziario verso Israele da parte dei cristiani evangelici, che donano decine di milioni di dollari ogni anno. Il 55% degli intervistati si è detto favorevole al fatto che Israele accetti quel genere di aiuti, mentre il 41% è contrario. Lo studio è stato condotto dal Jerusalem Institute for Israel Studies, e dal Jerusalem Center per le relazioni ebraico-cristiane. Il 79% degli ortodossi si è detto contrario, mentre il 70% dei laici è favorevole. L’anno scorso la International Fellowship of Christians and Jews ha ricevuto 87 milioni di dollari da cristiani evangelici, destinati a coprire le spese per un’ampai gamma di programmi. “I risultati dello studio mostrano che abbiamo avuto un sacco di successo, e abbiamo ancora molto lavoro da fare per convincere gli israeliani che siamo amici sinceri in un mondo che sta diventado più ostile e più antisemita ogni giorno” ha dichiarato il rev. Malcom Hedding direttore esecutivo dell’Ambasciata Cristiana Internazionale, un gruppo evangelico con base a Gerusalemme. Il 74% degli ebrei israeliani non considera i cristiani come “missionari”, e il 76% non è infastidito nell’ incontrare un cristiano che indossa una croce. Allo stesso tempo, solo il 50% riconosce che Gerusalemme è centrale per la fede cristiana, e il 75% crede che lo stato non dovrebbe permettere a gruppi cristiani di comprare terreno per costruire nuove chiese a Gerusalemme. II 41% crede che il Cristianesimo sia la religione più vicina all’Ebraismo, mentre il 32% pensa che sia l’Islam. L’80% dei laici pensa di essere autorizzato a entrare in una chiesa (il 92% ne ha visitato qualcuna in viaggio all’estero), mentre l’83% dei religiosi ha detto che entrare in una chiesa è proibito. Tre ebrei religiosi su quattro pensano che il Cristianesimo sia “idolatria”, mentre il 66% dei laici non lo pensa. Il 56% dei laici ritiene che i soldati cristiani nell’esercito israeliano dovrebbero giurare su Nuovo Testamento, ma il 62% dei religiosi crede che dovrebbe essere usata solo la Torah.
http://www.lastampa.it/ 27/2/2009