sabato 22 marzo 2008

Rosh Pina (Galilea)

da Luca - Nettuno (RM)


Ti voglio dire solamente che per me e Daniela il viaggio è stato "il viaggio"; cioè ciò che dovrebbe rappresentare la conoscenza delle civiltà, storie ed esperienze di altri popoli. In più Israele mi ha rimosso sentimenti e sensazioni di quando ero adolescente. Avevo voglia , in taluni momenti, di abbracciare le persone e di far capire quanto fossi loro vicino. Forse mi sono fatto prendere la mano ma i fermenti sanguigni di un tempo si sono riaffacciati, senza colori partitici o ideologici. Ho pensato che morire per Israele sarebbe un gran bel modo di concludere la propria esistenza. Capisco, quindi quanto fervore e naturalezza ci sia nel difendere la patria per quei ragazzi in divisa! Te lo dice uno che si dichiara pacifista, ma non ricordavo più la voglia di autoaffermazione e di libertà avuti nel passato. Ecco, Israele mi ha risvegliato tutto ciò. Mi ha emozionato ed incantato..........Dì a tutti che qui a Nettuno ci sono un uomo ed una donna che si faranno sentire quando si parlerà d'Israele, da me ribattezzata la terra dei "miracoli" umani!

venerdì 21 marzo 2008

Gerusalemme - rigattiere


Israele, Facebook sceglie la diplomazia


Il conflitto israelo-palestinese, dopo aver fatto la sua
comparsa su Google Earth, si travasa sule pagine personali di Facebook: a reclamare la propria identità sono gli israeliani che vivono in Cisgiordania. Facebook assegnava automaticamente la nazionalità palestinese a coloro che vivono nei territori della striscia di Gaza e a coloro che abitano la Cisgiordania.Per difendere la propria causa, i cittadini israeliani hanno organizzato proteste e manifestazioni a mezzo social network: il gruppo "Non è Palestina, è Israele" conta quasi 14mila membri. Gruppi al quale hanno risposto gli utenti palestinesi, minacciando di non utilizzare più il servizio qualora la loro nazionalità fosse rimossa da Facebook.Ma i vertici del servizio hanno scelto la strada della diplomazia: a ciascun utente che viva in Cigiordania verrà concessa la possibilità di scegliere la propria nazionalità.

di
Gaia Bottà
Wlan Business giovedì 20 marzo 2008

Spiegata a Eilat la più grande bandiera d’Israele (20.000 m²) per festeggiare il 60esimo anniversario dell’indipendenza

giovedì 20 marzo 2008

Corte Suprema - Gerusalemme



da Cinzia - Milano


Grazie Chicca per queste tue corrispondenze di "guerra", che, peraltro, non leniscono la struggente nostalgia d'Israele, che ho provato immediatamente dopo aver posto i piedi sul suolo italiano, anche perchè subito travolti da notizie nostrane sempre più inquietanti di degrado, intolleranza, inettitudine politica. Insomma: VIVA ISRAELE!

vista del Neghev da Masada


da Franca - Roma


Porto nel cuore insieme a Franco la bellissima esperienza fatta con te e con gli altri amici: è stato un viaggio molto originale diverso dai miei precedenti viaggi nella terra d'Israele. Colgo l'occasione per ringraziarti per averci permesso di vivere una così bella avventura. Ringrazia per noi anche Angela, la nostra guida, che ha contribuito moltissimo a rendere questo viaggio originale ma soprattutto ci ha trasmesso l'amore per il suo paese che io non trovo affatto laico ma molto molto spirituale.

giardini Istituto Weizmann - Rehovot


Alla fine di febbraio la mela altoatesina è stata presentata anche in Israele. Dal 25 al 29 febbraio si sono tenute varie degustazioni in alcuni supermercati “Supersol”, i cui negozi misurano tra i 100.000 e i 150.000 m³ e sono aperti fino a mezzanotte. Nelle grandi città come Tel Aviv, Beersheba, Gerusalemme, Haifa e Elat sono state presentate le varietà Jonagold, Fuji e Pink Lady......

da "L'Alto Adige" 19.03.08

Gerusalemme

Quelli che ci salvarono

di Jenna Blum

Traduzione Giovanna Scocchera
Neri Pozza €18,00

Una piccola custodia d’oro con la svastica sul coperchio. Dentro, in una cornice di velluto marrone, una fotografia che raffigura una giovane donna seduta con una bimba dai capelli biondi in braccio. Alle loro spalle un ufficiale delle SS in alta uniforme.
Quale segreto racchiude questo oggetto di raffinata fattura?
Quali tormenti si celano dietro lo sguardo apparentemente sereno della giovane donna?

L’autrice, Jenna Blum, che proviene da una famiglia tedesca per parte di madre ed ebraica per parte di padre, lo svela pagina dopo pagina con una magnifica storia che penetra nel lato oscuro dell’animo umano, dove il senso di colpa, l’amore, il perdono si fondono in un groviglio di sentimenti offrendo il ritratto di due donne straordinarie: Trudy ed Anna.
Il romanzo, caratterizzato dal continuo alternarsi fra il racconto degli anni della seconda guerra mondiale e l’ultimo decennio del 1900, prende avvio con l’immagine di un funerale nella chiesa luterana di New Heidelburg dove molte famiglie “sono venute a porgere l’estremo saluto a uno di loro”.
Jack, un uomo buono e semplice, molto amato in quella cittadina del Minnesota è accompagnato nel suo ultimo viaggio dalla moglie Anna e dalla figlia adottiva Trudy.

L’azione si sposta a Weimar negli anni quaranta quando il nazismo che ha ormai messo le radici nella società tedesca si manifesta nel suo immane progetto criminale di eliminazione degli ebrei.
Tra i primi a farne le spese è il buon dottore Max Stern che Anna conosce quando si reca nel suo ambulatorio per un caso di emergenza e del quale si innamora al punto da nasconderlo nella sua abitazione, incurante della minaccia rappresentata dal padre Gerhard, amico fedele dei nazisti.
La loro storia d’amore non dura a lungo: scoperto e denunciato dal padre di Anna, Max viene portato nel campo di Buchenwald.
Anna in attesa di un bimbo si rifugia da Frau Mathilde Staudt, una fornaia della città che aiuta, a rischio della vita, la resistenza fornendo di nascosto il pane ai prigionieri del campo.

Quando Frau Staudt viene scoperta e giustiziata, Anna vorrebbe prendere il suo posto ma il destino ha in serbo per lei un’amara sorpresa.
L’Obersturmfuhrer Horst Von Steuern recatosi al forno per prendere il pane per gli ufficiali, obbliga Anna a diventare la sua amante.
Senza l’amato Max, privata anche della protezione che la fornaia le ha offerto negli ultimi anni, Anna capisce che per salvare se stessa e la figlia non ha scelta. Tuttavia le umiliazioni, le prevaricazioni cui la sottoporrà l’ufficiale nazista scaveranno un solco profondo nella sua anima, una cicatrice che si porterà dentro per tutta la vita.

In parallelo si snoda la vita di Trudy, docente di storia tedesca all’università che, forse per trovare quelle risposte sul suo passato che invano ha cercato dalla madre, avvia un progetto di ricerca che la porterà ad intervistare alcuni tedeschi con l’intento di approfondire il ruolo che hanno avuto nella guerra.
Farà la conoscenza di persone ciniche e grette come Frau Kluge che per ricevere la ricompensa promessa dalla polizia rivelerà il nascondiglio di molte famiglie ebree condannandole a morte certa, della dolce e malinconica Rose-Grete Fischer che racconterà che “alcuni in paese nascosero gli ebrei o li aiutarono a fuggire nella foresta, dove c’erano dei gruppi partigiani”, di Rainer Joseph Goldman, un ebreo tedesco che raccontandole la storia straziante della morte del fratellino Hainsi, farà breccia nel suo cuore.
Molte sono le domande che si pone Trudy e fra esse la più importante: “Di chi sono figlia?”

Anna però “si è caricata sulle spalle il peso del silenzio…..che la punizione sia adeguata al crimine”, troppo grande è la vergogna che prova per essere stata l’amante di un ufficiale nazista.
“Il passato è morto ed è meglio che resti così” è la frase che Anna ripete a Trudy ogniqualvolta la figlia cerca di scoprire il segreto che si cela nel passato della madre.
In questo romanzo stupefacente, il cui epilogo non sveliamo al lettore, Anna e Trudy sono le vere protagoniste, ritratte con grande maestria nelle pieghe più intime della loro complessa personalità, gravata l’una da un profondo senso di colpa, l’altra da un conflitto che fin dall’infanzia non ha trovato soluzione.
Jenna Blum, che ha lavorato per la Shoah Foundation di Steven Spielberg intervistando i sopravvissuti della Shoah, scruta i suoi personaggi con la delicatezza e l’intensità di chi sa che la vita si compone di frammenti, tutti preziosi, tutti taglienti.

Il risultato è un romanzo di ampio respiro dal progetto chiaro e definito carico di emozione ribelle, un’appassionante storia di amore e di odio, una vivida rievocazione della vita durante la seconda guerra mondiale, un libro che resta impresso a lungo, ben oltre l’inchiostro della pagina.

Giorgia Greco


dettaglio muro chiesa Armeni Gerusalemme

Perchè non sei venuta prima della guerra?

Lizze Doron

Traduzione di Shulim Vogelman
Giuntina €12

Lamah lo bat lifne hamilchamah?
Perché non sei venuta prima della guerra? E’ il titolo insolito per un libro assolutamente nuovo e originale sulla Shoah.
L’autrice, Lizze Doron, nata a Tel Aviv nel 1953 affronta il tema dell’Olocausto senza mai parlarne espressamente: lo sterminio dei sei milioni di ebrei pervade il libro ed affiora con una prosa scarna ma efficacissima attraverso le sofferenze, mai sopite, della protagonista Helena.

Questo piccolo gioiello letterario non è un romanzo, non è un saggio e nemmeno un libro di racconti, ma un amalgama riuscito di tutti questi elementi insieme, resi in una lingua immediata ed affascinante capace di catturare il lettore fin dalle prime pagine.
Helena, che è anche il nome della madre dell’autrice, unica sopravvissuta della sua famiglia allo sterminio nazista, vive in Israele insieme alla figlia Elisabeth in un appartamento composto da “due camere da letto e due porte d’ingresso poste una dopo l’altra”, in una casa a due piani all’angolo fra via della Vittoria e via dell’Eroismo.

Per Helena come per molti immigrati non è facile adattarsi alla vita nel mondo “di qua” e ogni due settimane in casa sua si ritrovano per un caffè alcune donne, Itta, Djusia, Fanny e Guta, provenienti dal mondo “di là”: donne che hanno sofferto a causa della Shoah e condividono un mondo di dolore e patimenti.
Nel giorno di Yom Kippur Helena va in sinagoga soltanto quando si recita l’Yizkòr . Dinanzi all’Aròn Hakodesh, indifferente allo sconcerto degli uomini coperti dal tallèt, Helena si rivolge a quel Dio nel quale non crede più pronunciando parole infuocate: “Nel nome di questo luogo e nel nome di queste persone, io, Helena, rappresentante di una famiglia che è stata sterminata, sono venuta davanti a Te a tenere fede a un voto che ho fatto, a tenere fede a un ruolo che non ho scelto per me. Io sono qui al posto loro; se fossero qui, starebbero loro davanti all’Aron Hakodesh e allora io sarei al mio posto….”

Quando Elisabeth, la figlia, deve portare a scuola dei disegni per il nuovo maestro d’arte, Viterbo, la madre vedendo la figlia in difficoltà si offre di fare lei stessa i disegni. Ma con l’andar del tempo il maestro, anch’egli un sopravvissuto, capirà che quei disegni dolorosissimi provengono dalla mano di una donna uscita da un campo di sterminio.
E con profonda commozione chiederà ad Elisabeth di conservare l’ultimo nel quale Helena aveva dipinto “il filo spinato, le torrette di guardia e un uccello senza ali che cercava di volare dallo spazio innevato verso il cielo grigio, sul quale era scritto in tutte le lingue LIBERTA’”

Indomita e coraggiosa la protagonista del libro rifiuterà con caparbia i risarcimenti provenienti dalla Germania arrivando a gettare dalla finestra i doni ricevuti da Elisabeth per il Bat Mitzvà con la scritta “made in Germany” , a chiudere la porta in faccia allo zio Oded dopo il suo matrimonio con una tedesca figlia di un ufficiale delle SS e a insistere con la figlia di tenere sempre i capelli biondi perché “i biondi non li uccidono”.

Della sua esperienza nel campo di sterminio Helena non racconterà mai nulla alla figlia e alla sua morte Elisabeth, recuperando una piccola chiave arrugginita, aprirà un armadio al quale, da bambina, non aveva mai potuto accedere (“Conoscevo soltanto il rumore della chiave, ma non il contenuto”), scoprendo, fra i documenti di una vita passata, il luogo di nascita della madre e l’esistenza di “dolorose reliquie”, testimoni di quell’inferno che si era tenuta dentro per tutta la vita e che aveva nascosto persino a sua figlia: “in un sacchetto …c’era una benda, un pezzettino di sapone e dei buoni pasto per militari tedeschi sui quali era stampato il simbolo delle SS e il nome del luogo, Buchenwald…..” e all’interno di una valigia “una divisa a righe che aveva più buchi che tessuto, una stella gialla, un paio di zoccoli, e odore di morte”.
Lizze Doron ci regala un libro di intensa introspezione, una storia che parla di vulnerabilità e di sofferenza, che affronta il tema della Shoah in maniera originale ma efficace, che emoziona e fa riflettere sul Male assoluto e sul dovere della memoria.

Grazie anche all’ottima traduzione di Shulim Vogelman, il lettore rimane catturato dall’efficacia e dall’equilibrio espressivo della scrittura e dello stile e da una prosa di qualità, un libro che ci fa sentire più ricchi dopo averlo letto.

Giorgia da Bologna

Gerusalemme

Tredici soldati

dii Ron Leshem

Traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi
Rizzoli € 17

“Il Libano l’ho conosciuto per la prima volta nel cuore della Striscia di Gaza, nell’autunno del 2000”.
Ron Leshem, nato a Ramat Gan nel 1976, inviato del quotidiano Yediot Acharonot, giunge nella Striscia per documentare la morte di David Biri, un infermiere combattente della Brigata Ghivati, colpito da un ordigno esplosivo.
Incontra Rotem Yair, un giovane ufficiale che gli parla della Terra dei Cedri e di quanto è accaduto a Beaufort, una fortezza crociata sulle alture del Libano meridionale conquistata da Tsahal nel 1982 ed abbandonata nel 2000.

Da quell’incontro nasce il romanzo “Tredici soldati”: bestseller in Israele, vincitore del premio letterario Sapir, il libro ha ispirato il registra Joseph Cedar dal quale ha tratto il film “Beaufort” premiato al Festival di Berlino.
Ambientato durante gli ultimi mesi della prima guerra del Libano, è la storia di un gruppo di ventenni che vogliono combattere per difendere Israele, ma a Beaufort si trovano in trincea a fronteggiare i colpi di mortaio sparati da un nemico feroce quanto invisibile.
E nei confronti di quei giovani Leshem non nasconde la propria ammirazione: il rimpianto di non aver combattuto non è per la mancanza di emozioni forti ma per quell’amicizia salda e forte che nasce quando “la tua vita dipende dall’altro”.

Cosa è Beaufort?
Ce lo racconta Liraz Liberti, Erez, un ufficiale che ha subito richiami disciplinari, una testa calda, responsabile di tredici soldati che hanno il compito di ispezionare le vie d’accesso all’avamposto alla ricerca di mine.
“Beaufort significa backgammon, caffè nero e toast…Beaufort sono i turni di guardia per sedici ore al giorno….Beaufort è partire per un appostamento di settantadue ore con una scorta di salame nello zaino….”
Ma Beaufort è anche il freddo atroce, la nostalgia della famiglia, della fidanzata, è la paura (che non si può nominare) di essere colpiti dai missili di Hezbollah.
A Beaufort si stringono amicizie, si solidarizza, si discute ma lo spirito di corpo prevale e costituisce il vero cemento anche nei momenti in cui sembra che la disperazione prenda il sopravvento.
I personaggi che ruotano attorno a Erez sono tipi duri, dolci, nostalgici, religiosi o laici ma tutti consapevoli di compiere una missione: la difesa del proprio paese: Zitlawi “una persona calorosa, buffa, felice….conquistava tutti, non si lamentava mai”, Emilio “un povero ragazzo immigrato dall’Argentina”, Spitzer troppo tranquillo, Bayliss religioso e giusto, Eldad presuntuoso e sicuro di sé.

Momenti durissimi che tolgono il respiro sono quelli che raccontano la perdita dei compagni colpiti da quel nemico invisibile Hezbollah che ama la morte ancor più della vita: la morte di Ziv “a cinque giorni dal congedo”, di Zitlawi “era la prima sera di Channukkà ma non abbiamo acceso le candele”, di Spitzer “….Ho visto l’orrore. Mancava la testa. Restavano le due braccia, appese. L’interno era tutto bruciato. Non usciva sangue. Carbonizzato….”
Scritto con un linguaggio crudo e duro che non lascia spazio a metafore, il romanzo infarcito di slang militari e di espressioni spontanee, grazie ad uno stile immediato consente di cogliere le minime sfumature dell’ambiente militare e dell’atmosfera che pervade i giovani soldati in procinto di abbandonare l’ultimo avamposto in Libano.

Con questo romanzo Leshem ha saputo raccontare la forza, il coraggio, l’angoscia e i dubbi di una generazione che pur seppellendo i suoi amici è riuscita a conservare intatto l’amore per il suo Paese e la volontà di continuare a proteggerlo.

Giorgia da Bologna

mercoledì 19 marzo 2008

il soffitto a piramide della biblioteca della Corte Suprema di Gerusalemme

MEIR SHALEV : IL RAGAZZO E LA COLOMBA

(Titolo originale Yonah we-naar) Trad. Elena Loewenthal Ed. Frassinelli (Gennaio 2008) pp. 403 €. 17,50

“Fra poco tornerà il mio capomastro [che poi sarebbe una femmina]. Ci siederemo davanti al panorama, chiacchiereremo, ci riempiremo d’amore e di felicità. Diremo che è ‘buono’ tutto quel che è stato fatto, marcheremo e inaugureremo e daremo nomi”.
La vicenda, detta in sintesi, è molto semplice.Un’anziana madre, ammalata terminale di cancro, Raya, parla col figlio primogenito, un uomo di mezza età, introverso, amante della natura e degli animali, spesso incapace di prendere decisioni definitive; uno che, mentre gli altri fanno, si accontenta di “auspici e speranze”.La madre sa che egli vive un matrimonio non felice: la moglie, Liora, venuta dagli States, è troppo bella, troppo ricca, troppo di successo, troppo lontana. Troppo.La mamma ama entrambi i suoi “ragazzi”, ma nutre nei confronti del più grande una sorta di predilezione, lo percepisce come una parte indissolubile di sé.

Un giorno, con le scarse energie che ancora le restano, gli comunica la seguente ultima volontà, ben consapevole che, lei, non ne vedrà la realizzazione: consiglia vivamente al figlio di comperarsi una casa tutta per lui; anzi gli dà perfino il danaro per l’acquisto.“Una casa dove qualcuno abbia già abitato prima di te, che sia piccola e vecchia, la metterai un po’ a posto…l’erba che spunta nelle fessure del selciato….in un villaggio di antica data la gente si è già vendicata….i vecchi odi sono ormai avvezzi l’uno all’altro….” Una dimora in un posto antico.Il figlio parte e troverà la casa e la ricreerà per abitarci, sia pure per poco tempo, con la donna che, in fondo, ha sempre amato. Una casa accogliente, a sua misura, quanto era ostile, nella fredda dimensione tecnologica, quella in cui viveva con la moglie.

Meir Shalev, uno dei maggiori esponenti della letteratura israeliana contemporanea, da anni apprezzato anche nel nostro Paese, trasforma uno spunto comune attinto dall’esistenza quotidiana in un complesso ricamo nel quale si incontrano e si scontrano i caratteri più diversi, ricco di sfumature, di sentimenti e di colori come il Paese nel quale esso si dipana, Israele. Un Israele (o un’Israele, se preferite) dove la città, almeno nella sua dimensione artificiale, si accontenta di fungere da sfondo,
dominando invece i vasti spazi delle riserve naturali, note ai bird watchers di tutto il mondo, o certi luoghi più riposti, ad esempio nel deserto di Giudea, dove gli uccelli rapaci -meraviglia!- si radunano e dormono a terra.
Il viaggio dell’uomo, una sorta di guida turistica di nome Yair Mendelssohn - voce narrante del romanzo, che spesso si rivolge direttamente a Raya anche quando lei non c’è più -, alla ricerca e alla costruzione della casa, metafora della ricerca di sé, del proprio senso di appartenenza, si intreccia con un avvenimento di tanti anni prima, culminato nella Guerra di Indipendenza del 1948. E’ la storia d’amore tra un ragazzo, chiamato da tutti il Pupo, per il viso da bambino e la figura tozza e muscolosa, orfano dei genitori, che vive insieme agli zii in un kibbutz della Galilea, e una ragazzina bionda (la Bimba) che abita a Tel Aviv. A farli incontrare ed innamorare è una comune passione: quella per i piccioni viaggiatori; gli animali addestrati dai militari della Haganah per mandare importanti messaggi durante la Resistenza ebraica nella Palestina mandataria. I due adolescenti approfittano di tale opportunità per scambiarsi biglietti d’amore; un modo particolarmente suggestivo per confidarsi l’un l’altra i propri sentimenti.

Nella nostra storia è importante la psicologia del piccione viaggiatore; qui chiamato “homing pigeon”, proprio perché, dopo essere stato, per dirla nel linguaggio tecnico, “lanciato” verso una certa direzione, rientra sempre alla sua casa. Una sorta di Ulisse degli uccelli, che desidera il caldo del suo rifugio dopo aver combattuto le battaglie. Quando va in guerra (siamo, come detto, durante i combattimenti del 1948), il Pupo si porta sulle spalle la gabbia dei suoi amati piccioni, che non lascia un attimo; viene mortalmente ferito e, consapevole che la fine è vicina, si serve di un colombo viaggiatore per mandare alla sua innamorata l’ultimo messaggio. L’ultima lettera d’amore è l’essenza del romanzo.Lascio al lettore il piacere della scoperta di quale sia il vincolo che lega le due storie.
Mirabile la traduzione di Elena Loewenthal, sensibile scrittrice a sua volta, che è riuscita a rendere in pieno i colori e i profumi del vissuto di Shalev, il cui amore per il mondo rurale conquista pagina dopo pagina - del resto egli è nato a Nahalal, una delle prime comunità agricole in Terra di Israele -. Vale la pena di ricordare che il libro ha avuto in Patria il Premio Brenner, massimo riconoscimento.

Mi soffermo sul carattere degli attori principali, che l’Autore plasma con notevole efficacia psicologica, giocando tutte le tonalità del linguaggio, caratterizzato da un fondo comune: un frasario attinto dalla vita di ogni giorno, sempre immediato, mai banale.
Un registro espressivo spesso ironico, com’è lo stesso Shalev quando rilascia un’intervista; oppure improntato ad una sensualità che ti penetra nell’anima; a volte onirico, nel suo mescolare sogno e realtà, suonando note che disorientano ed ammaliano; a tratti amaro; perfino epico, nelle significative immagini con le quali racconta l’epopea della (ri)nascita di Israele, in occasione del viaggio, assai rischioso, che la giovanissima colombofila (la Bimba) compie per portare un certo numero di uccelli da Tel Aviv alle varie unità di Resistenza sparse nel Paese. “….E la gente dei kibbutz, che riempiva sacchi di sabbia e scavava fossati e si preparava a combattere per la propria casa, cercando di non pensare a chi sarebbe morto e di non indovinare chi sarebbe sopravvissuto”. Grande coraggio contraddistingue la ragazzina alta coi riccioli biondi, unito a coraggio e competenza, nel curare i suoi piccioni, perché ella è consapevole che sta svolgendo un compito importante.
“Soprattutto vide e ricordò le truppe che aspettavano lungo le strade……In parte accumulavano ore di sonno, in parte…discutevano del futuro che sarebbe venuto. Lei guardava e capiva che quel che vedeva non l’avrebbe più dimenticato”.

Degno compagno è il suo innamorato, il Pupo, tenace ragazzo, che diviene ben presto famoso come allenatore di colombe e per la capacità di riconoscerne ciascuna di ritorno anche quando essa è ancora molto alta nel cielo. Egli alla fine è ferito a morte, ma riesce lo stesso ad ingannarla, la Morte, proprio grazie al suo ultimo messaggio.
Yair è, lo sappiamo, un sognatore. Ama contemplare gli alberi e gli animali “…e ho pure un gufo -…l’unico uccello capace di destarmi autentico affetto- che quando l’ho visto per la prima volta sono tornato spesso a trovare nella zona dove nidifica….” Ciò gli è facilitato dal suo lavoro di guida turistica, che svolge - per conto dell’azienda americana, della cui filiale in Israele è responsabile la moglie Liora (la Real Estate Kirchenbaum!) - a bordo della sua vettura, una grossa Chevrolet Suburban, nota col significativo soprannome di “La Bestia”. Egli percepisce una certa differenza tra sé e il resto della famiglia - genitori, fratello minore, moglie -, come quando afferma che, mentre essi conoscono bene la realtà in cui vivono (sopra la testa e sotto ai piedi), lui percepisce se stesso come una sorta di “aquilone cui si è spezzato il filo”. Anzi, a volte, con la “voglia di partire e la paura di andare, la preghiera che s’eleva e la paura che si concretizza”, ebbene, confessa Yair “allora mi sento l’unico ebreo della famiglia”.
Yaakov Mendelssohn, padre di Yair e Beniamin, apprezzato pediatra, è un uomo ricco di umanità. Egli ha interiorizzato, nella vita come nella professione, un valore base del vissuto ebraico, quello che non solo gli studiosi, ma pure le persone comuni, chiamano “Tikkun Olam”, la riparazione del mondo: cioè che cosa i singoli esseri umani possono fare per rendere il mondo un posto migliore, per rimediare ai danni che sono stati fatti. “Si può rimediare e guarire” afferma Yaakov “Non solo nel corpo, ma anche nell’anima”. Purtroppo egli non sa esprimere in modo compiuto tutto ciò che prova alle persone care, in particolare non riesce ad esprimerlo a Raya, che lo ha rinominato (significativamente ed ironicamente) “Padrevostro”, e si rifugia quindi in atteggiamenti convenzionali, che, inevitabilmente, fanno fuggire anzitutto la donna, indi la moglie, specie se ella non è mai stata innamorata di te poiché il suo cuore apparterrà per sempre ad un altro.

Raya è la madre malata. Personalità complessa, donna forte, custodisce dentro di sé una profonda angoscia, che maschera con un comportamento in apparenza “tranquillo e pacato”, ma capace di slanci adolescenziali, autentiche monellerie, compiute sotto gli occhi dei figli divertiti, in una sorta, più o meno inconscia, di rivalsa nei confronti del serioso coniuge.Nel fondo dell’anima, misteriosa, con suoi silenzi brevi e i suoi silenzi lunghi, ella ama i gladioli -che anche adesso qualcuno (e chi sarà mai?) porta sulla sua tomba- e l’opera “Didone ed Enea” di Henry Purcell: “A me la morte sarà di pace, una morte che sia quiete per me…”; è solita meditare a lungo prima di prendere una decisione: elenca, su un foglio, tutti i “pro” e tutti i “contro”, poi via! E dalla strada intrapresa non si torna indietro. Come quel giorno, quando, dopo aver pronunciato la frase fatidica: “Non ce la faccio più”, se ne andò di casa, affrontando l’inevitabile disdoro sociale, il dolore del marito, l’incredula sofferenza dei figli. “Non ho mica abbandonato voi” spiega ai ragazzi un giorno “ma Padrevostro e casa sua. Infatti sono rimasta nella sua Gerusalemme per stare vicina a voi”.
Meshullam Fried è un self made man. Titolare di una società di costruzioni (la “Meshullam Fried & Figlia S.r.l.”) - e va da sé che, come tutti gli impresari edili del mondo, non risparmia critiche sanguinose nei confronti delle opere compiute dai colleghi -, è divenuto ricco grazie al suo lavoro, ma ha conservato un intenso attaccamento alla terra, gioisce per le cose semplici, come dividere con la compagna del momento (“da ‘quando che’ la mia Goldie se n’è andata…”) un fico spruzzato di arak. Meshullam parla di se stesso in terza persona, ha una vitalità traboccante; tant’è che, a volte, deve darsi una calmata, fermare l’automobile, scendere, annunciando all’interlocutore: “Devo piangere come si deve”.
E’ grato per la vita al Prof. Yaakov Mendelssohn, che, in anni lontani, guarì suo figlio Gherson da una grave malattia. Gherson, promettente ricercatore in chimica presso l’Istituto Weitzmann, resterà ucciso in guerra e il padre non si consolerà della sua perdita a tal punto da rifiutarsi che gli venga intitolata una borsa di studio: “…mio figlio sta nella tomba e qualcun altro dovrebbe studiare e diventare professore al posto suo?” Non sia mai.

La “Figlia” della S.r.l. è l’adorata figlia Tirza, socia in affari del padre e compagna di giochi nell’infanzia di Yair. La madre di lei, Goldie, li aveva ribattezzati, nel suo buffo linguaggio, “Tirale” e “Irale”, nomi che i due usano ancora oggi quando sono soli. Irale, Tirale e Gershon formavano un trio inseparabile, fin da piccoli, nelle interminabili scorribande e nel loro indulgere, di nascosto, in certi divertimenti…..proibiti dei bambini.
Tirza non è splendente come Liora, luce che brilla ma non riscalda; in compenso ha un fascino tutto suo. Tipo pratico e ed estroverso, viaggia, da un cantiere all’altro, sul suo furgone, zeppo di attrezzi, libri (di autori rigorosamente stranieri: “Non li reggo i libri in cui sta scritto di noi”) e abiti femminili; sa trattare con personalità importanti e con semplici manovali: memorabile a tale proposito è la scenetta tra lei, un muratore immigrato dalla Russia e la madre di questi, interpellata al telefono su come preparare una certa minestra……

Yair, in fondo, l’ha sempre amata (ricambiato), ma, data la propensione a non decidere, si era orientato altrimenti.Con la complicità dietro le quinte di Meshullam, Raya ha rimesso tutto in gioco, con l’invito ultima volontà al figlio di cercarsi una casa. Affinché Irale e Tirale, grazie ad essa, abbiano una seconda opportunità. Palla al centro.E’ Raya in definitiva la vera protagonista della storia, colei intorno alla quale ruota ogni cosa, in vita e in morte, che regge i fili della vita di tutti. Grande personaggio femminile, dei quali la letteratura israeliana è ricchissima.
Ed è Tirza a dirigere i lavori nella sua nuova casa di Yair, è lei il Capomastro, novello creatore.“Ricordo che ha costruito, inaugurato la mia casa, un pezzo dopo l’altro…dicendo ‘sia un muro’, ‘sia una finestra’…Ha costruito, ha dato un nome, inaugurato, segnato, passando al giorno seguente”.Quale sorte riserva l’Autore ai personaggi? Chi legge lo scoprirà e magari può pure sbizzarrirsi ad immaginare soluzioni diverse da quelle che prendono corpo nel romanzo.
“Ho una storia da raccontarti” dice Raya al figlio “Così diventerà anche tua…….Una storia che giunga non solo al cervello…..ma che sia capace di avvincere viscere e muscoli….di vibrare…nelle valvole del cuore…e due cime di montagne, una su cui stare e l’altra da contemplare. E due occhi per vedere il cielo e aspettare. Capisci cosa sto dicendo, Yair?”.

Mara Marantonio 15 marzo 2008

Galilea - memoriale per 7 studentesse uccise



da Gabriella - Trieste


Cara Chicca, posso dirti che questo viaggio è stato per me uno dei più belli in quanto ad emozioni vissute. Le lacrime mi sono salite agli occhi in più occasioni ed ho apprezzato la fierezza e la forza di un popolo che ha sempre dovuto combattere contro l'ignoranza e la cattiveria.Ho pensato che tutto il mondo dovrebbe seguire il loro esempio. Ma le cose purtroppo vanno in senso opposto..Mi sento più ricca dopo questo viaggio e ti ringrazio per avermi dato la possibilità di vivere questa meravigliosa esperienza.




da Edoardo - Trieste


Cara Chicca,il rientro in Italia è stato davvero duro, non solo per la stanchezza e lunghezza del viaggio, ma per la grande tristezza di lasciare Israele ed il gruppo con cui mi sono trovato benissimo.E' stato un viaggio entusiasmante, davvero potrei dire con assoluta certezza uno dei migliori viaggi in vita mia. Io non amo i viaggi organizzati, ma devo dire che in questo caso è stato vero il contrario. Angela mi ha arricchito profondamente e ho provato cose che non pensavo avrei mai potuto provare. Di foto ne ho fatte quasi 700, le devo ancora visionare.Sento però la necessità di scriverti subito per ringraziarti personalmente per aver reso possibile un sogno, per aver costruito un viaggio fantastico, di cui conserverò per sempre un ricordo stupendo. Grazie davvero!!!!



da Gianni - Cuneo


...grazie a te. E' stata, ed è ancora adesso, una esperienza intensa ed arricchente. Ho portato con me un desiderio di ritornare a Israele davvero sorprendente.

Galilea - Memoriale 7 studentesse uccise


da Edoardo - Trieste


Cara Chicca,mi fa piacere leggere le tue mail e le tue news da israele...quando vedo in inbox una tua mail mi sembra di tornare indietro di un mesetto e di provare ancora quel brivido di attesa prima della partenza per israele. E' strano, mi è rimasta addosso una sensazione di estrema tristezza e nostalgia. E' un qualcosa che non mi era mai capitato prima, il voler essere in un altro posto ed il sentirmi vuoto dove fino qualche settimana prima ero felicissimo di stare. Mi manca Israele, mi mancano i suoi odori ed i suoi colori, mi manca il caos mistico di Gerusalemme e la pace colorata del deserto, mi manca quella sensazione di unità ed empatia che non ho mai provato prima, quella sensazione di familiarità e di senso di casa......

Papà, ha voluto leggere ai presenti un pezzo preso dal mio articolo quando descrivo i giardini di Israele e gli uomini che li abitano. Ho visto negli occhi delle persone la commozione e qualche lacrima scendere. Questa è stata la soddisfazione più grande, l'essere riuscito a trasmettere quello che ho provato in Israele, le stesse emozioni, attraverso le parole. E questo è stato possibile solo grazie al viaggio che tu ed Angela avete organizzato.

Tel Aviv


da Mario - Cuneo


Ritornare alla vita quotidiana dopo una vacanza così eccezionale è molto difficile. Però io ritengo che sia stato necessario allontanarci da Israele perchè questo ci ha fatto apprezzare ancora di più ogni singolo momento del viaggio, bello o meno che sia stato, anzichè far diventare il viaggio una cosa normale che poteva alla lunga divenire perfino noiosa...è quel che si dice che un bel gioco dura poco!> Ciò non toglie però che la voglia di ritornare è tanta e questo mi porterà la prossima occasione senza dubbio ad approfittarne.

Gerusalemme


da Giovanni - Fossano



Come ogni cosa, quando è avvenuta, dopo che è avvenuta, non avviene mai per caso, così il nostro viaggio, insieme in Israele. Quello che più mi manca è la vista di Gerusalemme, le sue pietre, e il filamento che tutti avvolge, amici e nemici, generato dalle preghiere. Certo, in viaggio tutto è più facile, ogni piccolo evento e ogni piccolo passo è avvolto di magia e tutto scorre e corre facile, seppur veloce.
Speriamo di rivederci l'anno prossimo a Gerusalemme

Gerusalemme


da Antonio - Trieste


Cara Chicca, è’ duro il tuo lavoro, lo so, in mezzo a tante difficoltà, è faticoso mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle dalle mille sfaccettature, ma nello stesso tempo ritengo che esso produca gioia e soddisfazione per l’interesse e la partecipazione che le tue parole e la tua premura riescono a suscitare nei “compagni di viaggio”. Lasciatelo dire: i tuoi, sono viaggi unici!
Ne ho fatto un altro in Israele, quello che ha cambiato la mia vita! In quel viaggio, il gruppo era anonimo, freddo, turistico appunto: il rapporto intenso invece che ho vissuto, l’ho vissuto da solo, io con la Terra d’Israele, come si vive un sogno d’amore.
Il “nostro” viaggio invece è stato intellettualmente più ricco e più denso di significati, grazie alla preparazione alla competenza e all’entusiasmo di Angela che ci ha tutti coinvolti, ed è stato più umano grazie al clima di amicizia e alla serenità di rapporti che si sono venuti a creare. Un viaggio straordinario appunto, indimenticabile! E per quanto mi riguarda, mi ha permesso di riabbracciare quella Terra dai mille colori, mi ha permesso di vedere la vita, la luce, il sole, il verde di Eretz Israel, dolce Terra che ha ispirato le mie poesie, che mi ha donato gioia immensa, che mi ha rinforzato nella fiducia nel Signore, che mi ha ristorato, che mi ha confermato che Dio è presente nella nostra vita e che attraverso gli uomini opera miracoli.

Tel Aviv - Naclat Benjamin

da Vittorio - Parma


Leggere le tue esperienze acuisce in me la nostalgia di quell' umanità della quale abbiamo conosciuto tanti elementi positivi e che qui , nella vecchia Italia , un pò cinica e un pò stagnante, non riusciamo più ad incontrare. Visitare Israele è insieme un balzo nel futuro e un saggio del passato quando anche noi italiani non ebrei eravamo energici ed operosi.

Parco di Timna

da Elena - Bolzano


E' passata ormai una settimana da quando son tornata e faccio veramente difficoltà ad abituarmi di nuovo alla vita quotidiana di questa piccola cittadina, Bolzano!E' stata proprio una fantastica esperienza ed ho conosciuto persone splendide
Sarebbe proprio bello passare un periodo più lungo in Israele, forse una volta o l'altra troverò l'occasione!!Comunque, intanto inizio a metter via gli spiccioli per venir con voi l'anno prossimo...!!


Gerusalemme

da Silvia - Treviso


....l'alternariva per chi non poteva andare a Petra è stata quanto mai gradevole, sono stata benissimo nel parco di Timna e tengo la boccettina con la sabbia e ogni tanto la guardo assieme alle foto che qualche compagno di viaggio mi ha gentilmente inviato. Tutto bene dunque, gli incontri che hai preparato sono stati interessantissimi , io vorrei che durassero per ore, non so com'è ma questi viaggi, anzi questi 'percorsi di guerra' come li ha spiritosamente definiti il tuo amico volano via presto….

lunedì 17 marzo 2008

Tel Aviv


Le memorie di Welda - Genova 8 marzo 2008


21 febbraio 2008. Ecco, sto scendendo…sto arrivando in Israele. Certo, ne sono certa, ma…qualcosa non va. Dunque, vediamo: non lo riconosco. Non lo riconosco da quando ci sono stata “l’ultima volta”

Beh, risale a un pochetto di tempo indietro. Pochetto. Si fa per dire. Però si dice che il tempo è relativo…

Mezzo secolo fa, non arrivavo a Tel Aviv, ecco la prima differenza. La Terra Promessa la vivi dal mare. Arrivavo con la “Theodor Herzl”, l’allora orgogliosa “capitana” della flotta passeggeri della ZIM (compagnia di trasporti). Capitana …di una piccola flotta, per favore! Allora, torniamo un po’ indietro…..

Mentre la nave (20.000 tonnellate di stazza , pensa te!)si avvicina lentamente all’attracco , trascinata dalle pilotina, suonano tante sirene e vedo delle piccole barche che ci vengono incontro . Braccia levate al cielo e tanti canti. Ci fanno festa! Proprio come se fossimo amici da tanto tempo attesi. Andiamo lentamente avanti, circondati dalle piccole barche e da volti ridenti e commossi. Qualcuno piange e non capisco perché. Sono troppo giovane e stupida per capire i miracoli.
Piango io adesso, che capisco, perché sono vecchia ed ho sofferto e capisco qualcosa di più. E sento un nodo alla gola. Commozione? Penso di si. Adesso. Dopo mezzo secolo. Rivedo quei visi e penso che ora saranno come me, nonni e nonne. Occhi stanchi con un ‘ombra di perduta bellezza e tanta, tanta esperienza sofferta, qualche volta straziante.

Ecco: ho 24 anni ed arrivo. Un giovane uomo Yoram (che un anno prima ho aiutato ad imbarcarsi su una minuscola nave da carico, la “Caterina Madre” di 500 tonnellate, comandata dal Capitano Sardi) mi aspettava. Yoram diventerà poi un grande, meraviglioso medico ricercatore alla UCLA di Los Angeles e poi… ma questo lo racconto dopo.

Sbarco tra la gente che continuo a non capire perché in festa.
Comincia la mia avventura. Haifa è piccola e bella. Il Carmel verde e poco abitato e io sono giovane e sciocca. Sembra proprio un piccolo Paese, questo. Nel mio Paese ci sono i grattacieli, perbacco! Qui no, è tutto semplice e gentile, direi.

Partiamo. Tel Aviv, ecco Tel Aviv. Sono segretaria della Compagnia ZIM di Genova, scrivo e ricevo continuamente posta da questi posti. Li immaginavo più grandi. Bello, però. E poi vedo la gente in torno a me. E comincio a pensare che c’è qualcosa in loro, una fierezza che percepisco, senza spiegarmela. Uomini e donne in abiti quasi militari, passi decisi e consapevoli…

E poi via, per la spiaggia di Tel Aviv, libera, piccole onde di traverso. Si può camminare e raccogliere conchiglie. Ne faccio un bel mucchio. Le ho ancora, adesso, dopo. .non voglio parlare del tempo, non conta.

A Netanya, la famiglia Heller ha una piccola, deliziosa casetta, con piccolo, incantevole giardino proprio sulla spiaggia. Tanta spiaggia, pochissime costruzioni.

E poi continua il mio viaggio, ma forse a questo punto penso sia chiaro che visitavo un piccolo paese ancora lontano dallo sviluppo del nostro vecchio Occidente. Già, mi sentivo sempre …”in campagna”…

Sono a Nazareth, salgo nella piccola strada, tagliata nel centro, come un piccolo canale per non so cosa. Mercanzia sulla strada, intendo di ogni tipo, anche commestibile. Donne e uomini con abiti lunghi…penso di trovarmi in un settore arabo. Odori particolari. Un anziano signore, in un angolo, fuma (credo) da un grosso contenitore,, attraverso un lungo, spesso spago (forse). Nazareth è proprio piccolina, forse come quando ci camminava Gesù o quasi.

Sono a Tiberiade, tanto bellissimo lago e poca, pochissima gente. Ci arrivo in autostop, con i fratelli Yoram e Eri, tirati su a bordo di una camionetta di giovani vestiti da militari. Poi Kfar Naum (Cafarnao). Grandi sassi, residui credo di una vecchia sinagoga o giù di lì. Mi dicono che ci pregava Gesù. Intorno il nulla, solo delle grosse lucertolone (che poi saprò essere iguane) che scorrazzano qua e là. Non ci credete? A vedere come stanno le cose ora – quasi non ci credo neppure io!

Ed ecco Gerusalemme, beh, quel pezzetto visitabile! All’epoca era stata annessa alla Giordania che non permetteva nessuna visita. Salgo sulla terrazza di un edificio e guardo al di là, verso la città vecchia. Ai piedi dell’edificio, si allunga una quindicina di metri di lamiera ondulata alta più di due metri (almeno così ricordo), bucata da proiettili,così mi dice Yoram. Di là non si può andare, che rabbia! E’ bella e mistica questa città, ma mi sembra triste e come “appannata”, come se in qualche modo fosse in lutto. Sono triste ed anche le persone che vedo sono tristi e diverse. Ma i giovani no. Loro sono sempre fieri. E belli. E determinati.

Via. Verso Eilath. E il deserto del Negev. Un incubo. Ore e ore, da Tel Aviv. Quante non so, ma troppe. E solo e sempre deserto, senza nulla, solo, solo deserto. Eilath…è una lunga spiaggia bianca. Là in fondo si vede Acaba in Giordania. Forse camminando sulla spiaggia calda, posso arrivarci a piedi.

La città? Beh, nessuna città! Quattro casupole, fatte di niente. Niente strade, solo tracciati polverosi. E un piccolissimo molo per tenerci le barche dei pescatori. Poi vedo un ‘imbarcazione un po’ più grande. Forse piccoli trasporti, non so.

Il tempo: Il tempo. Ora lo sento tutto. Sono stanca, ho 74 anni e sono in visita con un gruppo di amici di Israele ad una base militare e…. Mio Dio, ragazzi: io vi conosco, certo, vi conosco! Siete voi, io lo so, vi conosco! Siete belli, giovani e fieri e determinati….ed io sono giovane come voi…ma certo, siete voi, io…mi sento strana: Come posso spiegare… io vi ho conosciuto 50 anni fa, ma…erano i vostri nonni, ma uguali a voi. Ho un nodo alla gola: Siete voi ed io sono profondamente triste. Ho capito tante cose, ma soprattutto una, sconvolgente , agghiacciante e tremendamente reale: la guerra non vi ha mai lasciati. E’ sempre lì. I vostri volti sono quelli dei vostri nonni. Fieri e determinati. Avanti così ragazzi, anche se è nella pace che dobbiamo mettere tutti i nostri sogni, i nostri desideri, il nostro – o meglio – il vostro futuro. Avanti così, bimbi miei, difendete questa vostra bellissima terra. Onorate i vostri nonni che hanno saputo crescere datteri, pomodori e …. Tutto quello che ora si vede su una terra aggressiva e desertica. Pochi ci avrebbero scommesso. Ed invece, eccovi lì, belli, fieri, determinati e forti.

Io sono stanca e vecchia , ma con tutta lo voce che mi rimane vi dico: avanti così, ragazzi!


Welda

domenica 16 marzo 2008

Gerusalemme - King David


I giardini di Israele - Trieste, 19 febbraio 2008

Ho letto con molto interesse l'articolo di Massimo Orbach dell'ultimo numero di Iarchon, riguardo l'apertura alle conversioni dei figli nati da matrimoni misti (con madre non ebrea).
Trovo l'argomento, non solo di grande interesse, ma anche di assoluta attualità, soprattutto in Comunità storiche come quella triestina.
Molti di quelli che leggeranno quest'articolo mi conoscono, o personalmente o attraverso miei articoli precedenti, e sanno quanto laico io sia. Ma in questo caso non è la mia laicità a portarmi a sostenere la tesi di Massimo, bensì un senso di protezione e di affetto nei confronti della nostra Comunità ed in senso più ampio del popolo ebraico.
Di recente sono stato, assieme all'Associazione Italia-Israele, in Heretz Israel (un viaggio organizzato da Chicca Scarabello) dove ho trascorso i 12 giorni più intensi della mia vita. Non era la prima volta che visitavo il paese, ma questo viaggio è stato diverso da quello che avevo fatto nel '93 (all'epoca avevo 16 anni). Questa volta avevo la maturità e la sensibilità per capire, per osservare, per apprendere, ma soprattutto per sentire. Per sentire quel senso di appartenenza, quel senso di familiarità, quella sensazione magica che solo noi Ebrei possiamo provare camminando in Israele. In ogni luogo si respira storia, la nostra storia, e ogni persona che vive in Israele rappresenta quella storia, ma anche il futuro di Israele. Ho camminato nel deserto della Giudea e attraverso il deserto del Neghev, ho provato una sensazione forte che mai dimenticherò, una sensazione di attaccamento e di ritorno alle radici. Ho calpestato la sabbia dove hanno vagato i nostri padri per 40 anni, ma dove pochi decenni fa, un tale di nome Ben Gurion ha dichiarato che "solo chi crede nei miracoli è davvero realista". Oggi quei deserti sono degli enormi giardini a cielo aperto, dove si coltivano vino, olio, grano, ortaggi, fiori, dove pascolano bovini. Oggi quel deserto dove gli Ebrei aspettavano la manna dal cielo si è trasformato, grazie all'ingegno dell'uomo e al suo amore per quella terra. Solo chi ama in modo straordinario una terra ed il suo popolo è in grado di trasformare il deserto in giardino (e ne è dimostrazione il fatto che oltrepassando i confini di Israele, il deserto rimane deserto e i giardini si vedono solo nelle ville degli sceicchi).
Oggi quei giardini e quegli uomini che continuano a coltivarli e ad abitarli rappresentano il nostro presente ed il nostro futuro, sono la testimonianza vivente di come il popolo ebraico trovi la linfa vitale da se stesso, dalla sua volontà e dal suo attaccamento ad Heretz Israel. Oggi quegli uomini lottano ogni giorno contro la siccità della terra, contro la penuria d'acqua e contro gli uomini che invece quella terra non la amano, sia laggiù in Medio Oriente che in giro per il mondo. Oggi quegli uomini rappresentano la nostra prima linea, la nostra avanguardia, rappresentano la speranza che vive dentro di noi, come una fiammella sempre accesa, che un giorno potremmo essere noi o i nostri figli quella avanguardia a difesa della nostra terra e del nostro popolo. Quei giardini vanno difesi, come fossero figli nostri, come fossero parte della nostra famiglia, come fossero la stessa nostra casa. Quei giardini rappresentano il miracolo di cui parlava Ben Gurion, il miracolo della fede dell'uomo che crede, che crede nella sua terra, nelle sue capacità e nella forza del suo popolo. Quei giardini sono la prova tangibile che i miracoli esistono, ma esistono solo se li si vuole davvero.
Se penso a questo miracolo, non posso nemmeno pensare alla possibilità che quei giardini un giorno tornino di nuovo deserto. Eppure la possibilità non è così remota. Il popolo ebraico ha dovuto sempre fare i conti con l'ostilità ed il sospetto degli altri, ha dovuto sopportare esili, privazioni, umiliazioni, distruzioni, persecuzioni,fino alla tragedia della Shoà. Nonostante questo, è sempre riuscito a sopravvivere, ad andare avanti, facendo forza su se stesso, sul suo amore per la Torah e per Heretz Israel, facendo ricorso alla speranza, alla speranza che un giorno loro o i loro figli potessero vivere in pace nella Terra dei Padri. E' questa speranza, questa fiammella che ha fortificato il popolo, che l'ha reso sempre più unito anche nella diaspora, ma sempre proteso con il cuore e con la mente a Gerusalemme. Oggi il popolo ebraico ha la sua terra ed i suoi giardini, prova di questo amore e di quella speranza divenuta realtà. Oggi però il popolo ebraico deve superare una prova ancora più ardua, forse la più ardua di tutte. Deve superare se stesso ed i suoi limiti. Deve superare le rigidità di una tradizione spesso anacronistica, per il bene della sua stessa esistenza. Oggi il popolo ebraico, specialmente quello che vive nella diaspora, deve accettare l'idea che non vive in Israele, ma in paesi a maggioranza non ebraica. E con questo deve convivere. Ma non vuol dire assolutamente che il popolo ebraico si deve assimilare, anzi. Deve lottare per mantenere vive le sue tradizioni, la sua cultura, la sua fede ed il suo messaggio. Deve lottare per rispetto nei confronti dei nostri padri che sono morti nelle camere a gas mentre stringevano i propri figli e vedevano infrangersi il sogno di un ritorno in Heretz Israel. E deve lottare per poter coltivare la speranza, ed insieme alla speranza, anche quei giardini che proprio rappresentano la concretizzazione di un sogno e della sua speranza. Quei giardini hanno bisogno del popolo ebraico proprio come il popolo ebraico ha bisogno di quei giardini.
Ma non ci potranno più essere giardini senza il popolo ebraico e senza popolo ebraico non ci sarà più la speranza e senza la speranza non ci sarà più Israele dove continuare a coltivare giardini.
Il pericolo di estinzione del popolo ebraico e di ri-desertificazione di Israele non deriva dalle folli dichiarazioni di Ahmadinejad o dai missili Qassam che quotidianamente vengono lanciati su Israele. E nemmeno dai rigurgiti di antisemitismo che stiamo vivendo in Europa in questi anni. Il popolo ebraico ha sempre dimostrato nella storia che nessuna persecuzione o guerra o attacco è in grado di distruggerlo. Il popolo ebraico sa difendersi, trova sostegno e forza nella sua unione e nella sua coesione. Il popolo ebraico sa difendersi dagli attacchi esterni. Ma sarà in grado di difendersi da quelli interni? Sarà in grado di superare le sue stesse barriere ed evitare l'estinzione naturale? Dove non è riuscito l'uomo a distruggere un popolo, potrebbe la natura e la miopia.
La miopia dell'uomo e dei nostri Rabbini che non capiscono che il male di oggi non si chiama assimilazione, bensì estinzione naturale. Quando un uomo non ha più figli perde tutto, il futuro e la speranza. Non è l'assimilazione il problema dei nostri giorni, quanto la rigidità di certi Rabbinati che non riescono ad andare oltre le proprie barriere, non riescono a superare l'ostacolo della rigida osservanza del precetto. Ma questa rigidità ci porterà a perdere tutto, popolo, terra e quella speranza che ci ha tenuto in vita per millenni, quella speranza che ci ha regalato quei meravigliosi giardini.
Oggi un Ebreo che vive nella diaspora ha statisticamente una possibilità molto limitata di incontrare una ragazza ebrea da sposare e con cui avere figli ebrei a cui insegnare la nostra cultura e a cui tramandare la speranza. Oggi i matrimoni misti sono all'ordine del giorno, ma non per questo i figli che da queste unioni vengono al mondo non hanno diritto di vivere quella speranza e di coltivare quel sogno meraviglioso che è un bocciolo che spunta tra la sabbia del deserto.

Edoardo




Gerusalemme


1948 - 2008 Sessant'anni d' Israele
Le istituzioni e il deserto
(estensione a Petra)
21 febbraio - 2 marzo 2008


21 febbraio, giovedì: partenza dalle varie città di provenienza per ritrovarsi tutti a Fiumicino per imbarcarsi da Roma con volo ELAL delle ore 10,15 per l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Arrivo alle ore 14,35. Trasferimento a Gerusalemme. Visita in pullman della città. Giro intorno alle mura che a quell’ora saranno illuminate. Cena e pernottamento presso l’Hotel Prima Royale.

22 febbr. venerdì: giro dei monti intorno alla citta': monte Scopus,monte degli ulivi, Palazzo del governatore, Ghilo, il Memorial Kennedy ed il monumento a Bernstein da cui si può godere di una splendida vista. Giro in pullman del quartiere ortodosso di Mea Sherim e visita al Tempio Italiano. Tempo libero per lo shopping nei negozi delle isole pedonali intorno alla famosa via Ben Yehuda. Nel tardo pomeriggio, a piccoli gruppi, saremo ospiti delle famiglie della comunità ebraica gerosolimitana per la cena di shabat.

23 febbr. sabato: giro a piedi della Città vecchia. Visita dei quartieri e dei luoghi santi delle tre religioni monoteiste. Tempo libero al mercato arabo. Alle 20,30, nel nostro albergo, dopo la cena, Fiamma Nirenstein “A che punto siamo?”.


24 febbr. domenica: visita della Corte Suprema, visita della Knesseth, visita al Centro di documentazione di Yad Vashem e del nuovo Museo. Nel tardo pomeriggio Università del Monte Scopus ed incontro con Sergio Della Pergola: “La società israeliana: composizione e prospettive”. Cena e pernottamento in albergo.


25 febbr. lunedì: partenza per Rehovot. Ore 9, visita dell’Istituto Weizmann. Dalle 11:00 – 13:00 Shopping Center. Ore 13 visita del kibbutz Ayalon.
Ore 15 visita della Sala dell’Indipendenza a Tel Aviv. Visita dell’antica Giaffa . Giro della città in pullman. Arrivo in albergo e dopo cena, per chi vuole, concerto Filarmonica Orchestra di Tel Aviv.


26 febbr. martedì: trasferimento verso il deserto della Giudea. Visita della roccaforte di Massada. Si scenderà poi al Mar Morto dove pernotteremo in un bell’ albergo al cui interno sarà possibile fare il bagno nelle piscine termali. Sarà anche una bella esperienza, tempo permettendo, bagnarsi nel salatissimo Mar Morto. Cena e pernottamento all’Hotel Prima Oasis.


27 febbr. mercoledì: sempre nel deserto, visiteremo il Monte di Sodoma e la valle dell’Aravà. Sosta al kibbutz di Sde Boker: casa e tomba di Ben Gurion. Visita al Centro Sperimentale Midreshet Ben Gurion. Se ci sarà il tempo, passeggiata a piedi a Ein Avdat (riserva naturale del deserto del Neghev). Cena e pernottamento al kibbutz Mashabim.


28 febbr. giovedì: visita a Mizpè Ramon, il cratere di 40 km per 10 km. Visita ad una base militare. Visita al kibbutz Neot Smadar (esempio di sfruttamento del deserto e di energia solare). Per arrivare ad Eilat, si prenderà la strada del confine con l’Egitto, arrivando quindi da nord. Cena e pernottamento ad Eilat, all’ albergo Prima Music ad un passo dal mare .


29 febbr. venerdì: escursione facoltativa a Petra. Per gli altri, visita alle miniere di re Salomone e giornata di relax ad Eilat .Cena e pernottamento in albergo.

1 marzo sabato: partenza da Eilat verso le 10 con il pullman. Strada costiera verso Tel Aviv. Arrivati al nostro albergo di Tel Aviv, ci sarà un incontro con Yosh Amishav “Impressioni, dubbi e curiosità alla fine della nostra avventura israeliana”. Cena e pernottamento a Tel Aviv.

2 marzo domenica: partenza per l’Italia con volo ELAL dall' aereoporto Ben Gurion di Tel Aviv alle ore 6,05. Arrivo a Roma Fiumicino alle ore 9.

il diario di viaggio di Luisa

Neghev - Masada - Palazzo di Erode



Un viaggio di tante emozioni - Trieste, 4 marzo 2008

Lo guardo con un pizzico d’orgoglio il bel foglio-cartoncino con la sua menorah circondata dalle foglie di olivo, simbolo dello Stato di Israele, la sua decorata intestazione piena di immagini, che sfumano l’una nell’altra, di monumenti o paesaggi caratteristici del Paese e l’elegante scritta in armonioso corsivo: offerto in segno di Riconoscimento a me, nome e cognome, per essere venuta in Israele per la prima volta e, per questo, nominata Ambasciatore Dell’Amicizia Verso Israele.
Sì, certamente, lo sono sempre stata entusiasta di questo popolo cui mi legano profondi richiami familiari, che determinano questo mio senso di appartenenza, ma era un legame dello spirito e della immaginazione, ora è diverso; ora ho visto e so: Israele è un Paese eccezionale che concretamente opera, secondo la splendida prospettiva espressa da Ben Gurion con paradossale e insieme incontestabile evidenza: “Chi non crede nei miracoli non è realista”. Lo poteva ben dire lui, un ebreo, in questo Stato, che Egli aveva contribuito, con una testardaggine pari soltanto alla sua tenacia, a fondare, che, anche solo limitandosi all’osservazione del kibbutz Sde Boker, in cui egli risiedeva, può proprio apparire una realtà miracolosa: fiori, aiuole erbose, alberi da frutta, palmeti rigogliosi, persino acqua gorgogliante di fontana e tutto ciò in mezzo ad una sconfinata landa completamente glabra, una distesa di sassi e terriccio di un monotono colore giallognolo, prevalentemente privo di sfumature. E’ la prima stupefacente immagine che Israele mi ha lasciato: un deserto sonnacchioso, che sembra minacciato da tutta quella improvvisa vegetazione, fresca e ben sistemata, che sembra lì da chissà quanto tempo e invece, noi lo sappiamo, è stata sviluppata da pochi anni, risultato di una progressiva seminazione di piante via via sempre più resistenti e meglio radicate e radicabili in quel terreno inizialmente ostile, che viene domato attraverso lo studio della sua natura, partendo dai suggerimenti delle descrizioni bibliche per impiantarvi quelle piante che ivi vengono nominate perché evidentemente allora presenti. Il risultato di queste ricerche e sperimentazioni è che Israele è l’unico paese al mondo in cui il deserto si ritira contro la funesta realtà del suo avanzamento in tutti gli altri luoghi della terra.
Ma non è solo questo imperiosa e grandiosa, oltre imponenti spalti, si fa spazio nella mia mente, circonfusa da quella sfavillante luce mediterranea, che si ammira anche in Sicilia, d’inverno, e qui si riconosce analoga, l’immagine prima di Gerusalemme, che si erge, potente, città di pietra bianca, quella che la caratterizza per l’omogeneità del suo colore e con la quale soltanto si può costruire al suo interno.
Che forte emozione quell’impasto di profili di casamenti moderni, alti, più spesso dal tetto a terrazza che mi danno l’impressione di una città, comunque, orientale e, subito, misteriosa e seduttiva, anche per l’alternarsi di cupole, minareti, arcate a tondo e ogivali, torri e campanili. Attorno a quelle superbe mura, ho visto, per influsso della mia univoca cultura occidentale, le fluttuanti bandiere, le lance e gli archibugi, le corazze e gli elmi, nella enfatica e trionfante descrizione delle armate crociate che il Tasso ci trasmette:”…con raggi assai ferventi e in alto sorge, ecco apparir Gerusalem si vede, ecco additar Gerusalem si scorge, ecco da mille voci unitamente Gerusalemme salutar si sente …” (G.L.,III,3).
Reazione impulsiva, dettata da sedimentate immaginazioni, che si riveleranno subito inesatte, già nella passeggiata della prima sera, quando, ancora incredula di essere in quel luogo prestigioso, scoprivo grandi e trafficate arterie e viali metropolitani, circondati da palazzi e grattacieli, sedi di Istituzioni Statali o Finanziarie o Scientifiche, dall’architettura avveniristica e da grande capitale moderna, ma mi riservava immediato stupore, quando mi infilavo in un illuminato e affollato slargo che andava declinando in una via, letteralmente contrappuntata di negozi, bar, locali di indefinibile natura, vivacissimi, colorati, con arredi talora rutilanti talora piuttosto polverosi e scalcinati, con vetrine splendenti o assolutamente scure e disordinate, con ogni tipo di merci, da pregiati gioielli a paccottiglia globalizzata come portachiavi con insegne sportive o...addirittura di ispirazione religiosa, sia ebraica che cristiana. Ero capitata nella via –mercato Ben Yehuda, il grande linguista che aveva costruito e fatto adottare l’ebraico nazionale, come il primo collante del nuovo Stato, a dimostrazione, anche espressiva, di una nazione millenaria , che in questa terra trovava le sue radici originarie.
Si verificano qui sensazioni estremamente fluttuanti nel tempo e nello spazio: i tuoi occhi non hanno ancora cessato di ammirare il luccichio dorato di una cupola di cappella o di moschea o lo svettare di un minareto che lo sguardo deve sostare e ammirare la sobria eleganza di una sfilata di colonne che appartenevano al cardo costruito dai Bizantini , non seguendo quello voluto da Adriano, quando ordinò la sua nuova Gerusalemme, cambiandole addirittura nome, a modello del suo prenome, Aelia Capitolina. Ma già deve volgersi all’incredibile sfilata di fogge d’abiti e di copricapo che ti fanno sentire nel pieno di un antico schtetl oppure, per gli svolazzi chiari di tessuti di cotone, ti fanno pensare ad un accampamento arabo. Vieni affascinato dalla concentrata lettura di un libro sacro da parte di un uomo, appoggiato all’antico muro di bianca pietra, in tunica e calzoni bianchi, coperti da un pesante cappotto nero così come nero, a larga tesa, è il cappello posto sulla cima del capo. ai lati del quale sfuggono tutti arricciolati due vigorosi peots. E le donne, con il capo avvolto da fazzoletti o da cappelli di fogge antiquate, o portano pesanti e lunghe gonne su gambe pesantemente calzate, che arretrano dal Santo Muro, con lento e rispettoso passo, nello striminzito settore loro riservato al Cotel, il muro del pianto, occupato in tutta la sua restante ampiezza, da uomini che , dopo l’abluzione rituale delle mani, si accostano a quel mistico simbolo, con un libro sacro in mano, oscillando in movimento ripetitivo, sprofondati in assorta preghiera.
Però si è sbalzati, ma non strappati, da questi legami al passato, che non viene dimenticato, anzi, si intreccia e permea, seppur come spinta e stimolo al procedere, in un futuro altamente significativo, quando ci si trova di fronte al monumentale edificio della Corte Suprema, opera dei due architetti, Ram Carmi e Ada Carmi Melamed. Sin dalla prima soglia, entriamo in un corridoio in cui sono affrontate due pareti, l’una di pietra bianca di Gerusalemme, simbolo del passato, l’altra, di un bianco smagliante, simbolo di un futuro ancora da realizzare. Ma anche l’alternarsi continuo, armonioso e sapiente di linee curve che si intersecano a linee rette, è una allegoria su come le leggi devono essere rette e i giudizi adeguati e attenti alle circostanze dei fatti, e l’abbagliante luce, che allude alla rettitudine e all’ampiezza di visione di chi giudica, che entra da splendide vetrate, da cui si ha una visione a 360 gradi del verde, folto e ricco, del parco, prodigiosamente tutto nato grazie all’irrigazione a goccia, su terreno desertico, con un intero settore fiorito di rose provenienti da tutto il mondo. Il vasto ambiente di accesso alle aule delle varie Corti di giudizio risponde anch’esso a precisi criteri ispiratori di pensieri di accoglienza di chiunque faccia ricorso ai vari tribunali, anzi, le aule sono concepite come ambienti di strutture architettoniche tali da richiamare i rispettivi luoghi sacri delle tre religioni del Libro, per mettere a proprio agio ebrei, cristiani, musulmani.
In questa severa impostazione altamente simbolica si inquadra il grande Museo della Shoah, lo Yad Vashem. Non può essere descritta la tremenda impressione che si prova ad iniziare a procedere per una sorta di strada leggermente in discesa, che si va restringendo man mano si avanza, mentre i tuoi occhi sono attratti e inorriditi alle immagini di tutte quelle persone, martoriate nei corpi, estenuate nelle anime , con degli occhi profondi e dolenti, che pongono una costante, sommessa domanda: perché? O essa è, piuttosto, dentro di te, che ti senti coinvolto e colpito da quell’ immenso dolore. Là, raggiungi l’annichilimento, nella Sala cilindrica dell’Archivio, tutta circondata da mensole su cui sono allineati, tutti uguali e gonfi di carte ingiallite, i dossier, con i documenti di tutte quelle vite a cui corrispondono le centinaia e centinaia di foto di uomini donne vecchi bambini che ti guardano dalla volta di una cupola interna, sovrastante una vasca piena d’acqua, nella quale quei volti si specchiano, moltiplicandosi all’infinito, per dirci che sono a noi uniti in una solidale catena. Proprio come le fiammelle che si immillano nelle tenebre profonde, che pur ne vengono squarciate, nel Memoriale dei Bambini, per ricordarli, ancora e sempre, nei loro nomi, nelle loro brevi vite spezzate.
In questo sorprendente Paese è straordinariamente facile entrare e uscire nella Storia perciò si può essere partecipi delle sofferenze novecentesche senza sentire lontana la tenace resistenza dei ribelli Zeloti, che, asserragliati nella rocca di Masnada, nel 73 d.C., hanno preferito rinunciare alla vita, dopo una strenua resistenza durata, oltre ogni attesa, per tre anni, all’assedio di ben 10.000 soldati romani, disseminati negli otto accampamenti di accerchiamento. Una poderosa rampa da essi costruita nell’unico passaggio, indifendibile dall’interno della fortezza, ha consentito la presa della rocca ma non dei suoi difensori che si suicidarono, lasciando intatte le riserve di cibo per dimostrare che non per fame erano morti, ma per un superiore amore per la libertà. Ancora oggi, le reclute dell’esercito israeliano, in loro ricordo, giurano al grido: Masada non cadrà una seconda volta!
Ma ci attendono continue altre sorprendenti scoperte di luoghi come Bet a lam, la Betlemme del Bambin Gesù, in cui una stella d’argento, affondata nella grotta sotto la Chiesa della Natività , vorrebbe segnare il punto dove avvenne quella nascita portentosa. Nell’ampio e monumentale interno dell’ antico edificio , costruito da Costantino, per volontà della madre Elena, poi riedificato da Giustiniano, e ornato dai Crociati con mosaici, ancora parzialmente conservati, si entra per la bizzarra Porta dell’Umiltà, abbassata in periodo ottomano per non farci entrare i cavalli, che costringe i visitatori a piegarsi a 90° per entrare. Qui siamo in terra sotto amministrazione dell’Autonomia Palestinese dove, seppure sono evidenti gli sforzi di qualche miglioramento, c’è una palpabile diversità di condizioni di vita, molto più povera e arretrata rispetto a quella che appare a pochi chilometri di distanza, nella grande progredita moderna Gerusalemme.
Ma ancor più straordinari e certamente quasi incredibili mi appariranno la vita, l’ambiente naturale, la fauna, la flora, l’organizzazione sociale che scoprirò quando conoscerò i kibbutz di Mashabim, di Neot Semadar o di Sde Boker, quello in cui è vissuto il personaggio che mi ha più profondamente entusiasmata, il fondatore dello Stato di Israele, quel Ben Gurion che, con voce vibrante anche se trattenuta, ha annunciato al trepidante popolo degli ebrei la nascita dello Stato d’Israele e ha fatto rivivere anche a noi, visitatori a 60 anni di distanza di quella Sala dell’Indipendenza di Tel Aviv, quella intensa emozione, attraverso la registrazione radiofonica. Conosceva 9 lingue, che aveva imparato per leggere in originale libri di narrativa o testi tecnici, perché non si fidava delle traduzioni! Il suo spirito deve molto compiacersi nel poter ammirare quanto è stato realizzato dai suoi conterranei: quei pendii verdeggianti di erba, alberi, cespugli, zone fiorite o coltivazioni sterminate di frutteti o vigneti o agrumeti o solchi protetti da coperture per far crescere in condizioni protette primizie di ogni genere in ordinatissime serre. Un impegno di lavoro in continua sperimentazione e con risultati sempre migliori, che si decide insieme, in riunioni comuni, nel più autentico spirito del kibbutz, come ci spiega il preciso ed entusiasta responsabile del rinnovato complesso di Neot Semadar, di cui ci mostra il Centro di Aggregazione, appena inaugurato, una specie di palazzo delle meraviglie, di un favolistico color rosa, ornato di stucchi e volute, e dotato di un complesso sistema di areazione e refrigerazione, che sfrutta l’aspirazione dell’aria calda esterna, ne sottrae l’umidità facendola passare per una sorta di camino, e la diffonde nei vari locali, rinfrescandoli.
E attorno a queste frondose zone, si scorge un paesaggio accidentato di corrugamenti sassosi e totalmente brulli, solcati da una bianca e tortuosa strada assai poco trafficata da veicoli motorizzati, ma non disdegnati da gruppi non sparuti di notevoli esemplari di…stambecchi, dalle inconfondibili corna arcuate e puntute, un’altra bizzarria di questi luoghi. Attraversiamo il deserto del Negev, che si estende per i 2/3 dello Stato d’Israele e che, dico io, se questi indomiti coltivatori di terreni impossibili potessero applicare i loro ingegnosi sistemi di desalinizzazione della terra, anche con lavaggi degli strati sotterranei per ridurne la salinità, credo che, nel giro di una trentina d’anni, riuscirebbero a rendere produttiva anche questa desolazione.
Ma temo che non sarà così, purtroppo. Il terrorismo esercitato attraverso i fanatici suicidi, che si fanno esplodere nei punti più esposti anche perché tanto frequentati, e colpiscono la popolazione inerme, riescono nel loro duplice intento, la destabilizzazione di ogni tentativo di instaurare la pace e la diffusione dell’odio e dell’intolleranza dell’altro, condizione forse ancora più perniciosa perché sprofondata nel tessuto più interno della società, quindi quasi inestirpabile, tanto è profondamente radicato.
Quando si arriva all’estremo punto meridionale, sulla riva che dà sul Mar Rosso, ci troviamo in un punto in cui si affacciano 4 Paesi: Egitto, Arabia Saudita, Giordania ed Israele e, se si arriva di sera, si ammira una sfavillante sequenza di luci di due città che stanno affrontate e appartengono a due Paesi diversi, ma quasi si toccano, la giordana Aqaba e l’israeliana Eilat, accomunate dai fondali corallini del Mar Rosso, di un intenso blu e di cristallina limpidezza, con una flora sommersa e una fauna ittica dai rutilanti colori vivacissimi e fantasmagoriche forme. Qui, se si naviga con la barca dal fondo trasparente, da cui si può ammirare lo spettacolo dei vari fondali, sembra distantissimo e irreale lo scontrarsi degli uomini; qui tutto sembra radioso e sereno, inattaccabile da qualsiasi perturbazione.
Con queste luci azzurrine ed il movimento sinuoso e fluttuante degli innumerevoli colonie di pesci e le seducenti concrezioni di specie coralline dai nomi favolosi come le alcionarie, le acropore, i delicati ventagli di mare, mi piace concludere questo mio itinerario con l’auspicio di poter essere immersi in un mondo di bellezza e di poter godere, in pace, dei tanti doni di queste terre, cui auguro, con tutto il cuore, il mio beneauspicante Shalom!

Luisa