sabato 27 marzo 2010


Una Notte di Pasqua in Georgia

(Storia tramandataci dai primi coloni ebrei in America)
La famiglia del vecchio Manuel da Garcia fu molto felice quando arrivò finalmente in Georgia. Essi avevano comperato da un’agenzia di New Amsterdam, una magnifica tenuta pagata con gli ultimi gioielli, unico bene rimasto loro da Oporto, in Portogallo, da dove erano partiti per sfuggire all'lnquisizione.II loro viaggio attraverso l'oceano non era stato privo di avventure. Dopo poche ore, che erano sulla nave su cui erano saliti in segreto e che doveva portarli alle rive ospitali del continente americano, la nave fu catturata da pirati che portarono via tutti i valori che fu loro possibile afferrare e fuggirono in fretta quando fu avvistata all'orizzonte una goletta armata britannica. I gioielli che erano stati cuciti nel orlo delle gonne delle donne erano stati salvati. Fu veramente una gran fortuna per i Garcia poter arrivare in America con una discreta quantità di pietre preziose. La metà di queste servì per pagare ai governatore olandese il permesso di sbarcare a New Amsterdam ed il resto fu più che sufficiente per l'acquisto della tenuta in Georgia.E così, la famiglia neo-americana si stabili nella sua nuova casa. La famiglia era composta dai due fratelli Manuel e Noè Garcia, dalle loro mogli Donna Marina e Donna Debora, e dai loro figli.Essi speravano di costruire in America le loro nuove case e la loro nuova vita, in libertà, lontani dalle minacce dell'Inquisizione.Tutti davano loro una mano nel lavoro che si doveva fare: costruire una casa, seminare i campi, recintare il giardino e tante altre faccende. Avevano assunto degli aiutanti ma anche essi stessi lavoravano sodo e per la prima volta in tanti anni, essi si coricavano alla sera stanchi ma felici con un senso di sicurezza che né loro, né i loro avi avevano provato da tempo immemorabile.Una cosa sola disturbava il vecchio Manuel ed i suoi fratelli. A loro, come ai figli ormai grandi, mancava un Minian*, e l'ebreo più vicino a loro, che essi conoscessero, era un medico da Salamanca che si era stabilito a Savannah a vari giorni di strada dalla loro tenuta.I Garcia spedirono una lettera all’illustre rabbino David Seixas a New Amsterdam, chiedendogli di inviare loro tutti i giovani che fossero disposti a vivere con loro, istruire i loro figli, e anche aiutarli nel lavoro della fattoria. Vi era ad attenderli, una buona case ebraica e si sarebbe provveduto a tutti i loro bisogni.Alcune settimane dopo giunse una lettera dal rabbino Seixas. Egli faceva presente che diversi Ebrei arrivati dall'Olanda si trovavano a mal partito perché non avevano denaro per sbarcare o comunque provvedere ai loro bisogni. Se i Garcia disponevano di mezzi per ospitarli, aggiungeva il rabbino Seixas, essi avrebbero fatto un'opera buona verso se stessi e verso i rifugiati.Manuel Garcia rispose immediatamente che egli sarebbe stato felice di accogliere nella sue case quei rifugiati, e provvide per il loro trasferimento in Georgia. Ora, vi era una piccola colonia ebraica in Georgia, che essi chiamarono Salem, vale a dire Shalom — Pace, giacché questa era la cosa più desiderata da loro, pace per vivere e lavorare e servire D-o da buoni ebrei e americani leali.Era ormai prossima la grande, meravigliosa Festa di Pasqua. Mai più sarebbero stati costretti a celebrare il Seder in una cantina col pericolo mortale di essere scoperti dagli agenti segreti dell'Inquisizione. Che meraviglia poter celebrare la Pasqua apertamente in assoluta libertà e sicurezza! Tutti erano in grande orgasmo e più di tutti i bambini per i quali questa doveva essere la prima grande esperienza della loro vita.Con l'aiuto dei dirigenti della comunità ebraica più vicina, Mikveh Israel di Savannah, essi si procurarono della farina Shemurah che era stata appositamente messa da parte per le Mazzoth e le fecero cuocere con ogni cure. Erbe amare, ve ne erano finché ne volevano nel loro orto ed essi disponevano anche di un'ampia provvista di cibi kasher per Pesach.Le donne erano molto brave nel fare il vino dall'uva delle loro viti, vino che veniva imbottigliato, sigillato e messo via per Pesach. Fortunatamente la colonia aveva il suo proprio Shochet** — uno degli ultimi arrivati dall'Olanda — e ciò permetteva di aver carne e pollame kasher. In breve, tutto sembrava perfetto e la felicita di qui naturalmente godeva. Nulla faceva sospettare che avrebbero avuto ancora dei pericoli da passare.Pochi giorni prima di Pesach alcuni contadini della tenuta davano evidenti segni di spavento e sospetto ed il vecchio Manuel non sapeva spiegarne il motivo. Pensò di essere stato ingannato dalla sua immaginazione, ma la sua immaginazione non aveva alcuna colpa: a sua insaputa, un uomo malvagio si era messo a spargere tra i contadini ed i servi, delle ignobili menzogne sulla Pasqua degli Ebrei.Big Jim, uno dei loro vicini, possedeva una piantagione, molto meno prospera di quella dei Garcia ed era un uomo crudele che trattava spietatamente i suoi contadini ed i servi a cui non lesinava le frustate.Questi lo ricambiavano scansando il lavoro o eseguendolo con pigrizia e negligenza, e questo spiegava perché la sua piantagione rendesse assai meno di quella dei Garcia che invece trattavano i loro dipendenti con riguardo e bontà. Ma quello sciocco Jim pensò che se egli avesse potuto portare via questi lavoratori che erano così bravi, sarebbe iniziata per la sua piantagione un'era feconda, e con questo proposito studiò il modo di allontanarli da Manuel per poi assumerli al suo servizio. Per attuare il suo vile piano, aveva fatto spargere la voce che alcuni aiutanti degli ebrei spagnoli sarebbero morti prima della fine della settimana, giacché nessun ebreo può celebrare la sua Pasqua se prima, non ha fatto scorrere del sangue umano!
Quell'atroce voce si propagò rapidamente tra i servi ed i coloni di colore e tutti vi prestarono fede. E, come a conferma degli orribili sospetti, ad un vecchio mulatto della piantagione dei Garcia vennero dei violentissimi crampi proprio alla vigilià di Pasqua. In un attimo, tutti gli altri lavoratori erano scappati inorriditi per rifugiarsi nelle tenute vicine e dappertutto raccontavano le più balorde storie sui preparativi degli ebrei per la loro Pasqua.Preoccupati, ma per nulla spaventati, perché non si rendevano conto del gran pericolo che li minacciava, i membri della famiglia Garcia ed i loro amici ebrei si misero a tavola per celebrare il Seder.II vecchio Manuel stava per alzare la coppa di vino prima di recitare il Kiddush quando giunsero alle loro orecchie dei rumori allarmanti frammisti a grida selvagge, sempre più alte e più vicine.« Conservate la calma, miei cari », si affrettò di raccomandare il vecchio Manuel, “D-o ci ha aiutati altre volte e ci aiuterà ancora”. Disse a tutti di rimanere seduti mentre usciva per andareincontro alla folla tumulante e dette anche l’ordine di chiudere e sprangare le porte.Una numerosa folla circondava ormai il cancello; molti portavano delle force e urlavano: «Uccidete gli assassini! Impiccateli prima che ci uccidano tutti!». La voce di un gigante olivastro superava tutte le altre. Manuel sapeva che questi era Big Jim, il bruto, temuto nel l'intera regione per la sue inosservanza delle leggi ed il modo disumano col quale trattava i suoi schiavi. Non vi era che una fragile siepe per dividere la folla dal terreno che circondava la case. « Amici e vicini » gridò Manuel dalla soglia, « Vi prego di ascoltare la voce della ragione. Non abbiamo fatto nulla di male e nessun torso a nessuno. Siamo felici di essere qui, di vivere e lavorare in pace in questo paese della libertà. Non date retta alle menzogne che avete sentite sul nostro conto. La malattia del nostro servo non dipende minimamente da noi e dalla nostra festa ». Ma la sue voce si perdeva tra le grida e gli urli della folla. Molti abbattevano la siepe e si facevano avanti, con Big Jim alla loro testa che agitava minacciosamente la sue torcia, pronto a lanciarla nel l'interno della case per appiccare il fuoco."O D-o!" pregava Manuel in silenzio, poiché sembrava che non ci fosse più nessuna possibilità di salvezza.In quel momento risuonò nella notte un alto squillo di trombe, ed un attimo dopo un gruppo di militari a cavallo attraversava la folla « Fate largo al Governatore! », urlava il comandante del reparto.La folla fece silenzio, indietreggiando, mentre la dignitosa figura del Governatore sul suo cavallo di razza, si fermava davanti alla soglia della case e voltandosi, affrontava la folla.II Governatore James Edward Oglethorpe era bene informato delle persecuzioni di cui erano oggetto gli ebrei in Europa. Egli non avrebbe permesso che odio e sentimenti disumani prendessero piede in America.«Da quando noi uomini liberi nella libera colonia di Georgia, perseguitiamo degli esseri umani perché essi praticano la ]oro fede? Gettate i vostri bastoni e tornate a case. Questi ebrei sono amici nostri; sono persone oneste che lavorano duramente!»."Essi hanno avvelenato oggi uno dei nostri lavoratori per la loro Festa di Pasqua", proclamò Big Jim in tono provocante."Questo è una menzogna!" tuonò il Governatore « e che nessuno si permetta mai più di ripeterla! Chiunque abbia propagato questa bugia me ne dovrà rispondere! Dov'è l'ammalato? ».II vecchio mulatto si fece avanti tutto tremante. « Fu Big Jim che me lo fece fare. Egli ha minacciato di ucciclere mio fratello che lavora per lui. Avevo paura di lui... ».Si levò un mormorio e v i fu confusione tra la folla; tutti si voltavano per guardare Big Jim, ma egli non era più lì. Era sgusciato via inghiottito dal buio della notte.II Governatore si scusò col vecchio Manuel per il disturbo e lo spavento che erano stati arrecati così crudelmente, a lui ed ai suoi correligionari.« Mio buon uomo », disse James Edward Oglethorpe, che si era acquistato l'affetto ed il rispetto della intera colonia per il suo senso di giustizia e rettitudine verve tutti.« Non dovete convincermi della bellezza e purezza della vostra fede, la Divina Provvidenza ha giudicato opportuno di farmi passare vicino alla vostra tenuta nel momento opportuno per evitare una terribile catastrofe che avrebbe macchiato per sempre la buona reputazione del nostro paese libero. Spero che non avrete mai più una esperienza simile. Buona notte, e passate una Festa felice e pacifica in mezzo ai vostri amici ».II Governatore disse questo chiaramente ad alta voce, di fronte alla folla, sicchè nessuno ebbe più alcun dubbio sull'inganno perpetrato da Big Jim nel suo cieco odio. Con la vergogna dipinta sul viso essi si dispersero, ben decisi a riparare il torso fatto ed a compensare con una maggiore amicizia l'ansietà di cui erano stati la causa.Con umiltà e gratitudine verso "Il Guardiano di Israele che non sonnecchia nè dorme" la piccola colonia ebraica celebrò il Seder fino a notte inoltrata.Tratto da: Conversazioni con I Giovani , http://www.chabad.org/
*Minian (ebraico: מניין), è il quorum di dieci ebrei per la preghiera pubblica ebraica
**shochet (macellatore rituale),


Verso Pesach - Come si svolge il Seder

Il rav Alberto Moshe Somekh ha raccolto norme, regole, tradizioni e riflessioni sulla festività di Pessach in un articolo di cui proponiamo un estratto.Il Seder (Leylè Pessach; lett. “ordine [delle sere di Pessach]”) costituisce l’insieme di atti e letture seguito nelle case ebraiche la prima (fuori d’Israele anche la seconda) sera di Pessach. Gli scopi del Seder sono essenzialmente due: ricordare la liberazione dalla schiavitù egiziana e trasmetterne il messaggio alle nuove generazioni, destando particolarmente l’attenzione dei bambini. Finché il Bet ha-Miqdash (Tempio di Gerusalemme) è esistito, l’atto principale consisteva nell’offerta e nella consumazione del Qorban Pessach (Sacrificio Pasquale, consistente in un agnello arrostito allo spiedo) insieme alla Matzah (pane azzimo) e al Maròr (erba amara), cui prendeva parte tutta la famiglia, secondo la prescrizione della Torah (Shemot 12). Dopo la distruzione del Tempio non è più stato possibile compiere il sacrificio.La bibliografia in proposito è vastissima. Scopo del presente scritto è illustrare al pubblico italiano le principali Halakhot del Seder. Ci soffermeremo dunque prevalentemente sulla parte normativa, riportando riflessioni sul significato dei vari atti solo per quanto attiene alla Halakhah da seguire.................................. Preparazione dei cibi e accensione dei lumi nei giorni festivi Di Shabbat, a differenza dei giorni di Yom Tov (festa solenne), è proibito trasportare oggetti, accendere il fuoco in qualsiasi modo e cucinare. Durante il 1°, 2°, 7° e 8° giorno di Pessach (sempre che non cadano di Shabbat), invece, è permesso trasportare oggetti fuori casa, cucinare ed accendere il gas a questo scopo, purché da una fiamma già accesa da prima della festa. E’ però proibito spegnere il gas dopo averlo acceso. I fornelli elettrici possono essere usati solo se tenuti accesi anch’essi da prima dell’inizio della festa, ma ciò è sconsigliabile.Nei giorni di Yom Tov si può cucinare e preparare solo per il giorno stesso (ma non per l’indomani; per giorno stesso si intende dal tramonto all’uscita delle prime tre stelle la sera successiva: in tutto circa 25 ore). Perciò i cibi per il secondo Seder debbono essere stati cucinati dalla vigilia o scaldati dopo lo spuntare delle stelle della seconda sera: anche la tavola per la cena va apparecchiata dopo quest’ora o tramite non ebrei. Così pure la hadlaqat neròt (accensione dei lumi festivi) la seconda sera va eseguita con una fiamma già accesa da prima della festa.Se non è Venerdì Sera, si accende il fiammifero e si recita la Berakhah relativa prima di portare la fiamma ai lumi, in quanto se anche dicessimo che la Berakhah costituisce accettazione di Yom Tov, accendere un lume da un lume già acceso rimane permesso. E’ perciò preferibile attenersi alla regola generale di recitare la Berakhah su una Mitzwah prima di compiere l’atto cui si riferisce (‘ovèr la-‘asiyatan). Occorre porre attenzione a non spegnere il fiammifero dopo l’uso: lo si appoggerà lasciando che si spenga da solo. Alcune usano aggiungere la Berakhah She-he-cheyyanu. […]Alberto Moshe Somekh, rabbino capo di Torino, http://www.moked.it/
La festività di Pesach (o ancora Pasqua Ebraica) cade quest'anno 2010 (5770 nel calendario ebraico) dal 30 marzo al 6 aprile.


Campo di prigionia inglese di Atlit

Israeliani insoddisfatti del governo Netanyahu

Tel Aviv, 26 mar -Cresce fra gli israeliani la delusione e la sfiducia nel premier Netanyahu. Questo il risultato di un sondaggio pubblicato dal quotidiano Haaretz. Il sondaggio era stato condotto all'inizio della settimana scorsa, quindi prima del discusso colloquio fra il premier e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Ecco i risultati in dettaglio: il 51 per cento degli israeliani non sono soddisfatti di Netanyahu, mentre il 41 per cento mantengono un parere favorevole. Haaretz nota che - probabilmente per considerazioni di politica interna - in una sola settimana la percentuale degli scontenti è cresciuta del 7 per cento. Il personaggio pubblico più popolare di Israele in questo momento è il capo dello stato Shimon Peres, che gode della approvazione del 78 per cento degli intervistati. E' seguito in ordine di popolarità da due personaggi non propriamente politici: il capo di stato maggiore generale Gaby Ashkenazi e dal governatore della Banca di Israele Stanley Fischer, entrambi sostenuti dai favori del 74 per cento degli israeliani.


Rassegna stampa

Come dobbiamo interpretare la crisi che in queste ultime settimane sembra agitare duramente i rapporti tra Israele e Stati Uniti? Il preludio ad una revisione sostanziale delle relazioni privilegiate tra i due paesi, e quindi la rottura di un asse strategico, oppure una tempesta in un bicchiere d’acqua? Con tutta probabilità non si tratta né dell’uno né dell’altro caso. Partiamo dagli articoli di Meron Rapoport su l’Espresso e dell’Osservatore romano per avanzare qualche considerazione. Se l’autore del primo servizio si esprime in toni piuttosto netti, rilevando quante siano le cautele che vanno nutrite nel formulare dei giudizi, ma anche quali possano essere, non di meno, i dubbi, sulla tenuta di saldi legami tra Washington e Gerusalemme, rimane il fatto che è difficile sostenere che si sia all’alba di una nuova era politica. Ben lontani, quindi, dal celebrare un divorzio che invece, maliziosamente, certuni vorrebbero prefigurare come uno dei possibili esiti. Certo, se è vero quello che riporta la Stampa, sia pure a titolo di gossip politico, ossia che Obama avrebbe seccamente interrotto il colloquio con Netanyahu, dicendo di volere andare a cenare con sua moglie Michelle, ciò sarebbe il segno di una frizione abbastanza evidente, quanto meno tra i due uomini. Che non si amino, peraltro, parrebbe a questo punto sufficientemente chiaro. A ciò si aggiungono – e qui si tratta di segnali ben più corposi – l’assenza di comunicati congiunti e la mancata ottemperanza a quelle consuetudini del cerimoniale diplomatico (foto, conferenze stampa e così via) che corredano gli incontri andati a buon fine. Piccoli segni di un qualcosa di ben più grande e quindi preoccupante? Chi conosce la storia diplomatica sa quante siano state, anche in un passato recente, le frizioni tra le due capitali. Solo una lettura superficiale e apologetica può indurre a ritenere che la «special relationship» sia stata priva di tensioni. Peraltro essa data agli anni Settanta, ed è stata comunque sempre il risultato della difficile dialettica tra la Presidenza, propendente per una maggiore simpatia verso lo Stato ebraico, e il Dipartimento di Stato, che ha spesso fatto da freno in tal senso. La novità, semmai, è data dal fatto che adesso, a manifestare le maggiori cautele sia, anche se per voce altrui, lo stesso Barack Obama, e non altri segmenti dell’Amministrazione. Il timore che si riconnette a questo stato delle cose è che tale atteggiamento possa preludere ad una netta attenuazione dei rapporti, sacrificati in omaggio all’intenzione (scarsamente corrisposta dalle controparti) di stabilire legami più intensi con il mondo musulmano. Al momento, va tuttavia riconosciuto, al di là di alcune prese di posizione, nulla nei fatti è successo. Obama non ha mutato nella sostanza l’indirizzo della politica americana in Medio Oriente né parrebbe poterlo fare, quanto meno in tempi brevi. Quello che si è consumato, come sottolinea Leslie H. Gelb, intervistato da Antonio Carlucci sempre per l’Espresso, è che la frizione è tutta diplomatica e gli Stati Uniti non intendono lasciare passare un comportamento che è stato inteso come irriguardoso nei confronti delle loro prerogative negoziali. Lucio Caracciolo, sulla medesima testata, usa toni meno sfumati, indicando nella politica verso Gerusalemme, e nella questione della sua evoluzione urbana e demografica, un vero e proprio punto di collassamento rispetto ad un processo negoziale che è assai improbabile che, a queste condizioni, possa ripartire. Fiamma Nirenstein, su il Giornale, è invece di diverso avviso, ritenendo che gli eventi che si sono consumati in questi giorni corrispondano ad un copione già visto, scontato e mediocre, dove all’ostilità dei (molti) soliti si aggiunge una politica, quella dell’Amministrazione americana, pencolante e a dir poco incerta, senza un traguardo nel mentre mette a rischio una solida partnership con Gerusalemme. Sul versante israeliano Eric Salerno, per il Messaggero, avanza alcune riflessioni nel merito dei riflessi che il viaggio di Netanyahu in America, svoltosi sotto l’egida di una fredda reciprocità tra gli interlocutori, potrebbe avere di qui alle settimane e ai mesi a venire. Se è inopportuno affermare che si sia ad un braccio di ferro tra gli Stati Uniti ed Israele, come invece lascia intendere Umberto De Giovannangeli su l’Unità, è invece assai più plausibile dire che si è a un secco confronto politico tra i governi dei due Stati. Il primo Ministro israeliano non piace a Washington, che evidentemente caldeggia, dietro le quinte, un mutamento degli equilibri interni a Gerusalemme, auspicando un ritorno sulla scena di Kadima, il partito dei moderati, come sottolinea Maurizio Piccirilli su il Tempo. Sullo sfondo di questa non facile crisi c’è l’involuzione – l’ennesima – che si registra a Gaza dove, come scrive Sergio Romano su Panorama, la concorrenza estremista ad Hamas, portata avanti dai gruppi salafiti, si sta facendo intensa e lascia prefigurare un futuro prossimo di tensioni, derivanti dalla prevedibile stagione, in divenire, di lotte intestine. Claudio Vercelli, http://www.moked.it/


Watermarks, la rivincita delle nuotatrici dell'Hakoah Vienna

Watermarks (Hakoah Lishot), 'la forza di nuotare' di Yaron Zilberman, regista approdato al cinema dal mondo del High Tech, è un interessante documentario di 90 minuti inserito, fra le pellicole selezionate per il Kolno'a Film Festival, la cui edizione veneziana si è appena conclusa. Il documentario racconta la storia delle campionesse di nuoto appartenenti al leggendario club sportivo ebraico, Hakoah Vienna. Il club Hakoah, venne fondato nel 1909 in risposta al famoso paragrafo ariano, che proibiva ai club sportivi austriaci di accettare atleti ebrei. Fino a quel momento, lo sport non aveva mai avuto un ruolo centrale nella comunità ebraica austriaca, che aveva invece prodotto una generazione di intellettuali e artisti riconosciuti a livello mondiale, come Freud e Mahler.Negli anni venti il club vinse il campionato austriaco di calcio e fu anche la prima squadra europea capace di battere una formazione inglese sul proprio terreno. In breve tempo grazie ai suoi 3 mila membri attivi, divenne uno dei più grandi club d’atletica in Europa. Ma fu soprattutto nei primi anni trenta che l’Hakoah raggiunse una fama internazionale grazie a una generazione di nuotatrici capaci di battere ogni record a livello nazionale. Nel 1936, in occasione delle Olimpiadi di Berlino, tre di loro furono chiamate a rappresentare l’Austria, fra queste Judith Haspel insignita quell’anno con la medaglia d’onore come una delle tre migliori atlete austriache. Judith insieme alle due compagnie decise di non competere: “Mi rifiuto – disse – di partecipare ad una competizione in un paese che perseguita in modo così vergognoso la mia gente”. Un gesto di dissenso che le costò tutto. Il suo rifiuto spinse infatti la federazione a squalificarla da ogni futura competizione e a cancellare tutti i suoi record.Dopo l’Anschluss, l'annessione dell'Austria alla Germania nazista nel 1938, i nazisti fecero chiudere il club sportivo. Con l’aiuto di alcuni amministratori di Hakoah, le nuotatrici riuscirono però fortunosamente a fuggire dalla città verso paesi più ospitali come Israele, Inghilterra, Stati Uniti e Russia. Il regista Yaron Zilberman, dopo 65 anni volle incontrare i membri ancora in vita della squadra di nuoto femminile, ormai sparsi in giro per il mondo: Trude Platcek Hirschler, Elisheva Schmidt Susz, rinomata psicoterapista infantile di Tel Aviv, Hanni Deutsch Lux, Judith Haspel, Greta Stanton, professoressa di sociologia del New Jersey, Ann-Marie Pisker di Londra, Anni Lampl da Los Angeles e Nanne Selinger da New York, che fu l’unica delle nuotatrici a tornare a Vienna per poi andarsene nuovamente quando Kurt Waldheim, venne eletto presidente.Zilberman propose alle nuotatrici, ormai ottantenni, di incontrarsi tutte a Vienna nella loro vecchia piscina d’allenamento. Un viaggio nelle memorie della gioventù, un itinerario emozionale per rinsaldare un legame senza tempo. Commovente il momento che vede il team finalmente riunito indossare nuovamente i costumi da bagno dell’Hakoah Vienna per un’ultima sessione di nuoto proprio nella città che le aveva umiliate e costrette a scappare. Watermarks è un documentario sulla passione di sette eccezionali atlete; sette donne che ancora oggi, a dispetto dell’età, riescono a nuotare con la stessa eleganza di un tempo.Michael Calimani


Izzedin Elzir

Izzedin Elzir, nuovo presidente Ucoii:“Credo nel dialogo e nella reciproca comprensione”

“Vorrei una comunità islamica più coesa e trasparente”. È il grande sogno dell’imam di Firenze Izzedin Elzir, da domenica scorsa nuovo presidente dell’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia (Ucoii). Elzir pronuncia questa frase dal grande valore simbolico nel suo ufficio situato all’interno della piccola moschea (un garage dismesso) di Borgo Allegri. Intorno a lui c’è chi prega con gli occhi fissi sul Corano, chi legge un giornale e chi discute animatamente in arabo. Un’umanità varia e articolata che rende ancora più interessante questo incontro che inizialmente immaginavo in forma privata. A pochi passi dall’ufficio il pittoresco mercatino delle pulci di piazza dei Ciompi brulica di vita e giovani artisti un po’ fricchettoni cercano l’ispirazione sotto la Loggia del Pesce, antico residuo del vecchio ghetto ebraico. Intanto i dodici rintocchi delle campane della chiesa di S. Ambrogio annunciano che è mezzogiorno. Izzedin Elzir è un signore sui quaranta, molto affabile e gentili nei modi. Fisicamente gracilino e basso di statura, ha deciso di assumersi una responsabilità pesante come un macigno. Ride e mi confida: “Guarda, ho giusto finito di parlarne davanti ad un caffè con il mio amico Simcha (il gestore del ristorante kasher distante un tiro di schioppo). Mi aspettano delle giornate molto intense”. Ma il duro lavoro non sembra spaventarlo più di tanto. Racconta, sempre con un sorriso ospitale, quale sarà la sua settimana tipo da presidente: “Tre giorni a Firenze e tre giorni a giro per l’Italia. Il giorno libero spero di poterlo dedicare alla famiglia”. Il programma di Elzir si annuncia parzialmente innovativo. Ecco uno dei punti che ritiene basilare: “Vorrei che il sermone del venerdì venisse recitato non solo in arabo ma anche in italiano. Questo perché nella nostra comunità gli arabi costituiscono una minoranza (circa il 40 per cento) e perché bisogna continuare nel percorso di integrazione intrapreso”. Ma i musulmani si stanno davvero integrando? “Penso di sì, anche se possiamo e dobbiamo fare di più. L’esempio di Firenze, città in cui siamo in ottimi rapporti con le istituzioni politiche, con le altre comunità religiose e con la cittadinanza, deve costituire un modello anche per le altre realtà presenti sul territorio”. Elzir, residente in Italia da oramai 19 anni (è di origine palestinese), ammette senza problemi che il suo percorso è stato più facile di quanto si possa pensare: “Quando mi sono trasferito in questo paese ero un giovane studente di moda. La mia vita è stata meno complicata di quella di molti altri immigrati”. Poi torna a parlare di Ucoii e lancia una stoccata che lascia facilmente intendere quale sarà uno dei suoi obiettivi futuri: “Perché ai musulmani non è permesso stipulare delle Intese con lo Stato? La scusa che siamo una comunità eterogenea non sta in piedi. Anche i cristiani lo sono eppure, con risultati diversi, sono riusciti ad arrivare ad un accordo. I cattolici hanno il Concordato, tutti gli altri le Intese”. Neanche il fatto che ci siano almeno tre organi che si candidano a rappresentare l’Islam italiano è un problema? Elzir rincara la dose: “Gli accordi si fanno con chi si propone. E noi lo faremo sicuramente. Ogni altra considerazione è un ribaltamento della prospettiva attraverso cui affrontare in modo corretto queste dinamiche”. L’imam individua comunque una lacuna strutturale nel mondo islamico italiano, anche se strettamente legata a ragioni anagrafiche. “Siamo una comunità giovane. In alcuni casi dobbiamo ancora farci degli amici tra i vari amministratori locali. Ma con il tempo le cose andranno meglio”. Ritorna sulla questione dell’integrazione e sintetizza in poche parole un concetto che ritiene essenziale: “Bisogna che la gente capisca che siamo cittadini italiani di fede islamica. Dunque concittadini dei nostri amici cristiani ed ebrei. Con pari diritti e con pari doveri”. E sul concetto di cittadinanza comune a prescindere dalla fede religiosa ha insistito tantissimo in questi ultimi anni. Con entusiasmo apparentemente genuino si sofferma perciò sul buon rapporto (quasi di vicinato visto che la sinagoga dista neanche 200 metri in linea d’aria dalla moschea) che ha con la comunità ebraica e commenta: “Le due comunità cercano di costruire insieme ponti di dialogo”. Ma sul conflitto in Medio Oriente il confronto si presenta indubbiamente più difficile: “Noi siamo vicini al popolo palestinese e loro ad Israele. È più saggio occuparsi di quello che succede a Firenze”. Elzir ci tiene a fare una precisazione: “Nel passato sono stato più volte accusato di essere vicino ad Hamas. Non nego una certa affinità su alcune questioni, ma le mie parole sono state strumentalizzate. Ribadisco anche in questa occasione che sono contrario ad ogni forma di terrorismo”. L’argomento è pesante, meglio parlare di dialogo interreligioso. “È un qualcosa in cui credo davvero molto. Non a caso sempre più spesso la comunità islamica fiorentina partecipa ad incontri ed iniziative che cercano di abbattere il muro dell’incomunicabilità reciproca”. Il mandato di presidente dell’Ucoii inizia con gli stessi auspici: “Avremo pur sempre opinioni differenti su molte cose ma vorrei che ci rispettassimo maggiormente l’un con l’altro”.Adam Smulevich, http://www.moked.it/


Sempre più frequenti le segnalazioni sull’uso della parola “ebreo” come insulto razziale tra i giovani nelle scuole. Anni fa, quando l’impatto degli immigrati nelle classi non era ancora così numericamente consistente, si sosteneva che l’afflusso dei diversi avrebbe risolto in maniera “quasi naturale”, se non miracolosa, i problemi legati all’accettazione e al rispetto del diverso. I bambini, considerati erroneamente non portatori di pregiudizi, avrebbero imparato a vivere nella collaborazione e nel rispetto dei nuovi arrivati, perché forti della generosità infantile. Tutto ciò non è avvenuto. Interessanti ricerche condotte in Inghilterra hanno sfatato il mito del buon fanciullo e dimostrato che l’arma più efficace per rendere l’offesa più pesante è proprio l’uso dell’insulto razziale. Nulla di nuovo sotto il sole? Forse è meglio superare rabbia, vittimismo o rassegnazione e affrontare il problema ogni volta che si pone altrimenti corriamo il rischio di renderlo eterno come nella storiella dell’uomo che batteva le mani ogni dieci secondi. Interrogato sul perché del suo strano atteggiamento rispose: “Per scacciare gli elefanti”.“Elefanti? Ma qui non ci sono elefanti!” E lui:”Appunto”.Sonia Brunetti Luzzati,pedagogista, http://www.moked.it/

Sporco ebreo, treno bloccato per insulti razzisti a quattordicenne
Repubblica — 18 dicembre 2008
GENOVA - «Sporco ebreo», «questo treno va ad Auschwitz». Un ragazzino di 14 anni, sul treno regionale Genova-Savona, è stato insultato e aggredito fisicamente da un ragazzo di 17, poi denunciato. Il fatto si è verificato nel tratto tra le stazioni di Sampierdarena e Cornigliano. Alcuni passeggeri, scandalizzati, hanno chiesto l' intervento del capotreno che ha fermato il convoglio nei pressi della stazione di Cornigliano, dopo aver inviato una segnalazione alla centrale operativa delle Ferrovie. I carabinieri, allertati, sono saliti sul treno e hanno identificato il responsabile dell' aggressione. Il fatto è avvenuto martedì pomeriggio poco dopo le 14. Il capotreno è stato costretto ad interrompere la corsa del convoglio e chiedere l' aiuto dei carabinieri. I militari del nucleo radiomobile sono giunti sul treno nella stazione di Pegli, hanno trovato la vittima piangente in un angolo del vagone, spaventata e sotto choc. Chiariti i fatti, il diciassettenne è stato denunciato per interruzione di pubblico servizio, percosse e ingiurie. I carabinieri stanno valutando se chiedere alla procura l' aggravante razziale.

venerdì 26 marzo 2010

Nathan Sharansky
Cari Amici,
Alla vigilia di Pesach mi piace condividere con Voi il messaggio di Auguri di Nathan Sharansky, Presidente Esecutivo dell'Agenzia Ebraica per Israele, il principale partner del Keren Hayesod.La storia della sua vita ripercorre le sofferenze del Popolo Ebraico. Il suo messaggio di speranza e l'ideologia della nostra missione, espressa nel concetto di Tikun Olam, sono condivise da tutti noi cari amici vicini e lontani.Con l'augurio di essere tutti insieme il prossimo anno a Gerusalemme.
Pesach Kasher VeSameach.
Johanna Arbib Perugia Presidente Mondiale del Consiglio del Keren Hayesod


Israele orgogliosa di accogliere la UEFA

Giovedì, 25 marzo 2010, http://it.uefa.com/
Il presidente di Israele, Shimon Peres, il presidente della Federcalcio israeliana, Avraham Luzon, e il presidente della FIFA, Joseph S Blatter, hanno preso la parola in occasione del XXXIV Congresso Ordinario UEFA a Tel Aviv.
Il XXXIV Congresso Ordinario UEFA si è aperto giovedì a Tel Aviv con un discorso del presidente di Israele Shimon Peres, che ha ringraziato la UEFA per la decisione di "riunirsi in Israele per la prima volta", sottolineando l’importanza del calcio nel mondo attuale, in particolare come strumento di pace. "Tutti i campioni del calcio che ho incontrato sono istintivamente messaggeri di pace – ha spiegato -. Il vostro contributo per la pace è a mio giudizio molto significativo”. Peres ha quindi dato il benvenuto in Israele ai delegati delle 53 federazioni affiliate alla UEFA e spiegato perché ritiene lo sport un potente mezzo a servizio del bene. "Il calcio comporta grande impegno. Parliamo di stelle, di giocatori dotati di grande talento. Ma a mio avviso il talento non è un dono, bensì un processo. Per essere bravi calciatori occorre investire ore e ore di allenamento. Il messaggio è chiaro: se davvero si vuole ottenere qualcosa, occorre lavorare e impegnarsi al massimo”. "Il calcio avvicina le persone, senza distinzione di credo politico, origine, razza o religione. È un momento di incontro fra persone dedite a una causa. Il calcio è stato il primo vero tentativo di combattere il razzismo, il primo luogo dove il colore della pelle o la religione o la regione di provenienza non aveva importanza… È il fenomeno più educativo che conosca”. Sul tema dell’educazione ha insistito il presidente della federcalcio israeliana (IFA) Avraham Luzon, il quale si è detto "orgoglioso, emozionato e intimorito di accogliervi nel nostro paese nella veste di presidente della federazione israeliana”. "L’IFA considera il calcio uno strumento educativo, che mette in collegamento tutti i percorsi della società. Vediamo e parliamo con gli allenatori, i bambini e le squadre giovanili educandoli alla tolleranza. Il calcio è fonte di gioia e felicità, tuttavia vi è chi lo mette in pericolo con la violenza e il razzismo. È un nostro dovere espellere questi razzisti”. Dello stesso parere anche il presidente della FIFA Joseph S Blatter, accanto a Luzon sul podio. "Cerchiamo di promuovere attraverso il calcio le stesse cose di voi politici: educazione e valori sociali. Incoraggiamo tutti a fare altrettanto e a non considerare il calcio soltanto una palla da calciare, ma molto di più”. Blatter ha espresso inoltre soddisfazione per l’inserimento di un paragrafo sulla specificità dello sport nel Trattato di Lisbona, ratificato lo scorso anno dall’Unione Europea. "In Europa è stata presa una decisione importante con il Trattato di Lisbona, che ha finalmente riconosciuto la specificità dello sport”, ha dichiarato. Passando ad altre questioni, il Congresso ha approvato la dichiarazione annuale dei conti e i conti delle federazioni per il 2008/09, la relazione dei revisori contabili per l’anno finanziario 2008/09, la previsione strategico-finanziaria della UEFA per il periodo 2009/10-2014/15, nonché il bilancio della UEFA per l’anno finanziario 2010/11.I delegati hanno inoltre approvato una serie di emendamenti allo Statuto della UEFA, fra cui nuove disposizioni in base alle quali la partecipazione di un club a un campionato nazionale debba dipendere dai meriti sportivi. Un club ha diritto a partecipare a un campionato nazionale rimanendo in una certa divisione, essendo promosso o retrocesso in un’altra divisione al termine della stagione. Promozione e retrocessione sono pilastri del modello sportivo europeo.


Frattini, Israele fermi insediamenti

Lo chiedera' anche Berlusconi sabato a summit Lega Araba
ROMA - L'Italia chiede ad Israele di fermare gli insediamenti per far ripartire il processo di pace in Medio Oriente. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, spiegando che questo sara' anche ''il contenuto'' dell'intervento del premier Silvio Berlusconi sabato al vertice della Lega Araba che si terra' a Sirte, in Libia.

CONFRONTO CON OBAMA, NETANYAHU CERCA VIA D'USCITA
di Aldo Baquis, 25 marzo http://www.ansa.it/
Reduce da una infelice missione a Washington, il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha convocato per domani a Gerusalemme una consultazione urgente con i sei ministri a lui piu' vicini per definire la reazione israeliana ad una lista perentoria di richieste avanzate dal presidente statunitense Barack Obama. Fra queste, secondo la stampa, il congelamento dei progetti di edilizia ebraica a Gerusalemme est e in Cisgiordania per la durata dei negoziati con l'Anp; una serie di gesti di buona volonta' nei confronti del presidente palestinese Abu Mazen; la disponibilita' israeliana ad affrontare questioni chiave del conflitto gia' nella fase iniziale di negoziati indiretti israelo-palestinesi. Washington, per bocca del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha sottolineato che negli incontri sono stati fatti ''progressi su questioni importanti'', mentre il segretario del governo israeliano Zvi Hauser, ha spiegato in serata che il divario tra le posizioni di Netanyahu e Obama ''si e' ridotto'' anche se ancora permangono divergenze di opinione. Hauser ha poi ribadito che Israele non ha intenzione di congelare i propri progetti edilizi a Gerusalemme. Intanto pero', la stampa locale riferisce allarmata che Obama ha ''messo Netanyahu con le spalle al muro'', diversi ministri sembrano oggi pronti ad affrontare l'amministrazione Usa senza cedere terreno. ''Gli Stati Uniti sbagliano quando concentrano le loro pressioni su Israele'' ha affermato il vicepremier Silvan Shalom (Likud): ''L'unico effetto e' quello di irrigidire le posizioni dei palestinesi e dunque di allontanare la prospettiva di una qualsiasi trattativa di pace''. Dopo aver fatto sua la formula dei 'due Stati' e dopo aver congelato nuovi progetti edili nelle colonie della Cisgiordania, Netanyahu non puo' - secondo Shalom - fare ora concessioni anche su Gerusalemme est. ''Anche noi abbiamo le nostre 'linee rosse' invalicabili'', ha esclamato. Anche il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, secondo la stampa, ha suggerito a Netanyahu di non cedere alle pressioni americane. Prima di lasciare gli Stati Uniti, il premier ha assicurato che si sforzera' di cercare una 'via di mezzo' che da un lato gli consenta di portare avanti la politica dei governi passati per quanto consente Gerusalemme est e gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, e dall'altro di rilanciare i negoziati. Ma giornalisti israeliani al suo seguito affermano che fra le posizioni di Netanyahu e quelle di Obama esiste ormai un vero ''baratro''. ''Netanyahu e' convinto che l'approccio mediorientale di Obama sia sbagliato, mentre Obama non ha alcuna fiducia in Netanyahu'', ha affermato l'inviato della televisione commerciale, Canale 2. Lo stesso presidente Shimon Peres ha detto che ''non siamo arrivati a un accordo con gli Stati Uniti''. Da parte sua, l'ex ministro degli Esteri Shlomo Ben-Ami (laburista) ha stimato oggi che non resti alcuna possibilita' di dialogo fra l'amministrazione Obama e l'attuale coalizione di governo israeliana, dominata da forze di destra e confessionali. La sensazione in Israele e' che Washington desideri fortemente trovarsi di fronte un nuovo interlocutore israeliano. In altre parole, la 'querelle' esplosa su Gerusalemme est sarebbe solo un espediente per costringere Netanyahu a formare una nuova coalizione di governo, oppure andare ad elezioni anticipate. Molta attenzione viene dunque riservata all'atteggiamento del partito centrista Kadima guidato da Tzipi Livni. E' indubbio che il suo ingresso nel governo in sostituzione di partiti di destra radicale come 'Israel Beitenu' e 'Shas', sarebbe visto a Washington con sollievo. Adesso, secondo la Livni, Netanyahu dovra' dimostrare la propria serieta' nei fatti: ''Che sciolga dunque la coalizione di governo e ne ricostruisca una nuova, sulla base di un progetto politico ben ordinato. Finche' cio non avverra' - ha concluso - non c'e' alcuna possibilita' che noi entriamo al governo''.



David Frum

È quello di David Frum, analista dell’American Enterprise Institute e della CNN, che sul suo sito FrumForum pubblica il 15marzo 2010 un articolo dal titolo: “Peace process prolongs Mideast war” che traduciamo qui di seguito.
“Il vicepresidente Joe Biden ha emesso una ‘condanna’ mentre il Segretario di Stato Hillary Clinton ha fatto la voce grossa. Gli Stati Uniti sono davvero preoccupati che l’annuncio dei nuovi insediamenti in Israele possa mandare in fumo il processo di pace. Ma lasciatami avanzare un’opinione poco ortodossa: la principale causa dell’instabilità mediorientale è proprio il processo di pace. So bene che questo non è un punto di vista convenzionale, ma provate ad ascoltarmi ugualmente. Secondo i miei calcoli dal 1936 ad oggi sono scoppiati almeno 10 conflitti fra Ebrei e Arabi. E ciascuno dei conflitti è terminato più o meno nella stessa maniera – o una potenza straniera imponeva il cessate il fuoco oppure Israele interrompeva le operazioni militari subito prima che il cessate il fuoco entrasse in vigore. Tutti questi conflitti sono iniziati nello stesso modo, o con un nuovo attacco (come nel 1956 o 1967) o con una violazione dell’armistizio da parte degli Arabi. Ma questo meccanismo è del tutto inusuale. Di solito le guerre terminano quando una delle due parti, non avendo più forza sufficiente per combattere, accetta i termini che aveva rifiutato in precedenza perché l’alternativa – cioè continuare a combattere – sembra ancora peggiore. Dubito che gli Ungheresi in passato abbiano ceduto con grande piacere metà del loro territorio ai vicini – Romania ed ex Yugoslavia. E anche i Boliviani hanno un brutto ricordo della guerra contro il Cile, quando persero la costa pacifica (1884). E tuttora in Indonesia sono in molti a ritenere che Timor Est debba tornare sotto la giurisdizione di Giacarta. Tuttavia ognuna di queste nazioni ha dovuto accettare la realtà, per quanto fosse amara. Nel conflitto israelo-palestinese è avvenuto esattamente l’opposto. Nel 1956 l’Egitto ha perso per la prima volta il Sinai, ma gli è stato immediatamente restituito. Poi l’ha perso una seconda volta nel 1967, ma è di nuovo riuscito a riaverlo indietro (questa volta in maniera ‘formale’, dopo la firma di un trattato di pace). La Siria ha perso il Golan nel 1967, poi nel 1973 ha attaccato nuovamente Israele e l’ha nuovamente perso, ma tuttora si ostina a chiederne la restituzione.
I Palestinesi si sono opposti alla partizione del 1947, hanno scatenato una guerra, hanno perso e nonostante ciò tuttora chiedono di essere risarciti per le loro perdite. È proprio come se il gestore di un casinò fermasse il gioco quando uno dei clienti inizia a perdere alla roulette, promettendogli anche di restituirgli il denaro se la sorte lo abbandonasse. Ma quale giocatore siederebbe ancora al tavolo da gioco? Io capisco perfettamente il comportamento dei governi occidentali, i quali sono convinti che senza uno sforzo per mantenere la calma in Medio Oriente il mercato del petrolio potrebbe entrare in crisi e le ideologie radicali potrebbero diffondersi rapidamente nel mondo islamico. Ma purtroppo i loro sforzi invece di migliorare la situazione l’hanno aggravata ulteriormente. Immaginiamo ora un’altra storia.
Supponiamo che il mondo occidentale non fosse intervenuto nel 1949, che la guerra di indipendenza di Israele fosse durata più a lungo e i due contendenti fossero andati fino in fondo. In tal caso gli eserciti arabi sarebbero stati azzerati e avremmo assistito alla fuga di lunghe colonne di rifugiati oltre il Giordano. In tal caso la guerra non sarebbe terminata con un armistizio, ma con una resa. I rifugiati palestinesi avrebbero dovuto trovare una nuova casa altrove, proprio come quelle centinaia di migliaia di Ebrei cacciati dalle loro ex case nei territori arabi. Tale esito avrebbe convinto gli Arabi che la guerra non era un’opzione valida e li avrebbe dissuasi dall’imbracciare di nuovo le armi contro Israele.
Immaginiamoci ora un altro scenario.
Nel 1990 in ex Yugoslavia scoppiò una terribile guerra, da cui sorsero numerosi stati. Migliaia di persone abbandonarono le loro case, e furono commesse atrocità indicibili, ma fortunatamente il conflitto a un certo punto cessò. I rifugiati trovarono rifugio nelle loro nuove case, e anche se gli ex nemici si guardano ancora con un certo sospetto la violenza è quasi scomparsa e probabilmente non ritornerà. Supponiamo invece che la comunità internazionale avesse deciso che i membri di una fazione in guerra – ad esempio i Serbi – avessero il diritto di ritornare nelle proprie case d’origine. Supponiamo che il mondo fosse stato disposto a pagare miliardi di dollari ai rifugiati a condizione che non volessero fermarsi definitivamente nel territorio in cui si erano trasferiti. E supponiamo ancora che la comunità internazionale fosse stata disposta a tollerare attacchi terroristici da parte dei Serbi contro Croati, Bosniaci, Kosovari perché ‘reagivano a un’ingiustizia’. Oggi avremmo la pace nell’ex Yugoslavia?
Sicuramente i mediatori internazionali agiscono con le migliori intenzioni e dispongono di una pazienza invidiabile, ma invece di contribuire a porre fine al conflitto al contrario continuano ad alimentarlo. Il processo di pace, che finora non ha fatto altro che mitigare i dolori della sconfitta araba, ha condannato il mondo arabo – e in primis i Palestinesi – a una guerra senza fine. Ogni guerra deve finire – e finire male almeno per uno dei due contendenti. Ed è ora che questa guerra abbia fine."Traduzione: Davide Meinero


Maariv House at the Maariv intersection in Tel Aviv

Crisi Usa-Israele, la stampa israeliana: “Netanyahu è stato messo alle strette”

Gerusalemme, 25 mar - Preoccupato il giudizio della stampa israeliana alla conclusione del viaggio del premier israeliano Benyamin Netanyahu negli Usa. Il presidente Barack Obama ha posto “con le spalle al muro” Netanyahu avanzando una serie di richieste in tema di processo di pace con i palestinesi. “Obama ha posto richieste che per Israele sarà difficile accettare", afferma il quotidiano israeliano Yadioth Aharonot. Il Maariv, cita una fonte governativa americana, secondo la quale "Obama si è stufato delle tattiche dilatorie" di Netanyahu e in un commento parla di un "agguato" teso a Netanyahu dal governo americano. Haaretz: "Si aggrava la crisi con gli Usa: Obama esige da Netanyahu impegni scritti per passi volti a creare un clima di fiducia" in vista di negoziati di pace indiretti con i palestinesi. Netanyahu, afferma il giornale, esce da Washington "isolato, umiliato e indebolito". Netanyahu, dal canto suo, tornato in patria al momento della partenza da Washington aveva affermato: "Pensiamo di aver trovato un modo eccellente di permettere agli americani di far avanzare il processo di pace e al contempo di preservare i nostri interessi nazionali". Tornato in patria il premier israeliano riunirà subito i sette ministri del 'gabinetto informale' per le questioni politiche e militari per riferire dei colloqui americani ed esaminare i passi successivi.


Catherine Ashton

Tutti contro Israele, ormai è una moda

di Fiamma Nirenstein, venerdì 26 marzo 2010, http://www.ilgiornale.it/
Forza, diamoci giù. Quale migliore occasione per un attacco mondiale contro gli ebrei, pardon, contro Israele, di questo momento di frizione fra gli Usa di Obama, il presidente che con tutti i dubbi risultati ottenuti in politica mediorientale (Iran con i suoi mortali sberleffi, Siria e di conseguenza Libano che cadono in ambito iraniano, Turchia che passa all’islamismo, palestinesi sempre più radicalizzati...) non può tuttavia mai sbagliare. L’ultima ad essersi unita alle azioni diplomatiche antisraeliane è l’Australia, che con mossa inusitata si associa all’Inghilterra che ha cacciato il capo del Mossad (e pare che i Servizi agli ordini di Sua Maestà non siano per niente contenti) per dire che è allo studio un’azione fotocopia se risulterà che sono stati falsificati dagli israeliani anche passaporti australiani.Intanto ci pensano i quotidiani britannici a sollevare l’opinione pubblica in favore di Miliband e del suo partito laburista fortemente antisraeliano e della notevole porzione elettorale dei musulmani immigrati. Il Daily Mail sottolinea per esempio come «Nessuno ha più bisogno di alleati di Israele circondata da nemici», e poi lo stigmatizza proibendogli di fatto di reagire agli attacchi: «Tuttavia invadendo il Libano (sgomberato nel 2000, ndr) e costruendo insediamenti nelle aree disputate di Gerusalemme... Tel Aviv (Tel Aviv?, ndr) sembra determinata a alienarsi ogni governo che le sia amica».Sono davvero queste le ragioni? A guardarsi intorno sembra piuttosto che attaccare Israele garantisca un guadagno diplomatico e morale, di quella morale che piace alle maggioranze dell’Onu: Ban Ki Moon l’ha fatto di nuovo due giorni fa, di nuovo stigmatizzando Israele per gli insediamenti; la Ue invece di dispiacersi che la signora Ashton, suo nuovo ministro degli Esteri, si trovasse a Gaza proprio mentre da là veniva sparato il missile che ha ucciso il povero lavoratore thailandese nei campi di un Moshav di confine, ha prodotto mercoledì un’ennesima condanna di Israele per gli insediamenti. L’Onu nel frattempo lascia che sul suo sito appaia di nuovo, stavolta nella parte dedicata al Consiglio per i diritti umani, un documento di una delle sue Ngo (International Organization for all Forms of Race Discrimination Eaford) che come fece con un articolo privo di ogni fondamento che apparve sul giornale svedese Aftonbladet sostiene che gli israeliani rapiscono palestinesi, li uccidono e ne estraggono gli organi per farne commerci, che vengono definiti anche, secondo uno dei tanti stilemi antisemiti propri dell’articolo (congiura del sangue, teoria della cospirazione, ecc.) molto vantaggiosi. Non è finita: l’Unhcr, ovvero il Consiglio per i diritti umani dell’Onu, riunito a Ginevra nei giorni scorsi, e di cui è l’alto commissario la signora Navy Pillay, che recentemente è stata in visita nel nostro Paese coprendolo di accuse per le nostre, a sua detta, gravissime violazioni verso gli immigrati clandestini e i rom, ha di nuovo seguito la sua tradizione: già su 33 risoluzioni ne aveva dedicato 27 a Israele fra il 2006 e il 2009, adesso ne ha approvate ben 4 in una sessione tutte contro lo Stato ebraico. E nonostante le relazioni con gli Usa in questo momento diano evidenti segni di stress, pure i rappresentanti americani a Ginevra hanno accusato il Consiglio di trattamento discriminatorio nei confronti di Israele. Lo ha fatto l’ambasciatrice Eileen Chamberlain Donahoe che ha detto: «Siamo di nuovo terribilmente colpiti dal dovere assistere all’approvazione di risoluzioni così dense di elementi controversi e ispirati da una sola parte... Il Consiglio è troppo spesso usato come una piattaforma da cui accusare Israele».L’Italia oltre a altri otto Paesi ha votato contro una delle quattro risoluzioni che accusa Israele di gravi violazioni nei confronti dei palestinesi, anche se però ieri il ministro Frattini ha chiesto «di fermare gli insediamenti». Si è invece astenuta sulla risoluzione che auspica la restituzione del Golan alla Siria, e meno male dato che l’argomento è fatale. Proprio ieri Assad di Siria ha minacciato Israele di guerra, e certo anche lui l’ha fatto sull’onda di un clima che ritiene favorevole per chiunque attacchi lo Stato ebraico. Sulle altre due risoluzioni, di cui una sull’autodeterminazione del popolo palestinese e l’altra sugli insediamenti, solo gli Usa hanno votato contro.Al Consiglio per i diritti umani vigono e vincono sempre maggioranze islamiche e terzomondiste, capaci di dettare la loro agenda anche in maniera sottile e raffinata, come capita sul tema dei quartieri gerusalemitani ormai definiti da tutta la stampa internazionale “insediamenti”. Solo gli Usa, da prima dell’amministrazione Obama, hanno negli anni sempre accettato l’idea che le parti densamente abitate da ebrei siano destinate ad appartenere anche nel futuro allo Stato ebraico. E qui Obama entra in contraddizione con la sua stessa tradizione politica. Come ha detto ieri l’ex ministro degli Esteri laburista Shlomo Ben Ami, la differenza fra Clinton e Obama, lasciando da parte Bush, la si vede dai loro preti: la guida spirituale di Clinton che si fece promettere dal futuro presidente che avrebbe per sempre protetto Israele; quello di Obama, invece fortemente convinto di tutta una serie di posizioni antioccidentali e antiamericane che predicava nella sua Chiesa; in esse era sempre presente una forte diffidenza terzomondista contro lo Stato d’Israele. Ma l’America non ha questo carattere nella sua storia politica. Dunque Obama si muove in maniera controversa, proprio come ha fatto con la riforma sanitaria. La sua strategia di spingere Israele a concessioni preventive e di metterlo in un angolo, aiutato adesso da tutto il mondo, la sua speranza, che forse potrebbe realizzarsi, di cambiarne la maggioranza di governo introducendo la presenza di Kadima può anche avere successo, ma questo non cambia il problema di come raggiungere la pace, ed esso riguarda i palestinesi e il mondo arabo. Non Israele. Come mai nessuno usa la sua forza per premere sulla parte giusta?


Crisi tra Israele e Usa Netanyahu non cederà:ecco i suoi dieci motivi

Obama vuole "addomesticare" il premier di Israele, ma il leader dello Stato ebraico ha buone ragioni per mantenersi intransigente
di R. A. Segre, 25 marzo 2010, http://www.ilgiornale.it/
Dopo tre ore trascorse alla Casa Bianca di cui una e mezza a quattr’occhi col Presidente Obama la crisi provocata dalla decisione di Netanyahu di continuare a costruire alloggi alla periferia di Gerusalemme Est (e in una casa di antica proprietà ebraica nel quartiere arabo di Sheik Jerrah dove nel 1947 i palestinesi sterminarono sotto gli occhi degli inglesi un convoglio medico ebraico) resta insoluta e grave.Non è la prima e la peggiore fra i due Paesi perché avviene in condizioni differenti dalle precedenti. Ad esempio non è l'ultimatum dato da Eisenhower a Ben Gurion del 1956 di ritirarsi dall'Egitto; non è la «revisione» dei rapporti minacciata da Kissinger nel 1975 che obbligò Rabin a evacuare il Sinai; non è neppure la minaccia di cancellare la copertura dei crediti nel 1991 se non fosse mutata l'occupazione della Palestina. È una crisi fastidiosa per ambo le parti che l'incontro di martedì pomeriggio fra Obama e Netanyahu ha aggravato, sia per la difficoltà reciproca di salvare la faccia sia perché gli americani non credono alla buona fede del premier israeliano.Vediamo dieci ragioni per cui Netanyahu manterrà una linea di «schiena diritta» nei confronti della Casa Bianca. INSOSTITUIBILEPer Obama ha dimostrato incompetenza e debolezza nella guida del carrozzone indisciplinato della sua coalizione governativa e resta debole ma, al momento, non c'è nessuno che possa sostituirlo. Netanyahu non sembra particolarmente turbato anche se l'opposizione in Israele grida al disastro.VOLONTÀ DI COSTRUIREÈ convinto del buon diritto di costruire a Gerusalemme, come hanno fatto tutti i suoi predecessori dal 1967, fuori dalle zone urbane arabe.RAGIONI DI POLITICA INTERNA Opponendosi a Obama si rinforza all'interno del governo, anche se non necessariamente all'interno del Paese, che teme lo scontro con l'America.UN MODO PER «SMARCARSI» DA WASHINGTON La crisi gli dà visibilità internazionale, dimostra che Israele non è un «servo dell'imperialismo americano», vanifica l'accusa dei liberal statunitensi di essere «la coda che fa muovere il cane americano», responsabile degli errori di Bush.SIMPATIA DELL’OPINIONE PUBBLICA AMERICANA Sa che, per il momento, 8 americani su 10 simpatizzano per Israele, di disporre di largo sostegno al Congresso e al Senato dove Obama ha ancora bisogno dei voti degli amici di Israele in vista delle prossime elezioni di «mid term» e per l'approvazione di altre grandi riforme: quella delle banche e di Wall Street, delle infrastrutture di comunicazione, dell'educazione.SCETTICISMO SULL’INFLUENZA DELLA CASA BIANCA SUGLI ARABI Netanyahu - e con lui tutto Israele - non crede che Obama sia in grado di strappare qualsiasi concessione araba nei confronti di Israele.È FINITA L’EPOCA DEI REGALI Dopo l’evacuazione di Gaza, trasformata in base di attacco da Hamas, non intende più cedere senza ricevere.DEBOLEZZA DI ABU MAZEN È convinto che Abu Mazen sia obbligato a massimizzare le richieste nei confronti di Israele, perché è alla testa di un Olp ideologicamente e militarmente più debole di quello di Arafat e con il 40% dei palestinesi sotto controllo dell'avversario Hamas.FRAGILITÀ DELL’AMERICA Soprattutto non crede più all'America come superpotenza, convinto della sua fragilità economica, morale e politica. Non teme punizioni economiche americane o europee grazie alla nuova solidità finanziaria e - nel prossimo futuro - energetica del Paese grazie alla scoperta e al rapido sfruttamento dei depositi sottomarini di gas di fronte a Haifa.INTERDIPENDENZA E NUOVI EQUILIBRI È convinto del bisogno che Washington ha della collaborazione di Israele nella crisi con l’Iran, e allo stesso tempo cerca di spostare il più rapidamente possibile il baricentro politico israeliano verso est, con una più stretta collaborazione con la Russia e la Cina.Avendo compreso e ammesso la necessità di Israele di convivere con uno Stato palestinese, non abbandonerà questa posizione nonostante la pressione dei coloni. La sua strategia è ora quella di guadagnar tempo e di raggiungere coi palestinesi uno stato di prolungato armistizio. Che in fondo è quello che Hamas - di cui gli israeliani hanno molto più rispetto di al-Fatah di Abu Mazen - propone.


Sinagoga di Roma


Schivato - per ora - il rinvio, bocciata la lista del Pdl, restano due scogli prima del voto del 28 e 29 marzo: due ricorsi al Tar, uno del Partito Liberale e l'altro di «Rete Liberal» guidata da Vittorio Sgarbi. […][…] Sul fronte delle due candidate, botta e risposta a distanza tra Emma Bonino e Renata Polverini. Argomento, il nuovo faccia a faccia televisivo (sarebbe stato il terzo consecutivo) saltato perché la Polverini aveva «altri impegni già presi». «Ha fatto bene a non venire ha detto la Bonino tanto la campagna elettorale nel Lazio la sta facendo Berlusconi con le sue telefonate fiume». I1 riferimento è all'intervento del premier a «Uno Mattina» dove ha detto che «la Polverini difende la famiglia, la Bonino no». La candidata del centrodestra replica alla radicale:« Io non mi sono mai assentata dal Lazio, mentre oggi la Bonino è in Piemonte (per un'iniziativa con Mercedes Bresso, ndr). E chi sta con me sa che mi alzo all'alba, sto fuori tutto il giorno, non dormo, non ceno...», la replica. La Polverini dopo le Fosse Ardeatine è stata ospite della Comunità ebraica. Due gli impegni assunti col rabbino capo Riccardo Di Segni e col presidente della Comunità Riccardo Pacifici: «Apprezzo molto l'ospedale israelitico e la scuola ebraica». Per la sindacalista, anche un fuoriprogramma. Dopo aver ricevuto in dono delle ciambelline, uscendo dalla Sinagoga è stata «intercettata» dai proprietari di una pasticceria del ghetto: «Ma che fa, prende i dolci della concorrenza?», le hanno detto. E così la Polverini è entrata, acquistando una torta. La Bonino, invece, ha parlato del futuro: «Incarichi a Pan- nella? Perché no, ma non credo che vorrà. Ma ho già in mente alcuni nomi per la giunta, mica sono Alice nel paese delle meraviglie». [...]Ernesto Menicucci, il Corriere della Sera, 25 marzo 2010 (cliccando sul titolo si apre l'articolo)



Intensa. Lunga. Una cerimonia a cui non è voluto mancare il capo dello Stato: «Un'occasione per rinnovare la memoria». E ancora: «Onorare la Costituzione rispettando tutte le istituzioni dello Stato democratico». Sono i moniti lanciati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri alle Fosse Ardeatine nel 66esimo anniversario dell'eccidio nazi-fascista, presenti centinaia di studenti giunti da varie parti d'Italia. La zona blindata e chiusa al traffico per le presenze delle autorità. La lettura dei nomi dei caduti, la preghiera cattolica e quella ebraica, l'intervento dell'Anfim. Un appuntamento importante per la città e per la collettività: «Ho il dovere, come è scritto nella Costituzione, di rappresentare l'unità nazionale, sono qui per ribadire che dopo la tragica esperienza della barbarie nazista è nato lo Stato democratico con la sua Costituzione che noi dobbiamo onorare nel rispetto di tutte le istituzioni», ha continuato Napolitano. «Questa dev'essere un'occasione per rinnovare la memoria», ha dichiarato il primo cittadino Gianni Alemanno, «bisogna tramandarla anche quando non ci saranno più testimoni diretti attraverso luoghi come il museo della Shoah e Forte Bravetta». Per Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma. «Chi scelse un luogo così nascosto per commettere l'eccidio una cava ai margini della città, lo ha fatto nella speranza che tutto rimanesse nascosto e che si dimenticasse. Non è stato così e questa cerimonia conferma quanto sia importante non dimenticare. Per intorno a noi c'è un forte clima di intolleranza che preoccupa». Presenti il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti, il vicepresidente della Regione Esterino Montino, i rappresentanti della Comunità Ebraica Riccardo Pacifici, Renzo Gattegna e il rabbino capo Riccardo Di Segni. […]Ester Mieli, Libero, 25 marzo 2010 (cliccando sul titolo si apre l'articolo)


Gerusalemme - Yad Vashem

Ecco nella sua versione integrale l'intervento di ieri che è stato pubblicato con alcune imperfezioni.

A proposito di antisemitismo - 4

Un’ultima importante considerazione da fare in tema di antisemitismo riguarda il diffuso e multiforme uso del ricordo della Shoah in chiave antiebraica. Com’è noto, se tale evento, soprattutto negli ultimi trent’anni, è assurto, nella cultura occidentale, a massimo simbolo universale di una forma di memoria e coscienza necessaria e condivisa (venendo fatto oggetto, in Europa e in Nordamerica, di molteplici iniziative di studio, commemorazione e interpretazione, a livello etico, pedagogico, storico, artistico ecc., in ambito tanto pubblico quanto privato, con il coinvolgimento attivo di numerosissime autorità civili e religiose, moltissimi docenti e discenti, di tutte le età, moltitudini di cittadini di ogni nazione), suscita un interesse ben diverso nel mondo islamico, le cui posizioni, di fronte ad esso, sono essenzialmente quattro.La prima, molto diffusa, è la rimozione: della Shoah non si deve parlare mai, né nei libri di scuola né altrove, perché è un non-evento, qualcosa che non è accaduto o di cui, anche se è accaduto, è meglio tacere. È la posizione prevalente nei Paesi arabi cosiddetti moderati, e che ora appare promossa attivamente anche dal governo della civilissima Gran Bretagna, che ha invitato le autorità scolastiche a dare minore rilievo a tale argomento, per non “urtare la suscettibilità” degli scolari di fede islamica e delle loro famiglie.Una seconda posizione è quella negazionista: della Shoah occorre parlare, ma solo per dire che non è mai esistita, se non come menzogna inventata ad arte dal “complotto sionista”. Una tesi ben nota, che ha molti sponsor di prestigio, primo fra tutti il Presidente iraniano Rafsanjani.Terza posizione: la Shoah è esistita, ma è stata opera degli stessi ebrei, che dovevano precostituire una scusa valida per ottenere l’autorizzazione alla creazione di Israele. È l’argomento, fra l’altro, della tesi di dottorato, intitolata, "La connessione tra nazismo e sionismo”, discussa al Collegio Orientale di Mosca, nel 1982, da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), attuale Presidente dell’Autonomia Palestinese, beniamino dell’Occidente per la sua ‘moderazione’.Quarta e ultima posizione, più esplicita e sincera: la Shoah c’è stata, ed è stata un’ottima cosa, come “vendetta anticipata” dei crimini di Israele: un plauso stampato, per esempio, su dei grandi manifesti, distribuiti tra il pubblico, in migliaia di copie, in occasione della conferenza ONU di Durban del 2001 “contro il razzismo”.Quel che viene da chiedersi, ancora una volta, è come mai l’Occidente, se avverte il bisogno di commemorare le vittime della Shoah, non avverta, proprio mai, il bisogno si riflettere, almeno un minimo, su tale diversità di approccio da parte dei propri vicini, né di tenerne conto, in qualche misura, per valutare il loro livello di sensibilità morale e di considerazione dei diritti umani.P.S. Se è difficile fare una classifica, sul piano di tale ‘controcommemorazione’, fra i vari Paesi arabi, certamente nessuno è secondo alla Siria, i cui libri, giornali e mass-media trattano della Shoah, nei modi su ricordati (spesso nello stesso contesto, e poco importa che le varie teorie si contraddicano platealmente l’un l’altra), con alta frequenza e grande risalto (insieme al completo campionario delle altre amenità antiebraiche). E ha suscitato un certo turbamento, nei giorni scorsi, ascoltare il Presidente della Repubblica Italiana, mentre, innanzi al Presidente siriano (lo stesso che, alla presenza di Giovanni Paolo II, ricordò, nel 2001, che gli ebrei hanno torturato Gesù e perseguitato Maometto), si diceva “molto preoccupato” per il comportamento di Israele. Avremmo, certamente, preferito che quella visita non si svolgesse; ma, se proprio la ragion di stato lo imponeva, non avremmo voluto sentire quelle parole, pronunciate davanti a quell’interlocutore. Quanto è grande la stima che abbiamo sempre avuto per Giorgio Napolitano, tanto dolorosa è stata, stavolta, la delusione.Francesco Lucrezi, storico, http://www.moked.it/


Il rancio

Sulla storia della presenza ebraica nella terra chiamata Israele, preesiste una barriera che non è costituita dall'ignoranza della Storia, ma dalla muraglia del pregiudizio. Si dà per scontato che esistano diritti oggettivi dei palestinesi, e ciò sottintende a sua volta, o forse nasconde, che gli ebrei debbano ringraziare il mondo di avere avuto il permesso di vivere dove non ne avevano il diritto. Ogni giorno prendiamo di questo rancio tossico e malcotto. Tuttavia, potremmo considerare che la pace si fa con sacrifici e umiliazioni, e che esistono dei diritti se non naturali, politici del popolo palestinese, delle giuste aspirazioni a una propria patria, e che ciò va corroborato dai sacrifici delle due parti. Un giorno, quasi più fatalmente che politicamente, dovrà esser dato spazio all'esistenza di una patria palestinese accanto a quella di una patria ebraica. Per farlo, bisognerà sacrificare pezzi di terra, di storia, di cultura, e cioè vie, colline e rioni dove gli ebrei hanno abitato migliaia di anni, quando i collettivi universitari e la jihad non esistevano. Ma per quanto sia difficile allestire la pace con i Palestinesi, in modo sostanziale e paradossale il nemico più ostico della pace non è costituito da Hamas o da Teheran. Ma dal pregiudizio europeo.Il Tizio della Sera http://www.moked.it/


Mappa Esodo

Alla vigilia di Pesach, polemiche e riflessioni sul futuro

Siamo in preparazione febbrile a Pesach che, come dovrebbe essere noto, serve a trasmettere il ricordo dell'uscita dall'Egitto del popolo ebraico, momento fondante della nostra storia. Attenzione però alle modalità. In questa turbolenta settimana di bagno mediatico, un brillante giovane impegnato in attività comunitaria ci ha segnalato "il pericolo ...che per gli ebrei italiani l'identità diventi un fatto esclusivo" (Corriere della Sera, 23 Marzo). Fermi tutti. Mi era sembrato di leggere che al momento dell'uscita dall'Egitto, "una mescolanza numerosa" ('erev rav), non ebraica, approfittò dell'apertura dei cancelli per scappare verso la libertà (Shemot 12:38). Per noi, per quanto viziati dalla malattia "monoidentitaria esclusiva", la libertà nostra è anche libertà per gli altri. Non ci siamo dimenticati di questa storia, ma neppure dei guai che la convivenza con la numerosa mescolanza ci procurò negli anni successivi. Ci sarebbe bisogno di un "modello diverso", dichiara il giovane: "Un ebraismo che si occupi dei diritti, della difesa dei più deboli, ovviamente della propria vita religiosa e culturale ma in una visione di scambio e di incontro con le nuove realtà della nostra società."Ma è vero che non ci preoccupiamo dei più deboli? E non è essenziale la conservazione dei nostri riti per formare la coscienza e la sensibilità squisitamente ebraica per questi problemi? E quali sarebbero le nuove realtà con le quali non ci incontriamo? E qual è, in questo manifestino elettorale, la scala di priorità per un dirigente comunitario ebraico?.Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, http://www.moked.it/


Ike Eisenhower

Il presidente Barack Obama è riuscito a far approvare dal parlamento americano la nuova legge sull'assicurazione sanitaria obbligatoria, e ha così conseguito il suo primo grande successo politico. Con il fatto di avere circa 40 milioni di abitanti privi di ogni tutela, gli Stati Uniti - oltre a essere una grande potenza - erano finora anche un paese terzomondista. La riforma sulla salute è uno di quei provvedimenti memorabili che hanno plasmato l'America contemporanea, come il programma della rete autostradale del presidente Ike Eisenhower, gli interventi antisegregazionisti e l'inizio dell'avventura spaziale di John Kennedy, le leggi sull'ampliamento dell'immigrazione e sulla tutela economica degli anziani di Lyndon Johnson. Ma era dal 1965 che negli USA non passava alcuna grande riforma economica e sociale, e Obama è riuscito a farlo mentre altri prima di lui avevano fallito. E questo nonostante l'opposizione feroce della minoranza repubblicana che ha difeso a oltranza il contenimento della spesa pubblica ma anche gli interessi delle grandi compagnie di assicurazione. Obama, dopo un anno di incerto governo, riesce ad affermarsi come un presidente di grande carattere e capacità politica sulla scena interna, e da questo può emergere anche un Obama più autorevole e decisionista sul piano internazionale. Farebbero bene a prenderne nota quegli amici di Israele che hanno sviluppato il pensiero debole di un presidente americano in declino e incapace di governare, presto sostituito da qualcun altro, privo di una coerente politica estera, e al quale si può imporre qualsiasi fatto compiuto maturato in un Medio Oriente senza leggi. http://www.moked.it/ Sergio Della Pergola,Univ. Ebraica di Gerusalemme


sinagoga Ferrara

ASSOCIAZIONE VERONESE ITALIA-ISRAELE

“FESTA DEL LIBRO EBRAICO” FERRARA, DOMENICA 18 APRILE 2010

In occasione della Festa del Libro Ebraico organizzata dal MEIS –Museo Ebraico Italiano e Shoà- L’Associazione Veronese Italia-Israele propone ai soci , ai loro famigliari e agli amici tutti una gita a Ferrara con il seguente programma: Ore 8.00: piazza Cadorna (presso Ponte della Vittoria) incontro e partenza per FERRARA Ore 10.00: SALA ESTENSE Saluto delle autorità”Gli ebrei, popolo dei libri”Riccardo Calimani (presidente Meis) Ore 11.00: PALAZZO MUNICIPALE, SALONE D’ONORE Inaugurazione della Mostra“Le origini del libro ebraico in Italia” a cura di Gadi Luzzatto Voghera (Boston University, Padova) Ore 12.00: CHIOSTRO DI S.PAOLO Visita alla libreria della Festa Ore 13.30: OSTERIA DEL GHETTO, VIA VITTORIA 26 Pranzo con menu concordato Ore 15.30: MUSEO E SINAGOGHE DELLA COMUNITA’ EBRAICA di FERRARAVISITA GUIDATA Oppure a scelta INCONTRI CON L’AUTORE (CHIOSTRO S.PAOLO) ORE 17.00: TEATRO COMUNALE “Pregiudizi sugli ebrei,Pregiudizi degli ebrei” Coordina Riccardo Calimani Partecipano Ferruccio de Bortoli, Arrigo Levi, Renato Mannheimer, Enrico Mentana ecc. Ore 18.15: Partenza per Verona
Iscrizioni e prenotazioni entro il 14 aprile 2010:c/o Associazione Veronese Italia-Israele
email: avii1975@gmail.com o claudio.sottocasa@virgilio.it
Euro 48,00 (viaggio, visite guidate, pranzo con menu tipico concordato) Il pagamento della quota sarà versato alla partenza.

giovedì 25 marzo 2010


Golan

Siria pronta a guerra a Israele

Assad: "Se attacca Hezbollah libanesi"
Se Israele attaccherà le milizie sciite di Hezbollah in Libano, "scatenando una guerra", la Siria è pronta ad affrontare un conflitto. Lo ha detto il presidente siriano, Bashar el Assad, in un'intervista alla tv di Hezbollah, al Manar. "Affronteremo un nemico che finora ha dimostrato di comprendere solo il linguaggio della forza e che non sembre interessato alla pace nella regione", ha dichiarato Assad.25/3/2010, http://www.tgcom.mediaset.it/