sabato 4 dicembre 2010
Editoriale del Jerusalem Post http://www.israele.net/
Il quinto Consiglio Rivoluzionario di Fatah, che si è tenuto a Ramallah alla fine di novembre, non è iniziato sotto i migliori auspici. I partecipanti hanno aperto i lavori celebrando in modo speciale il “martire” Amin al-Hindi, uno dei mandanti del massacro degli undici atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972, deceduto all’inizio di quest’anno. Ciò che è seguito è stato uno sfoggio di intransigenza da parte dei 120 membri del “congresso” che dovrebbe rappresentare l’opinione “moderata” palestinese, in quanto opposta all’estremismo di Hamas che invoca apertamente l’uso della violenza per determinare la fine di Israele. Dopo due giorni di convegno, Fatah, che costituisce la spina dorsale della dirigenza dell’Autorità Palestinese, ha proclamato un sonoro “no” al compromesso, smorzando ulteriormente le già tenui speranze in una pace negoziata con Israele.Il Consiglio di Fatah ha respinto in modo sprezzante il riconoscimento del “cosiddetto stato ebraico” e di uno “stato razzista basato sulla religione”. Ha riaffermato il “diritto al ritorno” che, se attuato, porterebbe alla fine della maggioranza ebraica all’interno della Linea Verde pre-67 permettendo a circa quattro milioni di profughi palestinesi e loro discendenti di insediarsi all’interno di Israele. Scartati allo stesso modo anche eventuali scambi territoriali nel quadro di un accordo di pace. Stando a quanto deciso dal Consiglio di Fatah, i grandi blocchi di insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania) come Gush Etzion e Ma’aleh Adumim, posti appena al di là della Linea Verde su non più del 5% della Cisgiordania e dove vive l’80% degli ebrei di Cisgiordania, dovrebbero essere sradicati e tutti i loro abitanti espulsi. “Le bande di coloni illegali – proclama Fatah – non possono essere messi sullo stesso piano dei possessori di terre e diritti”.In pratica sono state respinte tutte le intese fra Israele e Stati Uniti a partire dai “parametri di Clinton” del dicembre 2000, fino alla dichiarazione del presidente George Bush secondo cui qualunque accordo di pace permanente deve rispecchiare la realtà demografica della Cisgiordania. Con un comunicato che suona più come una chiamata alle armi, Fatah ha sostanzialmente enunciato la propria determinazione a insidiare l’esistenza dello stato ebraico in ogni modo possibile a parte rilanciare apertamente la lotta armata.L’enunciazione da parte del Consiglio di Fatah di una posizione così estremista comporta implicazioni di vasta portata per i negoziati israelo-palestinesi. Ecco perché il servizio del corrispondente per gli affari palestinesi Khaled Abu Toameh sulle decisioni del Consiglio è stato pubblicato sulla prima pagina del Jerusalem Post, domenica scorsa. Curiosamente, invece, la maggior parte delle testate d’informazione sia locali che internazionali finora hanno accuratamente evitato di riportare i proclami intransigenti di Fatah. Quegli stessi mass-media che solitamente scattano con solerzia e grande spazio per qualunque passo intrapreso da Israele che venga percepito come un ostacolo al processo di pace, trovano del tutto normale passare sotto totale silenzio le decisioni di Fatah, abituati come sono a minimizzare o ignorare del tutto l’istigazione e l’intransigenza da parte palestinese.Lo scorso 24 novembre, ad esempio, sempre il Jerusalem Post è ha riportato per primo la notizia dello stravagante “saggio” del vice ministro dell’informazione dell’Autorità Palestinese in cui si sosteneva che il Muro Occidentale (del pianto), chiamato dai musulmani Muro Al- Buraq, costituirebbe proprietà esclusiva del Waqf (la Custodia del patrimonio islamico inalienabile) e che “l’occupante sionista pretende falsamente e ingiustamente che tale muro gli appartenga”. Solo alcuni giorni più tardi pochi altri mass-media hanno ripreso la notizia. Molti non l’hanno riportata affatto.Analogamente, un sondaggio commissionato da Israel Project che mostrava l’atteggiamento altamente ostili da parte dei palestinesi verso Israele è stato a mala pena notato dai mass-media quando è stato pubblicato, il mese scorso. Secondo quel sondaggio, due terzi dei palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella striscia di Gaza concordano con l’affermazione: “Nel corso del tempo i palestinesi devono adoperarsi per riprendersi tutta la terra per lo stato palestinese”. Il 60% degli intervistati dice che “il vero obiettivo deve essere quello di iniziare con due stati, ma poi passare all’esistenza di unico stato palestinese”. Il 56% concorda con l’affermazione: “Dovremo di nuovo fare ricorso alla lotta armata”.Quando giornalisti e direttori non danno il giusto peso e il giusto spazio alle notizie sull’estremismo e sull’intransigenza palestinesi contribuiscono a perpetuare i pregiudizi contro Israele. Il giornalismo distorto non è solo un tradimento della professione e di coloro che su di essa fanno affidamento: in questo caso costituisce anche un danno concreto al processo di pace, giacché dà una rappresentazione insostenibilmente deformata di una urgenza di compromesso da parte della dirigenza e della popolazione palestinese, condannando così al fallimento le speranze in autentici progressi negoziali.I palestinesi devono ammettere la legittimità dei diritti degli ebrei ad una sovranità in questo lembo di terra se si vuole che abbraccino la necessità di un compromesso, e in questo modo si incamminino sulla strada verso la pace. Tale processo di riconoscimento richiede un discorso onesto da parte della dirigenza palestinese. Il che a sua volta richiede che la comunità internazionale, in primo luogo, comprenda con esattezza la natura dell’attuale ostilità palestinese verso la nozione stessa di un legittimo stato di Israele; e in secondo luogo che persuada la dirigenza palestinese della necessità di un cambiamento. Quanto sia importante questa impresa è emerso con perfetta chiarezza nel recente Consiglio Rivoluzionario di Fatah. Peccato che la maggior parte del mondo non ne abbia saputo nulla.(Da: Jerusalem Post, 29.11.10)
Il regista Eran Riklis riprende l'omonimo romanzo di Abraham Yehoshua
Un film fatto bene si riconosce dalle prime battute. E’ questo il caso de "Il responsabile delle risorse umane", del regista Eran Riklis, che riprendendo l'omonimo romanzo del celebre scrittore israeliano Abraham Yehoshua da vita a un intreccio di personaggi, luoghi e situazioni coinvolgenti e mai banali. Stranezze, idiozia, egoismi e generosità degli uomini vengono messi in luce attraverso le azioni, passando attraverso ai sentimenti e scavando bene, senza lasciare niente in sospeso.Una donna perde la vita in un attentato terroristico nel cuore di Gerusalemme. Julia, straniera, sulla quarantina. Queste le sole informazioni su di lei. Insieme a una busta paga dell’azienda per la quale lavora, un panificio, trovata nei suoi effetti personali. La stessa azienda che a distanza di una settimana non si é nemmeno accorta della sua scomparsa. Chi ha la colpa di questa "crudele" mancanza di umanità? Chi deve pagarne le conseguenze e fare in modo che il polverone scatenato si plachi? La stampa locale, maligna e in cerca di qualcuno da attaccare, si scatena contro il responsabile delle risorse umane. Un uomo onesto, dedicato, una persona per bene. Non conoscendo la donna, il RRU si documenta sul suo conto, per scoprire che in realtà da qualche mese non lavorava neanche piu’ per il panificio. La situazione scotta e tocca a lui risolverla. La bara della donna deve essere riportata a casa, altrimenti i guai saranno tanti. La buonafede – superata l’iniziale riluttanza – del RRU si scontra non solo con le malelingue dei giornalisti, ma anche e soprattutto con la poca fiducia della ex-moglie, che lo rimprovera di non essere mai abbastanza presente. Ma il RRU ha l’obbligo morale di portare a termine la missione. Cosa puo’ comportare d’altronde? Solo due giorni, un viaggio andata e ritorno poco impegnativo, giusto in tempo per mettere a posto le cose e accompagnare al ritorno, come promesso, l’amata figlioletta in gita, senza deluderla.Naturalmente le cose andranno diversamente, e gli incidenti di percorso saranno tanti. Un viaggio improbabile, tra furgoni tutti rotti guidati da vice-consoli raccomandati e senza patente, bigotti e ignoranti abitanti di paesini sperduti della fredda Russia, ragazzini - il figlio adolescente di Julia - selvaggi e difficili da approcciare.L’attore Mark Ivanir dà una grande prova di talento, protagonista assoluto si fa carico di tutte le sue responsabilità e ci fa credere nel suo personaggio dall’inizio alla fine. Un uomo onesto, carismatico, professionale sul lavoro, affettuoso e presente nonostante gli ostacoli con le donne della sua vita. Un uomo determinato, che decide di portare a termine qualcosa e che riesce a dare prova alla fine di quell’immensa umanità che era stata pericolosamente messa in dubbio.Sorprendente nella fluidità e semplicità con cui avviene é il progressivo aumento della carica emotiva del film. La forzata convivenza tra i personaggi diventa uno scambio, un modo per conoscersi e superare gli ostacoli dati dalle differenti età, culture, attitudini di ognuno. Si sviluppa pian piano, in particolare, un profondo legame d’affetto tra il RRU e il difficile figlio della donna, risultato di un lungo processo di conquista della fiducia reciproca e di riconoscimento della bellezza interiore dell’uno e dell’altro.I personaggi sono ben strutturati, studiati, limpidi dall’inizio, ognuno nel suo, personalissimo modo. C’è il giornalista indisponente e onnipresente con la sua macchina fotografica, la signora console truffaldina e furba nel curare solo il proprio interesse. C’è Julia, nella sua bara, unico personaggio di cui si conosce il nome, e l’unico di cui non si sa niente allo stesso tempo. Nulla è fuori posto né di troppo. A fare da cornice una moltitudine di location che sembrano quasi improvvisate nella loro unicità, e soprattutto una sceneggiatura intrigante, completa, ricca di dialoghi arguti, che rende giustizia al romanzo da cui è tratta.Una riflessione sugli uomini, la loro umanità e la loro malafede. Un delizioso contributo di Israele al cinema. Da vedere, e gustare.2/12/2010 http://www.voceditalia.it/
Dichiarazione dell'On. Fiamma Nirenstein (Pdl), Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera
"Il dramma dei profughi eritrei in ostaggio nel deserto del Sinai da parte di bande di trafficanti criminali continua a degenerare: ora sembra che gli aguzzini vogliano espiantare i reni di alcuni degli ostaggi per pagare così il loro "riscatto". E' davvero necessario intervenire con urgenza perché già nei giorni scorsi i predoni hanno assassinato sei prigionieri e ora minacciano di ucciderne altri. E' indispensabile che le istituzioni si mobilitino per salvare la vita di queste vittime della violenza e apprezzo l'azione dell'Italia preannunciata dall'On. Margherita Boniver, volta a fare pressioni sul governo egiziano per localizzare i profughi e intervenire".
Dichiarazione dell’On. Fiamma Nirenstein (Pdl), Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera
“Esprimo la mia soddisfazione per la risposta italiana alla richiesta di aiuto israeliana per far fronte alla terribile tragedia dell’incendio che sta devastando il Monte Carmelo, nel nord d’Israele. Il nostro Paese sta già mandando infatti ingenti quantità di FireTroll, un materiale per spegnere incendi di cui Israele si trova in assoluta necessità al momento, avendone esaurite le scorte. Israele si trova di fronte a una autentica catastrofe rispetto al numero di feriti, alla tragedia della perdita di vite umane e alla rovina ambientale delle foreste e dei villaggi del Carmelo, di cui tutta la comunità internazionale deve sentirsi investita rispondendo con gesti di viva e concreta solidarietà”.
Il Giornale, 3 dicembre 2010, di Fiamma Nirenstein
venerdì 3 dicembre 2010
Martedì 30 Novembre 2010 http://www.focusmo.it/economie-nazionali/
Martedì 30 Novembre 2010 http://www.focusmo.it/
Davvero singolare la notizia riportata dalle agenzie internazionali e acquisita da quello strumento potentissimo che risponde al nome di Google maps in grado di trasformare chiunque in un potentissimo spione.
Accade ,dunque, che, quasi per una sorta di beffardo e divertente contrappasso, sul tetto di un edificio facente parte del complesso aeroportuale di Teheran, capitale della repubblica islamica iraniana, sia ben visibile dall’alto una stella di Davide, noto simbolo dello stato di Israele.Il tutto si spiega con i rapporti non esattamente conflittuali che intercorrevano tra il regime persiano dello Scià Reza Pahlevi ed il Governo di Tel Aviv. Ovviamente ci si riferisce agli anni ’70, data della progettazione dell’edificio cui sovrintesero architetti israeliani e che decisero di lasciare, per così dire, il marchio di fabbrica della propria opera.Così, per decenni, nonostante la crescente retorica antisemita del regime fondamentalista iraniano e gli anatemi truculenti del Presidente Ahmadinejad, chi avesse per avventura aguzzato lo sguardo verso il basso in fase di atterraggio avrebbe potuto scorgere la traccia dell’arcinemico.Resta inspiegabile come le autorità locali non abbiano provveduto a rimuovere il tutto. La spiegazione ufficiale fornita è quella della mancata conoscenza, ma aleggia il sospetto che si volesse evitare una figuraccia colossale per il regime. Tentativo fallimentare visto lo scherzetto giocato dal motore di ricerca più diffuso del mondo. Che ci dimostra quanto qualsiasi dittatura abbia, per nostra fortuna, un grado di ottusità ed incompetenza assai sviluppato.http://lasentinelladellalaicita.wordpress.com/
L'attrice francese presenta 'Copia Conforme' di Kiarostami
Per Radwin ( apparati wireless per le telecomunicazioni israeliana) crescita e potenzialità del mercato italiano impongono una presenza diretta
La richiesta fatta dagli americani al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di indicare i confini di un futuro stato palestinese – e di specificare la percentuale di Cisgiordania da cui Israele si ritirerebbe per permetterne la creazione di tale stato – non ha ancora ricevuto ufficialmente una risposta pubblica. È una domanda a cui in effetti è difficile dare una risposta, giacché solleva a sua volta la questione di quali sarebbero esattamente i principi a attenersi nello stabilire tali confini.L’avvio di negoziati sui confini è di estrema importanza. Il confine è una creazione artificiale dell’uomo stabilita da una popolazione per dare espressione alla propria sovranità – e alle proprie aspirazioni territoriali – sulla propria terra. Il confine influenza direttamente la vita di coloro che vivono lungo di esso, ed è spesso molto più importante del percorso lungo cui viene fissato. Il confine trasforma il territorio in esso compreso in un diritto di nascita, organizza la rappresentazione pubblica della sovranità, crea una connessione fra una nazione e il suo territorio.Nel caso dello stato palestinese, questi non sarà in grado di iniziare a edificare se stesso finché non saranno fissati e accettati i suoi confini. Il futuro confine fra Israele e Palestina deve essere tracciato nella prospettiva della fine del conflitto mediorientale. Pertanto occorrerà che sia basato il più possibile su caratteristiche topografiche chiaramente visibili sul terreno. Inoltre, indipendentemente dal suo esatto percorso definitivo, il confine concordato dovrà anche essere riconosciuto dalla comunità internazionale.Esistono diverse opzioni generali che si possono adottare per tracciare la futura frontiera internazionale: la Linea Verde (vale a dire, ex linea armistiziale fra Israele e Giordania in vigore dal 1949 al 1967), con la possibilità eventuale di modifiche minori; ovvero seguire la barriera di separazione difensiva edificata fra Israele e Cisgiordania, che modifica significativamente la Linea Verde prevedendo l’inclusione in Israele dei maggiori blocchi di insediamenti; infine, scambi di terre che tengano conto degli sviluppi geografici e demografici intervenuti dopo il 1967.Ma ci sono alcuni altri criteri essenziali da tenere presente nel determinare la natura del futuro confine israelo-palestinese. Esso dovrà prevedere dei valichi di passaggio per persone, merci e prodotti agricoli. Dovrà garantire l’esistenza di continuità territoriale su entrambi i versanti. Dove risulteranno necessari scambi di territori, la misura dovrà essere presa sulla base di uno scambio uno-a-uno, salvo quando una parte offra all’altra territori di particolare valore economico o strategico tali da richiedere un trattamento specifico.Infine, cosa più importante, il confine dovrà includere il minor numero possibile di centri abitati palestinesi sul suolo israeliano e il minor numero possibile di centri abitati israeliani su suolo palestinese. Se dei centri abitati arabi attualmente in Israele dovessero essere inclusi all’interno dei confini dello stato palestinese, l’intervento dovrebbe essere preceduto da un voto della popolazione su entrambi i versanti dell’area frontaliera in questione.Non basta. La demarcazione del confine dovrà tenere conto delle infrastrutture esistenti o in fase di progetto, e dovrà permettere ai palestinesi ragionevoli possibilità di movimento dalla Cisgiordania alla striscia di Gaza e viceversa, senza tuttavia compromettere il territorio sovrano d’Israele.Dunque non esiste un’unica particolare ricetta per tracciare il confine. Piuttosto, l’operazione dovrà tener conto di una varietà di criteri geografici in ogni specifico segmento di frontiera – che si tratti di alcuni metri o di alcuni chilometri – e soltanto con l’accordo di entrambe le parti. Altrimenti ci ritroveremo di nuovo con un confine distorto e disfunzionale come la Linea Verde del 1949.(Da: Ha’aretz, 25.11.10)
Siena, 1 dic. - (Adnkronos) - L'Associazione Italia-Israele di Siena onlus ha istituito il Premio ''Italiani per Israele'' da attribuire ad italiani illustri che si sono distinti per il loro impegno e solidarieta' verso lo Stato di Israele. Il premio per l'anno 2010 sara' consegnato al Cavaliere del Lavoro Giancarlo Elia Valori, durante una cerimonia che si terra' venerdi' 3 dicembre, alle ore 17.30, presso la sede dell'Associazione Industriali della Provincia di Siena, in via dei Rossi 2. Dopo la premiazione, l'editorialista Stefano Folli presentera' l'ultimo libro di Giancarlo Elia Valori dal titolo ''La via della Cina'', edito da Rizzoli. Il professor Valori, presidente della Centrale Finanziaria Generale SpA, da anni si e' prodigato per la cooperazione e lo studio della pace in Medio Oriente, e grazie al suo costante impegno gli e' stata conferita la Cattedra onoraria per lo studio della Pace e della cooperazione internazionale presso l'Universita' Ebraica di Gerusalemme. La cerimonia di premiazione si svolgera' alla presenza del presidente dell'Associazione Italia- Israele di Siena, Remo Martini, e dal presidente della Federazione Nazionale delle Associazioni Italia-Israele, Carlo Beningi, e dal direttore della Associazione Industriali di Siena, Piero Ricci. 01/12/2010, http://www.libero-news.it/
Il dreidel di latta, che avevo comprato prima di Hanukkah, portava incise, sulle quattro facce, delle lettere in ebraico: nun, ghimel, he e shin. Secondo il babbo, queste erano le lettere iniziali di parole che significavano un grande miracolo è avvenuto là. … Ma per noi bambini ghimel significava vittoria, nun sconfitta, he mezza vittoria e shin un’altra possibilità per il giocatore. (Isaac Bashevis Singer, Una notte di Hanukkah). Anche nel racconto di Singer sembra rivelarsi una sorta di doppia identità di Hanukkah, forse simile a quella di cui parlava ieri rav Di Segni. La festa pare non avere lo stesso significato per i bambini e per gli adulti. In effetti sono le stesse tradizioni legate a Hanukkah a determinare questa divaricazione: mentre in altre feste (pensiamo per esempio a Pesach) tutto ciò che si fa per coinvolgere i bambini rimanda immediatamente alla storia che si vuole ricordare, a Hanukkah tra accensione delle candeline, frittelle e trottole la vicenda dei Maccabei sembra quasi passare in secondo piano. Anche le canzoni di Hanukkah parlano quasi sempre di luci, frittelle e trottole. Singer nei racconti che compongono Una notte di Hanukkah e parte di Zlateh la capra non lascia molto spazio né alla vittoria dei Maccabei né al miracolo dell’olio: tra storie fantastiche e vicende struggenti, dalla Russia zarista, al ghetto di Varsavia, il filo conduttore è la luce di Hanukkah che permette di tenere viva l’identità ebraica e accende una speranza quando tutto sembra perduto; ma in qualche modo in tutti i racconti anche le frittelle e le trottole prima o poi fanno la loro comparsa.Anna Segre, insegnante, http://www.moked.it/
Mentre decine di migliaia di alberi delle preziose foreste di Galilea ardono nel più vasto incendio che Israele si trova a fronteggiare, mentre si combatte per salvaguardare gli abitanti, la natura e il territorio e si rende omaggio alle decine di soccorritori e di civili che hanno perso la vita, il vasto fronte di aiuti internazionali che si sta dispiegando per fare da barriera alle fiamme porta in primo piano un segno di solidarietà fra le genti del Mediterraneo che spesso faticano a intendersi. Come già negli scorsi giorni avevano ampiamente dimostrato le rivelazioni da fonti diplomatiche diffuse sul web, le ragioni dell'unica democrazia del Medio Oriente non sono forse care solo agli ebrei di tutto il mondo, ma anche a tutte le società avanzate e persino a molti regimi islamici che spesso per opportunismo preferiscono tacere sulla scena pubblica. Israele è il bene più prezioso, le sue sorti e la sua integrità sono nel cuore di tutti noi. Ricordiamolo, aggiungendo luce, restando uniti alla vigilia di questo Shabbat Chanukka. E sentendoci accanto a tutti coloro che si espongono con determinazione per estinguere il fronte del fuoco.gv, http://www.moked.it/
È salito a 42 morti il bilancio dello spaventoso incendio che da ieri sta divorando i boschi del monte Carmelo, a pochi chilometri da Haifa (nel nord d’Israele). Venerdì mattina sono entrati in azione i primi aiuti internazionali invocati dal governo di Benyamin Netanyahu. A dare una mano anche tecnici e vigili del fuoco turchi, nonostante le pessime relazioni tra i due paesi.Secondo le autorità i feriti ricoverati in ospedale sono 17, alcuni dei quali in gravi condizioni. Quasi ventimila, invece, le persone sfollate. Tra le vittime, 36 sono guardie carcerarie, bruciate vive a bordo di un bus che si era ribaltato mentre partecipava alle operazioni di evacuazione del carcere di Damon. Gli altri morti pare siano poliziotti e soccorritori.Le fiamme intanto continuano a divampare e si stimano in 4000 gli ettari di bosco danneggiati. Alcuni kibbutz risultano semidistrutti, mentre diverse altre località sono state evacuate in tutto o in parte a scopo precauzionale, incluso un sobborgo periferico di Haifa, la terza città del Paese. Quasi totalmente svuotata è la cittadina drusa di Tirat Carmel, dove l’ospedale è stato sgomberato e le scuole sono chiuse. Chiuso temporaneamente anche un tratto della strada costiera numero 2.Il giorno dopo la tragedia, la stampa israeliana non risparmia gli attacchi alle autorità pubbliche locali e statali e agli apparati di soccorso nazionali. «Quello israeliano si è dimostrato un corpo dei vigili del fuoco degno del terzo mondo», ha scritto il progressista «Haaretz», mentre «Ma’ariv» ha descritto la giornata di giovedì come «il Kippur dei servizi di emergenza». Tracciando così un paragone fra l’impreparazione dimostrata a nord di Haifa contro l’incendio e il modo in cui le forze armate israeliane furono colte a sorpresa all’inizio della guerra del 1973.Molti giornalisti, poi, hanno puntato il dito contro il ministro dell’Interno, Eli Yishai (destra religiosa ebraica) chiedendogli, in alcuni casi, di dimettersi dalla guida del dicastero che occupa.Leonard Berberi, http://falafelcafe.wordpress.com/
TEL AVIV, 1 DIC - Uno dei tre principali gestori di telefonia mobile in Israele, Cellcom, ieri è rimasto paralizzato dalle prime ore della giornata per un guasto di natura ancora non accertata. Centinaia di migliaia di abbonati in tutto il territorio israeliano non sono riusciti ad inoltrare né a ricevere telefonate, mentre alcuni hanno potuto spedire - sia pure con qualche difficoltà - messaggi Sms. La vicenda - ha riferito la televisione commerciale Canale 10 - ha allarmato anche lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno. Il timore - ancora non corroborato da elementi concreti - è che Israele possa essere stato vittima di un attacco cibernetico in grande stile. Di fronte allo stato di emergenza il direttore generale della Cellcom, Amos Shapira, ha convocato una conferenza stampa che è stata anche mostrata ai clienti, in diretta, su internet. “Si tratta - ha detto Shapira - del guasto più grave mai patito dalla società, dalla sua fondazione. L’ipotesi di un sabotaggio è stata vagliata anche dallo Shin Bet, nel timore che dietro al black-out della società possano esserci nemici di Israele. Ad esempio gli Hezbollah libanesi (che ancora pochi giorni fa hanno accusato Israele di aver mantenuto segretamente il controllo del telefoni libanesi) oppure l’Iran. Secondo Globes, Cellcom (prefisso: 052) conta 3,3 milioni di abbonati e mantiene - assieme con Pelephone e Orange - il controllo quasi assoluto della telefonia mobile in Israele. Le altre reti telefoniche israeliane hanno funzionato in maniera regolare.http://www.moked.it/
Dal viceministro per l'informazione dell'Autorità Palestinese, Al-Mutawakil Taha, giunge l'utile informazione che il Muro Occidentale, superficialmente chiamato per secoli Muro del Pianto, non è ebraico. E' meramente induttivo che Gerusalemme non è ebraica, né sono ebraiche Tel Aviv e Haifa; come è fluidamente chiaro che il deserto del Negev non è ebraico, pur essendo deserto e quindi una concessione che poco impegna. Andando di seguito e spicciandoci, non è effettualmente ebraica la lingua ebraica, e non possono costituirsi come ebraici i titoli letterari che seguono e che riportiamo in lingua non ebraica per restaurare un minimo di chiarezza: il Genesi, il Patto di Abramo con il Creatore, subdolamente chiamato con nome ebraico. Non sono ebrei Isacco e Giacobbe. E Giuseppe, è inutile sottolinearlo, non è certo un nome ebraico, se no lo è anche Roberto. Non sono ebraici, non scherziamo, il Levitico, il Deuteronomio, le leggi che vi sono contenute, e i Comandamenti non se ne parla (NdA: i Comandamenti sono probabilmente turchi) . E figuriamoci se sono ebraici i Re, i Giudici, i Profeti, ebraiche le Haftarot, ebraici il Talmud, la Mishnà, e a proposito, i Proverbi. I Salmi poi sono tipicamente non ebraici. Ne segue, ed è assiomatico, che gli ebrei insediati nel territorio chiamato con espressione ebraicizzante Israel, così come i loro consanguinei sul pianeta, non costituiscono ad alcun titolo soggetto giuridico e non possono detenere una proprietà ebraica, essendo nell'insieme un soggetto sia a-storico che a-utistico. E dunque, e men che meno, gli ebrei sono o possono definirsi ebrei, posto che non esiste una reale ebraicità: essa è una mera rappresentazione onirica e questa gente dovrebbe curarsi in massa. Gli ebrei sono senza terra, sono senza lingua e sono senza sé. Per questo non si sono mai accorti di non esistere. Non esistono. Siamo un'altra volta uomini d'aria. Il Tizio della Sera, http://www.moked.it/
Un segno di attenzione durante i giorni più difficili della politica italiana. Il governo italiano si è impegnato ad assumere ogni iniziativa che ritenga utile per impedire manifestazioni di boicottaggio accademico nei confronti del mondo della cultura dello Stato d’Israele, attraverso un ordine del giorno presentato durante l’esame del disegno di legge sulla riforma dell’università. L'onorevole Emanuele Fiano (Pd) ha presentato la proposta con Walter Veltroni, Piero Fassino e Dario Franceschini e l'iniziativa è stata fra gli altri poi sottoscritta anche dei parlamentari Alessandro Ruben e Fiamma Nirenstein. Alla luce di alcuni avvenimenti degli ultimi mesi, tra cui l’adesione di alcuni atenei italiani alla Israeli Apartheid Week, si tratta di un documento che ha richiamato consensi su fronti diversi.Onorevole Fiano, come nasce l’idea di questo ordine del giorno, e cosa comporta la sua approvazione? In Parlamento quando si arriva all’approvazione di un disegno di legge, ciascun parlamentare può presentare un impegno per il governo collegato al tema del provvedimento in esame. Poiché io ritengo che il principio della libertà di espressione e di insegnamento venga calpestato dal boicottaggio accademico delle università israeliane, penso che la discussione della riforma dell’università fosse il momento giusto per intervenire su questo tema. La mia proposta è stata firmata da molti parlamentari, e poi approvata senza passare attraverso alcuna votazione, il che equivale a dire che maggioranza e opposizione sono state unanimemente concordi nell’appoggiarla. È un risultato molto importante.Quali sono le iniziative che potranno essere adottate? Spetterà al governo il compito di valutare di volta in volta quali azioni concrete intraprendere e, grazie a questo ordine del giorno, avrà il mandato parlamentare per farlo. Dal mio punto di vista per esempio, se si dovessero ripetere episodi di adesione a manifestazioni di boicottaggio, il governo potrà chiederne conto alla conferenza dei rettori o agli altri organi direttivi dell’università, ovviamente mantenendo il pieno rispetto per la sua autonomia.Secondo lei c’è il rischio che in Italia la situazione diventi come in Inghilterra, dove per un accademico israeliano parlare in un college è un'azione a rischio? Il rischio esiste soltanto se coloro che si impegnano per la difesa della libertà d’espressione decidono di non alzare più la voce quando questa libertà viene messa in pericolo. Ma questo non accadrà. Noi non staremo mai zitti.Qualche tempo fa lei ha espresso delle perplessità circa la proposta di una legge che punisca il negazionismo. Ritiene invece che uno strumento come quello dell’ordine del giorno potrebbe funzionare? Oppure secondo lei è meglio che il Parlamento non intervenga sulla materia?La questione è molto complessa. Penso che sicuramente l’individuazione di un reato penale non sia lo strumento giusto per combattere il negazionismo, pur essendo totalmente convinto che vada portato avanti ogni sforzo per contrastarlo.Rossella Tercatin, http://www.moked.it/
L’alba ci colse come un tradimento
giovedì 2 dicembre 2010
WikiLeaks fa a pezzi il ''linkage'' fra questione Iran e processo di pace
Da un articolo di Herb Keinon http://www.israele.net/
Sin dai primi giorni della presidenza di Barack Obama vi sono state due importanti differenze concettuali fra come vedono il Medio Oriente Israele e l’amministrazione americana.La prima differenza ha a che fare con il livello regionale. Da un lato gli Stati Uniti sostengono che risolvere l’enigma israelo-palestinese sia la chiave per sbloccare la pace in Medio Oriente e guadagnare l’adesione di altri paesi della regione perché aiutino a fermare la minaccia iraniana. La posizione di Israele, invece, ritiene che bisogna innanzitutto affrontare l’Iran – vale a dire, neutralizzarlo – perché ciò renderà più facile arrivare a un accordo coi palestinesi. La logica di Israele è che, se l’Iran sarà reso innocuo, Hamas e Hezbollah – i due scagnozzi dell’Iran – avranno molte meno chance di far fallire i lavori ogni volta che si delineano progressi diplomatici.La seconda fondamentale differenza concettuale ha a che fare col modo si risolvere il conflitto israelo-palestinese, con gli Stati Uniti ancora legati alla formula terra in cambio di pace – Israele cede terre e ottiene in cambio la pace – mentre gran parte di Israele, amaramente scottato dalla realtà, non è più convinto che tale formula sia pertinente.È a questo punto che si spalanca il forziere di documenti di WikiLeaks e rivela che il “linkage”, il collegamento di Obama fra soluzione del conflitto israelo-palestinese e Iran non è altro che una finzione: una finzione che Obama e i suoi più vicini collaboratori hanno continuato a spacciare sin dall’inizio del mandato.Nel suo primo incontro alla Casa Bianca col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel maggio 2009, il famoso incontro in cui chiese lo stop completo delle attività edilizie ebraiche negli insediamenti in Cisgiordania, Obama si vide chiedere che cosa pensasse della posizione d’Israele secondo cui solo risolvendo la minaccia iraniana si sarebbero potuti avere reali progressi sul versante palestinese. “Ebbene – rispose Obama – Non vi è dubbio che per qualunque governo israeliano è difficile negoziare in una situazione in cui gli israeliani si sentono in pericolo immediato. Non è certo una situazione favorevole ai negoziati. E come ho già detto, mi rendo conto delle legittime preoccupazioni di Israele circa la possibilità che l’Iran ottenga un arma nucleare quando ha un presidente che in passato ha dichiarato che Israele non dovrebbe esistere. Si tratta di una condizione che farebbe esitare i leader di qualunque paese. Detto questo però – continuò Obama – se c’è un legame fra Iran e processo di pace israelo-palestinese, io personalmente ritengo che esso vada nel senso contrario: nella misura in cui riusciremo a fare la pace con i palestinesi, cioè fra palestinesi e israeliani, penso realmente che ciò rafforzerebbe la nostra posizione nella comunità internazionale nel fare i conti con la potenziale minaccia iraniana”. Che questa posizione, questi progressi sulla questione israelo-palestinese, questo blocco delle costruzioni negli insediamenti dovrebbero in qualche modo magicamente rabbonire il mondo arabo, sponandolo a dare una mano riguardo all’Iran, è stata una costante di tutto il periodo Obama. In Israele viene popolarmente chiamata la formula “Yitzhar in cambio di Bushehr” (il piccolo insediamento israeliano in cambio della centrale atomica iraniana).Ciò che ha svelato il forziere di WikiLeaks, tuttavia, è che questo argomento era una invenzione. Non c’è nessun bisogno di forzare la mano sulla questione israelo-palestinese per guadagnarsi l’adesione delle nazioni arabe “moderate” (Arabia Saudita, stati del Golfo Persico, Egitto e Giordania) all’azione di contrasto all’Iran, giacché quelle nazioni sono già pienamente schierate e aspettano solo che si agisca concretamente contro il nucleare iraniano.Orbene, questo non significa che non ci si debba adoperare per cercare di risolvere la questione israelo-palestinese. Ma non si dica che il motivo per farlo è convincere gli arabi a fermare l’Iran. Il seguente campionario di dichiarazioni di leader arabi tratte dalla miniera WikiLeaks non disegna esattamente l’immagine di leader che hanno bisogno di ulteriori incentivi e lusinghe per essere convinti a prendere posizione.L’inviato saudita negli Stati Uniti avrebbe detto nel 2008 che re Abdullah dell’Arabia Saudita esortava Washington ad attaccare l’Iran per porre fine al suo programma nucleare e, stando a uno dei dispacci, parlando dell’Iran avrebbe detto che è necessario “tagliare la testa del serpente”. Secondo un altro dispaccio, l'Arabia Saudita sarebbe atterrita non solo dalla minaccia nucleare iraniana, ma anche dai disegni egemonici di Teheran nella regione. Nel marzo 2009 re Abdullah avrebbe detto che, quand’anche venisse risolto il conflitto israelo-palestinese, “l'obiettivo dell'Iran resta quello di creare problemi: che Dio ci preservi dal diventare loro vittime”. Come le altre monarchie del Golfo (ad eccezione del Qatar), l’Arabia Saudita sarebbe preoccupata anche per le ambizioni di egemonia dell’Iran sciita e persiano. “Abbiamo avuto rapporti corretti in passato, ma non possiamo fidarci di loro”, avrebbe detto il monarca saudita a funzionari Usa nel 2009, raccontando anche d’aver chiesto al ministro degli esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, di allontanarsi da Hamas. “Sono musulmani”, avrebbe risposto il ministro iraniano (stando al documento Usa). E il re avrebbe ribattuto: “No, sono arabi, e voi persiani non dovete interferire negli affari arabi”.Nel 2009 re Hamad del Bahrain avrebbe detto, a proposito del programma nucleare iraniano, che “deve essere fermato: il pericolo di lasciarlo andare avanti è peggiore del pericolo di fermarlo”.Sempre nel 2009, secondo un altro dispaccio, il principe ereditario di Abu Dhabi, Muhammad bin Zayed, avrebbe sollecitato gli Stati Uniti a non assecondare Teheran, dicendo che “Ahmadinejad è Hitler”. Secondo altri dispacci, in un incontro del luglio 2009 con il segretario al tesoro Usa Timothy Geithner lo sceicco Mohammad bin Zayed, avrebbe detto che “ una guerra convenzionale a breve termine con l'Iran è chiaramente preferibile alle conseguenze a lungo termine di un Iran nucleare”. Nel 2006, parlando del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, avrebbe detto: “Penso che quest’uomo ci porterà alla guerra”.Il generale Muhammad al-Assar, assistente del ministro della difesa egiziano, nel 2010 avrebbe detto che “l’Egitto considera l’Iran una minaccia per tutta la regione”. Lo stesso presidente egiziano Hosni Mubarak avrebbe detto, circa l’Iran: “Siamo tutti terrorizzati”.Obama era evidentemente ben consapevole delle opinioni di questi leader, la maggior parte dei quali egli ha anche incontrato personalmente. Eppure ha continuato a divulgare ciò che ormai sapeva essere una falsità: che quei paesi avrebbero sottoscritto sanzioni o altre forme di sostegno agli sforzi per neutralizzare l’Iran soltanto se vi fossero stati progressi sul versante israelo-palestinese. È chiaro che quei paesi vorrebbero vedere progressi su versante israelo-palestinese, ma questo loro desiderio non ha nulla a che vedere con l’Iran. E nessun accordo israelo-palestinese li spingerebbe a sostenere misure più combattive verso l’Iran, giacché in pratica sono già totalmente favorevoli a tali misure.Legare le due questioni – il conflitto con i palestinesi e l’Iran – serve solo a confondere malamente il problema. Il motivo preciso per cui Obama si sia sentito in dovere di farlo è uno degli interrogativi chiave suscitati dai documenti di WikiLeaks in relazione al Medio Oriente.(Da: Jerusalem Post, 30.11.10)