sabato 23 ottobre 2010


Saviano difende Israele e viene insultato su Internet

Doveva essere l'occasione per riflettere. Si è trasformata in un j'accuse la maratona oratoria «Per la verità, per Israele» che si è tenuta a Roma lo scorso 6 ottobre in Piazza di Pietra fra gli interventi di politici e intellettuali di ogni estrazione e credo. A farne le spese però è stato Roberto Saviano che aveva dato la sua adesione ricordando anche le proprie origini ebraiche. Apriti cielo: lo scrittore "paladino di molte battaglie di sinistra al fianco di una delle prese di posizioni che sovente sono state appannaggio del centrodestra". Non sia mai! Su internet e non solo è infuriata la polemica. Al centro del contendere il messaggio di Roberto Saviano: «Cerco di sperare che in Italia a destra, sinistra, centro, comunque la si pensi, si possa parlare con maggiore cognizione, profondità. La mia verità su Israele si nutre di questo: si nutre del ragionamento contro la delegittimazione di una cultura e di un popolo». E giù un profluvio di messaggi. «La memoria di Peppino Impastato contro Roberto Saviano» scrive Palestinelivre in un post al video dell'intervento dello scrittore che RadioRadicale ha messo su You Tube .
«Saviano ha espresso dei motivi per stare dalla parte di Israele profondamente di sinistra e questa per i fasciocomunisti è insopportabile» risponde Messerfrankfurter . «E dopo questo vuoto e inutile pistolotto di Saviano i palestinesi ringraziano per i cento anni di feroci massacri e provvedimenti razzisti fatti da israeliani su donne, uomini e bambini che hanno avuto (e hanno) l'unico torto di vivere sulla loro terra» attacca Altyair. «Saviano uguale al nano che schifo!!!!!!!» aggiunge il laconico Slealayfi.A nulla vale che l'iniziativa bipartisan di solidarietà allo Stato ebraico sia stata promossa da un gruppo trasversale di parlamentari (tra cui Fabrizio Cicchitto, Piero Fassino, Giovanna Melandri, Mara Carfagna, Benedetto Della Vedova, Luca Barbareschi, Francesco Rutelli, il sindaco Alemanno), artisti e intellettuali, (Lucio Dalla, Giorgio Albertazzi, Cristina Comencini, Rita Levi Montalcini e Umberto Veronesi) su iniziativa di Fiamma Nirenstein, per «porre fine alla valanga di bugie che ogni giorno si rovescia su Israele». Scrive Il Giornale in maniera provocatoria che «Roberto Saviano piace alla sinistra estrema a patto che non difenda Israele. Se lo fa, beh allora si può linciarlo o almeno lasciarlo fare ai camorristi. E "disgrazia sua", ha parlato delle sue origini ebraiche e ha indicato come via di soluzione per la crisi arabo-israeliana la formula "due popoli, due democrazie". Il quotidiano di via Negri riporta, definendoli "feroci e quasi tutti anonimi" alcuni messaggi postati quali «Io caro Saviano ti toglierei la scorta!! ci costi troppo e non ne vale la pena»; «Grazie Saviano perché finalmente abbiamo capito di che pasta sei fatto... E i crimini contro l'umanità commessi da Israele non li denunci. Vergognati. Non ti credo più»Su tutti spicca il messaggio di Giulia: «Che tu lo voglia o no rigurda anche te. Apri il tuo spirito e vomita tutto l'odio inutile che hai dentro e inchinati davanti a uomini come Saviano che rischiano la vita e pagano il coraggio in prima persona, non nascosti dietro feticci di odio. Grande Saviano uomo libero». Oltre gli inutili steccati ... c'è Giulia. 13 ottobre 2010, http://www.ilsole24ore.com/


A woman lighting Shabbat candles
Il Sabato di una laica

di Vera Rauch, 2010/10/21, http://www.kolot.it/
Un antidoto allo stress quotidiano, all’assuefazione al consumismo, al logorio per l’arrivismo, alla generale nevrosi della vita moderna: cerchiamo di osservare il Sabato, come ci hanno insegnato i Maestri. Non nascondo che provengo da una famiglia assimilata tanto assimilata che quasi volevo preparare l’albero di Natale come facevano le mie amichette nell’anno 1945, quando mio padre mi disse con voce calma e persuasiva: Ma no… noi siamo ebrei e non facciamo l’albero di natale…
Allora scoprii qualcosa… e incominciai ad interrogarmi, a interrogare mio padre che da lungo tempo ci parlava dei Profeti. Poi piano piano, dissi a me stessa che allora dovevo incominciare ad avere contatto con la realtà della vita ebraica e mi avvicinai istintivamente a ciò che sentivo e pensavo essere il punto centrale di esplorazione e di richiamo alla conoscenza dell’Ebraismo: IL RABBINO.Ci vollero molti anni, dalla fine della guerra, da Rav Shauman, (Z.L.) grande maestro e operatore anche nell’ambito della comunità “israelitica” genovese nei primi anni del dopoguerra velata da un ebraismo quasi “timido”, smarrito , a riportarci a gradi ad una coscienza ebraica. Poi gli esempi e gli insegnamenti del Rabbino Aldo Luzzato (Z.L.) e la volontà di partecipare a tutto ciò che l’ebraismo italiano preparava con programmi creativi per riunire i giovani, mi rendevano sempre più consapevole di non essere una goy, mi stavo appropriando di un diverso concetto di vita, di spiritualità.In seguito la mia esperienza ebraica in Israele nel 1967: specialmente al Sabato quando non potevo comprare, essendo i negozi chiusi, e la televisione israeliana non emetteva programmi, che poi riprendeva alla fine dello Shabbat, con l’apertura in tono solenne di una Massima dei Padri. Con lo studio della lingua ebraica, ora posso capire alcune bellissime tefillot sabbatiche e comprendere meglio le approfondite lezioni di Rav Giuseppe Momigliano e le interessanti lezioni di Rav Carucci, poiché al mio ritorno in Italia, si è rafforzata la volontà di continuare il cammino su quel tracciato di vita che avevo intrapreso anni prima e sperimentato dopo in Israele, e che mi aiuta e mi sta aiutando a capire la bellezza e la profondità dell’osservanza del Sabato, delle 39 melachot che non si devono compiere e che io non riesco ancora ad osservarle tutte. Forse perché vivo nella diaspora?Ebbene, per me che sono una iperattiva, oggi benedico il Sabato che, se non lo osservassi anche parzialmente, non potrei dedicarlo alla preghiera, alla passeggiata, alla lettura, alla meditazione, delizie che durante la settimana, fuori di casa per impegni di lavoro o all’interno di essa con il telefono computer televisione, non troverebbero spazio. E poi avete mai provato un giorno totalmente diverso da tutti gli altri ? Provatelo e vi invito ad esprimere la vostra sensazione. La mia è quella di sentirmi circondata da una calma interiore ed esteriore, di assaporare i cibi senza fretta e frastuono, e senza squilli di telefono… e di leggere alcuni libri che da anni facevano solo da “sfondo” negli scaffali.In California al Sabato, insieme a mio figlio, nuora, nipotina facevamo, immersi nel verde, deliziose passeggiate, ci dedicavamo alla lettura o conversavamo sulla Parashà, oppure attendevamo tranquillamente degli ospiti. Mi sembrava di sentirmi meglio, che la mia salute ne beneficiasse, e perciò, concludo con una frase tratta dal Libro di Dayan Grunfeld “Lo Shabbth”: “Ho un dono prezioso tra i miei tesori – disse D-o a Mosè: il suo nome è Shabbath. Va e dì a Israele che desidero donarglielo.”


Emozioni dal mondo, premiati 57 vini
Sono 57 le medaglie d’oro assegnate dopo le degustazioni del sesto Concorso Internazionale ‘Emozioni dal Mondo: Merlot e Cabernet Insieme’.Nell’affascinante cornice del Castello degli Angeli a Carobbio degli Angeli (Bergamo) 59 giudici, 35 stranieri, originari di 22 nazioni e 25 italiani hanno degustato e valutato 202 campioni provenienti da 21 paesi (Argentina, Australia, Brasile, Cile, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Israele, Italia, Malta, Perù, Repubblica Ceca, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Sud Africa, Svizzera e Turchia).Ben 57 i vini che hanno raggiunto la soglia prevista dal regolamento per l’assegnazione della medaglia d’oro (tra 85 e 92/100), 4 quelli che sono stati insigniti della medaglia d’argento (82-85/100), questi ultimi tutti italiani. Ma la vera emozione, quella veramente internazionale, è la rappresentatività mondiale delle medaglie d’oro: 9 a Israele, 4 alla Croazia, 3 alla Francia, 2 alla Turchia e una ciascuno a Sudafrica, Argentina, Australia, Usa, Serbia, Spagna e Brasile, che conclude con una vittoria la sua prima partecipazione al Concorso. Notevole anche il riconoscimento ricevuto dai campioni italiani: 32 quelli insigniti della medaglia d’oro, di cui 8 bergamaschi. ..................


La diplomazia del terzo tempo

di Daniele Palumbo 20/10/2010 http://www.step1.it/
Può uno sport fisico come il rugby unire persone che si credevano “nemiche”? È ciò che sta succedendo a Budapest in una settimana di integrazione tra un team israeliano, uno palestinese, uno ungherese e uno italiano, gli All Reds di Roma. Ci racconta tutto un inviato speciale di Step1
“Uno sport come il rugby ha la fama di essere duro e violento. In effetti lo è. Ma noi vogliamo abbattere tutte le divisione tra le nazioni, analizzare tutti i problemi come una grande famiglia, un unico team, utilizzando il rispetto e il senso di fratellanza tipico di questo sport”. Martin Bistrai, professore di diplomazia medio-orientale all’università ELTE di Budapest e responsabile di Anthropolis Association, commenta l’inizio di una grande settimana di cultura e integrazione che vedrà come protagonisti due team di una delle zone più calde del pianeta: Israele, con i Bear shiva Camels, e Palestina, con i Beitjala lions. Parteciperanno al torneo anche un team ungherese, gli AVF Mokysok, e uno italiano, gli All Reds di Roma, team antirazzista della capitale giunto fino a qui per dare un forte messaggio di amicizia e solidarietà.Anthropolis Association lavora dal 2002 per l’integrazione della popolazione palestinese con quella israeliana, e non solo, con iniziative mirate all’aggregazione e alla convivenza dei più giovani. “Ho vissuto e lavorato come ricercatore per quattro anni all’università di Betlemme – continua il prof. Bistrai – e il clima che si respirava, e che si respira ancora oggi, non può essere compreso solo guardando la televisione. Si ha bisogno di stare a contatto con questi ragazzi, israeliani e palestinesi, per percepire i loro problemi, la loro assenza di identità (molti di loro, per continui cambiamenti politici, non possiedono un passaporto), il loro sentirsi vicini dimenticando tutto quello che è la violenza. Ciò senza limiti di età. Qui ci sono ragazzi tra i 16 e i 26 anni che hanno da sempre vissuto una realtà difficile da capire”. Intanto i ragazzi palestinesi entrano nell’ostello e già tutto comincia a trasformarsi. I ragazzi sono tranquilli e cominciano da subito a intonare canzoni arabe. L’impatto con i ragazzi israeliani però si rivela più silenzioso del solito. Come se anche solo la vista gettasse un velo di gelo e facesse tornare indietro.“Siete qui, per imparare a convivere insieme. Siete presenti per la volontà di ognuno di voi di essere qui e di conoscere cosa vi è nella “mente del nemico” e farlo diventare uno dei propri migliori amici. Global Education through Sports. Questo il nome di questa settimana che vuole mettervi nelle condizioni di entrare in relazioni tra di voi, fare uscire il meglio di voi stessi, e cercare di mettersi nella mente del diverso”. I ragazzi si guardano, si stringono le mani presentandosi e iniziano a conoscersi, ma il prof. Bistrai comincia a spiegare un retroscena che fa capire come le discriminazioni sono presenti non solo in Palestina: “Purtroppo il torneo ha avuto un grande ritardo a causa della mancata e improvvisa partecipazione del team slovacco. Da sempre l’Ungheria e la Slovacchia hanno avuto antipatie reciproche e molti problemi per quanto riguarda le etnie e i confini, ma non partecipare a un torneo di questa portata senza dare una motivazione, ci ha demoralizzato moltissimo. Speriamo di dare anche a loro un messaggio forte con la riuscita del progetto".La Anthropolis Association ha vinto un concorso bandito dalla comunità europea che porta lo stesso nome del progetto, Global Education through Sports. “Qui – ci dice ancora il prof. Bistrai – avremo anche degli ispettori della comunità europea e vogliamo che i ragazzi si sentano se stessi e si divertano. La manifestazione ha questo scopo: abbattere le tradizionali barriere e i pregiudizi attraverso lo sport e il rispetto che troviamo in esso. Noi ci crediamo, speriamo di avere i nostri amici slovacchi nella prossima edizione”.La settimana prevede attività sportive di tutti i tipi e giochi all’interno della città di Budapest con squadre miste in modo da incrementare l’integrazione tra i partecipanti. Saranno presenti gli psicologi dell’università ELTE di Budapest che svolgeranno un ruolo fondamentale. Analizzeranno con i ragazzi le divergenze tra i gruppi e li metteranno in condizione di confrontarsi anche negli argomenti più scottanti, studiando i casi di discriminazione e come affrontarli; tutto ciò a porte chiuse e lontano dalle telecamere. Sono presenti, infatti, alcune televisioni, tra cui la BBC, e il giornale più autorevole nel mondo del rugby, Total Rugby. Stanno per iniziare, inoltre, gli allenamenti per il torneo che si svolgerà il prossimo fine settimana e si concluderà con una grande cena interculturale dove tutti metteranno in mostra le loro capacità culinarie. Una grande festa dell’amicizia.


Comunità ebrei Bukhara
I misteriosi ebrei di Bukhara

Bukhara, Uzbekistan. “Gli ebrei di Bukhara? Sono a New York”. Così, prima che partissi per l’Uzbekistan, diversi esperti di storia dell’ebraismo rispondevano alla mia domanda su una delle più antiche e misteriose comunità ebraiche del mondo. E certamente a New York gli ebrei di Bukhara ci sono. Percorrendo la 108a strada del quartiere di Forest Hills, nel sobborgo newyorchese di Queens, s’incontrano più ebrei di Bukhara – con i loro ristoranti, negozi, musica e devozioni – che a Bukhara, in Uzbekistan. Dei duecentomila ebrei di Bukhara che ancora sopravvivono nel mondo, un quarto – cinquantamila – è a New York. Altri diecimila sono sparsi fra varie città degli Stati Uniti e del Canada. Centomila vivono in Israele, dove molti sono emigrati recentemente: ma il “Quartiere Bukhara” di Gerusalemme si è formato già nel diciannovesimo secolo. Ne rimangono – nonostante tutto – in Austria e Germania, e centri di qualche importanza si trovano a Mosca e in Australia. Non resta più nulla in Francia, da cui i rappresentanti di questo popolo salvati dalle persecuzioni naziste sono quasi tutti emigrati in Israele e in America. Né in Afghanistan, da cui gli ultimi ebrei di Bukhara sono stati messi in fuga dai talebani (anche se funziona ancora una piccola sinagoga fra gli afghani di Peshawar, in Pakistan).E tuttavia gli ebrei di Bukhara ci sono anche in Asia Centrale. A Dushambe, la capitale del Tagikistan, ne sopravvivono un migliaio e un’antica sinagoga, che nel febbraio 2006 è stata demolita dal governo che intendeva costruire al suo posto un nuovo palazzo presidenziale, il Palazzo delle Nazioni. Dopo l’intervento del Dipartimento di Stato americano e dell’UNESCO il governo di Dushanbe ha fermato i lavori e autorizzato la ricostruzione della sinagoga com’era e dov’era: ma a spese della piccola comunità ebraica tagika, che sta ora raccogliendo fondi nel mondo per tornare dall’attuale ammasso di rovine alla sinagoga del 1901. E ci sono ebrei di Bukhara perfino a Bukhara. Andando a Bukhara trovo anzitutto la Magoki Attoron, la “moschea del pozzo”, che è proprio di fronte a uno dei nuovi alberghi costruiti per i turisti stranieri, l’Hotel Asia Bukhara. La tradizione locale vuole che ebrei e musulmani abbiano condiviso lo stesso luogo di culto – il cui scheletro ricorda certamente la struttura di una sinagoga –, anche se non manca chi sostiene che si tratti di un’antica moschea trasformata in luogo di culto per gli ebrei da qualche emiro di Bukhara che li proteggeva, o al contrario di un’antica sinagoga trasformata in moschea. Per non sbagliare, l’attuale governo uzbeko ne ha fatto – come per tantissime altre moschee e madrasse, solo una minoranza delle quali resta destinata all’uso religioso – un “museo”: una nozione che in un paese autoritario che si apre al turismo di massa (e spesso si chiude alla religione, per timore del fondamentalismo islamico) identifica uno spazio dove si entra a pagamento, non si prega ma volendo si compra, negli spazi affittati a venditori di tappeti e di altri oggetti del ricco artigianato locale. Gli ebrei ortodossi che vengono dagli Stati Uniti tuttavia entrano e pregano. Trattandosi di turisti portatori di valuta pregiata – anche il dollaro svalutato lo è rispetto al povero som uzbeko non convertibile – le autorità chiudono un occhio, o magari tutti e due.Ai margini del quartiere di Lyab-i Khauz, un tempo “quartiere ebraico” ma caratterizzato anche da moschee e madrasse dall’inconfondibile stile sufi (oggi, al solito, “musei”), cercando con attenzione si trova anche la vera sinagoga, una struttura relativamente modesta, che esiste però fin dal 1600 circa. La comunità non è ricca, ma non ha perso la speranza e – si direbbe – la voglia di vivere. Il rabbino racconta di parecchi problemi economici, ma di un rapporto improntato tutto sommato al quieto vivere con lo Stato e con la comunità musulmana locale. In Uzbekistan la legge vieta la pratica della religione al di fuori delle strutture registrate (e la sinagoga di Bukhara lo è), nonché il proselitismo: ma gli ebrei non ne fanno. Paradossalmente, la sorveglianza statale è talora più occhiuta nei confronti della maggioranza musulmana (che ha peraltro una tradizione sufi piuttosto aperta e tollerante) che delle minoranze cattolica, ortodossa ed ebraica. Qualche difficoltà amministrativa c’è stata (anche per i cattolici) ma sembra dovuta, più che al desiderio di tenere buoni i pochi attivisti islamici, a una generale difficoltà di rapporti fra ogni struttura indipendente dallo Stato e la burocrazia del presidente Karimov, che mantiene ancora molti tratti tipicamente sovietici. Se la passano peggio – tanto più dopo la rottura di Karimov con gli Stati Uniti e il riavvicinamento alla Russia di Putin – pentecostali e protestanti fondamentalisti, che cercano d’impiantarsi nel Paese dove però non ottengono la registrazione e spesso sono espulsi o messi in prigione.L’attività di ebrei e cristiani è del resto in qualche modo protetta dall’interesse della comunità internazionale. Il rabbino mi mostra con orgoglio le fotografie di una visita alla sua modesta e povera sinagoga da parte della senatrice Hillary Clinton, che senz’altro è venuta fin quaggiù con un occhio ai cinquantamila ebrei di Bukhara che vivono nel suo collegio elettorale. Ma la vita degli ebrei a Bukhara sembra ragionevolmente tranquilla. La grande fuga verso Israele e gli Stati Uniti dopo che la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha aperto le porte all’emigrazione c’è stata, ma il rabbino – contrariamente a molti esperti occidentali che prevedono a breve l’estinzione degli ebrei di Bukhara nel loro focolare originario in Uzbekistan – pensa che ormai sia finita. In un Paese dove lo Stato incita al controllo delle nascite, il segno principale di speranza è che le coppie ebraiche rimaste fanno molti bambini. Tra i poco meno di mille ebrei che restano a Bukhara la metà sono bambini, che sciamano apparentemente felici dalla scuola ebraica che funziona a pieno ritmo. Ce ne sono altri nella capitale Tashkent e a Samarcanda, dove pure le sinagoghe sono aperte. In totale, gli ebrei in Uzbekistan sono poco più di duemila.Ma gli ebrei che sono in Uzbekistan – e gli ebrei che trovo a Bukhara – sono tecnicamente “ebrei di Bukhara”? Non tutti, ma la domanda presuppone una definizione di che cosa sia un “ebreo di Bukhara”. La questione è avvolta in qualche incertezza storica. Tradizionalmente si riteneva che Bukhara (Hador) fosse parte dell’impero babilonese e che quelli di Bukhara fossero ebrei deportati a Babilonia e mai tornati nella terra d’Israele. Oggi molti storici dubitano che i babilonesi abbiano mai controllato Bukhara e pensano che gli ebrei vi siano giunti nel sesto secolo avanti Cristo, quando la città era parte del fiorente Impero Persiano. È certo che molti ebrei arrivarono a Bukhara nel secondo e nel primo secolo avanti Cristo, agli albori della formazione di quella “via della seta” che sarebbe durata per mille e seicento anni. Comunque sia, gli ebrei di Bukhara persero ampiamente il contatto con il resto del mondo ebraico per riprenderlo solo alla fine del Medioevo. Svilupparono così una cultura religiosa, una lingua e una musica uniche al mondo. Mentre l’antica lingua ebraica si perdeva come lingua parlata fra gli ebrei del mondo intero – sarebbe stata restaurata soltanto dal moderno Stato d’Israele – a Bukhara l’ebraico si mescolava con il tagiko (una variante del persiano) per creare la lingua bukhori, che alcuni ebrei in Uzbekistan parlano ancora oggi. Ma la maggioranza parla solo o soprattutto il russo, compreso il rabbino che ha nella sua sinagoga un ritratto del defunto leader del movimento hassidico dei Lubavitcher, Menachem Mendel Schneerson (1902-1994). Il rabbino, però, nega che la sua sia una sinagoga Lubavitcher. Gli ebrei di Bukhara dipendono amministrativamente dalla comunità ebraica russa, che ha affidato a rabbini Lubavitcher molte sinagoghe frequentate però in maggioranza da fedeli che non fanno parte del movimento. E la storia è più complessa, perché ci sono state presenze Lubavitcher fra gli ebrei di Bukhara fin dal diciannovesimo secolo. Mentre gli ebrei mondiali si dividono per rito e costumi (a seconda dell’origine remota dall’Europa Centrale o dalla Penisola Iberica) in ashkenaziti e sefarditi, gli ebrei di Bukhara non sono né l’uno né l’altro, ma hanno riti e costumi altrettanto particolari della lingua. Sono ancora famosi soprattutto per i vestiti, la musica e la cucina: anche se gli amici del rabbino che sono lieti di avere un ospite straniero ammettono che la grande cucina “ebrea di Bukhara” oggi si trova soprattutto a New York. “Ebreo di Bukhara” è un’espressione che identifica dunque non gli ebrei di una città ma un gruppo etnico che ha creato nei secoli una declinazione religiosa e culturale dell’ebraismo assolutamente peculiare. Alcuni ebrei che sono nella città di Bukhara non sono “ebrei di Bukhara” ma ashkenaziti venuti dalla Russia in diversi periodi storici.Duramente perseguitati dagli ultimi re zoroastriani della Persia, gli ebrei di Bukhara accolgono come liberatori i musulmani, che almeno promettono loro, come seguaci di una “religione del Libro”, la condizione di dimmi (cittadini di seconda classe, ma liberi di professare la propria religione). E sotto i musulmani gli ebrei di Bukhara sopravvivono per oltre un millennio, anche se non mancano massacri e conversioni forzate, e l’immagine idilliaca dell’armonia fra ebrei e musulmani vale solo per pochi anni di regno di alcuni emiri dello Stato indipendente di Bukhara, che impiegano volentieri gli ebrei come medici, consiglieri economici e musicisti (ma altri li perseguitano sospettandoli di essere spie russe). Un musicista di corte degli emiri come Levi “Levicha” Babahanov (1873-1926) diventa famoso anche in Russia. Ma Babahanov è un esempio di ebreo che ha dovuto attraversare il periodo più buio della storia della comunità di Bukhara. Durante la Prima guerra mondiale l’Asia Centrale – fra cui l’emirato di Bukhara, dal 1873 sotto protettorato russo – si solleva contro la coscrizione obbligatoria nell’esercito zarista, e lo fa in nome dell’islam, con massacri delle minoranze cristiane ed ebraiche. All’arrivo dei bolscevichi, contro gli ebrei sospettati di sentimenti contro-rivoluzionari o comunque “borghesi” si scatena il Terrore Rosso. Eppure da tutto questo gli ebrei di Bukhara si riprendono e sopravvivono. Negli anni di Stalin diversi ebrei acquistano posizioni importanti nel governo locale dell’Uzbekistan: ma questo avviene solo per coloro che nascondono la loro religione e le loro tradizioni. Dopo la Seconda guerra mondiale – in cui muoiono almeno diecimila ebrei di Bukhara arruolati nell’Armata Rossa – la religione conosce un momento di respiro e nel 1945 Stalin permette che la sinagoga di Bukhara sia riaperta. Ma il presunto “complotto dei medici” (1948-1953) per uccidere lo stesso Stalin coinvolge alcuni dottori che sono ebrei di Bukhara: ne segue una repressione durissima, che non è interrotta neppure dalla morte del tiranno nel 1953. Solo con Mikhail S. Gorbaciov la manifestazione palese dell’identità ebraica a Bukhara diventa di nuovo possibile: ma molti approfittano delle aperture di quegli anni per emigrare. Lo Stato indipendente uzbeko – autoritario e diffidente verso la religione in genere – non ha, di per sé, particolarmente incoraggiato gli ebrei a rimanere nel Paese. Dai trentamila ebrei di Bukhara che vicevano in Uzbekistan nel 1970 si è così scesi agli attuali duemila. Ma, come si è visto, qualcuno resta. Anche a Bukhara – e non solo a Gerusalemme e a New York – l’ultima pagina di questa più che bimillenaria storia non è ancora stata scritta.di Massimo Introvigne (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 6, numero 47, 24 novembre 2007)


1948: Nave Altalena affondata dall'asercito israeliano*

Il mondo internet palestinese è dominato da intransigenza ed estremismo

Uno studio dei social network palestinesi commissionato dalla Foundation for Defense of Democracies mette in luce quelli che vengono definiti i “gravi rischi per la sicurezza d’Israele” che potrebbero sorgere qualora gli Stati Uniti esercitassero eccessive pressioni per un accordo di pace basato prevalentemente su rilevanti concessioni israeliane. L’innovativo rapporto trae la conclusione che i governi occidentali sbagliano nel trascurare il trend che vede proliferare sul web le posizioni più estremiste contro la pace con Israele.I risultati su cui si basa il rapporto sono il frutto di un sistematico lavoro di monitoraggio e di analisi dei testi, relativi a questo argomento, “postati” da palestinesi per lo più di Cisgiordania e striscia di Gaza su vari siti come Facebook, Twitter, Youtube e altri blog e social network. Tali risultati mostrano uno spaccato delle opinioni espresse dagli utenti palestinesi che a loro volta, secondo lo studio, riflettono le opinioni predominanti nella società palestinese, o quanto meno nella sua élite più informatizzata e ascoltata.La ricerca, intitolata “Il polso palestinese” ,è stata condotta da Jonathan Schanzer e Mark Dubowitz, entrambi ricercatori della Foundation for Defense of Democracies, un ente con sede a Washington istituito con lo obiettivo di fornire ai responsabili delle decisioni politiche innovativi strumenti di analisi dei social network. Lo studio si è avvalso di un metodo inedito: anziché mettere in rete rilevamenti e sondaggi, Schanzer e Dubowitz hanno utilizzato un software ideato dalla ConStrat, una società che distribuisce tecnologia miliare per conto del Comando Centrale americano. Nell’arco di due mesi, spiegano gli autori, “la ConStrat ha monitorato approssimativamente 10.000 accessi palestinesi su social network, e ne ha analizzato circa il 20% secondo criteri di pertinenza. Alla fine, il software ha esaminato in dettaglio 1.788 affermazioni contenute in 1.114 post singoli su 996 thread scritti da 688 autori”.Secondo il rapporto, questa campionatura offre un quadro relativamente chiaro delle tendenze chiave della società palestinese. “La Foundation for Defense of Democracies – spiegano Schanzer e Dubowitz in un articolo su “The National Interest” – ha intrapreso questo studio sulla base dell’assunto che i social network on-line forniscono importanti elementi di analisi politica, specie nel caso del mondo internet palestinese giacché il web assicura anonimato e libertà di espressione. Mentre i sondaggi d’opinione sono spesso progettati per ottenere specifiche risposte, il mondo dei social network è in gran parte libero da manipolazioni e condizionamenti esterni. La maggior parte dei palestinesi scrive sotto pseudonimo, il che permette loro di affrontare questioni controverse senza il timore di ritorsioni”. La principale conclusione che emerge dalle 102 pagine del rapporto è che “sebbene il panorama web palestinese non sia privo di utilizzatori che hanno opinioni da moderate a liberali, esso rimane prevalentemente dominato dall’estremismo”.Alcune delle conclusioni dello studio non sono del tutto sorprendenti, a partire dal fatto che Hamas mostra scarsissimo interesse per una pace con Israele(“su questo argomento, i sostenitori di Hamas non mostrano apparentemente nessuna distanza da posizioni come quelle di al-Qaeda o dei salafiti”); che Fatah è lacerato da diatribe interne (“i sostenitori di Fatah si dividono grossomodo a metà fra coloro che sostengono un approccio non-violento e coloro che propugnano lotta armata e terrorismo”); e che il conflitto fra Hamas e Fatah non sembra affatto avviato a soluzione. I risultati non promettono nulla di buono anche per quanto riguarda gli effetti della espansione iraniana sulla società palestinese. “Vi sono ben poche evidenze – scrivono i ricercatori – che i palestinesi siano disposti pronti a fronteggiare la crescente ingerenza iraniana nella striscia di Gaza, dove è già predominante, né in Cisgiordania, dove tale influenza è meno evidente”. “Le fazioni palestinesi favorevoli alle riforme – scrivo inoltre Schanzer e Dubowitz – sono deboli e hanno scarsissima influenza on-line, una spia d’allarme circa gli esiti della costruzione di istituzioni o della loro liberalizzazione”.All’analisi del materiale raccolto, gli autori aggiungono alcune loro raccomandazioni. Innanzitutto, scrivono, “gli Stati Uniti non possono permettersi di minimizzare il potenziale impatto della aumento dell’estremismo e dell’intransigenza palestinesi. Se l’ambiente on-line è un indicatore anche solo relativamente preciso dei sentimenti della società palestinese, l’amministrazione Obama dovrebbe prendere in considerazione i gravi rischi che deriverebbero alla sicurezza d’Israele da pressioni troppo aggressive e precipitose per un accordo di pace complessivo”. Inoltre, il governo americano dovrebbe tenere d’occhio la presenza palestinese in internet giacché questa può fornire risultati più accurati di quanto non facciano sondaggi d’opinione spesso discutibili e contestati.(Da: Jerusalem Post, YnetNews, 20.10.10)http://www.israele.net/ *l'Irgun durante un breve periodo di tregua concordato dal governo provvisorio israeliano con gli eserciti arabi, tenta di far sbarcare dalla nave Altalena un carico di armi ma l'esercito regolare israeliano, su ordine di David Ben-Gurion, reagisce affondando la nave.


Israele: esercito blocca Facebook e Gmail per evitare interferenze Hamas

Gerusalemme, 20 ott. - (Aki) - Social network vietati per i militari israeliani. Lo ha annunciato il capo del corpo di intelligence per la sicurezza delle informazioni, Gadi Abadi, spiegando che siti come Facebook o Twitter, ma anche Gmail, non saranno piu' accessibili dalle connessioni Internet delle basi militari. Una misura necessaria, ha precisato l'ufficiale a Channel 2, per evitare che Hamas possa avere accesso a informazioni sensibili. "Diamo ai soldati dell'IDF molta fiducia - ha detto Abadi -. Sono buoni soldati che hanno a cuore la sicurezza, ma sono umani. Quando un militare e' nel suo ufficio, il rischio di confusione e di errore e' grande. Quando l'ambiente di lavoro viene separato da quello in cui non vengono compiute le operazioni, il numero di errori si riduce notevolmente''. In seguito alla seconda guerra del Libano nel 2006, le Forze speciali israeliane hanno creato un'unita' speciale per prevenire la diffusione di informazioni riservate tramite i social network in Internet.


Noa: “L’italia è la mia seconda casa”

Auditorium blindato per la cantante israeliana Noa protagonista del concerto di beneficenza organizzato dall’Adei-Wizo, Associazione Donne Ebree d’Italia, cui erano presenti fra gli altri, il presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, l’onorevole Fiamma Nirenstein, la professoressa Amira Meir, moglie dell’ambasciatore d’Israele Gideon Meir e Umberto Croppi assessore alle politiche culturali e alla comunicazione del Comune di Roma, che ha rivolto al pubblico presente in sala il saluto del Sindaco di Roma Gianni Alemanno. La serata, si è tenuta nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, dove le presidentesse dell’Adei Wizo di Roma Silvana Limentani e Viviana Levi hanno dato il benvenuto a Esther Mor capo dipartimento raccolta fondi della Wizo Mondiale e ospite d’onore della serata destinata alla raccolta fondi per il progetto ‘Warm Home’ - il calore di casa- rivolto a bambine e ragazze che non hanno una famiglia, vivono ai margini della società con grosse difficoltà, con il rischio di trovarsi a vivere in ambienti pericolosi.La cantautrice israeliana con radici yemenite i cui genitori furono costretti a fuggire dal paese di origine a causa dell’ostilità seguente alla proclamazione dello Stato di Israele poi trasferitasi a New York, decide di tornare in Israele dove presta il servizio militare e in seguito sposa il pediatra Asher Barak da cui ha avuto tre bambini.Noa si è esibita con un repertorio molto vario, accompagnata da chitarrista Gil Dor che la segue durante tutte le sue turnèe e dalla pianista Rita Marcotulli, eseguendo canti in ebraico, inglese, yemenita, italiano ed anche in dialetto napoletano.L’abbiamo incontrata qualche minuto prima della sua esibizione ed abbiamo potuto scambiare con lei alcune parole.Noa ti senti felice di cantare in Italia? Moltissimo. Amo molto questo paese che, dopo Israele, considero la mia seconda casa.Perché hai deciso di legare il tuo nome al progetto ‘Warm Home’? Ci sono due valori che considero molto importanti nella vita di ciascuno di noi ed essi sono la generosità e l’umanità, il dare aiuto a persone che si trovino in difficoltà. Ritengo che questo sia un progetto che merita molta adesione. Il progetto Warm Home individua adolescenti e ragazze in difficoltà e cerca di aiutarle ad abbandonare cattive amicizie e ambienti pericolosi, offendo ospitalità e attenzione ai bisogni e alla disperazione che queste ragazze provano, permettendo loro di ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno. Ritengo che sia una cosa bellissima che l’Adei abbia deciso di dare il proprio appoggio a questo progetto e, anche io la mia.Sei un’artista da sempre impegnata nell’utilizzo della musica come strumento di riavvicinamento fra popoli in conflitto, con particolare riguardo alla questione mediorientale, arriverà la pace per Israele? Lo spero, lo spero tanto. Ora ci sono nuove trattative di pace ed io penso che non possiamo perdere questa possibilità, non dobbiamo perderla. Si parla spesso della questione palestinese , ma anche gli israeliani stanno soffrendo e ora più che in ogni altro momento hanno bisogno della pace.Hai cantato a fianco di Sting, Carlos Santana o del gruppo italo-palestinese Radio Dervish o ancora, davanti all’aulica platea del Vaticano, quale di queste esperienze ti è rimasta di più sulla pelle e quale delle tue canzoni ami di più? Amo tutte le mie canzoni nello stesso modo, non potrei mai cantare un brano se non lo amassi e considero ogni esperienza importante, sono stata molto felice di aver dato voce al brano Life is beautiful that way , che ho scritto io stessa e che fa parte della colonna sonora del film La vita è bella. Stimo molto Roberto Benigni ed anche Nicola Piovani.Lucilla Efrati http://moked.it/


antica foto comunità ebraica est Europa

Libri contro l’antisemitismo

Un pacco di libri (involucro blu, fiocco bianco), una lunga chiacchierata e una stretta di mano. Così se l’è cavata Luca I., 19 anni, autore di una “bravata” che poteva avere delle conseguenze molto più serie di quelle che il giovane avrebbe mai potuto immaginare, quando nella primavera scorsa aveva urlato “ebrei di m…” all’indirizzo di alcuni passanti che, kippot in testa, si dirigevano verso la propria sinagoga. Scattata la denuncia grazie al numero di targa, Luca si è trovato coinvolto in un procedimento penale. Così ha presentato in procura una lettera di scuse indirizzata alla Comunità ebraica, in cui ha raccontato il suo pentimento e la sua vergogna per un gesto stupido e superficiale. Scuse accettate dal presidente della Comunità Roberto Jarach, ma a una condizione. Non il risarcimento il denaro previsto in casi analoghi, ma la ricerca della conoscenza, principio cardine dell’ebraismo. Dunque chiuso il procedimento penale senza conseguenze, Luca si è recato in Comunità insieme al suo avvocato Giambattista Colombo, e ha ascoltato con attenzione le parole di Jarach, per cominciare ad apprendere quello che prima ignorava sul popolo ebraico e sull’antisemitismo. “Devi capire che noi siamo costretti a fronteggiare molti episodi di antisemitismo, non solo casi isolati purtroppo, ma anche iniziative organizzate - ha spiegato il presidente - Non è una questione di ipersensibilità, il popolo ebraico nella storia ha trovato troppe volte porte chiuse e stereotipi insormontabili sulla strada della propria aspirazione all’uguaglianza. Siamo persone assolutamente normali, e ognuno di noi ha pregi e difetti propri. Perché nel momento stesso in cui identifichi un gruppo attribuendogli delle caratteristiche unitarie, allora formuli un pensiero razzista”. “Sono davvero dispiaciuto di quello che ho fatto, e più di tutto mi vergogno per la mia ignoranza” ha ribadito il diciannovenne. Proprio all’ignoranza, sulla scia della grande importanza data alla cultura nella tradizione ebraica, il presidente Jarach tiene a dare rimedio. “Una cosa ti auguro ora che questa vicenda si conclude: che tu possa diventare uno studioso, non solo di ebraismo e antisemitismo, ma dei problemi delle minoranze e del razzismo in generale, perché è ciò di cui il nostro paese più ha bisogno”. E sicuramente un buon punto di partenza sarà quel pacco blu che dalla scrivania è passato nelle mani di Luca. Quattro volumi appositamente selezionati per lui: L’ebraismo spiegato ai miei amici di Philippe Haddad, Ebrei in Italia 1870 -1938 di Maurizio Molinari, Ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione post bellica di Ilaria Pavan e Guri Schwarz, tutti pubblicati dalla Giuntina, e Breve storia degli ebrei e dell’antisemitismo di Eugenio Saracini, edito da Mondadori.La scelta di rispondere con quattro libri al più ripetuto ritornello antisemita si inquadra nel dibattito che si è sviluppato sulla stampa ebraica e nazionale a proposito dell’opportunità di introdurre una legge che punisca penalmente il negazionismo. Ipotesi commentata dal presidente della Comunità di Milano a margine dell’incontro con Luca. “Non penso che lo strumento migliore per combattere il negazionismo possa essere l’intervento legislativo. Secondo la mia visione delle cose, una legge del genere non farebbe che fornire pretesti per contro-attacchi in nome di una pretesa libertà di espressione - ha spiegato Jarach - Il mio auspicio è invece che le istituzioni si impegnino per arginare le situazioni patologiche prima ancora che si verifichino in concreto. Su questo non dobbiamo transigere. Le università, gli enti pubblici non possono accettare di patrocinare gente come Moffa. Penso che il nostro paese e la nostra società siano assolutamente in grado di sviluppare questi anticorpi senza ricorrere a una legge”. Rossella Tercatin http://moked.it/


Gilad Shalit e la ripresa dei negoziati

Geruaslemmme, 21 ottobre,http://moked.it/
I rapitori di Gilad Shalit sarebbero pronti a riprendere i negoziati per uno scambio di prigionieri che dovrebbe riportare il soldato israeliano, rapito quattro anni fa durante un attaccò terroristico a Kerem Shalom, a casa. A riaccendere le speranze è stato l’ex presidente americano Jimmy Carter a Gerusalemme, parlando sulla base di contatti avuti nei giorni scorsi a Gaza con una delegazione del cosiddetto gruppo degli ‘Anziani’ in missione in Medio Oriente. “La dirigenza di Hamas ci ha fatto sapere di essere estremamente desiderosa” di giungere a un accordo, ha detto Carter. Le ultime contrattazioni si erano interrotte nei mesi scorsi, a causa del fallimento di una ipotesi di scambio che prevedeva il rilascio del militare in cambio della liberazione di circa 1.000 palestinesi detenuti in Israele, tra i quali alcuni condannati per fatti di terrorismo. La riapertura del dialogo è stata confermata anche dal premier israeliano, Benyamin Netanyahu, mentre i familiari di Shalit hanno sostenuto di non vedere al momento elementi di ottimismo.


Edizione russa dei Protocolli del 1912

I savi anziani di Sion e l’epopea di una menzogna planetaria
“Una bugia – scriveva Mark Twain – fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”. Così accadde per la più violenta e dannosa bugia della storia della letteratura, I protocolli dei savi anziani di Sion, il testo che diventerà il manifesto dell’antisemitismo moderno. La clamorosa quanto falsa ricostruzione di un fantomatico complotto ebraico, ordito dai cattivi anziani o savi di Sion, si è diffusa nel tempo e nello spazio a una velocità impressionante.Dalla Germania nazista all’Egitto di Sadat e Nasser, dagli zar di Russia ai terroristi di Hamas, i Protocolli hanno attraversato un secolo di storia, divenendo la scusa principe per le più efferate violenze contro gli ebrei. Un’arma politica per giustificare l’odio antisemita e la volontà di delegittimare Israele. Una calunnia partorita agli inizi del Novecento che, nonostante la comprovata falsità, continua a risultare credibile agli occhi di chi non vuol vedere. E così, oggi come allora, si favoleggia della potente lobby ebraica che domina il mondo grazie al denaro e all’informazione. “Per mezzo della stampa – si legge infatti nel Protocollo II del testo pubblicato nel 1905 – acquistammo influenza pur rimanendo dietro alle quinte. In virtù della stampa accumulammo l’oro: ci costò fiumi di sangue e il sacrificio di molta gente nostra, ma ogni sacrificio dal lato nostro, vale migliaia di Gentili nel cospetto di Dio”.Dominare i gentili, governare il mondo, sovvertire l’ordine sociale, controllare la massa. Questo in sintesi il progetto dei savi di Sion, segretamente elaborato a Basilea nel 1897 durante il primo Congresso sionista, secondo quanto riporta Sergei Nilus, scrittore mistico russo vicino agli ambienti reazionari e antisemiti dell’epoca. Lo stesso Nilus, fervente sostenitore dello zar, pubblica nel 1905 la versione integrale dei Protocolli nel suo libro Il grande nel piccolo: la venuta dell’Anticristo e il regno di Satana sulla terra. Qui lo scrittore cambia la sua versione sull’origine dei documenti. I Protocolli sarebbero il resoconto di un incontro segreto dei leader giudaico massonici in Francia. Nilus dice di aver ottenuto da un amico la copia tradotta mentre gli originali erano stati rubati da una donna a uno dei capi della cospirazione. Tutto falso. In Russia, ai piani alti, scoprono la verità già nel 1905. In Europa, quindici anni dopo. Ma andiamo con ordine perché il percorso della menzogna è tortuoso ed è necessario fare un passo indietro. In nome della rivoluzione sociale, nel 1881 il gruppo anarchico populista Volontà del popolo uccide a San Pietroburgo lo zar Alessandro II. Seguono anni difficili, di tumulti popolari e sanguinose repressioni mentre i rivoluzionari invocano diritti e libertà.Le autorità sono preoccupate, l’ordine sociale è in bilico. La soluzione per quietare il furore delle masse? I pogrom. Per oltre vent’anni la violenza e le efferatezze contro gli ebrei sono innumerevoli in tutta la Russia, fomentate dall’odio teologico della Chiesa ortodossa, dalla paura panslava della modernità e dal regime zarista, come sottolinea la storica Anna Foa in Ebrei in Europa. Le autorità identificano gli ebrei con i pericolosi rivoluzionari progressisti e vogliono eliminarli. Ogni accusa è valida per perpetrare il gioco al massacro. Così l’Okhrana, la polizia segreta russa, sfrutta anche la letteratura contemporanea, in particolare le parole di un libello antisemita di un certo sir John Retcliffe, al secolo Herman Goedsche. Biarritz (1868) è il titolo del pamphlet ma il capitolo chiave per gli agenti dell’Okhrana è quello intitolato “Il cimitero ebraico di Praga e il Consiglio dei rappresentanti delle dodici tribù di Israele”. Qui il sedicente scrittore racconta di un’assemblea segreta di rabbini, che si riunirebbero ogni cent’anni per pianificare il complotto giudaico. L’opera di Goedsche è un éclatante caso di plagio, una rivisitazione in chiave antisemita dello scritto satirico del francese Maurice Joly Dialoghi agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu.Falso o no, l’Okhrana affila le unghie sfruttando la teoria della cospirazione per rafforzare la posizione del debole zar Nicola II e screditare i sostenitori delle riforme liberali che simpatizzano con il proletariato ebraico. In Francia intanto scoppia l’affaire Dreyfus. L’attenzione dell’Europa intera si focalizza sulla questione ebraica. Nelle piazze francesi folle di persone invocano “morte agli ebrei”. Nel regno d’oltralpe il terreno antisemita è stato preparato a dovere dal movimento antidemocratico e reazionario. Le tesi di Drumont e il suo France Juive (1880) contro il complotto ebraico e per cancellare l’uguaglianza concessa con la Rivoluzione fanno breccia nella massa. Su questi presupposti, quasi a completare l’opera, nasce il manifesto dell’antisemitismo moderno: i Protocolli dei savi anziani di Sion. I documenti vengono scritti e redatti a Parigi nel 1897, gli autori sono un pugno di giornalisti e scrittori francesi e forse russi, tutti comunque a libro paga dell’onnipresente Okhrana. Inizia così l’epopea della grande menzogna.I Protocolli appaiono per la prima volta in via ufficiale nel 1903, quando il quotidiano Znamia (La bandiera) di San Pietroburgo li pubblica in una versione a puntate. A farne largamente uso, negli anni successivi, sono i reazionari dell’Unione del popolo russo, noti come Centurie nere, che incolpano il complotto ebraico per il processo di liberalizzazione che si sta avviando in Russia. La costituzione concessa a malincuore da Nicola II e la creazione della Duma, il parlamento russo, sostengono le Centurie nere, sono la dimostrazione che gli ebrei stanno cercando di sovvertire l’ordine sociale. Anche lo zar pare condividere questa tesi e conserva nella sua libreria una copia dei Protocolli. Purtroppo per lui e per le Centurie un’indagine segreta, condotta nel 1905 e voluta dal presidente Pyotr Stolypin, svela come i documenti siano contemporaneamente un falso e un plagio. Nulla di quanto scoperto, però, è reso noto. I Protocolli continuano a essere pubblicati (nel 1906 e 1907 in un’edizione di George Butmi) e i pogrom continuano, feroci come sempre. L’ebreo è visto come cospiratore progressista, liberale, democratico. Ma nel 1917 si evolve e diventa bolscevico. Sì, sono i giudei a guidare la rivoluzione di Ottobre, sono loro che comandano l’Armata Rossa.C’è scritto anche nei Protocolli, affermano le fazioni legate all’Armata Bianca, il movimento controrivoluzionario. Mentre il futuro regime comunista allarma l’Europa e il mondo, le bugie dei Protocolli, portati oltre il confine russo dagli oppositori fuggiti, fanno breccia nella paura dei governanti e delle masse. “Questo movimento tra gli ebrei non è nuovo – scrive Winston Churchill sull’Illustrated Sunday Herald dell’8 febbraio 1920 – Dai giorni di Spartacus-Weishaupt a quelli di Karl Marx, e fino a Trotsky, Bela Kun, Rosa Luxembourg ed Emma Goldman, questa cospirazione mondiale per il rovesciamento della civiltà e per la ricostruzione della società sulla base di uno sviluppo bloccato, di un’invidiosa cattiveria e dell’uguaglianza impossibile, è in costante crescita”. Già negli anni Venti le copie dei Protocolli fanno il giro del mondo, sbarcando in America del sud, nei paesi arabi, in estremo Oriente. Negli Stati Uniti il magnate Henry Ford pubblica L’ebreo internazionale, un libro commento dei ventiquattro documenti che troverà in seguito l’approvazione di Hitler e Goebbels. Quando il 16 agosto del 1921 il Times prova l’innegabile falsità dei Protocolli è troppo tardi. Migliaia di copie sono già state vendute in tutto il mondo e nuove edizioni si preparano a uscire. Rimane però prezioso il lavoro di Philip Graves, corrispondente del Times a Costantinopoli, che ricostruisce la storia dei documenti. Il giornalista dimostra come i Protocolli non siano altro che un plagio delle opere di Joly e di Goedsche, ipotizzando il coinvolgimento dell’Okhrana. Un quadro ancor più chiaro lo dà l’americano Herman Bernstein che nel 1921 scrive La storia di una bugia, in cui l’autore ripercorre i riferimenti letterari e le motivazioni politiche che hanno portato alla creazione del testo antisemita. Sulla stessa linea l’opera del diplomatico Lucien Wolf dal significativo titolo Lo spauracchio ebraico e i finti Protocolli dei savi di Sion (1920, Londra). Persino Goebbels, futuro ministro della propaganda nazista, non crede nei Protocolli ma il suo pensiero è la base dell’antisemitismo moderno. “Credo che i Protocolli dei savi anziani di Sion siano un falso – scrive sul suo diario, nel 1924, Goebbels – Ma credo anche nella verità intrinseca e non fattuale dei Protocolli”. Per Hitler, nel Mein Kampf, la prova che i Protocolli contengano la verità è semplice: gli ebrei cercano di dimostrarne la falsità quindi sono autentici. E, poi, scrive “la cosa importante è che con terrificante certezza essi rivelano la natura e l’attività del popolo ebraico ed espongono i loro contesti interni come anche i loro scopi finali”.La stessa teoria che esporrà in Italia nel 1937 Julius Evola, in particolare nel suo saggio introduttivo ai Protocolli, edizione curata da Giovanni Preziosi. Secondo Evola i documenti sono un falso ma è la storia contemporanea con la crisi economica, la guerra mondiale, il comunismo a dimostrare la veridicità dei pensieri in essi contenuti. Chiusa la drammatica pagina del nazismo e della seconda guerra mondiale, per alcuni anni nessuno o quasi pronuncia più le parole complotto ebraico. Non dopo la Shoah. Ma ben presto la delirante giostra riparte. A guidare la nuova campagna antisemita sono, oltre ai negazionisti, molti esponenti del mondo arabo, oltraggiati dalla nascita di Israele. In Egitto il presidente Nasser, sconfitto dagli israeliani nella guerra dei Sei giorni nel 1967, fomenta l’odio antiebraico pubblicando centinaia di copie dei Protocolli. Negli anni Settanta in Libano i Protocolli sono un bestseller. Ancora nel 1988 all’articolo 32 del Patto del movimento della resistenza islamica (Hamas) si legge: “Il piano sionista è senza limiti.Dopo la Palestina, i sionisti aspirano a espandersi dal Nilo all’Eufrate. Il loro piano è sancito nei Protocolli dei savi di Sion, e il loro comportamento attuale è la migliore prova di quanto stiamo dicendo”.In Siria appare una versione del testo, autorizzato dal ministero dell’Informazione, i cui si sostiene che l’11 settembre è il risultato della cospirazione dei savi di Sion. E non solo il mondo arabo cerca di riportare in voga le tesi del complotto ebraico. Nel 1993 il tribunale di Mosca condanna l’organizzazione ultranazionalista Pamyat per aver pubblicato il libro, di cui i giudici dichiarano la palese falsità. A maggio di quest’anno, a Torino, l’editore Roberto Chiaromonte è riconosciuto colpevole di diffamazione a mezzo stampa per la pubblicazione in italiano, con commento dello stesso editore, della versione di Sergei Nilus. Senza contare poi le scemenze che compaiono oggi su diversi siti antisemiti o negazionisti. Basta googleare Protocolli dei savi anziani di Sion per scoprire le più disparate e disperate teorie di cospirazioni demo-pluto-giudaico-massoniche. Le tesi contenute nel manifesto dell’antisemitismo moderno continuano così a diffondersi, malgrado la chiara dimostrazione della sua falsità. Rimangono pertanto attuali le affermazioni e gli auspici che il giudice Walter Meyer sostenne nel 1935 nel famoso processo di Berna in cui la corte dichiarò i Protocolli falsi, plagi e letteratura oscena, condannando un gruppo di filonazisti per aver pubblicato alcuni articoli a sostegno della veridicità del testo. “ Spero – disse Meyer durante l’ultima udienza – che verrà il momento in cui nessuno sarà in grado di capire come una dozzina di persone sane e responsabili furono capaci per due settimane di prendersi gioco dell’intelligenza della Corte discutendo dell’autenticità dei cosiddetti Protocolli, proprio quei Protocolli che, nocivi come sono stati e come saranno, non sono nient’altro che ridicole assurdità”.Daniel Reichel,http://moked.it/


I falsi dell'odio - Il libro avvelenato, fra avventura e realtà

Ci sono buoni motivi per credere che l’ultimo mercoledì di questo mese d’ottobre sia da considerarsi una giornata particolare. Anche se mancano conferme ufficiali, in quella data è previsto appaia nelle librerie una novità di tutto rispetto, forse il fatto principale di tutta la stagione culturale. L’editore è fra i più apprezzati: Bompiani. Il titolo un tocco di mistero e fascinazione: Il cimitero di Praga. La firma quella del più noto intellettuale italiano vivente: Umberto Eco. E fra gli slogan presi in considerazione prima del lancio spunta un inevitabile richiamo al principale caso letterario della nostra storia recente. A trent’anni da Il nome della Rosa (di cui si calcola siano in circolazione circa nove milioni di copie in tutto il mondo), questo nuovo libro, che sia destinato a ripeterne il successo numerico o meno, segna una scadenza importante. Ovviamente sul contenuto dell’ultima opera dello scrittore e semiologo vige la massima riservatezza. Alla vigilia dell’uscita di un grande romanzo, il fattore sorpresa è d’obbligo e ogni tentativo di violarlo sarebbe sciocco, e anche molto arrischiato. Eppure in questo caso l’autore ha disseminato, forse con qualche malizia, il cammino di segnali che a ben vedere in qualche direzione portano. E c’è pensare che si tratterà di un libro dedicato a temi cui la minoranza ebraica è comprensibilmente molto sensibile. Se l’attesa è alta, l’attenzione in campo ebraico, da noi o altrove, potrebbe esserlo ancora di più. Cerchiamo di mettere assieme i pochi indizi lasciati alla luce del sole. A cominciare dal titolo. Nella città boema esistono diversi cimiteri. Ma quando si dice “il cimitero di Praga” ci sono pochi dubbi: si fa riferimento al cimitero ebraico più famoso del mondo. Un luogo del vecchio ghetto celebrato da leggende che narrano di alchimisti capaci di tramutare ogni metallo in oro, rabbini dai poteri magici, automi potenti e colossali, misteri, fantasmi e storie di ebrei sempre in bilico fra speranza e persecuzioni, successo e disastro. Nessuno può escludere che Eco, sulle orme dei romanzi di Meyrink e del cinema di Wegener, abbia voluto dedicare la sua fatica più recente al mito del Golem e alla Praga del ghetto più misterioso e affascinante. Ma esiste quantomeno un’altra possibile pista. Il cimitero di Praga non è solo un campo sovraffollato di pietre corrose dal tempo. E’ anche un territorio della fantasia collettiva, il luogo dove alcuni grandi falsari dell’odio antiebraico hanno voluto immaginare si svolgessero le cospirazioni di ebrei intenzionati ad assumere il controllo del mondo. Il laboratorio dove si sono costruiti tutti i miti dell’odio, il repellente armamentario culturale e ideologico che ha sostenuto i fautori del razzismo e del genocidio. Lì si incontravano, secondo i demenziali autori dei primi romanzetti antisemiti che facevano apparizione fra la fine dell’Ottocento e il debutto del secolo scorso, i maggiorenti di fantomatiche consorterie di potere per tradire la loro sete di denaro e di dominio. E da lì avrebbero preso le mosse anche i famigerati Protocolli dei savi anziani di Sion, il più clamoroso e tristemente celebre falso dell’odio. Sarebbe solo letteratura di infimo livello, se non fosse stata usata, con un successo molto maggiore delle aspettative nutrite dagli stessi autori, per praticare il genocidio e massacrare milioni di innocenti. La lettura dei libri di Eco mostra come il suo lavoro letterario si inoltri sempre lungo lo stretto passaggio fra la storia, la grande conoscenza e il romanzo, il richiamo dell’avventura. E siano costanti elementi che riportano il lettore a quei territori fra Piemonte e Lombardia legati al vissuto dell’autore e tanto importanti nell’interpretazione della nostra identità. Un’analisi di molti scritti di Eco dimostra anche come il semiologo sia un profondo conoscitore e un’analista raffinato dalla biblioteca dei grandi falsi dell’odio. Sua è la luminosa introduzione a The Plot il capolavoro disegnato da Will Eisner che smaschera attori e agenti della sudicia storia dei Protocolli (edizione italiana Il complotto, Einaudi editore). Sue le coraggiose affermazioni che hanno opposto al mito di un’Italia al riparo dall’antisemitismo il dato di fatto che in presenza di un moderata componente di odio da parte del popolo, proprio gli ambienti intellettuali e religiosi italiani abbiano offerto ai teorici dell’antisemitismo strumenti decisivi. In ogni caso, e senza ovviamente mettere minimamente in dubbio le migliori intenzioni di un intellettuale rigoroso e trasparente, sembra che nelle prossime settimane i protocolli dell’odio torneranno sotto gli occhi di molti lettori. E per quanto la logica, la cultura e un’onesta evidenza dei fatti smontino in modo incontrovertibile qualunque flusso malsano, è sempre meglio restare con gli occhi aperti. Ecco, in attesa di leggere il nuovo romanzo, il motivo di questo dossier. Anche perché, per dirla con lo stesso autore del Cimitero di Praga, “quello che appare incredibile è che questo falso sia rinato dalle proprie ceneri ogni volta che qualcuno ha dimostrato che si trattava di un falso. Al di là di ogni dubbio”. Guido Vitale, Pagine Ebraiche, ottobre 2010


Gerusalemme - monumento ai bambini della Shoa

“I tedeschi sentivano il bisogno di educarci, magari uccidendoci, ma di educarci”. (Giuliana Fiorentino Tedeschi reduce da Auschwitz alla cui memoria è stata dedicata recentemente una giornata di studio a Yad Va Shem). Sonia Brunetti Luzzati, pedagogista, http://moked.it/


Appuntamenti con la cultura israeliana

Pitigliani Kolno’a Festival, festival del cinema israeliano, Roma 23-27 ottobre 2010
Concerti dell’Orchestra sinfonica di Rishon LeZion diretta da Daniel Oren – Catanzaro e Salerno, 6 e 7 novembre 2010
Amos Oz riceve il Premio Napoli – 6 novembre 2010
Amos Oz in Piemonte per ricevere il Premio del Salone del Libro di Torino 7-12 novembre 2010
Premio letterario Adei Wizo “Adelina della Pergola”. Tra i candidati gli israeliani Assaf Gavron, Yehoshua Kenaz e Rina Frank – Milano 8 novembre 2010
“Deposizione”, mostra fotografica di Adi Nes – Roma – fino al 31 ottobre 2010
Mostra personale di Tsibi Geva, “Canto della terra” (Shir al hareez), Firenze, fino al 6 gennaio 2011
“Kibbutz. Un’architettura senza precedenti”, Il padiglione di Israele alla Biennale di Venezia – Venezia – fino al 21novembre 2010
Esce nelle sale il film “Adamo risorto”, tratto dal romanzo di Yoram Kaniuk, data da precisare
Concorso per giovani artisti: “Italia-Israele, i sensi del Mediterraneo”
Borse di studio offerte dal governo israeliano a studenti italiani – scadenza del bando 20 novembre 2010 - http://www.esteri.it/MAE/opportunita/Di_studio/Elenco_Paesi_Istituzioni_Offerenti/2010/ISRAELE.pdf

venerdì 22 ottobre 2010


Sinodo, contro Israele solo poche voci

I giornali cercano di politicizzare il documento dei padri sinodali estrapolando alcune frasi. In realtà si legge: «Le nostre Chiese rifiutano l'antisemitismo e l'antiebraismo». Il Papa ribadisce che i veri problemi dei cristiani in Medio Oriente sono fede, comunione e missione
Il Foglio di oggi titola così un articolo sul Sinodo del Medio Oriente: I vescovi fanno di israele un capro espiatorio. Un suicidio. E' vero, c'è chi vede in Israele il male che genera l'oppressione dei cristiani palestinesi «che hanno il dovere di resistere. [...] Si auspica uno stato binazionale», ha affermato Michael Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme. Chi la pensa così lega l'esodo dei cristiani a fattori esclusivamente politici. Ma sono voci fuori dal coro. Perché il Papa e i testi ufficiali scritti dai padri sinodali vanno in tutt'altra direzione.Il testo principale uscito dopo la prima settimana, sebbene la stampa abbia estrapolato diverse frasi per politicizzarlo, dice ben altro. Per prima cosa, «la religione non deve essere politicizzata, né lo Stato prevalere sulla religione». Si legge poi che se «la situazione politico-sociale dei nostri paesi ha una ripercussione diretta sui cristiani» e se «le difficoltà dei rapporti fra arabi ed ebrei sono dovute alla situazione politica», per cui si è espressa solidarietà ai palestinesi che soffrono, la Santa Sede auspica che «i due popoli possano vivere in pace, ognuno nella sua patria con confini sicuri».Infine si legge: «Le nostre Chiese rifiutano l'antisemitismo e l'antiebraismo. Le difficoltà fra i due popoli sono dovute piuttosto alla situazione politica conflittuale. Noi distinguiamo tra realtà politica e religiosa». E' stato anche promosso l'impegno a rinnovare l'azione sociale comune e la preghiera dei salmi comunitaria.Non solo, lo stesso Benedetto XVI ha ricordato l'importanza per tutti, cristiani ed ebrei, di ritrovare l'unità. E l'ha fatto descrivendo la storia che accomuna il suo gregge al popolo ebraico. Nell'omelia d'apertura dei lavori ha ribadito «il metodo» con cui Cristo salva l'uomo. Quello «dell'alleanza, legandosi con amore fedele e inesauribile agli uomini, formandosi un popolo santo. [...] Questa regione del mondo, Dio la vede da una prospettiva diversa, “dall'alto”: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la terra dell'esodo, del ritorno dall'esilio; del tempio e dei profeti; la terra in cui il figlio Unigenito è nato da Maria, dove ha vissuto ed è risorto; la culla della Chiesa, costruita per portare il Vangelo fino agli estremi confini del mondo».Il vero dramma, secondo il testo sinodale, non sono le persecuzioni politiche, ma la mancanza di questa coscienza e di una fede viva in Gesù Cristo. E' questa la malattia reale per cui i cristiani mediorientali scappano davanti alla prova. Si legge, infatti, che il pericolo «non deriva soltanto dalla loro situazione di minoranza né da minacce esterne, ma soprattutto dal loro allontanamento dalla verità del Vangelo, dalla loro fede e dalla loro missione. La duplicità della vita, per il cristianesimo è più pericolosa di qualsiasi altra minaccia. Il vero dramma dell’uomo non è il fatto che soffra a causa della sua missione, ma che non abbia più una missione, per cui perde il senso e lo scopo della propria vita». Questa è la linea del sinodo e le preoccupazioni espresse dalle centinaia di interventi non sembrano proprio essere Israele, tra l'altro l'unico Stato dove i cristiani aumentano e dove esiste la libertà religiosa. 22 Ottobre 2010 http://www.tempi.it/


Haganah men crawling along wall. 1948. Tel Aviv, Israel

Ehud Barack: "Priorità alla pace poi il riconoscimento d'Israele"

Gerusalemme, 21 ottobre http://moked.it/
"Chiedere il riconoscimento (d'Israele quale Stato ebraico) è importante, ma questa cosa non deve diventare un ostacolo alla realizzazione dei nostri interessi più importanti, né deve essere sollevata all'inizio del processo negoziale", queste le parole del ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, in contrasto con le scelte del premier Benyamin Netanyahu.


Sognare

Come tutte le tarde sere della sua vita che comincia ad attardarsi, a un quarto a mezzanotte Il Tizio della Sera è a letto e sta per addormentarsi. Prima di dormire, fa il solito gioco dell'invenzione in modo di piombare nel sonno. Con la testa abbandonata sul cuscino, lui lascia andar via i pensieri come se fossero cavalli rimasti senza briglia. Gira la testa e c'è la pace da trentanni, la gira ancora ed è una pace dappertutto. Si mette di fianco e sono finite le guerre-placate le tensioni, ed è un'altra la faccia del mondo. Si gratta un piede e cerimonie festeggiano il compiuto ritorno alla pace. Dal buio vede riunioni di reduci dall'Afghanistan, reduci dalle intifade, reduci dalle guerre in Libano. Fa scrocchiare le giunture sotto le lenzuola e ci sono convegni di vegliardi che a stento si ricordano come fosse la Prima Guerra del Golfo. Gira di nuovo la testa sul cuscino e in una città d'Italia c'è una riunione di vecchi antisionisti, si soffia il naso e quelli sono in un pub - e questa sì che è un'idea, e ora si divertirà. Sì sì, proprio bene. Spenge la luce sul comodino e nel pub c'è la musica di Wagner. Starnutisce perché la mattina ha preso freddo e i veterani brindano con la birra e la birra trabocca dai boccali e hanno le gote rosse come in un'illustrazione. Lo stomaco brontola e gli occhi di quelle carogne brillano di commozione, e ora gli sfessati si sarebbero dissolti senza sapere che sarebbero scomparsi perché ora lui si sarebbe addormentato. E ormai sta per addormentarsi, e uno con la birra si alza in mezzo alla tavolata. E' fra le teste dei reduci e pronuncia le parole di un brindisi: "A quando riducemmo la Storia a un colabrodo". E c'è un applauso, e ci sono fischi di approvazione. Nel buio della camera da letto, Il Tizio della Sera fa un ruttino e quelli della tavolata si girano per vedere chi è stato. Si alza un altro veterano con un boccale traboccante in mano, e vorrebbe brindare, e comincerebbe un brindisi. Da sotto le coperte, il Tizio fa una pernacchia moderatamente lunga, e nella tavolata si fa silenzio. Qualcuno di quelli urla: "Chi è stato?" . Altri si alzano in piedi, e hanno i volti congestionati e allontanano bruscamente la sedia dal tavolo. Uno con la faccia sfregiata e l'elmetto tira fuori dall'impermeabile una vecchia pistola tedesca. La punta verso il letto, preme il grilletto. Il Tizio si sfiora la fronte fa e dalla pistola esce uno schizzo d'acqua. Lo sfregiato guarda stupito la pistola. Il Tizio della Sera non conosce mezze misure. "Adesso basta - tuona - a letto". Dalla tavolata, quelli protestano. "Non abbiamo sonno, è presto". Mugugnano. "Aspetta un pochino". Il Tizio è irremovibile: "Ragazzi, a letto e senza discussioni". Il proprietario del pub ha un lungo grembiale e si mette le mani sui fianchi: "Si chiudeeee". Nel locale, si fa buio. Prima di addormentarsi, in camera da letto spunta la voce di uno di loro."Laila tov". Un attore della compagnia dei sogni. Laila tov, ragazzi. Almeno la notte, come ci si diverte. Il Tizio della Sera, http://moked.it/


Arte depredata, il catalogo è in rete

È stato pubblicato online il catalogo delle opere d’arte depredate dai nazisti agli ebrei nei paesi occupati. La lista di quadri, sculture, mobili, preziosi e libri, dispersi da molti decenni e mai riconsegnati ai legittimi proprietari, è ora a disposizione di tutti, consultabile in una banca dati virtuale.Il sito (www.errpoject.com), consente di effettuare ricerche avanzate e molto dettagliate, anche associando il nome del collezionista o del privato ai titoli delle opere che gli appartennero.Anche i curiosi possono divertirsi a scoprire quanti Degas erano appesi alle pareti dei Rothschild di Parigi, che i Bernstein di Bordeaux possedevano alcuni Pisarro, o che la galleria di David Weil di Neuilly sur Seine vantava diverse opere di Gericault, Ingres e Picasso. Gli studiosi invece potranno accedere direttamente ai dati sulla miriade di capolavori andati perduti.L’archivio consultabile su internet rientra in un progetto lanciato dalla Claims Conference, l’organismo che si occupa da mezzo secolo di garantire i giusti risarcimenti alle vittime del nazismo, in collaborazione con l’Archivio nazionale degli Stati Uniti, l’Archivio diplomatico del Ministero degli Esteri francese, l’Archivio federale tedesco e il Museo-Memoriale dell’Olocausto statunitense.L’obiettivo è quello di rinvenire le opere smarrite e renderle ai legittimi proprietari.I dati d’archivio, provengono in gran parte dalla stessa documentazione nazista. Il gerarca nazista Alfred Rosenberg, nel 1940, alla guida di un’apposita squadra, la Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, ideò e mise in atto un saccheggio culturale su larga scala in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht. Il ricco bottino fu radunato nei magazzini del Jeu de Paume, il grande spazio espositivo di Place de la Concorde a Parigi. Rosenberg predispose una catalogazione minuziosa che riporta la data di arrivo a Parigi di ogni opera, la famiglia ebraica o la collezione di provenienza, autore, soggetto, dimensioni. Il tutto arricchito da numerose fotografie, di grande interesse storico. I progetti nazisti prevedevano la costruzione di un “Museo del Führer” nella città di Linz, in cui le più prestigiose tra le opere confiscate avrebbero trovato “più degna collocazione”.Dalla fine della guerra, quasi nessuna notizia dell’immenso patrimonio artistico confiscato dalla squadra di Rosenberg agli ebrei europei, belgi e francesi soprattutto.Il database, pubblicato online solo recentemente, è un progetto che già dal 2004 impegna istituzioni e ricercatori. Mosso dall’esigenza di risarcire le vittime delle persecuzioni naziste, obiettivo fondante della Claims Conference, l’Errproject (che mutua il nome dall’equipe dei predoni, Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg) va anche incontro ai desideri di tanti musei, storici dell’arte, nonché amatori, che vedranno recuperata una importante parte della ricchezza artistica e culturale saccheggiata e distrutta dal flagello nazista.Manuel Disegni,http://moked.it/


Alessandro Piperno - Il fuoco amico dei ricordi. Persecuzione“

La verità è tutto ciò che le immagini non dicono”. Una possibile chiave di lettura del secondo romanzo di Alessandro Piperno si trova in questa citazione rabbinica situata a metà circa del libro. La pronuncia un umile e sottomesso Rav Perugia, che nel libro svolge una parte analoga, ma meno urticante degli indolenti Rabbini della estrema provincia americana immortalati nell’ultimo film dei fratelli Cohen. Due tredicenni saputelli, il protagonista del romanzo Leo Pontecorvo e il futuro avvocato, che invano cercherà di cavarlo fuori dai guai in cui si andrà a cacciare, chiedono lumi al Rabbino sull’iconoclastia ebraica.Leo diventerà un uomo di successo, si occuperà di rare forme di tumori infantili, un medico e giornalista famoso. E’ un personaggio più lineare rispetto ai protagonisti del libro di esordio di Piperno. La vita porterà Leo a un esilio “scarafaggesco” nello scantinato della sua bella casa all’Olgiata. L’inizio del romanzo è faticoso, ma dalla seconda parte in poi il lettore non riuscirà ad abbandonare una trama intensa e coinvolgente.Craxiano fedele al partito, forse non estraneo agli intrighi politici cui deve una parte della sua fortuna, ad un tratto, assai prima di Tangentopoli, Leo entra in crisi: si inceppa qualcosa, forse non è estraneo il ricordo del caso-Achille Lauro – il destino sembra accanirsi contro di lui. Come per un imperscrutabile disegno le disgrazie si susseguono una dopo l’altra, si spezza la serenità famigliare nella quale aveva creduto. Una serie di scandali lo vede coinvolto prima marginalmente, poi in modo esplicito fino allo scandalo degli scandali, il tabù infranto: avrebbe sedotto e, forse violentato, la fidanzatina tredicenne di uno dei suoi due figli. Arrestato e rinchiuso in carcere per alcuni giorni, la sua casa perquisita: la televisione e i giornali non fanno che rovinare la sua privacy, i figli e la moglie torcono il viso da lui. La colpa, che in un primo tempo, sembra imperdonabile si trasforma in accanimento giuridico, Leo pensa non a torto di essere vittima di una ingiustizia. Nel finale kafkiano, come un insetto cacciato dal consorzio civile, Leo morirà affogato nella cantina-rifugio. Lo ritroverà una domestica dal nome cinematografico illustre, Telma.Le immagini, come si diceva, sono una possibile chiave di lettura. Vietate, sì, ma fino a un certo punto. Anche i nomi dei personaggi hanno un significato nascosto che rimanda in modo quasi sacrilego a una icona, filmica più che pittorica. Persecuzione è un romanzo dove l’autore a suo modo mette in pratica l’insegnamento della tradizione: la verità non coincide con l’immagine. Un altro episodio rivelatore è la brutta foto di Leo a cavallo, che i quotidiani sbattono in prima pagina il giorno in cui esplode lo scandalo. Palesemente non è una immagine vicina al vero. Sono comunque i disegni che accompagnano il libro a colpire il lettore. Questo è un libro sobriamente illustrato. Si tratta di poche tavole in bianco e nero, vere e proprie tavole di fumetti: sono opera di Werther Dell’Edera e faranno sentire a casa propria il lettore di “Linus” o di un’altra rivista di fumetti. Un fumetto, non vi è dubbio, noir. Sul piano tipografico questi disegni sono una sorpresa (come la parola “continua”, che, alla fine, sostituisce i cinematografici titoli di coda). Sul piano narrativo il ruolo del “misterioso artefice” dei disegni ha un valore nascosto, forse più alto. E’ il disegnatore, quasi, un mistico deus absconditus: quelle scure sue tavole “fanno paura come fanno paura tutte le cose che non hanno senso”.In chiave allegorica “il fumettista nell’ombra” credo abbia a che fare con la domanda che il tredicenne Leo e il suo amico Herrera avevano formulato al Rabbino Perugia cercando di metterlo in difficoltà: perché agli ebrei è vietato “farsi immagine”? Dove si nasconde la verità, se le immagini non riescono a riprodurla nemmeno attraverso la deformazione del fumetto? Il romanzo fa un uso molto spregiudicato delle categorie del Tempo. Nei giorni dello scandalo Leo ripensa a tutta la sua vita, nel finale gli interrogativi sulla natura del male e della persecuzione diventano opprimenti fino a sopprimere il protagonista. In questa nuova prova Piperno fa più direttamente i conti con l’ebraismo e con i temi del romanzo ebraico novecentesco. Non ci sono solo riferimenti espliciti, troppo scontati, a Philip Roth (questa volta un Roth mescolato con Nabokov). E’ dominante, fin dal titolo, la riflessione sulle possibilità annientatrici della memoria dolente, il cui “fuoco amico” può essere micidiale; sul nesso verità-storia e verità-vita Piperno sembra qua e là rinviare a Svevo, oltre che a Kafka, ma sono temi ricorrenti, su cui il saggista e critico letterario Piperno s’interroga da anni, a partire dal libro su Proust (e sulla memoria ebraica di recente è ritornato, per esempio, nel suo interessante dialogo con David Mendelsohn, l’autore de Gli scomparsi).Piperno è il solo scrittore che affronti, sul piano sociologico, oltre che letterario, la condizione ebraico-italiana. Roma è il suo osservatorio privilegiato. Non ha un buon rapporto con l’ebraismo della capitale, questo si vedeva già dal primo libro. Nuoce forse l’angolatura aristocratica e direi quasi dannunziana delle vicende che tratta (qui, in parte, l’idiosincrasia è attenuata dalla figura della ebrea del ghetto, la fidanzata e poi moglie Rachele). Più che Zuckermann i personaggi che Piperno mette in scena ci sembrano degli Andrea Sperelli in fuga dal Portico d’Ottavia (e da se stessi). Rimane però un fatto: nessuno scrittore ebreo-italiano, nato dopo la Shoah, meglio di Piperno riesce a ragionare, in forma apparentemente fumettistica (cioè parodistica) , sul “contenzioso” che ha inasprito la “microscopica ma agguerrita” comunità romana. Le due concezioni alternative, che in questo romanzo dividono Leo da Rachele, discendono, secondo Piperno, dalla “grande pubblicità” ricevuta dagli ebrei dopo le sconvolgenti notizie sulla deportazioni che incominciarono a diffondersi negli anni in cui l’autore veniva al mondo. Quella grande pubblicità, scrive, “disperarono” e al tempo stesso contribuirono a “ringalluzzire” l’idealtipo. Sono gli in cui si scoprirà “l’esistenza, in paesi lontani, di ebrei molto più ebrei di lui: rigorosi e pittoreschi, tragici e brillanti, questi askenaziti – con le loro friabili, magiche, esoteriche esistenze sempre sull’orlo del disastro – apparivano mille volte più all’altezza, smisuratamente di più di quanto l’ebreo romano non si fosse mai sentito, del compito di vittime sacrificali e di pacifici eroi alla riscossa affibbiato agli ebrei dalla Storia”. Da questa condizione di inferiorità scaturisce la solidità psicologica dei due personaggi maggiori e la buona riuscita del libro. Rachele sviluppa uno spirito di emulazione “tradotto nell’importazione di un compendio di abitudini e divieti da secoli scomparsi dalla nostra tradizione”. Leo, per contrasto, incarna il risultato di una radicalizzazione: fenomeno comune a molte altre anime laiche e illuministiche della comunità (non solo romana): uno spirito sarcastico, sconfinante appunto nella iconoclastia, nevrotici modi di irrisione e insofferenza. Lei dissotterra vecchie tradizioni per rendere meno confortevole la vita della sua famiglia; lui “fa la conta di tutti gli ebrei secolarizzati in giro per il mondo che hanno fatto successo nel cinema, in letteratura, in medicina”. Alberto Cavaglion, http://moked.it/


tomba di Rabin
Mentre in Italia si dibatte la non semplice questione di quali siano i modi migliori per tutelare la Memoria di quanto vi è di più intimo e sacro di fronte all'aggressione dei nostalgici e dei ciarlatani, anche in Israele è necessaria una periodica riflessione sul significato del ricordo e sul suo ruolo nella vita civile. L'uccisione del Primo Ministro Itzhak Rabin, di cui ieri si commemorava il quindicesimo anniversario, è ancora oggi materia di polemici scambi nei quali si sentono anche le voci - a dire il vero minoritarie - di chi vorrebbe dimenticare, scaricare, minimizzare, o addirittura giustificare. Non è purtroppo sempre chiaro, soprattutto fra i più giovani, se sia stato ben compreso e assimilato il messaggio profondo che l'attentato alle istituzioni democraticamente stabilite è un attentato all'esistenza stessa della convivenza civile. Chi a suo tempo colpì Rabin, colpì di fatto e mise a rischio l'intero stato israeliano e come tale non merita sconti, agevolazioni o compassione. Ma l'idea che esista un interesse ulteriore, superiore a quello espresso attraverso gli strumenti e i controlli del metodo democratico, permane allo stato latente e costituisce una minaccia che richiede un capillare lavoro educativo e un costante stato d'allerta. SergioDella Pergola Università Ebraica di Gerusalemme, http://moked.it/

giovedì 21 ottobre 2010


Parata di missili dell'esercito iraniano

La misteriosa distruzione della base missilistica iraniana

Anche se né Washington né Gerusalemme hanno finora scatenato raid aerei contro i siti nucleari iraniani non si può certo dire che tra Teheran e i suoi nemici regni la pace. In settembre il virus informatico Stuxnet, forse “costruito” in Israele, pare abbia bruciato la memoria dei sistemi informatici della centrale nucleare di Busher e di molti laboratori di ricerche atomiche.Il mese precedente una triplice esplosione, attribuita da Teheran a una fuga di gas, aveva distrutto la villa di Reza Baruni l’ingegnere aeronautico che ha progettato i velivoli teleguidati iraniani. Nonostante fosse protetto dai pasdaran e la villa di Ahwaz fosse presidiata giorno e notte, Baruni è morto nell’esplosione attribuita ad agenti o incursori delle forze speciali, forse gli stessi sabotatori esperti che il 12 ottobre hanno distrutto le rampe di lancio dei missili balistici Shahab 3 nella base missilistica sotterranea di Imam Alì vicino a Khorramabad, nella provincia iraniana occidentale del Lorestan. Anche in questo caso, tre esplosioni in rapida successione (quasi una firma) che Teheran ha attribuito a un incidente che ha provocato la deflagrazione di un deposito di munizioni ammettendo la morte di 18 pasdaran e il ferimento di altri 14.I fedelissimi Guardiani della Rivoluzione, punto di forza del regime di Mahmoud Ahmadinejad, gestiscono le armi di distruzione di massa e utilizzano la base Imam Alì, sui monti Zagros, per la deterrenza strategica. I missili Shahab-3, l’arma più importante dell’arsenale iraniano in grado di colpire con testate convenzionali, chimiche e atomiche, obiettivi situati fino a circa 1.500 chilometri. Dalla base super protetta e difesa dai missili antiaerei russi Tor M-1, sono a tiro Baghdad (400 chilometri), tutte le basi anglo-americane in Iraq e nel Golfo e Tel Aviv (a 1250 chilometri): una caratteristica che rende (anzi rendeva) la base Imam Alì idonea a scatenare la rappresaglia in caso di incursioni aeree statunitensi o israeliane sui siti atomici iraniani.Secondo il sito internet israeliano di intelligence Debka, vicino ai servizi segreti di Gerusalemme, le esplosioni sono avvenute nei tunnel che collegano le rampe di lancio sotterranee, distruggendole e rendendo così la base non operativa per molto tempo.Come sempre nelle “guerre segrete” è difficile attribuire con certezza delle responsabilità ma vale la pena ricordare che la base Imam Alì è esplosa alla vigilia della visita di Ahmadinejad in Libano, considerata una provocazione a Gerusalemme. Una “coincidenza” non irrilevante.Inoltre gli Stati Uniti hanno varato nell’aprile scorso un inasprimento delle operazioni segrete della Cia e delle forze speciali in alcuni Paesi, Iran incluso. Da non sottovalutare, infine, il ruolo dei servizi segreti sauditi e degli emirati del Golfo che temono l’aggressivo espansionismo iraniano forse più di Israele e sostengono i gruppi di opposizione armata arabi attivi nelle province occidentali iraniane.gianandrea gaiani 19 Ottobre 2010, http://blog.panorama.it/