sabato 18 settembre 2010



Yom Kippur (1878)

Kippur

Per l’ebreo che ha esperito la cesura tra i due anni, l’infranto dei «giorni terribili», alla ricerca di una purificazione attraverso la teshuvà, si prepara il digiuno, che non è l’astinenza dal cibo fine a se stessa, ma è un modo per ricomporre la frammentazione, per riunificarsi con se stessi e con gli altri grazie alla riconciliazione con D-o.Ha scritto il filosofo Yuhuda HaLevi, nel suo bellissimo libro Kuzarì, che il digiuno che si osserva nel giorno di Kippur è «il digiuno con cui si è simili agli angeli, perché perfeziona con la contrizione e l’umiliazione, stando in piedi e inginocchiandosi, con le lodi e con gli elogi; tutte le facoltà corporee "digiunano" astraendosi dalle occupazioni naturali, come se nell’essere umano non ci fosse natura animale» (Kuzari 3, 5).Nella liturgia l’enumerazione dei peccati (contenuta nelle preghiere di Ashamnu e di ’Al chet) è un modo per strappare la confessione, per far affiorare i segreti che si annidano nei recessi più reconditi e che, articolati insieme, vengono condivisi in ripetizioni rinnovate. In questa condivisione, in cui ciascuno è davanti a D-o nella sua umanità spoglia, Israele è consapevole di pregare «con i peccatori» (Kol nidrè). E a Kippur emerge con chiarezza che Israele si fa carico dell’umanità.Donatella Di Cesare, filosofa, http://www.moked.it/


Istituto Weizmann

Israele, un tweet con un passato

Acquistato l'account @israel creato da uno spagnolo proprietario di un sito a luci rosse. Una storia curiosa, che parla del crescente valore degli account di Twitter e dei mezzi di comunicazione scelti dai governi
Roma - Lo stato di Israele ha acquistato l'account Twitter @israel da un cittadino spagnolo di Miami proprietario di un sito pornografico.Il dominio era stato registrato da tale Israel Meléndez nel 2007, agli albori di Twitter: l'uomo, che aveva già un altro account in qualità di proprietario di un sito porno, aveva deciso di aprirne uno nuovo e personale. Utilizzando il suo nome, però, aveva sottovalutato o non considerato affatto che qualsiasi discussione twittata che facesse riferimento allo stato ebraico sarebbe stata indirizzata automaticamente a lui. Con logiche conseguenze di traffico in timeline.Così, quando ha ricevuto un messaggio dallo Stato di Israele, si è dimostrato pronto a trattare: dopo negoziazioni che lo hanno condotto anche presso l'ambasciata dello Stato, non lo ha regalato ma comunque lo ha ceduto per un prezzo definito "adeguato". Presumibilmente, infatti, solo perché le regole ufficiali di Twitter proibiscono la compravendita di account, la trattativa è durata più del dovuto: si doveva attendere il placet del tecnofringuello."Il mio account era in pratica inutilizzabile dato il numero di risposte che ogni giorno le persone mi inviavano pensando che rappresentassi lo stato", ha raccontato Meéndez. Per non contare, come sottolineano alcuni, "i commenti antisemiti o antisraeliani" che si ritrovava a leggere quotidianamente.Dal 30 agosto, alla fine, l'account è passato nelle mani del Ministero degli esteri israeliano, che ha sostituito tutti i tweet del precedente proprietario con i propri e lo ha iniziato ad utilizzare per comunicare le posizioni dello Stato e divulgare notizie e informazioni attraverso il servizio di microblogging, rimpiazzando l'account finora usato @israelMFA: "Per utilizzarlo meglio - ha riferito il portavoce del ministero - di quanto finora fatto da Meléndez". Con tutti i pro e i contro dell'universo di cinguettii: un mezzo forse più diretto per alcune comunicazioni, ma anche una via molto facile per recapitare offese et similia.La strategia comunicativa, in fondo, è la stessa che ha portato il Primo Ministro Netanyahu ad aprire una pagina Facebook, Flickr, nonché all'avvio di un canale su YouTube già al centro di polemiche per alcuni filmati relativi allo scontro delle truppe israeliane con la nave turca Mavi Marmara in acque internazionali.16 settembre 2010, http://punto-informatico.it/



Usa: Vogliamo far ripartire negoziato tra Israele e Siria

Oggi Mitchell si reca a Damasco per incontrare Assad
16 set. (Apcom) - Gli Stati Uniti stanno facendo intensi sforzi per far ripartire i negoziati di pace tra Israele e Siria. Lo ha confermato l'inviato Usa in Medio Oriente, George Mitchell, in una conferenza stampa a Gerusalemme. Lo riporta il sito web del quotidiano israeliano Haaretz. Mitchell ha detto che Washington non considera i negoziati tra israeliani e palestinesi come un ostacolo per i colloqui tra Israele e Siria. Al contrario, ha aggiunto l'inviato, i due negoziati possono aiutarsi a vicenda. Mitchell ha quindi spiegato che il suo vice, Fred Hof, è stato recentemente a Damasco dove ha discusso con i responsabili locali della ripresa del negoziato con Israele. Gli sforzi diplomatici dell'amministrazione Obama prosegurianno anche nelle prossime ore. Lo stesso Mitchell sarà infatti oggi a Damasco per colloqui con il presidente siriano Bashar Assad. Il Canale 10 della tv israeliana l'altro ieri ha riferito che Hof è stato in Israele nei giorni scorsi, e ha informato il premier Benjamin Netanyahu che Assad è disposto a riprendere i colloqui di pace senza precondizioni. Il presidente siriano vuole però che gli Usa facciano da garanti per un futuro ritiro israeliano dal Golan.


Menachem Gantz

ISRAELE / Berlusconi, giornalista ebreo contro il premier: “Italia troppo amica dell’Iran”

«In Italia le parole sono una cosa. I fatti un’altra». È il giudizio – lapidario – di Menachem Gantz, il corrispondente da Roma del quotidiano Yedioth Ahronoth. In un lungo articolo comparso sull’edizione cartacea, il giornalista israeliano ha fatto le pulci alla politica estera italiana. E ha scoperto che, a sei mesi dalla promessa di Berlusconi in cui impegnava l’Italia a ridurre i rapporti commerciali con l’Iran, i fatti sono andati diversamente. «La realtà è che l’Italia continua ad essere uno stretto partner della Repubblica islamica», scrive Gantz.«Berlusconi e il suo ministro degli esteri, Frattini – continua il giornalista – hanno dichiarato in passato che è necessario ostacolare la capacità dell’Iran di sviluppare quelle armi nucleari che Israele ritiene una minaccia alla sua stessa esistenza. I fatti, però, indicano che la politica del governo italiano incoraggia gli scambi commerciali con Teheran, dando così stabilità al regime degli Ayatollah».E via con i numeri, presi dal nostro istituto di statistica, l’Istat. Nel primo semestre del 2010 le importazioni italiane dall’Iran hanno toccato quota due miliardi di euro. Più del doppio rispetto allo stesso semestre dell’anno precedente (circa 847 milioni). «Nello stesso periodo sono cresciute anche le esportazioni verso l’Iran – scrive il giornale – superando quota un miliardo». Quello che infastidisce più gl’israeliani è il fatto che «l’Italia ha venduto all’Iran soprattutto prodotti ad alta tecnologia e ha firmato grosse commesse nel settore delle infrastrutture, delle comunicazioni e dell’energia».«La forte crescita delle importazioni dall’Iran è anche dovuta ai cambiamenti nei rapporti di cambio euro-dollaro e all’aumento del prezzo del petrolio», hanno risposto dalla Farnesina. Precisando che gli scambi commerciali «vengono fatti tenendo conto delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite». E il governo? «Dall’ufficio del primo ministro hanno replicato dicendo che stanno ancora studiando i numeri», chiude – sarcastico – l’articolo.http://www.direttanews.it/


Israele: da Gaza sparate bombe al fosforo

Due dei 9 proiettili di mortaio sparati oggi da Gaza contro il sud di Israele erano bombe al fosforo. Lo ha confermato l’esercito israeliano, precisando che non e’ la prima volta che accade una cosa simile.Haim Yalin, il capo del Consiglio regionale di Eshkol, la zona in cui sono caduti i proiettili, ha manifestato alla stampa l’intenzione di denunciare l’accaduto alle Nazioni Unite, visto che l’uso di queste armi e’ proibito dalla convenzione di Ginevra. (Fonte: Repubblica.it, 15 settembre 2010)


Intel Haifa

Edilizia sostenibile: a Tel Aviv arriva l'Eco-Torre firmata Azouri

Per marzo 2011 l'inaugurazione
Materiali sostenibili, efficienza energetica e risparmio idrico: tutto questo e molto altro nel progetto dell’Azouri Brothers Building. Venti piani di nuova sostenibilità per Israele
(Rinnovabili.it,15 settembre 10 ) – E’ quasi giunta al termine la prima fase dei lavori per la realizzazione del secondo edificio ‘verde’ d’Israele. Dopo il Development Design Center dell’Intel ad’Haifa certificato con il LEED, anche Tel Aviv è pronta a mostrare il suo gioiello di sostenibilità. Nella piena consapevolezza delle contenute risorse idriche ed energetiche del Paese, il progetto, del valore di oltre 50 milioni di dollari, ricerca un’anima green fin dalla scelta dei materiali edilizi, privilegiando quelli locali e riciclati, nel rispetto delle “procedure nazionali di manutenzione ecologica”. I suoi ideatori, Ronen e Alon Azouri dell’Azouri Brothers Building, avevano come obiettivo principale quello di creare un complesso di uffici che avesse un basso impatto ambientale ed un’alta efficienza nella gestione delle propri consumi. L’Eco-Torre – così battezzata da Ronen Azouri- sarà caratterizzata un impianto di trattamento e riciclaggio delle acque grigie che, una volta depurate, un sistema di tubature ridistribuirà per gli scarichi igienici e l’innaffiatura dei ‘giardini pensili’ risparmiando fino a circa 13.000 litri al giorno. “E’ ridicolo – ha commentato Azouri – utilizzare l’acqua potabile per queste cose”. A ciò vanno ad aggiungersi altre misure specifiche di risparmio idrico, come i rubinetti con accensione a infrarossi o sistemi di controllo dell’umidità. “La relazione del nostro ingegnere stima un consumo di circa 18.000 litri d’acqua almeno al giorno (rispetto ad un edificio per uffici convenzionale), ma io voglio essere prudente, ritenendo più equo parlare di 16.000 litri che se si moltiplica per 300 giorni , significa un risparmio di oltre quattro milioni di litri all’anno”.
Ai fini di minimizzare il dispendio energetico sono stati impiegati doppi vetri isolanti, in parte realizzati con materiale riciclato, che consentono di ridurre il guadagno termico del 25% mentre permettono il passaggio di circa il 62% della luce naturale. Per il rifornimento dell’elettricità sul tetto verranno posizionati moduli solari ed è in stato di valutazione la possibilità di installarvi anche delle turbine eoliche; un piccolo impianto solare termico fornirà invece l’acqua calda per due docce a disposizione di quanti utilizzeranno la bici per recarsi in ufficio. Pannelli di cartone pressato e riciclato forniranno i rivestimenti esterni mentre i pavimenti impiegheranno solo legno certificato.Ronen Azouri sta inoltre stilando un protocollo per agevolare la manutenzione del complesso nel pieno rispetto ambientale: “La maggior parte dei rifiuti saranno riciclati; forniremo i contenitori per separare carta, cartone e vetro, là dove possono essere facilmente scartati e raccolti. Voglio che tutti partecipino e si sentano fieri di seguire il protocollo, perché un concetto vincente deve coinvolgere le persone nel modo giusto”. L’apertura ufficiale dell’Eco-Torre è prevista per marzo 2011, ma già per gennaio sono attesi i primi inquilini dell’edificio.


Nuovo video messaggio di Al Zawahri

Numero due Al Qaeda parla dell'11/9
Il numero due di Al Qaeda, Ayman Al Zawahri è apparso in un nuovo video dove parla degli attacchi terroristici dell'11 settembre. Lo ha reso noto IntelCenter, un'agenzia Usa che controlla i siti dell'estremismo islamico. L'ultimo messaggio era stato un audio di 20 minuti diffuso il 15 agosto su internet, in cui esortava il popolo turco a premere sul governo di Ankara perché troncasse i suoi legami con Israele e ritirasse le truppe dall'Afghanistan...............15/9/2010, http://www.tgcom.mediaset.it/


Israele, più visitatori per il sito del ministero del Turismo

Nei primi sei mesi dell’anno si sono registrati 2,7 milioni di accessi
Israele registra in crescita anche i turisti “virtuali”.Il sito del Ministero del Turismo, disponibile in 16 lingue, ha registrato nei primi sei mesi dell’anno 2,7 milioni di accessi con un aumento del 30% rispetto allo stesso periodo del 2009.I Paesi che hanno registrato il più alto numero di accessi sono stati: Stati Uniti, Russia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Inghilterra ed Italia.Sulla crescita della visibilità del sito internet in lingua italiana è intervenuto anche Tzvi Lotan, direttore dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano, ricordando come dal 1° maggio 2010 al 21 agosto 2010 il sito dell’ente ha avuto ben 114.428 accessi: un dato straordinario ed in continua crescita, frutto di u’intensa attività di comunicazione. 15/09/2010 http://www.guidaviaggi.it/


Milano


Milano - imbarazzi e proteste per la mostra di Cattelan

Milano, 15 settembre, http://www.moked.it/
Contestazioni a Milano per la mostra di Maurzio Cattelan. I manifesti dell'esposizione, che raffigurano Adolf Hitler genuflesso e con le mani giunte, sono stati bloccati dall'amministrazione comunale prima che finissero sulle strade. Il primo a sollevare perplessità alla idea di vedere la città tappezzata con icone del Fuhrer è stato l'assessore all'Arredo, Maurizio Cadeo, responsabile del settore pubblicità.


sinagoga livorno

Roba da Mat

Riporta la stampa livornese che il «Mat», lega Autonomista Toscana, per opporsi all'ipotesi di costruzione di una moschea in città attuerà una "clamorosa iniziativa". «Ci opponiamo con fermezza all'ipotesi di costruire una moschea a Livorno. E per ribadire la nostra contrarietà il prossimo sabato, 18 settembre, distribuiremo in centro carne di maiale (salsicce, salame, finocchiona ecc.) insieme a un volantino che illustrerà le nostre ragioni del no alla moschea", dice il MAT- segretario Chelucci che prosegue affermando: "Come è noto il maiale è un animale impuro secondo l'Islam e con questo atto non vogliamo mancare di rispetto a questa religione (sottolineatura che equivale a conferma - ndr) ma vogliamo rivendicare il nostro diritto di comportarci secondo le nostre usanze quando siamo a casa nostra: diritto che spesso è messo in discussione dai cosiddetti "nuovi italiani"».Un serio commento a queste e altre affermazioni parallele, illiberali doc, richiederebbe molto spazio: posto che il MAT- Chelucci sembra ignorare il fiorire di sagre dedicate al povero maiale e le varie norcinerie esistenti, la scelta del 18 ottobre, digiuno ebraico del Kippur, potrebbe però aprire un ulteriore fronte imprevisto dagli incauti autonomisti toscani. Se è infatti 'noto che anche gli ebrei non hanno grandi simpatie per il maiale (il quale invero ringrazia e apprezza), pur non sgomentandosi di vederselo intorno, gli effetti di un lungo digiuno possono essere molteplici e la "tollerante" Livorno non merita, per la sua storia, una simile "maialata". Viene proprio da dire : "roba da MAT...".Gadi Polacco, consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, http://www.moked.it/



Gerusalemme

Giocare a fare i duri

La vicenda del reverendo Terry Jones, e del suo annunciato proposito (poi ritirato, ma portato a compimento da alcuni imitatori) di bruciare il Corano nella ricorrenza dell’11 settembre, impone alcune considerazioni. Riguardo al personaggio, c’è poco da dire. Più che un cretino, o un pericoloso sovversivo, un piccolo e cinico furbo, che ha saputo abilmente sfruttare il sistema mediatico per fare pubblicità alla sua minuscola congregazione, di cui fino a ieri nessuno conosceva l’esistenza, e che ora vedrà sicuramente moltiplicare i suoi adepti. I giochi ‘cattivi’ hanno sempre esercitato un sinistro fascino, anche sui bambini, e, in America, come ovunque, c’è molta gente che si annoia, e a cui piace giocare “a fare i duri”. Ciò detto, va anche sottolineato come lo straordinario rilievo dato alla notizia, che è sembrata addirittura tenere il mondo col fiato sospeso, nella paura delle prevedibili e annunciate ritorsioni islamiche - puntualmente verificatesi -, come se si fosse alla vigilia di una possibile catastrofe planetaria, ha francamente del surreale. Il Jones non ricopre nessun incarico pubblico, rappresenta solo sé stesso e, al massimo, qualche decina di ‘fedeli’, presumibilmente della sua stessa raffinatezza intellettuale. E lo stesso vale per i suoi patetici replicanti, che si sono fatti ritrarre mentre, in beata solitudine, bruciavano il Corano nel cortile di casa, a esclusivo beneficio dei fotografi. Per quale bizzarro motivo il gesto idiota di un paio di poveretti dovrebbe essere interpretato come un’ingiuria inferta da parte degli Stati Uniti d’America, nella loro globalità (imponendo addirittura l’intervento personale del Presidente), se non di tutto l’Occidente, o dell’intera ‘cristianità’? Chi mai poteva avere investito il reverendo di un così ampio e autorevole potere di rappresentanza? In tempi normali, la sparata avrebbe meritato al massimo un trafiletto in una pagina interna del Gainesville Times - tra un furto di bestiame e una rissa al saloon -, una ramanzina o una multa da parte dello sceriffo, per turbativa dell’ordine pubblico, qualche pernacchia dai vicini di casa. E invece, il nostro non solo è improvvisamente salito alla ribalta mondiale, ma si è trovato addirittura a diventare l’arbitro, con le sue scelte, dei destini del pianeta. Se ciò è accaduto, evidentemente, vuol dire che tanto normali, i tempi che viviamo, non sono. Non è normale, non è logico che si riconosca a mezzo mondo una forma di estrema e patologica suscettibilità, tanto da ritenere naturale e inevitabile un’insurrezione di massa, con violenze e uccisioni, per il gesto di pochi squinternati, arbitrariamente eletti a rappresentanti ufficiale dell’altra metà del mondo. L’ovvia considerazione, tante volte reiterata, secondo cui i terroristi non rappresentano tutti i musulmani, non vale evidentemente per gli occidentali, che, in qualsiasi momento, possono essere globalmente colpevolizzati per il singolo comportamento demenziale di un qualsiasi scriteriato. Una suscettibilità, fra l’altro, molto particolare e ‘selettiva’, dato che, quando i versi del Corano vengono usati come coreografia per filmati amatoriali, ritraenti sgozzamenti in diretta, o cose del genere, nessuno si offende.Francesco Lucrezi, storico,http://www.moked.it/


Avi Grant, allenatore del West Ham: “È Kippur, non alleno”

Avi Grant, allenatore israeliano del West Ham fanalino di coda della Premier League, sabato prossimo non siederà sulla panchina della propria squadra. In quelle ore infatti osserverà lo Yom Kippur, il giorno più sacro nel calendario ebraico che prevede la totale astensione da ogni tipo di attività lavorativa e il divieto di mangiare e bere per 25 ore. La decisione di Grant è stata appoggiata dai dirigenti degli Hammers, club che pur versando in una situazione di classifica disastrosa (è ultimo con zero punti dopo quattro partite) ha acconsentito a privarsi del suo tecnico nella difficile trasferta sul campo dello Stoke City, che a un mese dal via del campionato rappresenta già un delicato spareggio salvezza. “È difficile osservare tutti i precetti della tua religione se ti occupi di sport - ha detto David Gold, uno dei proprietari del West Ham - ma la religione è un fatto personale e quindi, come avrei voluto che Avi fosse della partita, così rispetto la sua decisione”. Gold, che nel nome tradisce evidenti origini ebraiche, ha poi aggiunto: “Se i miei nonni fossero ancora vivi sabato non verrebbero sicuramente allo stadio”. Grant ha un rapporto molto profondo con la religione e già in occasione dello Yom Kippur di tre anni fa era stato protagonista di una situazione analoga. Il digiuno cadeva infatti alla vigilia del suo debutto da allenatore del Chelsea e nonostante l’importanza della circostanza, il tecnico di Petah Tiqva decise di affidare la preparazione della partita al suo vice e preferì fare teshuvà. Adam Smulevich, http://www.moked.it/


Giornata della cultura - Positivo il primo bilancio

L’undicesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica ha avuto un’ottima riuscita: tirando le somme della quantità e della qualità delle iniziative, dell’attenzione mediatica, della curiosità che ha suscitato, possiamo affermare che la Giornata si sta consolidando sempre più quale evento di effettiva risonanza nazionale che catalizza attenzione e interesse nel mondo ebraico e, soprattutto, in quello non ebraico; un dato che deve far riflettere, in positivo, su come la società percepisce gli ebrei e l’ebraismo. Durante la Giornata si sono svolti in Italia poco meno di trecento eventi, tutti di alta qualità (convegni, mostre, conferenze, concerti, visite guidate, degustazioni, passeggiate archeologiche, itinerari artistici, mercatini), organizzati nelle 62 località che quest’anno hanno aderito alla manifestazione, con interventi di grande livello e una ottima partecipazione di pubblico. Abbiamo avuto una fortissima attenzione mediatica, con diverse centinaia di articoli, servizi televisivi e radiofonici, e moltissime visite al sito della Giornata sia nella parte di consultazione dei programmi che nelle pagine culturali. Per quanto riguarda l’affluenza, per ora possiamo fornire solo dei dati ancora incompleti e parziali: circa 50.000 i visitatori, ma manca ancora il conteggio di circa 10 località, e anche i dati che ci sono pervenuti da alcune località sono parziali). La sensazione, riportata da diversi organizzatori, è stata quella di vivere una bellissima giornata di festa, capace di coniugare cultura e svago, e di agire nella direzione di abbattere il pregiudizio che ancora esiste nei confronti del mondo ebraico, aprendo le porte per mostrare chi siamo, come e dove viviamo le nostre tradizioni e, appunto, la nostra cultura. Livorno ‘capofila’ si è rivelata una città capace di accogliere l’iniziativa con grandissimo entusiasmo, soprattutto per merito di una splendida comunità ebraica, che intrattiene con il territorio e con le istituzioni dei rapporti (antichissimi) di pacifica e prolifica convivenza (nell'immagine la sinagoga di Livorno in occasione della Giornata). L’evento è stato un grande successo, con la mobilitazione di tantissimi cittadini, l’attenzione fortissima delle istituzioni e dei media locali, e una folta presenza di pubblico proveniente anche da fuori città. Per diverse iniziative non c’è stato abbastanza spazio per accogliere il pubblico, tanto da dover promettere a chi è rimasto escluso una nuova edizione degli spettacoli organizzati.Sira Fatucci, http://www.moked.it/


Neghev




Una mente in pace non è una mente senza pensieri, ma una mente che ha fatto pace con i pensieri. (Joseph Goldstein)MatildePassa,giornalista, http://www.moked.it/


Esordio portoghese per l’Hapoel Tel Aviv

Inizia in Portogallo l’avventura europea dell’Hapoel Tel Aviv, che stasera fa il suo esordio assoluto in Champions League sul campo del Benfica. È il secondo anno consecutivo che un club israeliano gioca in Champions, dopo l’esperienza non certo trionfale del Maccabi Haifa nella passata stagione. Il girone dell’Hapoel è tosto, le scuole calcistiche da affrontare sono tra le più ricche di talento al mondo (Francia, Germania e Portogallo), ma nel gruppo non c’è nessun superteam, nessuna big che possa essere considerata imbattibile in partenza. Lione e Schalke 04 sono due squadre importanti ma pensare di ottenere qualche punto qua e là, soprattutto davanti al pubblico amico, non è follia. Il precedente positivo della scorsa Europa League, in cui l’Hapoel ha ben figurato mettendo ko compagini di valore come Amburgo e Celtic, lascia aperto il rubinetto dei sogni. Si parte sulle note malinconiche del fado, con la speranza di tramutare l’inquietudine in gioia. Occhio al reparto offensivo dei lusitani con i due ex ragazzi terribili della seleccion argentina, Aimar e Saviola, che là davanti promettono scintille. E attenzione alle zampate di Nuno Gomes, bomber a fine carriera che nelle movenze (e nei tuffi) ricorda Pippo Inzaghi. Dall’altra parte fare accesi sul gioiellino Ben Sahar, grande speranza del calcio israeliano, e sulle intuizioni di Vermouth. I bookmaker puntano sulla vittoria dei portoghesi (bancata a 1,40) mentre pareggio (4,25) e colpo esterno dell’Hapoel (8,00) sembrano eventualità più remote. Ma come dice il più trito e ritrito luogo comune pedatorio, la palla è rotonda, e quindi le sorprese sono sempre dietro l’angolo. E allora perché non credere all’impresa? Per la cronaca, chi scrive ha appena investito sul pareggio il resto della sua colazione al bar, vincolando al risultato della partita la prossima pizza con gli amici. Adam Smulevich, http://www.moked.it/


Jean Samuel (1922-2010)

Era di tre anni più giovane di Primo Levi (era nato nel 1922 a Wasselonne in Belgio) ed era stato arrestato, come Levi, all’inizio del 1944 a Dausse dans le Lot-et-Garonne, poi deportato ad Auschwitz-Monowitz, ma a differenza di Levi visse anche la terribile esperienza delle “marce della morte”.Ora che Jean Samuel ci ha lasciati, ricordo la sua figura mite e signorile; uno stile di vita gemellare a quello dello scrittore torinese. Ricordo la sua partecipazione ai convegni dell’ANED degli anni Ottanta e soprattutto la sua commossa testimonianza al convegno torinese del 1988, un anno dopo la morte di Levi. Invitato da Bruno Vasari, di cui era amico, in quella circostanza Samuel a Torino rimase poche ore. Era come se non riuscisse a resistere all’idea di una Torino senza Levi; nella sala del Consiglio regionale lesse una breve, ma intensa testimonianza, che penso debba essere considerata la scintilla da cui verrà fuori, molti anni dopo, il libro-intervista Il m’appelait Pikolo. Un compagnon de Primo Levi raconte (Laffont, 2007; tr. ital. Frassinelli, 2008). Per via della comune amicizia con Maurice Goldstein, presidente della Fondation Auschwitz di Bruxelles, a quel tempo i legami fra Torino e Bruxelles, e specialmente fra Vasari e Samuel, erano piuttosto stretti, come non potevano non essere fra due “personaggi” di Levi. Samuel era Pikolo, Vasari più sinteticamente B.V, il destinatario della famosa poesia Il superstite.A Samuel è toccata in sorte una parte più impegnativa, molto impegnativa, forse troppo: quella del personaggio chiamato a diventare il simbolo della letteratura e delle sue potenzialità nella estrema condizione del Lager. Con il trascorrere degli anni, e il crescere della fortuna di Levi, forse a sua insaputa, Samuel accettato questa parte fino a esserne sopraffatto: egli rappresentava la forza che la memoria letteraria, la poesia sa conservare nelle avversità. Per il pubblico italiano, ma non soltanto per questo, egli ha rappresentato la potenza dell’umanesimo classico, del Dante umanista. Un ruolo simbolico, certo molto importante nell’interpretazione di uno scrittore come Levi, le cui inclinazioni letterarie a lungo sono state schiacciate dall’immagine dello scrittore-chimico, dello scienziato-scrittore. L’episodio di Pikolo e del canto di Ulisse chiamava in causa il tema, centrale in Se questo è un uomo, delle fonti letterarie.Jean Samuel era invece, innanzitutto, un uomo, non un simbolo. E, come altri personaggi-uomo di Levi (per esempio Henri o Cesare) non subito riuscì a riconoscersi nella pagina del libro. Il suo essere così presente “dentro” l’opera di Levi non può esonerarci oggi dal ricordarlo come uomo e in particolar modo come amico di Levi. E per farlo è necessario spostare la nostra attenzione ad un altro periodo della biografia leviana altrettanto importante e cioè il periodo del ritorno, del primo tentativo, difficile per entrambi, di ricostruirsi una vita normale.I brani della corrispondenza privata che Samuel pubblica nel suo libro sono belli almeno quanto il capitolo di Ulisse e rappresentano senza ombra di dubbio il carteggio di Levi più notevole fra quelli che oggi si conoscono. La prima lettera di Levi è del 23 marzo 1946 e risponde a una missiva nella quale Jean aveva scritto: “Il a fallu un hasard extraordinaire. Tout semblait nous empêcher de nous retrouver”. Queste lettere bellissime, come quelle che si scambiarono levi e Leonardo De Benedetti, in quelle stesse settimane e mesi, lasciano intravedere l’importanza di un tema relativo alla esperienza concentrazionaria che spesso tendiamo a sottovalutare.In quei primi mesi, in quelle prime settimane, il primo cercarsi e l’affannoso ritrovarsi dei compagni superstiti anima un dialogo epistolare europeo che richiederebbe uno studio specifico. Erano i giorni del silenzio, della testimonianza non accolta nemmeno nel grembo famigliare. I prigionieri si cercavano e occorreva un “hasard estraordinaire” per riuscire a farcela e potersi riabbracciare come accadde a Primo e a Pikolo. E’ la preistoria della storia della deportazione.Prima che essere affidata a un libro la memoria della propria drammatica esperienza era affidata a lettere, a lunghe lettere private che precedono il racconto scritto e in qualche modo lo rendono possibile. In questo antefatto, a parlare e a raccontare i guai passati sono due Ulisse ritornati alla loro Itaca dopo aver temuto il naufragio. I salvati si rincorrono, si mandano lettere, si cercano e chiedono a loro volta notizie di altri sopravvissuti. Questo dialogo straordinario, che meriterebbe una ricerca sistematica, ha un momento altissimo nella corrispondenza fra Levi e Samuel, nel periodo compreso fra liberazione dei campi e prima edizione di Se questo è un uomo. In nessun altro luogo troviamo risposte adeguate al problema del ritorno dai lager, alla speranza solare della vita che rinasceva dopo l’abominio. Sono settimane e giorni di intensi racconti, ma anche di spensieratezza, di incontri reali non sempre andati a buon fine, di un riabbracciarsi nella libertà e, soprattutto, la felicità consiste nel ritrovare l’amore per la vita. Nell’estate 1947, poche settimane dopo che Levi aveva inviato in pre-lettura il capitolo su Pikolo, i due amici meditano di incontrarsi sulla Costa Azzurra (“eravamo giovani fra giovani”). Samuel vedeva a Nizza per la prima volta in vita sua il mar Mediterraneo di Ulisse. Levi medita di raggiungerlo su una Lambretta che aveva appena acquistato, ma alla frontiera di Mentone lo bloccano perché non ha il passaporto, che non ha nemmeno Jean. I doganieri, senza sapere quale era la loro storia, acconsentono ad un breve incontro negli uffici. Primo porta in dono della frutta e della cioccolata. Ora che Jean Samuel ci ha lasciato ci piace ricordare così il loro incontro e la loro lunga amicizia.Alberto Cavaglion http://www.moked.it/



Maurizio Molinari

Nelle sinagoghe di Manhattan questo è stato un Rosh ha Shanà che ha visto i rabbini parlare al pubblico sulla necessità di essere "attivi" e "impegnati" non solo nello studio della Torah ma anche nella vita pubblica. C'è stato però anche chi ha voluto sollevare la questione dei "Kiddush Club" ovvero l'usanza, sempre più diffusa, che vede gruppi di persone uscire sabato dalla sala del Tempio durante le preghiere del mattino, fra Shachrit e Musaf, per andare nei corridoi delle sinagoghe a bere modiche quantità di vodka e wishky. E' un'usanza che nasce da alcuni gruppi di chassidim, che bevono vodka e mangiano aringhe, ma a Manhattan il "Kiddush Club" sta diventando una eccessiva distrazione per i frequentatori delle tefillot. E dunque il discorso di Rosh ha Shanà è servito per metterlo al bando. MaurizioMolinari,giornalista, http://www.moked.it/


Con Roth, a spasso nello zoo viennese

Quando la fuga da se stessi diventa una necessitàFu il più lucido giornalista-poeta della Mitteleuropa. Dalla nostalgia per lo shtetl della propria infanzia in Galizia, ai caffè di Vienna e Parigi, Joseph Roth ci racconta la vita e la morte di un mondo ashkenazita che non tornerà più "Un giorno, disperato perché ogni lavoro era del tutto incapace di soddisfarmi, divenni giornalista”. È lo stesso Joseph Roth a indicarci l’incipit della sua carriera giornalistica. Per una involuta ironia della sorte, lui, “Der Rote Joseph” (Joseph il rosso) come si firmava in calce ai suoi primi articoli apparsi nel 1917 sul quotidiano Der Abend e sul settimanale Der Friede, e dal 1919 su Der Neue Tag, lui che detestava “lo spirito da guida turistica che non tiene conto della mutevolezza del mondo”, finì con l’essere il più lucido cantore di un universo che stava precipitando verso l’inevitabile baratro. Il suo universo, di ebreo galiziano che conservava nel cuore le immagini della vita semplice e colorata dello schtetl, e quello dell’Austria Felix cancellata come potenza imperiale dopo la Prima Guerra Mondiale. Adelphi raccoglie oggi in due volumi, Al bistrot dopo mezzanotte e Il Caffè dell’Undicesima Musa, i suoi scritti giornalistici viennesi e parigini. Piccole cronache cittadine fotografate da un osservatore curioso e partecipe che si perde tra le strade e i caffè di due città-simbolo d’Europa. È pur vero che Roth si trovò nel posto giusto al momento giusto, avendo la nuova Austria un gran bisogno di cronisti capaci di raccontare i cambiamenti in atto. Cosa che Roth fece, trasferendo in quello che lui vedeva, e raccontava, ogni giorno, ciò che lui stesso aveva visto e vissuto: nella sua amata Vienna, nei suoi viaggi in Russia a seguito dei quali disse: “Sono partito bolscevico e sono tornato monarchico”, ai tavolini dei caffè e anche nei paradisi ragalatigli dai fumi dell’alcol che, come confessava, gli rendevano la vita più facile. E del resto, ne fa cenno l’amico e scrittore austriaco Stefan Zweig (autore di quel Mondo di ieri che testimonia il dolore senza ritorno di tanto ebraismo mitteleuropeo), Roth era certo di conoscere il mondo solo quando scriveva. Un esercizio letterario che talvolta sconfinava nell’osservazione scientifica tipica di un entomologo. Non è un caso che lo zoo viennese diventi la metafora della società austriaca dove la casa delle scimmie è chiusa per ferie parlamentari, che lo struzzo abbia piume meno belle di quelle della signora all’ingresso e che i pappagalli siano bambinaie.Con Roth, le vicende quotidiane diventano metafora di eventi ben più grandi. Ai tavoli dei caffè, “l’aria è satura di bollettini di guerra provenienti dalle conferenze di pace” scrive. Mentre al mercato nero, oltre alla vendita di tabacco dell’Erzegovina, turco, persiano ed egiziano, ci sono le camicie, le lenzuola, e la misera tabacchiera del marito che le donne vengono a vendere per rimediare una dozzina di uova. Eccola, la decadenza di Vienna, e dell’Europa tutta.I fumi dell’alcol non tolgono a Joseph Roth lucidità. Non quando descrive i ritratti da quattro soldi che gli italiani hanno fatto di Mussolini. Non quando ironizza sui filmati da venti minuti mandati sul grande schermo della città: venti minuti in cui si ride a crepapelle, in cui si passa dalla pergola alla trincea, all’elmetto d’acciaio, alle maschere antigas. Venti minuti prima del baratro.La lucida comprensione della realtà permane anche quando si abbandona alla nostalgia del mondo di ieri. Anche quando, in viaggio tra le Città Bianche della Provenza, sembra ritrovare la dolcezza della propria casa, e capisce che la nostalgia è “ciò che di più prezioso una patria può donare”. E la nostalgia per “un tempo dove in primavera si girava per i boschi a mangiare le fragole” (Fragole, Adelphi), per un paese in cui le genti conversavano in tutte le lingue della popolazione, e dove in settembre le foglie cadevano senza che nessuno le spazzasse via (“solo in Europa Occidentale ho visto raccogliere l’autunno con la ramazza” scrive), va a braccetto con una rassegnata sfiducia verso la modernità. La modernità delle lampade di acetilene definite ironicamente come “l’ultima conquista dei caffè viennesi”, della proletarizzazione delle case venute su in due settimane, dell’ombra nera dei grattacieli americani sopra Parigi, e la modernità di un pubblico che “si crede internazionale solo perché paga in valute diverse”.Ogni attacco alla “società moderna” è in realtà un soffocato grido di dolore per la perdita dello shtetl, di un mondo protetto dove non c’era neppure bisogno di documenti d’identità e che offriva ai singoli individui un cordone ombelicale con la totalità della vita. Il grande mosaico etnico-linguistico asburgico in cui Roth era cresciuto rappresentava per lui, come per altri famosi scrittori austro-tedeschi degli anni Venti/Trenta (Karl Kraus, Herman Broch, Robert Musil e Franz Werfel), un assoluto ideale di vita. Dopo la distruzione di questo ideale, come altri esuli incontrati a Parigi (tra il 1933 e il ‘39 passarono il Reno circa 55mila ebrei tedeschi), e come i personaggi descritti negli articoli e nei romanzi, anche Roth è “solo” sopravvissuto. La sua compassione, insieme al suo interesse letterario, è tutta per le vicende degli ebrei dell’Europa centrale, costretti dal crollo della monarchia austro-ungarica a emigrare verso l’Occidente europeo e gli Usa, e a contaminare la propria cultura fino a rischiare di perderla: proprio come i figli degli esuli parigini che non parlano più yiddish ma francese. Anche per questo, come afferma Ladislao Mittner, nonostante le sue simpatie cattoliche, Roth rimane “il più compiutamente ebreo” degli scrittori di lingua tedesca. Esule tra gli esuli. Superstite tra i superstiti. “In un solo minuto da quello che ci separava dalla morte abbiamo rotto con l’intera tradizione, con la lingua, con la scienza, con la letteratura” scrive. Una perdita d’identità che in parte spiega le tante personalità e biografie contraddittorie di Roth. “Conosco la libertà di non mostrare nulla più di me stesso” scrive. Lui che in Germania viene notato solo se recita una parte, lui che “non rappresenta nulla, nessuna stirpe, nessuna nazione, nessuna razza” e che deve comunque cercare qualcosa da rappresentare e spacciarsi per quello che non è. Il Roth comunista a Vienna diventa un monarchico austriaco e conservatore tra gli esuli di sinistra rifugiatisi a Parigi. Nella prefazione del suo ultimo romanzo scrisse che si riconosceva in quella monarchia cattolica che gli aveva permesso di essere “contemporaneamente un patriota e un cittadino del mondo”, ma nelle pagine del suo capolavoro incompiuto ancora ci ammonisce: “La mia parola è ben lontana dall’essere una confessione, la mia menzogna non è mancanza di carattere”. Perché la fuga, anche da se stessi, talvolta è una necessità. Come talvolta, per ritrovare la propria strada, bisogna perderla. Forse questo è l’insegnamento di Roth. Profeta, sognatore e lucido cantore della Finis Austriae che morì a Parigi nella primavera del ‘39, in un ospedale per poveri in seguito al troppo alcol. L’amico romanziere Moma Morgenstern si oppose ai funerali con la croce cattolica. Non ci riuscì. E così arrivarono anche le corone di fiori degli Asburgo, i cuscini rossi comunisti, gli omaggi dei gruppi di monarchici, dei cattolici e degli ebrei. Fu così che colui che pensava di aver perso le proprie radici le aveva ritrovate. Tutte insieme. Mimosa Salmin , http://www.mosaico-cem.it/


La magia e il mistero dell’alfabeto ebraico

La magia e il mistero dell’alfabeto ebraico nelle opere di Tobia Ravà, Ariela Böhm e Gabriele Levy. In mostra alla ETGallery di MilanoForme, colori, numeri e lettere ebraiche; questi sono gli elementi che gli artisti Tobia Ravà, Ariela Böhm, Gabriele Levy amalgamano con sapienza per creare le loro opere. Uniti tutti e tre in una mostra che non a caso prende il titolo di Otot Ve Otiot, segnali e lettere, alla Ermanno Tedeschi Gallery. Un viaggio nella comunicazione simbolica. Secondo un antico Midrash il Signore creò prima l’alfabeto ebraico e poi, con esso, creò il cielo e la terra. La Torah stessa sarebbe un OT, un segnale. E sarebbe composta di un codice di OTIOT, lettere. Queste lettere, così dense di significati, così eleganti ed essenziali, cariche di storia millenaria, diventano, agli occhi di un popolo a cui è vietata la raffigurazione, icone stesse dell’identità ebraica, testimoni grafici della storia del popolo e della storia dell’individuo. Un segno che segna, un linguaggio che crea e senza il quale nulla avrebbe significato. Le forme di Ravà ad esempio sembrano alludere a un nascondimento, spingono l’immaginazione verso un secondo livello sottostante, più segreto, da svelare. In un’altra opera di Ravà, Boschi, i filari di alberi dipinti a distanza regolare e in rigida prospettiva, finiscono per formare un tunnel vegetale in fondo al quale si intravede un’uscita verso una luce nitida, verso un nuovo inizio; nei Vortici, lo sguardo si perde cercando un punto di origine delle spirali, un elemento stabile da cui tutto deriva, mentre il resto del quadro è un infinito avvitamento, simbolo di una realtà contorta e complessa. Altrove, le forme non paiono porre questi interrogativi esistenziali, come nelle Venezie, semplici insiemi di case, ponti e calli. Ma in ciascuna opera, sono proprio i colori a permettere una facile lettura delle opere e l’individuazione pressoché immediata delle forme. I tratti somatici dei Volti risaltano immediatamente perché hanno una tinta diversa rispetto allo sfondo ma i nasi, gli occhi e il resto sono ottenuti disponendo opportunamente dei numeri e delle lettere. Se il colore non ci aiutasse, vedremmo solo un guazzabuglio di questi elementi; d’altra parte se ci lasciamo troppo guidare dal colore e non studiamo i numeri e le lettere utilizzate per creare le forme, rischiamo di perdere la chiave di lettura fondamentale di tutti i quadri di Ravà. Le sue opere della serie dei Luoghi potrebbero sembrare semplici schizzi di splendidi edifici, se lo sfondo e la struttura non fossero tempestati di lettere e di numeri; sono questi che ci invitano a pensare a luoghi come il Colosseo o la sinagoga di Roma in modo più sottile, recuperandone tutto il portato storico e il peso culturale. Sono insomma i numeri e le lettere gli elementi fondamentali del lavoro di Ravà e così pure di Ariela Böhm e di Gabriele Levy. Sono lettere e numeri che fanno emergere con chiarezza la matrice ebraica dell’ispirazione di tutti questi tre artisti. Certo, creare quadri utilizzando numeri come elemento base, non è una novità e non ha un significato riconducibile necessariamente all’ebraismo. Basti citare Roman Opalka, ad esempio, che traccia sulle tele dei numeri che crescono in progressione di un’unità da una tela all’altra. Ma Opalka, esponente del minimalismo, ha scelto i numeri come proprio tipico elemento per trasmettere il messaggio sulla ripetitività della vita; poteva scegliere invece serie di lampade fluorescenti sempre uguali, come fa Dan Flavin, oppure i parallelepipedi posti sempre alla stessa distanza, come Donald Judd. Siamo lontani anni luce dall’estetismo e dai riferimenti culturali di Ravà, Böhm e Levy. La loro vena pare più vicina ai Numbers del celebre americano Jasper Johns, che fin dagli anni ’50 dipingeva soggetti ovvii che incontriamo quotidianamente, come le bandiere americane o i numeri. Per Ravà questo significato va cercato in ambito ebraico, come si intuisce dal fatto che accosta alle cifre anche le lettere ebraiche, che pure hanno un valore numerico, e che quindi sono in qualche modo la stessa cosa.Secondo il Sefer Hayetzirà, tradizionalmente attribuito ad Abramo e assai antico -perché messo per iscritto in un periodo che va da primo all’ottavo secolo dell’era volgare-, Dio ha creato il mondo tramite le 22 lettere dell’alfabeto e i 10 numeri, e sono proprio 32 i sentieri che ci permettono oggi di comprendere la realtà oltre all’apparenza. Gabriele Levy concentra in particolare la sua attenzione sulle lettere che costituiscono l’unica vera forma presente nelle sue opere. Le plasma spesso dalla terra, dall’argilla, materia primordiale per eccellenza, e le trasforma in qualcosa di corposo, chiaro, materico. Tutto serve per raccontare l’eternità e il loro portato spirituale, e poco importa se sono colorate e allegre come in La Meme Chose o in Sogno letterale ebraico in mostra da Ermanno Tedeschi. Di fronte alle opere di Levy, torna alla mente quel passo dell’Esodo (32,16) in cui sono descritte le prime Tavole della Legge ricevute da Mosè sul monte Sinai :“Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio…”, come a dire che l’origine del nostro alfabeto è divina. Se il linguaggio crea, se le lettere e l’alfabeto sono di origine divina e sono stati utilizzati per la Creazione, la loro importanza va ben al di là del semplice segno, diventano piattaforma di elevazione e riflessione spirituale, ed è così che le utilizza Ariela Böhm, sovrapponendo alle figure dei testi in ebraico (come nel monumento ai deportati di Bolzano o in Increspature in mostra da Ermanno Tedeschi). Meglio è sapere e interpretare i passi che cita (tratti probabilmente dalle preghiere dei giorni penitenziali), lettere che già di per sé spingono ad andare oltre l’apparenza. Nel grande murale che Ariela Böhm ha creato per il Centro Pitigliani di Roma, la parte superiore è interamente occupata da lettere ebraiche, numerosissime, sovrapposte, che divengono pochissime, quasi sospese nell’aria, mentre precipitano nella parte inferiore. Il titolo, La leggerezza della cultura, non risolve la domanda se stiano cadendo o salendo e probabilmente la Böhm vuole lasciarci questo dubbio. Certo è che per lei, le lettere sono sinonimo di nobiltà della cultura, concetto assolutamente non scontato nella nostra epoca che vive di immagini, o forse lo sono solo quelle ebraiche, universali. Se poi queste lettere rischiano di diventare leggere, eteree, vuol dire che il nostro tempo, forse, ha perso la capacità di volare. E allora altro non resta che la nostalgia di questo volo, di questa divina leggerezza. Segnali e Lettere, Ermanno Tedeschi Gallery, via Santa Marta 15, Milano (entrata da via San Maurilio). Dal 16 settembre al 16 novembre 2010. Inaugurazione giovedì 16 settembre, ore 18.30.Daniele Liberanome


Mia è la vendetta

» Era una star del suo tempo. Ma poi la storia lo ha dimenticato. Campione di pallanuoto nella Vienna degli anni trenta, romanziere di raffinato talento e pensatore fuori dagli schemi, Friedrich Torberg esce oggi dall’oblio grazie alla riscoperta di Mia è la vendetta, il suo profetico capolavoro. "Questo libro ha un finale tra i più incredibili e brillanti dell’intera letteratura del XX secolo”. Il lusinghiero commento è di Erich Maria Remarque. E il libro di cui stiamo parlando, Mia è la vendetta, uscì per la prima volta nel 1943 negli Stati Uniti a firma di Friedrich Torberg, oggi encomiabilmente tradotto e ripubblicato dall’editore Zandonai di Rovereto (pp. 83, 11 euro), a cura di Haim Baharier. Ma chi era questo illustre sconosciuto? E se la potenza letteraria di Torberg era tale da scomodare anche il grande Remarque, perché solo pochissimi ne hanno sentito parlare? Un caso di clamorosa ingiustizia storica? Sì, in parte. Scrittore sulfureo, polemista e grande provocatore, personaggio scomodo e sicuramente fuori dagli schemi, Torberg fu un talento multiforme, poeta, romanziere, sceneggiatore ma anche uomo sportivo e atletico, campione austriaco di pallanuoto negli anni Trenta. Osannato da scrittori come Max Brod e Franz Werfel, fu giornalista controcorrente nonché un intellettuale raffinatissimo e lucido. Tanto lucido da riuscire a saltare sul primo treno e a scappare da Praga all’indomani dell’Anchluss, nel 1938, e a non perdonarsi mai di non essere riuscito a portare con sé la madre e la sorella, che moriranno ad Auschwitz nel 1941. Fu proprio il loro tragico destino che lo indusse con straordinaria, inaudita precocità ad affrontare i temi della persecuzione antiebraica. Mia è la vendetta è la storia di una baracca di ebrei in un lager olandese. Qui il comandante del campo, Wagenseil, sceglie una alla volta, una vittima dopo l’altra: la tortura e la convince a suicidarsi per scegliere il dolore minore. Nella baracca si accende così un dibattito serrato tra due gruppi opposti: chi pensa che sia opportuno reagire e chi dice che no, la vendetta va lasciata a Dio e che bisogna saper accettare il proprio destino, qualunque esso sia. Con una chiaroveggenza assoluta, Torberg scriverà un capolavoro portando alle conseguenze più estreme il dramma della non resistenza ebraica e il tema della legittima difesa. Sionista convinto, anticonformista, scrittore pluripremiato e con una lingua al vetriolo, Torberg era uomo pieno di idiosincrasie: detestava i contemporanei Thomas Mann e Bertold Brecht, accusava quest’ultimo di essere complice intellettuale dei genocidi dell’epoca e, tornato a Vienna dopo la guerra, lottò tutta la vita perché venissero processati i nazisti austriaci e riconosciuta la persecuzione degli ebrei russi, i cosiddetti ebrei del silenzio, come li chiamerà Elie Wiesel. Il suo libro straordinario subisce quindi una sorte bizzarra. Uscito troppo presto, appunto nel 1943 viene letteralmente dimenticato. In un dopoguerra determinatissimo a ricostruirsi pietra su pietra, impegnato a rimuovere i ricordi di morte, le voci dei sopravvissuti e dei fuggiaschi non ebbero ascolto. Si dovrà aspettare il 1958 con l’uscita de L’ultimo dei Giusti di Andreè Schwarz Bart e poi La Notte di Elie Wiesel, per ascoltare le prime voci narranti il genocidio. E comunque, a ben guardare, quella di Torberg non è una testimonianza ma una geniale intuizione di ciò che fu quella caricatura filosofica chiamata nazismo. Torberg scrive nel 1941: quindi non è un sopravvissuto, anzi, non può esattamente sapere che cosa avviene nei lager. Può intuirlo o immaginarlo, basandosi su descrizioni e racconti che solo sporadicamente riescono a trapelare, anche se di fatto già qualcosa si sapeva delle atrocità dei sistemi nazisti. Il personaggio dell’aguzzino Wagenseil, capo del campo, la descrizione della psicologia del boia e la dinamica di morte e umiliazione che viene messa in atto è degna delle pagine più alte di Primo Levi. L’analisi del meccanismo concentrazionario narrato da I sommersi e i salvati è già tutto qui, dispiegato con abbagliante lucidità. Ricordiamolo: il libro è scritto nel 1941 e la data è importante perché capiamo che Torberg aveva già intuito tutto, prima degli altri: ovvero che da laggiù non sarebbe tornato nessuno. Il protagonista del libro è sul molo del New Jersey e invano aspetta dall’Europa gli ex compagni di baracca sapendo bene che NON arriveranno mai. Ma ancora più clamoroso è il tema: il problema che pone Torberg è semplice e universale, e assurgerà quasi a tormentone etico-filosofico dei vent’anni successivi alla guerra. Può la vendetta essere dell’uomo e non solo di Dio? Si poteva non essere pecore al macello? Se sei un uomo di fede, come puoi togliere la vita foss’anche quella del tuo carnefice? Torberg non ha introiettato l’insegnamento talmudico che dice che nessuno di noi può stabilire quale sangue sia più meritevole, il tuo di vittima o quello del tuo aguzzino. Nessuno ha il diritto di giudicare quale sangue valga di più e quindi di uccidere chi fa il male. Ma ciascuno di noi, è scritto nel Talmud, ha il dovere di difendere l’altro, di salvarlo se minacciato, in virtù del fatto che chi salva una vita umana dà senso al mondo. Ma allora dove abita Dio?, si chiedevano i discepoli del Rabbi di Kotz. Dove lo lasciano entrare, rispondeva immancabilmente lui. E quindi, sembra suggerire Torberg, Dio abita anche nell’atto di agire la vendetta umana, frutto del libero arbitrio datoci da Lui.“Nel 1965 Torberg viene accusato di essere una spia della CIA. E nessuno, in quegli anni -e fino ad oggi-, si ricorderà di lui come romanziere e intellettuale, tanto meno del suo Mia è la vendetta. Io stesso, che pure lo conoscevo, l’avevo rimosso del tutto. Fino a quando, oggi, l’editore Zandonai mi ha proposto di curarne il libro. Improvvisamente, dopo 45 anni, tutto mi è tornato in mente”, dichiara lo studioso e biblista Haim Baharier, autore della bella postfazione al volume. “Il mio incontro con questo libro risale al 1964. Lo comprai in tedesco da una bancarella a Parigi. Sapevo che Torberg era uno pseudonimo, frutto della fusione tra il cognome del padre, Kantor, e della madre, Berg. Sapevo anche che, assolutamente profetico, questo libro era stato pubblicato nel 1943 negli Usa, ancora in piena guerra. Rimasi fulminato da questa lettura. Eppure, ricordo, non ne parlai con nessuno. Perché? Semplice: non riuscivo a tracciare la linea che collega la Shoà pensata e narrata alla realtà di due reduci come lo erano i miei genitori e i loro amici, tutti scampati dai lager. Non riuscivo a collegare la Shoà con quel gruppo di compagni sopravvissuti che, accaniti, ogni sabato sera, giocavano a carte coi miei riempiendo l’aria del nostro tinello di un fumo talmente denso da non riuscire a distinguersi l’un con l’altro. Cosa c’entrava la Shoà, mi chiedevo io, con quella gente, con quei visi scavati, la barba di due giorni per via dello shabbat, con il fumo solido che si alzava dalle sigarette, con quella vodka a fiumi e quella babele di polacco, yiddish, tedesco, francese? La verità è che nessuno di loro raccontò mai niente della Shoà. Noi non sapevamo niente. I reduci semplicemente NON parlavano. Come stupirsi quindi se l’impressione sconvolgente che provai nel leggere il libro di Torberg rimase sigillata in me, senza che ne parlassi con nessuno?”Ma se Torberg è davvero un grande, perché un oblio così lungo? Risponde Baharier: “Semplice. Torberg fu un apolide intellettuale, non aveva padrini, era politicamente scorretto, inviso alla sinistra perché odiava Brecht e perché amico degli americani, inviso alla destra perché era ebreo e chiedeva giustizia per gli ebrei austriaci. Nessuno aveva interesse per lui perché non faceva comodo a nessuno. E così lo dimenticarono. Per me è oggi una mitzvà restituirgli dignità e farlo finalmente rivivere”.Fiona Diwan Milano 6/09/10, http://www.mosaico-cem.it/

venerdì 17 settembre 2010



Tutta la pubblicistica del nazionalismo irredentista palestinese ripropone invariabilmente la mappa esplicita delle sue rivendicazioni territoriali: lo stato di Israele è cancellato dalla carta geografica

Riconoscere Israele come stato nazionale del popolo ebraico

Ultimamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu insiste nel dire che un accordo sullo status finale coi palestinesi esigerà che essi approvino non solo il concetto di “due stati”, ma anche la più esplicita formulazione “due stati per due popoli”. In altre parole, dovranno accettare il concetto che, così come lo stato palestinese sarà lo stato nazionale del popolo palestinese, allo stesso modo lo stato di Israele dovrà essere riconosciuto come lo stato nazionale del popolo ebraico.Prima di Netanyahu, si era già pronunciata nello stesso senso l’allora ministro degli esteri Tzipi Livni, e a quanto pare una consistente maggioranza degli ebrei israeliani appoggia questa richiesta di principio, benché ve ne siano alcuni altri che sembrano non capire “come mai è così importante”. Eppure la richiesta formulata dal primo ministro è più importante di quanto possa apparire a prima vista. Non si tratta di una questione meramente semantica. Si tratta anzi di una condizione necessaria (sebbene non necessariamente sufficiente) per garantire un accordo che sia stabile.Vi sono almeno due motivi per questo. Il primo ha a che fare con la richiesta israeliana che l’accordo ponga definitivamente fine al conflitto e alle rivendicazioni arabe. I palestinesi distinguono fra riconoscere che lo stato di Israele esiste di fatto e riconoscere il suo diritto ad esistere. Il campo che sostiene il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non ha problemi con la prima formulazione: “Israele esiste ed evidentemente vale la pena riconoscere il dato di fatto sul piano diplomatico, giacché è in questo modo che i palestinesi possono assicurarsi ciò che solo Israele può dare. È una convenzione che va bene per il presente, poi per il futuro, chi lo sa…”. L’intero concetto di “hudna” (tregua a lungo termine) si fonda su un approccio che abbraccia il compromesso nello sforzo di strappare ciò che si può ottenere al momento, senza abbandonare il proposito di combattere per ottenere di più in futuro. Per tenere a freno tali pretese future, soprattutto riguardo alla questione dei profughi (e al loro cosiddetto “diritto al ritorno”, di fatto un diritto di invasione), bisogna affermare l’impegno dei palestinesi ad accettare il diritto di Israele ad esistere come stato nazionale ebraico. Inoltre, l’iniziativa della Lega Araba impegna tutti gli stati arabi a riconoscere Israele una volta che questi abbia firmato un trattato di pace coi palestinesi (e con la Siria). Che genere di riconoscimento sarebbe? Israele ha un chiaro interesse a ricevere un pieno riconoscimento: vale a dire il riconoscimento del suo diritto a preservare, in quest’angolo del mondo, uno stato nazionale ebraico. Se questo non si può ottenere dai palestinesi, non si potrà certamente ottenere dagli altri stati arabi.Il secondo motivo ha a che fare con lo status degli arabi israeliani (o palestinesi israeliani, come oggi preferiscono definirsi). Agli occhi dei palestinesi, lo stato d’Israele è lo stato “di tutti i suoi cittadini”: non ha e non deve avere alcun carattere nazionale. Se, in base a un compromesso, avrà un carattere nazionale, esso dovrà rappresentare allo stesso modo le due “nazionalità” che vi vivono: ebrei e (arabo-)palestinesi. Se il futuro stato palestinese non riconoscerà lo stato di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, non vi sarà alcuna possibilità che lo accettino come tale i palestinesi che vivono dentro Israele. Se non insisteremo su questo punto, nel giro di una o due generazioni ci ritroveremo con una situazione in cui gli arabi israeliani rivendicheranno (magari anche con la violenza) non solo eguali diritti civili (che è legittimo), ma anche eguali diritti “nazionali”. E lo stato palestinese li appoggerà automaticamente in questa loro pretesa (che equivarrebbe a porre fine all’autodeterminazione ebraica), magari anche facendone motivo per rompere il trattato di pace. Per ridurre questo rischio, o perlomeno creare una situazione in cui gli stati del mondo capiscano e appoggino la posizione di Israele di fronte a questo rischio, bisogna chiaramente definire (in modo concordato da tutte le parti in causa) lo stato di Israele come stato nazionale del popolo ebraico.(Da Ynet News, 15.09.10) http://www.israele.net/


Lo psicologo Carlo Strenger: perché l’antisionismo è una nevrosi collettiva

La gente, certa gente, odia Israele per la stessa ragione per cui ama il calcio. “Uno dei bisogni principali della psiche umana è avere certezze assolute, leggere tutto in termini di bianco o nero. Amare il Milan e odiare l’Inter è uno dei mezzi per soddisfare questa pulsione. Ti dà delle certezze. Il problema è quando questo tipo di pulsioni trovano sfogo altrove.” Lo spiega uno che di psiche umana, e di conflitto israelo-palestinese, se ne intende: è lo psicanalista Carlo Strenger, direttore del programma post laurea di psicologia clinica all’Università di Tel Aviv, nonché commentatore di vicende mediorientali per prestigiose testate internazionali, come The Guardian e Haaretz. Strenger, il cui libro Critica alla Irragionevolezza Globale sarà pubblicato in Italia il prossimo anno, appartiene a quella categoria di israeliani di sinistra che accettano e spesso sostengono le critiche ad alcune politiche dello Stato ebraico. Ma crede anche che contro il suo Paese esista un accanimento che ha quasi le sembianze di una nevrosi collettiva. Intervistato nella sua abitazione di Tel Aviv, ci spiega perché le vicende mediorientali smuovono negli animi una serie di processi irrazionali.E’ scientificamente dimostrato che molte persone, altrimenti sane di mente, perdono la testa quando si parla di Israele.Basta pensare a quante persone dichiarano di essere “contro Israele” o addirittura contrarie all’esistenza stessa di Israele. O al numero, sproporzionato, di dichiarazioni Onu contro Israele. Che certo commette una serie di violazioni dei diritti umani, che io sono il primo a condannare. Ma c’è qualcosa che non va. Quasi nessuno per esempio dice di essere “contro la Cina” anche se occupa il Tibet, semmai si dice di essere contrari all’occupazione del Tibet. E non ho mai sentito qualcuno dire di essere contrario all’esistenza della Serbia nonostante tutte le atrocità commesse.Come se lo spiega?Per capire i processi psicologici dietro questo accanimento bisogna distinguere fra tre categorie dove è particolarmente comune: la sinistra radicale marxista, l’opinione pubblica europea e il mondo arabo musulmano.Partiamo dalla sinistra radicale.Vede, la dottrina marxista si basa sull’illusione che sia possibile creare un mondo perfetto. Una volta, l’ostacolo da abbattere era il sistema capitalista, ma con il crollo dell’Unione sovietica i marxisti hanno dovuto elaborare il lutto del fallimento del comunismo e trovare un altro capro espiatorio. Risultato? Se solo Israele non esistesse, il mondo sarebbe perfetto e vivremmo tutti in armonia. Israele è il capro espiatorio perfetto, i palestinesi le vittime perfette e tutto questo ci fornisce una comoda certezza morale.E dell’Europa che cosa ne pensa?Qui la faccenda si fa più complicata. Bisogna tenere conto del contesto psico-storico in cui è nato lo Stato di Israele, dopo la Seconda guerra mondiale, proprio mentre le potenze europee stavano liberando le loro colonie. Se a questo aggiungiamo che Israele ha conquistato i Territori occupati negli anni Sessanta, quando il modello coloniale è entrato definitivamente in crisi, Israele diventa il cattivo perfetto, che faceva la cosa sbagliata mentre tutti gli altri cominciavano a fare la cosa giusta. Non mi fraintenda, io sono molto contrario all’occupazione della Cisgiordania e i palestinesi hanno tutte le buone ragioni di essere adirati. Ma la realtà è che Israele sta diventando il capro espiatorio di un senso di colpa europeo che ha ragioni storiche ben diverse. L’Occidente ha colonizzato il mondo arabo per secoli, ma è facile cadere nell’illusione che non ci sarebbero tensioni se non fosse per Israele.Ma spesso non si accusa Israele di sfruttare il senso di colpa degli europei per l’Olocausto?Questo è in parte colpa del governo israeliano, che è spesso ricorso al discorso dell’Olocausto per giustificare il proprio diritto non solo a esistere ma anche a difendersi in modo aggressivo. Tutto questo però ha suscitato una reazione inversa: proprio perché Israele richiama spesso l’Olocausto e perché Israele è “il cattivo”, allora questo permette a molti di non fare i conti con il passato.Che cosa spinge invece il mondo arabo a odiare tanto Israele?I palestinesi hanno un sacco di buone ragioni per avercela con il mio Paese e non li biasimo. Ma non si capisce perché tutto il mondo arabo e gran parte del mondo musulmano ce l’abbia tanto con Israele. Israele non ha mai fatto nulla di male all’Iran o all’Algeria, eppure si vedono persino in Pakistan siti jihadisti che utilizzano Israele come un’icona. La cosa va analizzata su due piani. In primo luogo molti regimi arabi e musulmani utilizzano Israele come un capro espiatorio per distogliere l’attenzione dai loro fallimenti, un po’ secondo l’illusione marxista: se solo non ci fosse lo Stato ebraico, andrebbe tutto bene. In secondo luogo Israele sta pagando lo scotto di secoli di colonialismo occidentale, diventa l’oggetto di sfogo per una serie di situazioni psico-storiche con cui in realtà non ha nulla a che vedere.Concludendo, Israele non è un Paese ma un feticcio?In un certo senso sì. Israele viene reso un feticcio su cui si proiettano tensioni, frustrazioni e aspirazioni che apparterrebbero altrove. Può essere facilmente trasformato in un feticcio perché si trova al crocevia dove sono nate le tre grandi religioni monoteiste. E’ un luogo che simbolizza il desiderio umano per un’unica, grande, semplice risposta alla complessità dell’esistenza umana.14 Settembre 2010,http://blog.panorama.it/



Stas Misezhnikov


Israele: arrivi del primo semestre a +39%

Mercoledì, 15 Settembre 2010, http://www.travelquotidiano.com/
Il ministro del turismo d’Israele, Stas Misezhnikov, in occasione dell’inizio del nuovo anno del calendario ebraico, ha stilato un bilancio sull’attività del turismo, sul lavoro degli uffici esteri e sulla crescita del numero dei turisti verso Israele. Nei primi sei mesi dell’anno, un milione 600 mila turisti da tutto il mondo hanno visitato Israele per una crescita del 39% sul 2009 e del 10% sul 2008, considerato l’anno record di arrivi. Le entrate relative sono stimate a 1,55 miliardi di dollari, per una crescita del 35% rispetto al 2009. I “turisti virtuali” che hanno visitato il sito del ministero del turismo, disponibile in 16 lingue, sono stati nello stesso periodo 2,7 milioni, con un aumento del 30% rispetto al 2009. Nei primi sette mesi dell’anno gli arrivi dall’Italia sono stati 83 mila 800, per una crescita del 50% rispetto al 2009 e del 32% rispetto al 2008.


shimon peres

Terzo round di colloqui tra Israele e Palestina

Secondo l'inviato Usa, "i negoziati possono essere portati a termine entro un anno". All’esame, tra gli altri, le controversie legate alle colonie israeliane in Cisgiordania e la formazione del prossimo Stato della Palestina
Continuano i negoziati tra Israele e Palestina: dopo Sharm-el-Sheik il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Mahmoud Abbas, presente il segretario di stato Usa Hillary Clinton, si incontrano a Gerusalemme.Massimo riserbo sull'avanzare delle trattative ma, pare, sul piatto ci siano tutti i temi caldi del difficile rapporto tra i due paesi: dalle colonie israeliane in Cisgiordania al riconoscimento di Israele come stato padre degli ebrei, passando dal tema della sicurezza alla formazione del prossimo Stato di Palestina. Secondo l'inviato Usa per la pace in Medio Oriente George Mitchell, "le parti hanno cominciato una discussione seria sulle questioni chiave" al punto che i leader sono daccordo sul fatto che "i negoziati possano essere portati a termine entro un anno".Intanto a Gerusalemme è allarme terrorismo. Nei tre giorni precedenti l'arrivo dei leader gli attacchi palestinesi su Israele si sono intensificati: lo scopo è intervenire indirettamente sul vertice politico.15 settembre, 2010,http://tg24.sky.it/


Israele: polvere sospetta in ambasciata Usa, impiegati in quarantena

Tel Aviv, 14 set. - (Adnkronos/Aki) - Gli impiegati dell'ambasciata Usa a Tel Aviv sono stati messi in quarentena dopo che, in una busta ricevuta dalla sede diplomatica e' stata ritrovata una polvere bianca sospetta. Lo scrive il sito del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, aggiungendo che, secondo l'impiegato che ha aperto la busta, la polvere era accompagnata da una lettera che conteneva minacce contro Israele. Secondo la polizia, buste simili sono state inviate anche alle ambasciate di Svezia e Spagna.

lunedì 13 settembre 2010


Gerusalemme Yad Vashem

M.O.: negoziati, Israele pensa a 'gesti di buona volonta''

Gerusalemme, 15 set. - (Adnkronos/Aki) - La questione del congelamento delle nuove costruzioni negli insediamenti ebraici in Cisgiordania resta per il momento irrisolta, ma Israele, nell'ambito dei negoziati di pace diretti con i palestinesi, pensa ad altri "gesti di buona volonta'" da mettere subito in atto. E' quanto hanno riferito fonti diplomatiche occidentali coinvolte nei negoziati al sito del quotidiano Yedioth Ahronoth, secondo le quali il governo di Benjamin Netanyahu starebbe pensando al rilascio di alcuni prigionieri palestinesi e al trasferimento all'Anp del pieno controllo di alcune aree in Cisgiordania.


Dove nasce il cinema israeliano

Il cinema israeliano ha raggiunto una presenza internazionale significativa negli ultimi anni. Quello che è meno noto è che molti dei registi, scrittori e produttori premiati sono diplomati alla Film and Television School dell’Università di Tel Aviv.Situata in un anonimo edificio grigio nel campus dell’Università a Ramat Aviv, con gatti che si aggirano nei corridoi del sottosuolo e gli studios pieni di quelle che a prima vista sembrano montagne di spazzatura, la scuola cinematografica si fa apprezzare da accademici e ex studenti per l’incoraggiamento ricevuto dalla loro alma mater con “spirito libero” combinato a “disciplina”.Ci sono parecchie scuole di cinema in Israele, tra cui la Sam Spiegel Film and Television School a Gerusalemme, la Bezalel Academy of Arts and Design, il Sapir College ad Ashkelon e la Ma'ale School of Television and the Arts, che è l’unica scuola di cinema religiosa nel paese. Tuttavia la scuola di cinema dell’Università di Tel Aviv, fondata nel 1972, è la più vecchia del paese, e l’unica che fa parte di una università.Essa ha formato registi come Ari Folman (Waltz with Bashir); Yaron Shani, che ha co-diretto il recente Ajami (nomination per l’Oscar); ed Eytan Fox (Walk on Water, The Bubble). Negli ultimi quattro anni, i film fatti dalla scuola hanno vinto oltre cento premi, ricevuto sei nomination e sono stati proiettati nei festival di tutto il mondo. Oltre ai numerosi premi vinti dai suoi ex allievi.Reuven Hecker, che è a capo della scuola di cinema ed è anche uno scrittore, documentarista e laureato del dipartimento, pensa che il successo della scuola nasca dalla sua intensa combinazione di teoria e pratica. Inoltre, ritiene che i cineasti debbano essere persone di cultura e dalla mente aperta. Il vantaggio di far parte di un’università, dice, è che oltre alle lezioni teoriche di cinema, gli studenti possono studiare altri argomenti di loro interesse.Il suo collega, Eitan Green, premiato regista e sceneggiatore, uno dei primi diplomati della struttura, aggiunge che “la scuola non riguarda solo la tecnica, ma anche la cultura in tutti i suoi aspetti. I giovani affrontano sia la storia del cinema che la storia dell’arte”.La decisione di Shani di seguire i corsi è stata influenzata dall’alto livello degli studi accademici della scuola. Dice che uno dei vantaggi è il globale insegnamento di teoria e background filmico. La scuola gli ha anche insegnato l’importanza della critica cinematografica, che definisce una componente cruciale del suo sviluppo in quanto cineasta. “Un cineasta ha bisogno di comprendere il significato della critica, per capire il significato di un buon film”, dice.Shani dice che la stessa città di Tel Aviv contribuisce alla capacità della scuola di sviluppare talenti, perché “è il più importante centro culturale in Israele, attira persone ambiziose, che vogliono avere successo, per cui naturalmente l’Università di Tel Aviv è il posto dove studiare”.Hagai Levi sottolinea il ruolo dell’ambizione. Levi ha creato “In Treatment”, la premiata serie televisiva israeliana il cui format è stato adattato negli Stati Uniti con grande successo di critica, e dove ha vinto sia un Emmy che un Golden Globe. Uno degli sceneggiatori era Folman, suo compagno di classe. “Ci siamo ritrovati nel mondo reale nell’attimo stesso in cui siamo entrati nella scuola. Abbiamo dovuto batterci per tutto e pensare sempre con la nostra testa. Ma questo ci ha dato l’atteggiamento giusto per il mondo del cinema – dice – rendendoci indipendenti e piuttosto combattivi”.All’epoca, continua, la TV non era un’opzione di lavoro realistica. Non c’erano canali commerciali o a pagamento in Israele prima del 1990, così “quando studiavamo in qualche modo sapevamo che avremmo dovuto fare lungometraggi o niente. Così in un certo senso la scuola ci ha costretto ad essere ambiziosi e tenaci”.Anche Levi ha scelto la scuola per via del suo collegamento con l’università. Il dipartimento è all’interno della Katz Faculty of the Arts. “Era importante per me ricevere un’ampia istruzione, non solo imparare a fare film”, racconta. Anche se dice che alcuni degli insegnanti erano dei veri e propri intellettuali e non granché pratici come insegnanti di cinema, “ci davano questa prospettiva e io devo molto alla scuola”.L’ammissione è altamente competitiva, con cinque o sei domande per ciascuno dei 180-200 posti, spiega la prof. Hannah Naveh, decano della Facoltà d’Arte. Diversamente da altre scuole di cinema, i potenziali candidati non presentano un film. L’Università di Tel Aviv sceglie i suoi studenti secondo i loro voti, così quelli che non possono permettersi di produrre un film non sono svantaggiati.Poiché la maggior parte degli studenti si iscrive dopo il servizio di leva e dopo aver viaggiato, di solito hanno 24 o 25 anni, dice Hecker, per cui hanno già qualche esperienza di vita. Non sono costretti a prendere specializzazioni ristrette ed hanno una considerevole libertà creativa, ma questa “è legata alla responsabilità” in quanto imparano che il successo o il fallimento di un film dipende soltanto da loro.Hecker non ha alcun dubbio sul ruolo del suo staff. Gli insegnanti sono lì per dare agli studenti gli strumenti per fare i loro film, “non i nostri”. Questo significa che, pur essendo ben lieti gli insegnanti di fornire consiglio e appoggio, sono gli studenti stessi che devono prendere tutte le decisioni finali. Green pensa che questo incoraggiamento fatto di “spirito libero e disciplina” sia una delle ragioni del successo della scuola.“Ho sentito che dovevo scoprire le cose da solo”, dice Shani. Riconosce che imparare ad essere molto indipendente e responsabile nel suo lavoro lo ha preparato a creare Ajami. “Quello che sembrava uno svantaggio è diventato un vantaggio. Come cineasta ero più preparato al lavoro vero e proprio”.Benché continuino ad arrivare premi, la scuola non si ferma a compiacersi dei suoi successi o della sua influenza. Ha ancora sfide da affrontare. Il problema dell’uso dei nuovi media è uno degli argomenti che Hecker vuole affrontare, perché “è lì che va il mondo”.Sebbene vi sia molta incertezza sul futuro del cinema, sembra chiaro che molti dei vincitori di premi per cinema e TV del futuro passeranno da questa istituzione.(Da: Israel21c, 31.08.10) 13.09.2010, http://www.israele.net/