sabato 28 novembre 2009
Roma, 27 nov (Velino) - Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, su designazione dell’Italia dei Valori, ha nominato Augusto Di Stanislao nel Gruppo interparlamentare per i rapporti tra lo Stato italiano e quello di Israele. Nell’ambito del protocollo d’intesa bilaterale tra la Camera dei Deputati e la Knesset (parlamento israeliano) sottoscritto a Roma il 6 ottobre scorso – si legge in una nota -, il parlamentare è stato chiamato ad un importante compito che prevede la cooperazione a livello parlamentare teso a promuovere una migliore conoscenza tra i rispettivi popoli e al rafforzamento dei reciproci rapporti di amicizia e di collaborazione. L’on. Di Stanislao richiamandosi al protocollo di collaborazione si dice convinto che la comune fede nei valori di libertà, democrazia e tolleranza, nonché i particolari legami storici , culturali ed economici che uniscono i due paesi, abbiano di fatto reso opportuna l’istituzionalizzazione delle iniziative di cooperazione, anche alla luce del comune interesse per l’area mediterranea. Il Gruppo si riunirà periodicamente alternativamente in Israele e in Italia per confrontarsi su temi di comune interesse e sulle questioni di politica internazionale. Altresì per definire iniziative comuni volte a favorire al cooperazione parlamentare euro mediterranea e la formazione di posizioni convergenti nel quadro delle attività svolte dall’assemblea parlamentare euro mediterranea, e da ultimo ad attivare forme di cooperazione amministrativa con particolare riguardo alla sua organizzazione nonché all’uso delle nuove tecnologie.27 nov 2009, http://www.ilvelino.it/
Emir Mohamed Saleh leading his follwers, John Phillips. April 1948
Tel Aviv, 26 nov. - (Adnkronos/dpa) - Una pattuglia dell'esercito israeliano ha sventato quello che un portavoce militare definisce come un potenziale grave attacco terroristico. I soldati sono infatti riusciti a individuare un uomo con un ordigno esplosivo da 15 chili che stava cercando d'infiltrarsi in Israele dalla frontiera meridionale con il deserto egiziano del Sinai.
L'incidente e' avvenuto ieri notte, ma e' stato reso noto solo questa sera. Militari impegnati inuna pattuglia di routine hanno notato un uomo con una sacca che tentava di varcare il confine e hanno cercato di catturarlo. L'uomo e' fuggito verso l'Egitto ma ha lasciato cadere la borsa, dove e' stato trovato l'ordigno. La bomba e' stata fatta brillare questa mattina. Le autorita' ritengono che l'uomo volesse compiere un attentato nella vicina citta' di Eilat, raggiungibile a piedi, o in una citta' piu' a nord dove forse doveva condurlo un suo complice.
Apprezzerebbero nuova mediazione di Ankara, inviato Mitchell (ANSA) - ANKARA, 26 NOV - Gli Usa apprezzerebbero una nuova mediazione della Turchia ai negoziati di pace indiretti fra Israele e Siria, interrotti da dicembre 2008.Lo ha detto in un incontro con la stampa, l'inviato Usa per il MO George Mitchell, aggiungendo che funzionari Usa stanno conducendo da mesi consultazioni con responsabili israeliani e siriani. E ha concluso che gli Usa 'danno il benvenuto a un'ulteriore partecipazione di Ankara ai negoziati siro-israeliani, ma la decisione spetta alle parti in causa.
Il ciclo di incontri di riflessione in vista del Giorno della Memoria è stato inaugurato martedì 24 novembre dal rav Riccardo Shmuel Di Segni, rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, con una vera e propria “lezione magistrale” incentrata sul tema della “Fede ebraica nei campi di sterminio”, tenutasi nell’aula Moscati della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Tor Vergata, alla presenza quasi duecento studenti. Rav Di Segni ha riassunto alcune idee fondamentali del rapporto fra religione ebraica e Shoà. Prima di tutto, ha fornito una chiarificazione proprio sul termine “Shoà”. Diffusosi fra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso, questo termine è stato preferito rispetto a quello di “Olocausto” che risalire al greco “olo” (interamente) e “causto” (bruciato). Nell’antichità, infatti, l’Olocausto era un tipo particolare di sacrificio durante il quale l’animale prescelto veniva interamente bruciato sull’altare nell’ambito di un rituale religioso. In quest’ottica, parlando di Olocausto, quanto accaduto tra il 1938 e il 1945 con la deportazione degli ebrei potrebbe alludere ad un rito terribile nel quale i forni e le camere a gas simboleggiano altari sacrificali. La soluzione offerta dall’uso del termine “Shoà” evita di entrare nell’ambito di questioni alquanto controverse, evocando l’immagine biblica di un turbine che travolge tutto. Tuttavia, a parte le precisazioni etimologiche, non si elude il problema teologico che ripercorre le domande fondamentali che l’uomo si è posto dinnanzi a momenti tragici della storia: prima, fra tutte le domande, quella sulla presenza divina di fronte a questi eventi negativi. In queste situazioni una risposta formulata è che Dio si nasconda, continuando tuttavia ad agire sotto forma di provvidenza individuale. Parlare di abbandono di Dio è un modo parziale di affrontare la questione. Il libero arbitrio, la libertà dell’uomo di decidere sulla propria condotta, rappresenta in un certo senso il limite all’onnipotenza e alla responsabilità divina. Se esiste la possibilità umana di scegliere tra il bene e il male, allora, di conseguenza, sono possibili sia il bene che il male provocati dall’uomo. In seguito alla Shoà ci si è posti il problema di come affrontare l’avvenimento, come reagire di fronte a una simile tragedia. Si tratta di un problema ancora oggi “congelato”. Il calendario liturgico ebraico è ricco di ricorrenze che si richiamano a episodi biblici non recenti. In queste occasioni si fa festa o si fa digiuno; in ogni caso la partecipazione emotiva è la stessa anche se sono passati secoli dall’evento che si intende ricordare. Per quanto riguarda la Shoà si è trattato di decidere se istituire un digiuno che avrebbe coinvolto l’intero popolo ebraico. Molte autorità rabbiniche hanno obiettato a questa soluzione e mentre si discuteva se recuperare un digiuno minore come anniversario anche delle vittime della Shoà, il Parlamento israeliano istituiva il “Giorno della Shoà e della Ghevurà” che cade circa due settimane dopo l’inizio di Pasqua. Questa data evoca la Rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti nel 1943: evento-simbolo di una nuova forma eroica di Resistenza. Quasi in opposizione all’immagine del “gregge portato al macello”, la rivolta ebraica del ghetto di Varsavia è esemplare di chi lotta attivamente contro l’oppressore. Lo stesso Stato di Israele nasce dalle persone che hanno voluto rifiutare una tradizione di passività: un’autentica “rivoluzione concettuale”. Ma come hanno reagito gli ebrei, da un punto di vista religioso, alla Shoà? Il Rabbino Di Segni sottolinea come vi fossero coinvolti ebrei con una identificazione religiosa diversificata. Alcuni, alla luce del dramma collettivo, hanno smesso di essere ebrei praticanti, altri hanno continuato ad essere tali. Altri ebrei, non praticanti, hanno riflettuto sulle contraddizioni teologiche della deportazione e hanno rafforzato la loro laicità. Infine, altri da laici sono tornati a esser religiosi. L’intervento del rav prosegue citando Primo Levi, ebreo laico di Torino che ha solo un blando rapporto con la Tradizione. Nonostante ciò, la sua testimonianza sulla deportazione ad Auschwitz, custodita in “Se questo è un uomo”, è densa di risvolti interpretativi interessanti. Al riguardo basta prendere in esame le parole della “poesia” che apre “Se questo è un uomo”, parole che si richiamano, parafrasandole, al testo dello “Shemà Israel” “Ascolta Israele”. Allo stesso contesto Levi aggiunge una strana “maledizione” che rientra perfettamente nella logica biblica: basti considerare i salmi terribili nei quali alla fine della descrizione dell’esilio è presente l’invettiva contro il nemico. È qui evidente quanto la persona apparentemente più laica, trasformi una preghiera importante dell’ebraismo in un monito laico universale. D’altra parte ci sono infiniti esempi di storie simili. Come quella, lacerante, sul problema della fede durante la Shoà, di un padre che potrebbe riscattare il figlio selezionato per le camere a gas nei lager nazisti, ma salvare suo figlio avrebbe comportato ugualmente la morte di un’altra persona a caso. Il padre si rivolge, quindi, a un rabbino, con lui internato, la cui risposta è quella del silenzio. Il padre ha comunque dedotto che se il rabbino restava in silenzio voleva dire che quello che intendeva fare per il figlio era proibito. Rinuncia dunque a riscattare il figlio, richiamandosi ad Abramo, pronto a sacrificare Isacco per volontà divina. Questo è indicativo di quanto in situazioni dure, molti ebrei abbiano cercato l’appoggio nella Tradizione, anche per attingere ad una possibile spiegazione di quanto accaduto. Parlando, poi, di storie di Resistenza durante la Shoà, ci si imbatte sul concetto di ”santo” e “santificazione”. Nel comportamento religioso ebraico, ciascuno è tenuto, soprattutto nella società, a rappresentare un corretto modello per tutti. Ogni persona è tenuta a dare il buon esempio. Pertanto, se uno si comporta in maniera scorretta commette una “profanazione del nome di Dio”, diffamando il patrimonio spirituale che ha ereditato dai padri e il nome di Dio stesso. Al polo positivo vi è l’idea della “santificazione del nome di Dio”, idea che è possibile realizzare in tanti modi. L’onesto comportamento quotidiano è di per sé una “santificazione”, ma questo concetto esiste al massimo grado nell’idea del martirio. La tradizione comunque dice che, tra la vita e la trasgressione, la vita è più importante, ma, di fronte a singole trasgressioni di particolare gravità indicate dai Maestri, è preferibile la morte. Così, nei momenti di persecuzione, la Resistenza e il non accettare compromessi sono ritenuti una forma di santificazione del nome di Dio. Ma, alla luce di ciò, chi è “santo”? Da un certo punto di vista, “santo” potrebbe essere colui che accetta volontariamente di immedesimarsi in questo contesto avverso e, di fronte alla prova finale, compie una scelta cosciente e positiva. Ma dall’altra parte, si afferma che tutte le persone destinate ai campi di sterminio sono state scelte in quanto ebree, quale che sia stato il loro reale atteggiamento religioso, e pertanto devono essere considerati tutti dei santi.È chiaro quanto ricco di spunti di riflessione sia stato l’incontro con rav Di Segni che ha proprio catturato l’attenzione dei presenti. L’incontro è stato promosso dalla Facoltà di Lettere e Filosofia - e da molti Corsi di questa Facoltà - dal Centro Romano di Studi sull’Ebraismo (CeRSE), - ed è stato presentato e curato da Myriam Silvera (Storia e cultura degli ebrei in età moderna).
Maria Rita Salustri, http://www.moked.it/
Si è aperta, al Circolo dei lettori di Torino, la due giorni dedicata alle “Culture del sionismo (1890-1945). Prese di posizione, interpretazioni, bilanci”, organizzata dall’Università del Piemonte orientale insieme alla Fondazione Camis De Fonseca e al Goethe Institut. Un convegno importante che restituisce dignità storica a un movimento, troppo spesso svilito da un’opinione distorta, paragonato impropriamente al colonialismo o addirittura al razzismo. “Il sionismo da oltre cento anni è parte integrante della cultura ebraica”, ha sottolineato in apertura Tullio Levi, presidente della Comunità ebraica di Torino, ricordando che la corrente culturale e politica è stata “una grande e coraggiosa esperienza, fondata sull’aspirazione a costruire una patria ebraica indipendente e sovrana”.Il sionismo è, però, un’esperienza varia al suo interno, composita, per questo il convegno si intitola “Culture del sionismo” e si propone di raccontare al pubblico le sue diverse sfaccettature. “Si può dire che ogni israeliano porta avanti una propria idea di sionismo”, sostiene Laura Camis, presidente della Fondazione De Fonseca che aggiunge: “Israele è forse l’unico Paese al mondo in cui tante culture diverse si riconoscono in un solo popolo”.Culture diverse del sionismo si diceva: Lazare, Herzl, Buber, Gerschom Scholem, Dante Lattes e Alfonso Pacifici, nomi, storie, paesi differenti che propongono visioni diverse, rimanendo sempre nella grande culla del sionismo. Significativa la citazione di Marc Bloch da parte di Giulio Schiavoni, ideatore, assieme a Guido Massino, dell’evento, “sionisti e antisionisti per favore diteci cos’è stato il sionismo” che non è, come ha sottolineato lo stesso professore Schiavoni “riducibile alla questione fra israeliani e palestinese”.Ma entriamo nel vivo del convegno. In mattinata i relatori Julius Schoeps, Geroges Bensoussan e Anna Foa hanno dato al pubblico il primo sostanzioso assaggio di come il paradigma sionista si espliciti in diverse forme.Schoeps, docente di Storia ebraica a Berlino, presenta nella sua lezione dal titolo “Se volete, non è una fiaba” un Theodor Herzl a tratti inedito, sognatore e con insospettabili doti di chiaroveggenza, addirittura osannato come il messia. Tutto, o quasi, inizia con l’affaire Dreyfus: Herzl in quel periodo è corrispondente del viennese Neue Freie Presse a Parigi e assiste impietrito all’umiliazione dell’ufficiale francese di origine ebraica, degradato per un presunto tradimento. “Per lui - spiega Schoeps - fu un vero trauma. Quando a Dreyfus viene rotta la bacchetta da ufficiale, qualcosa si spezza anche in Herzl. Questo per lui è il segno che l’assimilazione non è possibile, il mondo esterno non la desidera, non vuole che accada”. Herzl inizia così quello che lui stesso definì “un’opera di dimensione infinita. Un sogno che non so dove mi porterà”. Il sogno lo conosciamo, la creazione di uno Stato ebraico che, sottolinea Schoeps, diventerà Israele, ma non per una espressa volontà di Herzel, per una questione di realismo politico: il padre del sionismo si rende conto che Eretz Israel è l’unica meta che possa essere trasversalmente accettata dagli ebrei migranti.Il congresso di Basilea del 1897 consacra il successo delle idee di Herzel. Gli vengono dedicati interminabili applausi; l’eccitazione del pubblico è forte come la sua fantasia: alcuni vedono nel giornalista e scrittore ungherese il messia e lui, conscio di questa influenza, contribuisce ad incrementare questa leggenda. Non per fini narcisistici ma per poter diffondere i suoi ideali. Di quell’evento Herzel dirà profetico “se riassumo il congresso di Basilea: lì ho fondato lo Judenstaat, ora qualcuno riderà ma tra cinquant’anni tutti capiranno”. La storia insegna che le sue previsioni erano esatte.Schoeps racconta come Herzl sente la necessità di diffondere nel mondo più ampio possibile il suo pensiero. Per questo scrive un romanzo, l’Altneuland (l’antica nuova terra), il racconto di un paese utopico situato nell’allora Palestina, con ferrovie, canali, energia elettrica, un sistema economico mutualistico (a metà fra socialismo e capitalismo). E ancora, un luogo di tolleranza dove vige il motto “uomo tu sei mio fratello”, dove gli arabi sono parte integrante della società, un paese di cui, scrive lo stesso Herzl “tutti fanno parte. Non importa se si prega in una sinagoga, in una chiesa, in una moschea”.La creazione dello Judenstaat era, ricorda il professor Schoeps, nei peggiore dei casi un’utopia e aggiunge “Herzl è stato seppellito nello stato d’Israele. La sua ultima dimora, un semplice blocco di marmo sotto i cedri e i cipressi, non è una banale tomba, ma è un luogo per tutti gli ebrei di grande significato. Se sda quel luogo volgiamo lo sguardo, ci renderemo conto che i sogni possono non restare tali. Israele e la sua crazione sono la prova di ciò”. Se volete, non è una fiaba.Ma cos’è il sionismo? Lo storico francese Bensoussan spiega come il sionismo sia rottura ma anche continuità. Rottura perché si distacca dalla religione, dalla Torah e non potrebbe essere altrimenti essendo un movimento, sostiene Bensoussan “figlio dell’illuminismo, un regalo dell’Europa agli ebrei”. Ma è anche continuità perché “un albero non può crescere senza radici”, nasce nell’alveo dell’ebraismo ma per certi aspetti se ne discosta.Dimostrazione di questa doppia articolazione è l’adozione dell’ebraico come lingua ufficiale del movimento. Un ebraico che si trasforma, si coniuga per le necessità quotidiane, si volgarizza, non è più la lingua della liturgia ma è da essa che deriva. “Il rimpossessarsi della lingua” spiega Bensoussan “è la strada per costruire un’identità solida, permette all’uomo e al cittadino di avere consapevolezza di sé. E da questa consapevolezza si impara a stare saldamente in piedi, a non piegare la schiena”.Il sionismo, soprattutto come movimento culturale, ha insegnato a riaffermare i propri diritti, a riprendere la propria identità. “In Polonia come a Baghdad ci sono testimonianze dell’oppressione nei confronti degli ebrei” racconta lo storico francese che poi cita alcune lettere dei primi del Novecento, provenienti da questi luoghi “quando arrivavano degli ospiti dello Yishuv, facevamo sfilate, cantavamo canzoni, persino il sindaco partecipava. Avevamo la sensazione di essere un popolo, non spazzatura” (1920, Polonia). Da Baghdad il messaggio è simile, con il sionismo “avevamo una scelta. Diventare un uomini che non hanno paura”.Dalla lezione di Bensoussan è ben visibile una rivendicazione che fa riferimento allo stato ebraico e al suo riconoscimento: esisto perché esisto, Israele si legittima da sé, dalla propria esistenza. E’ giusto prenderne coscienza.Uno sguardo diverso lo fornisce la storica Anna Foa che rivolge la sua attenzione sul ruolo della stampa ebraica in Italia fra l’Emancipazione e la seconda guerra mondiale. Con l’emancipazione nasce in Italia, e non solo, una stampa ebraica come risposta al sorgere di alcune problematiche, ma da noi, a differenza che in Germania o in Francia, “non emerge una riflessione pubblica sull’identità e la storia degli ebrei” spiega la Foa che aggiunge “non vi è quella attività culturale intensissima volta a trasformare il mondo ebraico più che a salvaguardarlo. La funzione della stampa italiana sarà piuttosto difensiva, di salvaguardia di una tradizione che l’emancipazione faceva avvertire in pericolo”.La riflessione sull’identità ebraica in Italia avverrà molto più tardi rispetto alla Germania e non si fonderà su un’analisi storica ma si aggancerà al sionismo. Questo comporta un ragionamento diciamo “zoppo”, non contestualizzato “questa riflessione identitaria” sostiene la storica “non è proiettata verso la ricostruzione di uno spessore nel passato –sono ebreo perché ho una storia di ebreo- ma verso il futuro –sono ebreo perché voglio riportare gli ebrei in Eretz Israel. Ebrei nuovi rinnovati, capaci di ricostruire lo Stato attraverso la ricostruzione di se stessi-”. Ma tutto ciò comporta in primo luogo l’esclusione della maggioranza, ovvero coloro che sono ancora diffidenti rispetto al sionismo; in oltre vuol dire dare un taglio netto, forse troppo, alle problematiche nate dall’emancipazione, ponendosi acriticamente contro di essa perché contro l’assimilazione.La mancanza, secondo la professoressa Foa, di una contestualizzazione storica ha portato la stampa ebraica italiana e in generale l’ebraismo italiano a discostarsi dalle altre realtà, in particolare dall’esperienza tedesca. “Il ruolo della stampa ebraica e della sua diffusione è non di cambiare il mondo ebraico ma di difenderlo, salvaguardarlo, mantenerlo nella sua continuità”. Anche per questo l’esperienza sionista italiana presenta delle forti peculiarità rispetto a quella degli altri paesi europei.Daniel Reichel, http://moked.it/
Una cosa è certa: quando il 5 giugno 1967 l’artiglieria giordana incominciò a tirare dalla collina subito a sud di Gerusalemme sulle residenze universitarie dove mi trovavo, mai mi sarei immaginato che più di 42 anni dopo la questione della pace e dei confini di Israele sarebbe rimasta ancora irrisolta. Moshe Dayan voleva restituire tutti i territori in cambio di una telefonata, che mai arrivò. Né avrei potuto pensare che pochi mesi dopo quella micidiale collina sarebbe stata incorporata nel municipio di Gerusalemme; che lì sarebbe sorto il nuovo quartiere di Gilo; e che una delle strade sarebbe stata dedicata alla memoria di mio nonno, Rav Raffaello Della Pergola, uno dei fondatori dell’Università sul Monte Scopus. Ora, 42 anni dopo, quella stessa collina viene dichiarata da qualcuno territorio occupato e ostacolo al conseguimento di una pace giusta e duratura nel Medio Oriente. Il dibattito sulla politica del conflitto è complesso e va affrontato con cautela e conoscenza di causa. Curiosamente, a volte il discorso si rianima, sembra scoprire o inventare qualche elemento nuovo che crea il pretesto per ampie analisi di fondo. Salvo poi accorgersi che non è questo il punto, il dato non era vero, la cosa era arcinota, l'episodio irrilevante, o addirittura mai avvenuto. È appunto il caso della polemica dei giorni scorsi fondata su una non-storia come le nuove case in costruzione a Gilo. Se non c'è la pace in Medio Oriente, certo non è per via delle case di Gilo. D’altra parte, se Gerusalemme è riuscita a farsi coinvolgere in questa polemica, vuol dire che la sua capacità di gestire il discorso politico va radicalmente ripensata. Tanto più che dietro l’angolo, pronti a criticare, ci sono in attesa molti nemici, e talvolta anche alcuni amici. Sergio Della Pergola,Università Ebraica di Gerusalemme, http://www.moked.it/
giovedì 26 novembre 2009
di Fiamma Nirenstein,26 novembre 2009, http://www.ilgiornale.it/
Nel segno di Santa Barbara nel mondo
Presidente Anp in Cile: Israele ritiri insediamenti illegali
Ebrei Yemeniti in fuga verso Israele
Una stretta di mano e uno scambio di battute in tedesco tra due connazionali, quasi coetanei. L'udienza generale di mercoledì 25 novembre si è conclusa con il saluto di Benedetto XVI a Cäcilie Peiser, ebrea ottantaquattrenne di Francoforte sopravvissuta alla Shoah. La sua vita è raccontata in una biografia che la donna - accompagnata dal salesiano Norbert Hofmann, segretario della Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo - ha donato al Papa, con una dedica autografa. "Dopo la "Notte dei cristalli", nel 1938, all'età di tredici anni fui costretta a fuggire con mia sorella minore Jutta e altri bambini in Olanda", ricorda commossa. Solo dopo la liberazione dei Paesi Bassi e la fine della seconda guerra mondiale, mentre si dedicava alla cura degli ex detenuti che nei campi di sterminio nazisti si erano ammalati di tubercolosi, seppe che sua madre e suo fratello minore erano stati deportati e uccisi - il padre era morto prima - in un lager, mentre la sorella maggiore Hannah si era salvata rifugiandosi ad Haifa. "Anch'io nel 1946 mi trasferii in Palestina - aggiunge - dove mi sono battuta per la pacifica coesistenza di uomini di differenti culture e religioni. Nel 1957 sono tornata in Germania per occuparmi di bimbi disabili". Cäcilie è inoltre fondatrice e presidente, ora onoraria, dell'associazione "Child survivors Deutschland", per quei bambini sopravvissuti alla Shoah che - ormai anziani - portano ancora sulla pelle e nella psiche i segni delle traumatiche esperienze di quegli anni............................. http://www.vatican.va/ 26 novembre 2009
Israele, stop di 10 mesi alla costruzione di insediamenti
Il governo israeliano ha dato il via libera alla proposta del premier Benjamin Netanyahu di una sospensione di 10 mesi nella costruzione degli insediamenti in Cisgiordania. Secondo quanto riferito dall'Haaretz, Netanyahu ha spiegato che il congelamento temporaneo degli insediamenti prova la volontà "genuina" di Israele di raggiungere una pace con i palestinesi. http://www.avvenire.it/ 25 Novembre 2009
Intervista a Marwan Barghouti: "Liberatemi in cambio di Shalit"
Marwan Barghouti, la liberazione di Gilad Shalit sembra vicina: un soldato israeliano in cambio di centinaia di detenuti palestinesi. E al centro di questo scambio c'è lei.«Sì. Spero che stavolta ci siamo. Parte dei nostri prigionieri sarà finalmente rilasciata: quelli che con nessun negoziato s'era riusciti a tirar fuori di galera. Evidentemente non c'è altro modo, con Israele».Ma chi ci guadagna di più? «Se ci sarà lo scambio, forse si capirà che non si possono ignorare le richieste di Hamas. Hanno dovuto piegarsi alla lista di prigionieri che Hamas ha messo davanti a Israele. Anch'io sono parte di questa lista». Non si sa se la sua scarcerazione preoccupi più il governo israeliano, l'Autorità palestinese o Hamas. A 50 anni d'età e più di sette da detenuto, due intifade e cinque ergastoli sulle spalle, luogo comune vuole che Barghouti sia il probabile successore di Abu Mazen. In agosto l'hanno stravotato al comitato centrale del Fatah, anche se stava dentro. Chissà che succederebbe, se uscisse e corresse alle presidenziali palestinesi: «Abu Mazen non s'è ancora dimesso — risponde al Corriere tramite i suoi avvocati, dalla cella di Hadarim —. Ha solo espresso l'intenzione di non ricandidarsi. Lo rispetto. Ma il punto è che a gennaio non ci saranno elezioni. Presidenziali e legislative devono tenersi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est. E in un clima di riconciliazione nazionale. Prima, non hanno senso. La mia priorità è mettere fine alla divisione tra Fatah e Hamas: quando ci sarà l'accordo, allora sarò pronto».Questo accordo finora è fallito, ma molti ora lo ritengono possibile, chiusa l'operazione Shalit...«Fatah ne aveva firmato uno, mediato dall'Egitto. Ora io invito Hamas a siglarlo. E a usare l'opportunità che si presenta— l'unità dei palestinesi —, specie dopo che Abu Mazen ha riconosciuto il fallimento della sua politica. L'unità è il segreto della vittoria per le nazioni oppresse».Come reagirebbe Israele a una sua candidatura, dopo la scarcerazione?«Israele ha provato ad assassinarmi più volte, fallendo. Mi ha sequestrato e condannato a 54 anni di cella. Pensava di farmi tacere. Ha deciso che non farà accordi con Barghouti presidente. Ma non deve preoccuparsi: non ci sono elezioni, adesso...».Qual è stato il più grande errore di Abu Mazen in questi cinque anni?«Puntare solo sui negoziati. E avere creduto alle promesse americane e israeliane. Alla pace non s'arriva solo coi negoziati. Ci vuole anche la resistenza popolare».Sta dicendo che ci sarà una terza intifada?«L'intifada nasce come una volontà collettiva del popolo, quando la gente non ha scelta: non la decide un partito o un leader. La seconda intifada scoppiò dopo il fallimento di Camp David. I palestinesi hanno fatto la più lunga rivoluzione della storia contemporanea. E la riprenderanno».Abu Mazen esclude un'intifada violenta. Lei ne è stato l'ideatore: i kamikaze sono ancora un'opzione?«I palestinesi hanno dato ad Abu Mazen l'opportunità di negoziare. Usa e Israele ci dicevano che lui era il miglior leader possibile. Abu Mazen accettò la Road Map, andò ad Annapolis, negoziò con Olmert e la Livni, fece decine di vertici. Risultato? Più insediamenti, Gerusalemme sempre più ebraicizzata, case demolite, il Muro, centinaia di checkpoint, una guerra barbara a Gaza».Qualche giorno fa, la stampa Usa scriveva che l'Autorità palestinese è al collasso.«L'Anp non è un obbiettivo. Lo sono l'indipendenza, i confini del '67, Gerusalemme capitale. L'Anp era l'embrione dello Stato e i palestinesi l'avevano accettata per 5 anni. Il rifiuto d'Israele di dar seguito alle risoluzioni Onu, l'ha fatta sopravvivere per altri 15. Però un collasso dell'Anp non danneggerebbe solo i palestinesi, oggi, ma anche gli israeliani. L'Anp nei fatti non ha sovranità su un solo metro di West Bank. Israele l'ha spogliata. L'unica alternativa all' Anp è uno Stato indipendente».Vede nuovi interlocutori in Israele?«Netanyahu rifiuta tutto: che razza d'interlocutore può essere? Ma anche all'opposizione c'è poco: il piano di Mofaz, dialogare con Hamas e riconoscere i due Stati, non porterà mai ai confini del '67 e alla fine dell'occupazione di Gerusalemme Est. Israele non ha un De Gaulle o un de Klerk, che chiusero col colonialismo in Algeria o con l'apartheid. Non è capace d'esprimere leader col coraggio di far finire la più lunga occupazione della storia contemporanea».E Obama? «I palestinesi avevano accolto con favore la sua elezione. Molti erano ottimisti, dopo il suo discorso al Cairo e il monito a Israele sugl'insediamenti. Un anno dopo, il raccolto è un gigantesco zero. Obama ha ancora l'opportunità di storiche decisioni. Ma non ci servono altri 18 anni d'inutili negoziati. Nel mondo, lo Stato palestinese piace a tutti: e allora che cosa sta aspettando, il mondo?».La chiamano il nuovo Arafat...«Fin da bambino, ho dedicato la mia vita all'indipendenza. Dico ai miei che il buio della notte se ne andrà. Dico agl'israeliani: l'ultimo giorno della vostra occupazione sarà il primo di pace fra due popoli. Potremo vivere da buoni vicini. Ma prima dovete andarvene».