sabato 2 ottobre 2010
1 ottobre 2010 http://www.giornalettismo.com/
Clifford D. May è Presidente della Foundation for Defense of Democracy (FDD) di Washington, DC.
«La situazione è questa», spiega. «Più di due milioni di palestinesi in Cisgiordania, 270mila a Gerusalemme Est, un milione e mezzo a Gaza; 1,2 milioni gli arabi cittadini d'Israele. Senza Gaza siamo già al 61% di ebrei e 39 di arabi. Ma è illusorio escluderla perché quando i palestinesi partecipano alla trattativa di pace contano anche Gaza. Nell'analisi dei dati dobbiamo includere i 200mila lavoratori stranieri in Israele e i 300mila del milione d'immigrati dalla Russia che non sono ebrei. Se contiamo tutto questo, dal Mediterraneo al fiume Giordano siamo già al 50% di ebrei e 50% non ebrei».Non potendo sostituire l'ideologia alla matematica, il movimento dei coloni sostenuto da una parte della destra di governo e da alcuni milionari americani, ha tentato di confutare la demografia ufficiale con altri dati: in Cisgiordania vivono un milione e mezzo di palestinesi, meno di quanto dica Della Pergola. «La questione fondamentale non è la demografia, ma la natura dello stato», ribatte. «Anche se avessero ragione, fra circa un ventennio saremmo 54 a 46. Può il 54% pretendere che un inno e una bandiera siano l'inno e la bandiera di quello stato?».In questo vuoto d'ingegneria nazionale democratica, l'illusione della formula di uno stato per due popoli guadagna sempre più terreno sull'obiettivo del processo di pace: due stati per due popoli. Finora la prima era sostenuta dall'estrema sinistra israeliana e dai molti palestinesi convinti di vincere con la demografia il conflitto politico. Ora ci crede anche la destra di governo, il sionismo revisionista. «Con le sue incertezze riguardo alla moratoria sulle colonie, Bibi Netanyahu è diventato la sinistra del suo governo», dice Della Pergola. «Rinunciando alla Cisgiordania ha l'occasione storica di essere un grande leader. Viene da una famiglia nazionalista, ha combattuto, ha girato il mondo. Ha tutti gli elementi per prendere la decisione». Sergio Della Pergola non è un intellettuale di sinistra: crede che il processo di pace debba concludersi col riconoscimento della natura ebraica di Israele. «Uno stato ebraico nazionale, non religioso: è un concetto civile. La Norvegia si definisce luterana e protestante».È ancora la demografia che secondo Della Pergola offre una soluzione politica. Rinunciare alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est come si è fatto con Gaza; annettere i blocchi di colonie concedendo alla Palestina quell'area in Galilea, il Triangolo, dove vivono 250mila arabi israeliani. «Trasferendo i confini, non la popolazione». È un'ipotesi illiberale se quella popolazione vuole restare in Israele: ma potrebbe essere un male minore per un bene superiore. Rifacendo i calcoli demografici su queste premesse, gli ebrei d'Israele sarebbero il 90%. «E questo definirebbe i caratteri dello stato nazionale», conclude Della Pergola.
http://www.agenziaradicale.com/mercoledì 29 settembre 2010 di ELENA LATTES
Il 28 settembre di 10 anni fa cominciava la cosiddetta seconda intifada che ha causato complessivamente oltre cinquemila morti. Due giorni dopo l'inizio, il 30 settembre, il New York Times pubblicò una fotografia di un giovane sanguinante davanti ad un soldato israeliano con la seguente didascalia: "Un poliziotto israeliano e un palestinese sul Monte del Tempio", dando l'impressione, quindi che fosse un povero ragazzo picchiato dai perfidi militari. In realtà il giovane era uno studente ebreo americano quasi linciato da una folla di palestinesi e salvato da un soldato israeliano druso. Tuvia Grossman, la vittima, non ricorda molto di cosa successe dopo il suo svenimento tra le braccia del poliziotto. Aveva molte ferite alla testa e riprese i sensi soltanto nell'ambulanza, mentre lo portavano in ospedale. "Ero stato picchiato dalla folla, ma ero riuscito ad urlare e per un momento essi indietreggiarono, così io riuscii a scappare. Corsi su per la collina e vidi un poliziotto che veniva verso di me... Avevo perso così tanto sangue quando lo raggiunsi, che caddi a terra svenuto." Racconta ora Tuvia in un'intervista al Jerusalem Post. Mentre il poliziotto, Gidon Tzfadi del villaggio di Kfar Sumei, riuscì a portare Grossman nell'ambulanza, salvandogli la vita, un fotografo dell'Associated Press riprese la scena, interpretandola in maniera del tutto differente. Il giorno dopo uscì quello scatto in diversi giornali e in particolare sul New York Times con la descrizione di cui sopra. Il padre di Tuvia vide suo figlio in prima pagina scambiato per un palestinese e telefonò alla redazione del noto quotidiano. La foto venne immediatamente ritirata, ma il danno era ormai fatto: l'icona della (presunta) brutalità israeliana aveva già fatto il giro del mondo. "Ero appena uscito da un terribile attacco, ero un ebreo che viveva in Israele e la foto sembrava mostrare l'esatto contrario di quello in cui io credo. - ricorda il ragazzo di 10 anni fa che nel frattempo è diventato un avvocato e ora lavora in uno studio a Tel Aviv - Arrabbiato e sconvolto non sono gli aggettivi più adatti a descrivere il mio stato d'animo. Piuttosto mi sono sentito frustrato perché non potevo cambiare le cose nonostante fossi stato ripreso in una foto di cui tutti parlavano, ma della cui veridicità nessuno si curava. Quell'immagine si trova ancora in alcuni siti egiziani difensori della "causa palestinese", insieme ad altre falsificazioni, come le foto taroccate che furono pubblicate dalla Reuters durante la guerra del Libano nel 2006 e quelle del conflitto di Gaza del 2008/09. Il direttore di Honest Reporting, Simon Plosker, ha segnalato una lunga lista di casi in cui i media internazionali hanno pubblicato fotografie che in qualche modo distorcevano fatti riguardanti il conflitto arabo-israeliano. Il Daily Telegraph, per esempio, ha usato recentemente le foto di Gaza del 2008-09 per mostrare l'attuale vita nella Striscia, mentre la Reuters ha tagliato ad arte immagini che ritraevano gli avvenimenti della Mavi Marmara "censurando" i soldati israeliani feriti. Gli errori sono stati ammessi, ma, come in altri casi, il danno diventa ormai irrimediabile. "Diverse possono essere le cause alla base di queste distorsioni - spiega Plosker - a volte dipende dal fotografo, altre dalla redazione o da un solo redattore. Il nostro scopo in Honest Reporting è quello di far sapere ai lettori che ciò che vedono non rappresenta sempre la realtà. Ammetto che noi siamo a favore di Israele, ma questo non entra in conflitto con la richiesta di parametri più professionali".
Tutto questo succede anche in altri contesti ma, per esempio in confronto alle guerre in Iraq e Afghanistan, ci sono molte più immagini false provenienti dal conflitto israelo-palestinese.
"È ben noto che quest'ultimo ha una copertura mediatica sproporzionata rispetto a simili situazioni in altre aree del mondo" commenta Miri Eisen, già consulente del ministero delle telecomunicazioni. Il ruolo delle organizzazioni come HR è oggi ben più importante che in passato, poiché la diffusione di immagini e notizie distorte è più larga e veloce con i nuovi mezzi tecnologici e sfugge facilmente al controllo. "Grazie al lavoro come il nostro - prosegue Plosker - la gente ora sa che non può credere a tutto quello che legge, vede e sente nei media. Ovviamente resta il fatto che una foto vale più di mille parole e non c'è dubbio che queste potenti immagini vengono ricordate senza grandi difficoltà." Tuvia Grossman concorda in pieno: "Sebbene il Times stampò una correzione, alcuni miei cugini in Brasile hanno assistito a manifestazioni in cui venivano esposti poster con il mio ritratto per dimostrare la brutalità israeliana. In ogni caso quel che lascia più perplessi è il fatto che nonostante l'ammissione, i media sembrano non imparare dai propri errori e continuano a commetterne".
venerdì 1 ottobre 2010
Da un articolo di Khaled Abu Toameh
L’allora presidente dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat (1929-2004) ordinò a Hamas di lanciare attacchi terroristici contro Israele non appena si rese conto che i colloqui di pace con Israele non andavano nella direzione che lui voleva. È quanto ha rivelato martedì Mahmoud Zahar, uno dei principali capi di Hamas nella striscia di Gaza.“Il presidente Arafat diede istruzione a Hamas di compiere un certo numero di operazioni militari nel cuore dello stato ebraico dopo che aveva realizzato che i suoi negoziati con il governo israeliano di allora erano falliti”, ha detto Zahar parlando a studenti e docenti dell’Università Islamica di Gaza. Zahar non ha specificato quando e come Arafat diede a Hamas l’incarico di lanciare le “operazioni militari”, per lo più attentati suicidi che facevano strage di civili israeliani. Si ritiene tuttavia che il riferimento sia alla reazione di Arafat dopo il fallimento del summit di Camp David del luglio 2000.Questa è la prima volta che un alto esponente di Hamas rivela pubblicamente che perlomeno una parte degli attentati esplosivi suicidi commessi da Hamas durante la “seconda intifada”, scoppiata esattamente dieci anni fa, furono compiuti su diretto ordine di Arafat. Finora l’opinione più diffusa era che Arafat avesse ordinato di compiere attentati terroristici contro Israele soltanto ai miliziani del suo movimento, il Fatah. Secondo varie testimonianze, Arafat ordinò al braccio armato di Fatah, le Brigate Martiri di al-Aqsa, di lanciare attacchi terroristici contro Israele dopo essersi reso conto che il governo dell’allora primo ministro israeliano Ehid Barak non si sarebbe piegato a tutte le sue richieste. (L’ondata di attentati stragisti degli islamisti di Hamas a partire dagli anni ’90 veniva invece letta dalla quasi totalità degli osservatori come una strategia volta a mettere in difficoltà lo stesso Arafat.)Nel suo discorso dell’altro giorno all’università, Zahar ha sostenuto che la decisione di Arafat di negoziare con Israele fu uno dei fattori che portarono al suo “assassinio” (sic). Zahar ha definito quella decisione un grave sbaglio e un errore tattico da parte di Arafat. Zahar ha poi esortato l’attuale presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a ritirarsi immediatamente dai colloqui con Israele, aggiungendo che oggi Hamas ha migliorato molto le proprie capacità di introdurre clandestinamente nella striscia di Gaza armi e altre forniture militari, in preparazione del prossimo scontro armato con Israele. L’esponente di Hamas ha concluso affermando che un numero sempre crescente di palestinesi sono convinti che la “lotta armata” è l’unico modo per trattare con lo stato ebraico.(Da: Jerusalem Post, 29.9.10) http://www.israele.net/
Tosaf, produttore israeliano di compound e masterbatches, ha avviato nei giorni scorsi un nuovo stabilimento a Afula, che porta la capacità produttiva da 90.000 a oltre 140.000 tonnellate annue. Una decisione presa per adeguare l'offerta alla crescente domanda di compound tailor-made ad alte prestazioni, come ha spiegato il direttore delle attività internazionali, Joseph Halberstam.Fondato nel 1985, il gruppo Tosaf è una joint-venture tra Megides Holding e Ravago Group con un giro d'affari stimato quest'anno in oltre 200 milioni di euro. La produzione è articolata in nove stabilimenti produttivi presenti in Israele, Turchia, Germania, Regno Unito, Olanda e Ucraina, dove lavorano un totale di 720 addetti.Il catalogo prodotti comprende compound caricati minerale per l'industria del bianco, automotive e applicazioni industriali, masterbatches additivi con stabilizzanti UV, ritardanti di fiamma e prodotti specifici per film BOPP, film agricoli e industriali, imballaggi, lastre di policarbonato, tubi e materiali espansi. Nel portafogiio dell'azienda anche masterbatches colore per diversi settori applicativi.30 settembre 2010, http://www.polimerica.it/
Allo studio formule tecniche per estendere la moratoria degli insediamenti senza dichiararlo ufficialmente
Roma, 29 set (Il Velino) - “Israele non ha una politica estera, solo un sistema politico interno”. Si può riassumere con la celebre frase di Henry Kissinger la paradossale situazione del governo israeliano, dove il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dovuto prendere le distanze dal discorso pronunciato alle Nazioni Unite dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Oggi Netanyahu ha incontrato l’inviato Usa nella regione, George Mitchell, e ha confermato la propria volontà di raggiungere un accordo pieno e duraturo con i palestinesi entro un anno, smentendo esplicitamente la versione di Lieberman (“Non rappresenta la visione del governo”, ha assicurato il primo ministro) secondo cui le trattative potrebbero durare decenni. Gli osservatori più accreditati sono convinti che il leader di Israel Beitenu abbia voluto assestare un tiro mancino al suo premier, che lo ha di fatto escluso dai negoziati e dai rapporti con i principali alleati, Stati Uniti in primis. Così, oltre ad allungare a dismisura la durata del negoziato di pace, Lieberman ha anche affermato che i palestinesi dovranno concedere agli israeliani la sovranità sui principali insediamenti della Cisgiordania, una prospettiva inaccettabile per il mondo arabo. “Ha piazzato una bomba sulla strada del primo ministro”, ha commentato Benjamin Ben-Eliezer, ministro del Commercio ed ex titolare della Difesa, che in quota laburista costituisce la sinistra dell’eterogeneo governo di Netanyahu. La stampa israeliana interpreta come debolezza il mancato richiamo di Lieberman da parte del primo ministro. “In ogni paese rispettabile il premier avrebbe licenziato subito il nostro infervorato ministro degli Esteri – commenta il quotidiano Maariv -, ma non c’è pericolo che ciò possa accadere qui”. Haaretz, invece, ricorda come Lieberman si sia rivolto soprattutto agli israeliani in patria, ben sapendo che non è dalla platea internazionale dell’Onu che otterrà consensi. Il suo elettorato pesca alla grande tra i coloni, che premono affinché la fine della moratoria sia implementata e si possa procedere con la costruzione di migliaia di nuove abitazioni. Proprio l’estensione della moratoria è al centro dello scontro diplomatico. Sabato il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas incontrerà i vertici di al Fatah e dell’Olp per stabilire la linea da portare al meeting della Lega araba di lunedì. Hanna Amireh, un membro dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ha affermato che senza lo stop agli insediamenti Abbas sarà costretto ad abbandonare il negoziato. “C’è consenso sul fatto che tutto il mondo è favorevole alla creazione di uno stato palestinese ed è contrario agli insediamenti”, ha osservato Amireh. Secondo il quale di conseguenza “è bene porre il problema davanti alla comunità internazionale e vedere cosa si riesce a ottenere”. Per Abbas proseguire le trattative senza aver ottenuto nulla sugli insediamenti potrebbe implicare un’ulteriore perdita di credibilità, e offrirebbe il fianco alla propaganda di Hamas. Problemi simili deve affrontare Netanyahu, che estendendo d’imperio la moratoria verrebbe con ogni probabilità disarcionato dal governo dalla destra di Lieberman. Per questo, rivela la stampa dello Stato ebraico, sono allo studio alcune formule di compromesso. Un’ipotesi che circola insistentemente è che il ministero della Difesa (occupato dal laburista Ehud Barak, favorevole al negoziato) stabilisca clausole burocratiche particolari per le nuove costruzioni estendendo di fatto – seppur senza dichiararlo ufficialmente - la moratoria.
Tempo di preparazione: 30 minuti - Tempo di cottura: 70 minuti.PREPARAZIONE:Scottare in acqua salata per 4-5 minuti le foglie di cavolo, avendo cura di scegliere le più grandi e ben conservate. Togliere le foglie dall’acqua con delicatezza usando una schiumarola e porle su uno strofinaccio pulito per eliminare più acqua possibile.A parte preparare l’impasto delle polpette: tritare le patate, unirle alla carne, amalgamare bene aggiungendo le uova crude ed il prezzemolo. Salare l’impasto, fare delle polpettine ovali e passarle nella farina. Mettere ogni polpettina in una foglia di verza e legare con lo spago per fare gli involtini. Aggiungere il pepe a piacere.Cuocere in padella antiaderente con olio a fuoco basso aggiungendo il brodo ogni 10 minuti. Il brodo deve ritirarsi in modo da lasciare comunque che gli involtini non siano troppo asciutti.Si può servire questo piatto con un contorno oppure su un letto di riso cotto nel brodo e fatto poi ritirare.http://www.morasha.it/
Ingredienti: 350 g di mezze penne rigate,250 g di mozzarella,400 g di pomodorini ciliegia,100 g di olive nere,4 cucchiai di olio extravergine,1 cipolla,1 mazzetto di basilic,osale e pepe. Procedimento: sbucciate la cipolla e affettatela. lavate i pomodori, asciugateli e tagliateli a pezzetti. tagliate a dadini la mozzarella e snocciolate le olive. raccogliete in una terrina la cipolla, i pomodori, le mozzarelle, le olive e l'olio. mescolate con cura e insaporite con sale e pepe.portate a ebollizione una pentola con abbondante acqua, salatela e fatevi cuocere la pasta. scolatela al dente e mescolatela subito al condimento preparato. trasferite in un piatto da portata, cospargete con basilico, lavato, asciugato e sminuzzato e servite.http://youloseforum.forumfree.it/
ROMA - «I 35 parlamentari finiani non sarebbero mai stati eletti se non li avesse fatti eleggere lei signor presidente» e «torneranno nell'ombra. Come nell'ombra tornerà la terza carica dello Stato che Ella, molto generosamente, gli aveva affidato». Così il senatore del Pdl, Giuseppe Ciarrapico, nel suo intervento al Senato dopo il discorso del presidente del Consiglio. «Fini ha fatto sapere che presto fonderà un nuovo partito. Spero che abbia già ordinato le kippah- ha aggiunto Ciarrapico, riferendosi al copricapo maschile usato dagli Ebrei osservanti- perché è di questo che si tratta. Chi ha tradito una volta, tradisce sempre. Può darsi pure che Fini svolga una missione ma è una missione tutta sua personale. Se la tenga. Quando andremo a votare vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini».LE REAZIONI - Le parole del senatore rimbalzano immediatamente da palazzo Madama alla Camera dove il deputato del Pd, Emanuele Fiano, chiede la parola in aula e attacca: «Era da qualche decina d'anni che non sentivamo risuonare in un'aula del Parlamento cose del genere. Si parla del copricapo degli ebrei come di un disvalore». Si associa Fini al «tradimento perché forse è sceso a patti con qualche ebreo. Forse - si rivolge sarcastico a Ciarrapico- perché c'è un complotto demo-pluto-giudaico». È, conclude Fiano, «una vergogna» e quel Ciarrapico «fascista e antisemita si deve vergognare». Anche dai banchi del Pdl si alza Fiamma Nirenstein per appoggiare il collega democratico: quelle di Ciarrapico sono «parole intollerabili, noi dobbiamo opporci a qualunque tipo di antisemitismo, è intollerabile questo atteggiamento, è una questione di civiltà». Solidale anche Luca Barbareschi di Fli: «È scandaloso quanto sta accadendo, parole di tale imbecillità sono una offesa per il nostro Paese».
giovedì 30 settembre 2010
Poco prima dell'alba del 31 maggio 2010, un commando israeliano ha abbordato una nave turca che intendeva forzare il blocco contro l'organizzazione terroristica di Hamas a Gaza. Quando salirono a bordo gli israeliani sono stati aggrediti da una fazione violenta di militanti islamici. All'abbordaggio è seguita una mischia in cui molti dei membri del commando sono stati gravemente feriti e nove dei militanti turchi sono rimasti uccisi. Lo scontro è finito prima del sorgere del sole. Era ancora giorno quando, a distanza di 5.600 miglia, la delegazione israeliana alle Nazioni Unite veniva chiamata davanti a una sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza per essere punita riguardo alle azioni dei suoi commandos. Convocata poche ore dopo le violenze, il Consiglio ha trascorso la notte del 31 maggio, fino alle prime ore del mattino, immerso in "una sessione di emergenza dominata da una forte emotività... [per esprimere] la rabbia della comunità internazionale rispetto all'attacco condotto da Israele", come ha scritto il Washington Post.Era una scena già nota. Nel 1983, l'ambasciatore di Ronald Reagan alle Nazioni Unite, Jeane Kirkpatrick, l'aveva descritta con queste parole: "Ciò che avviene in seno al Consiglio di Sicurezza somiglia più a una rapina piuttosto che a un dibattito politico o a uno sforzo per risolvere problemi.... Israele fa la parte del cattivo... in [un] melodramma... che rappresenta... molti aggressori e una grande quantità di violenza verbale... L'obiettivo è l'isolamento e l'umiliazione della vittima... Gli aggressori, non incontrando ostacoli, diventano più audaci, mentre altre nazioni appaiono sempre più riluttanti a dare sostegno all'imputato, per paura che essi stessi diventino un bersaglio ostile di quel blocco".La rievocazione di questo dramma familiare, il 31 maggio scorso, si è aperta con una presentazione di Oscar Fernandez-Taranco, l'assistente del segretario generale delle Nazioni Unite per gli affari politici. Il suo compito era di parlare a nome della istituzione nel suo complesso e d'inquadrare il problema oggettivo per il dibattito, a nome del suo capo, Ban Ki-moon. Fernandez-Taranco ha spiegato che lo spargimento di sangue era avvenuto perché Israele ha rifiutato di porre fine "al blocco inaccetabile e controproducente di Gaza", che stava esacerbando "i bisogni insoddisfatti della popolazione civile della Striscia". Per equità, Fernandez-Taranco ha preso atto delle rivendicazioni di Israele sul fatto che i manifestanti a bordo della nave Marmara avevano usato coltelli e mazze contro il personale della marina israeliana.Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, lo ha seguito a passo di marcia. Questo è stato, ha detto, "un omicidio condotto da uno stato" con "nessuna giustificazione" contro una flottiglia il cui "unico scopo era quello di fornire soccorso ai bisognosi". La teoria della legittima difesa "non può in alcun modo giustificare le azioni intraprese dalle forze israeliane". È stato un "agguato illecito... un atto di barbarie... un’aggressione in alto mare". Un oratore dopo l'altro hanno ripetuto gli argomenti sul blocco, ingiustificato, di Gaza, mantenuto attraverso l'uso eccessivo della forza senza alcuna base giuridica. Nessuno ha fatto alcuna distinzione tra un blocco che serve a prevenire l'introduzione di armi nella striscia e uno che invece colpisce esclusivamente i beni dei civili. Ognuno dei rappresentanti ha semplicemente chiesto la fine del blocco, senza spiegare come Israele dovrebbe proteggersi dal contrabbando dei terroristi.
Infine il rappresentante israeliano, Daniel Carmon, ha ottenuto la possibilità di rispondere. È stato l’unico speaker a sottolineare che esiste uno stato di conflitto armato tra Israele e Hamas; che Gaza è dominata da terroristi che l’hanno sequestrata con un violento colpo di stato; e che le armi venivano contrabbandate nel territorio, anche via mare. Ha sottolineato che un blocco marittimo, anche in acque internazionali, è un provvedimento legittimo e riconosciuto in un conflitto armato. Qualsiasi governo responsabile dovrebbe agire di conseguenza in circostanze simili per proteggere i suoi civili. Israele ha deplorato la perdita di vite innocenti, ma non può compromettere la sua sicurezza. I soldati che hanno abbordato una delle navi sono stati violentemente aggrediti e minacciati di rapimento e linciaggio. Hanno agito per legittima difesa.
Ho lasciato la risposta della delegazione americana per ultima, perché è quella che voglio approfondire. Questa sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza è stato il momento della verità per l'amministrazione Obama, il tipo di decisione dolorosa che rivela carattere, intenti e priorità. Se George W. Bush fosse stato ancora alla Casa Bianca, l'azione della delegazione degli Stati Uniti si sarebbe potuta prevedere con una certa fiducia. Nel luglio 2002, l'amministrazione Bush annunciò una politica sulle risoluzioni contro Israele, nota come la "Dottrina Negroponte". La dottrina, pubblicata integralmente sul sito web della missione Usa alle Nazioni Unite nel 2003, recita:“Noi non sosterremo alcuna risoluzione che eviti la minaccia esplicita alla pace in Medio Oriente posta da Hamas e altri gruppi terroristici... Qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza... deve contenere un’esplicita condanna di Hamas [e delle altre] organizzazioni responsabili di atti di terrorismo e... invitare a smantellare le infrastrutture che supportano queste operazioni di terrore”.L'amministrazione Obama non ha ancora rivelato se gli Stati Uniti resteranno fedeli ai principi di Negroponte. Come candidato in corsa contro Hillary Clinton, Barack Obama lasciò intendere che si sarebbe uniformato. Il 22 gennaio 2008, alla vigilia delle primarie presidenziali democratiche, scrisse a Zalmay Khalilzad, l'allora ambasciatore di Bush alle Nazioni Unite, con parole che potrebbero essere state scritte come risposta alla riunione post-flottiglia:“La esorto a garantire che il Consiglio di Sicurezza non emetta alcuna dichiarazione e non faccia passare alcuna risoluzione sulla situazione di Gaza che non condanni fermamente l'aggressione con i razzi che Hamas sta conducendo contro i civili nel sud di Israele... Tutti noi siamo preoccupati per l'impatto della chiusura dei valichi di frontiera sulle famiglie palestinesi. Tuttavia, dobbiamo capire perché Israele è costretto a comportarsi in questo modo. Gaza è governata da Hamas, un’organizzazione terroristica... votata alla distruzione di Israele, e i civili israeliani sono stati bombardati... Israele ha il diritto di rispondere cercando nel contempo di ridurre al minimo l'eventuale impatto sui civili. Il Consiglio di Sicurezza deve... mettere in chiaro che Israele ha il diritto di difendersi contro tali azioni. Se non può portare ad affrontare questi punti comuni al buon senso, esorto a garantire che non se ne parli affatto”. In altre parole, stava sollecitando un diritto di veto americano.Il 14 luglio, l'ambasciatore di Obama alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha dichiarato: "Dobbiamo... combattere tutti i tentativi internazionali per contestare la legittimità di Israele... presso le Nazioni Unite”. Ma molti degli ammiratori di Obama non vogliono o non si aspettano che si prendano tali impegni. Il Comitato che gli ha dato il premio Nobel per la pace ha detto che l’ha fatto per i suoi "sforzi straordinari per rafforzare la diplomazia internazionale... ponendo l’accento sul ruolo che le Nazioni Unite... possono giocare... sulla base di valori e atteggiamenti che sono condivisi dalla maggioranza della popolazione mondiale".I 6 milioni di ebrei di Israele, che hanno un solo voto in sede ONU, sfidano un miliardo e mezzo di musulmani, che hanno 50 voti. È il veto americano nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu che fornisce una potenziale linea di difesa per loro. Ma la dichiarazione di fatto del portavoce di Obama a quella sessione di emergenza sull'incidente della flottiglia di Gaza del maggio 2010 è scesa ben al di sotto del linguaggio utilizzato nella lettera del 2008 a Khalilzad. Alejandro Wolff, il rappresentante permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, non ha minacciato il veto. Non ha messo l'accento sulla minaccia di Hamas. Non ha menzionato il pericolo di infiltrazioni di armi. E ha taciuto sulla legittimità del blocco israeliano.Ha detto invece che meccanismi alternativi erano disponibili per la consegna degli aiuti umanitari a Gaza e che la consegna diretta dal mare non era appropriata. Ha detto che l'interferenza di Hamas aveva complicato gli sforzi umanitari a Gaza minando la sicurezza e la prosperità per tutti i palestinesi. Ma Wolff ha bilanciato queste parole aggiungendo che Israele deve fare di più per concedere beni umanitari, compresi i materiali da costruzione, dentro Gaza, pur riconoscendo a Israele legittime preoccupazioni di sicurezza. Alla fine della sessione di 90 minuti pubblici destinati a queste affermazioni, il Consiglio si è riunito in una sessione privata esecutiva per un’intensa contrattazione dietro le quinte per formulare la dichiarazione rilasciata dal Presidente del Consiglio.La Turchia ha chiesto che la Dichiarazione Presidenziale condannasse "nei termini più forti", "l'atto di aggressione israeliana" come una "chiara violazione del diritto internazionale"; che chiedesse al segretario generale Ban Ki-Moon di "effettuare un'indagine internazionale indipendente dalle Nazioni Unite"; che includesse "la punizione di tutte le autorità responsabili "; e che invocasse la revoca immediata del blocco su Gaza. L'adozione di una tale Dichiarazione Presidenziale richiede un consenso. I voti non vengono registrati. Qui c'era la possibilità di difendere Israele senza necessariamente percorrere la via principale del veto formale. Obama avrebbe potuto garantire, come aveva detto nel 2008, "che il Consiglio di Sicurezza non faccia passare alcuna dichiarazione e trasmetta alcuna risoluzione sulla situazione di Gaza che non... metta in chiaro che Israele ha il diritto di difendersi... [e] perché Israele è costretto a farlo". Avrebbe potuto insistere, come un tempo ha esortato a insistere Khalilzad, che se il Consiglio di Sicurezza "non può portare se stesso ad approvare questi punti comuni al buon senso... e non [deve] parlare affatto ".Ma non è questo quello che è successo. I negoziati hanno prodotto una dichiarazione presidenziale più debole di quella richiesta dalla Turchia, ma ancora molto ostile a Israele. La dichiarazione ha condannato solo "gli atti" che hanno causato morti senza citare Israele per nome - una elisione per cui l'amministrazione merita credito. Ma non conteneva nessuno degli elementi che Obama aveva definito indispensabili e che dovevano essere la conditio sine qua non per gli Stati Uniti ad accettare una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza. Non è stato fatto alcun riferimento alla minaccia che ha dato origine al blocco; alcuna menzione di Hamas o il suo impegno a distruggere uno stato membro delle Nazioni Unite; nessun riscontro che lo scopo di Israele è quello di impedire il contrabbando di armi; nessuna affermazione del diritto di Israele alla legittima difesa ai sensi dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite; non una sillaba sul terrorismo; e in generale, non una parola per riflettere il punto di vista israeliano.Poi c'era questa frase: "Il Consiglio di Sicurezza prende atto della dichiarazione del Segretario generale dell'ONU sulla necessità di avere un'indagine completa della questione... conforme agli standard internazionali". Questo è stato inteso nel senso di un'indagine condotta da una commissione internazionale nominata dal segretario generale. Tutto ciò appena qualche mese dopo il rapporto Goldstone, un rapporto dell'Onu sulla situazione a Gaza, su cui l'amministrazione Obama ha dichiarato di avere "gravi preoccupazioni" perché la relazione riportava un "focus sbilanciato su Israele" e una "equivalenza morale tra Israele... e il gruppo terroristico Hamas". I diplomatici americani hanno impedito che la dichiarazione del Consiglio autorizzasse una tale inchiesta delle Nazioni Unite a titolo definitivo. Gli Stati Uniti hanno detto che Israele, un paese con un sistema giudiziario fieramente indipendente e dalle forti istituzioni democratiche, dovrebbe essere autorizzata a condurre la propria indagine, con la partecipazione di osservatori internazionali.Il risultato della riluttanza di Obama di affermare inequivocabilmente che egli è contrario a una indagine delle Nazioni Unite è stato riassunto da un titolo del giornale Politico: "L’inchiesta del Segretario Generale su Gaza raccoglie entusiasmi, mentre gli Stati Uniti restano neutrali". Come ha detto l'ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite John Bolton, "il presidente Obama non si è mosso con decisione per disperdere quella idea, e la sua inerzia è stata presa alle Nazioni Unite come un implicito consenso alla iniziativa illegittima di Mr. Ban".La presa di posizione di Obama in occasione della sessione di emergenza del 31 maggio sulla vicenda di Gaza segna la seconda volta in una settimana in cui l'amministrazione mette i suoi obiettivi multilateralisti davanti alla difesa di Israele. In una conferenza delle Nazioni Unite sulla non proliferazione nucleare, che si era conclusa tre giorni prima della crisi della flottiglia, la delegazione Obama ha approvato l'adozione all'unanimità di una dichiarazione finale. Lo ha fatto, anche se l'amministrazione ha reso noto di avere "serie riserve" sulla sua sezione in Medio Oriente, che individua Israele come un trasgressore degli sforzi di non proliferazione e di fatto non parla di Iran.Dopo il voto, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti James Jones ha detto che "Gli Stati Uniti deplorano la decisione di isolare Israele nella sezione Medio Oriente... [nonché] la mancanza della risoluzione di menzionare l'Iran". Gli Stati Uniti la fanno passare comunque, perciò la conferenza potrebbe essere considerata un successo. Dopo l'accaduto, l'amministrazione ha cercato di riparare il danno che aveva causato. "Gli Stati Uniti non permetteranno una conferenza o azioni che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale di Israele", ha detto Jones. "Non accetteremo un approccio che isoli Israele o che imposti delle aspettative non realistiche". Ma solo poche ore prima, gli Stati Uniti avevano fatto proprio questo. Le questioni sollevate dalla risposta degli Stati Uniti per l'agguato alla flottiglia e il problema di proliferazione sono puntuali e pregnanti. Siamo pronti per un flusso di dichiarazioni presidenziali del Consiglio di sicurezza e di risoluzioni che si pronunciano in merito alla minaccia terroristica, che delegittimano e condannano Israele, convocando prima tribunali ostili, limitando la sua libertà di azione per difendere i propri cittadini, accusando i suoi leader, e forse alla fine mettendola sotto sanzioni? (Fine della prima puntata. Continua...)Tratto da Commentary,di Steven J. Rosen 30 Settembre 2010, http://www.loccidentale.it/