sabato 5 aprile 2008


No. 395 - 23.11.07

L’incredibile storia del salvataggio di migliaia di ebrei siriani da parte di Judy Feld Carr (CM), di Toronto, Canada, membro della direzione internazionale del KH-AUI
Il 25 settembre 2007 la casa editrice Lester, Mason & Begg ha ripubblicato una “The Rescuer”, il libro di Harold Troper che racconta l’incredibile storia della nostra amica Judy Feld Carr e del suo impegno lungo 28 anni nell’opera di salvataggio di più di 3000 ebrei siriani. È con grande onore che portiamo questo libro e la storia che racconta all’attenzione dei nostri lettori.
È difficile credere che una modesta insegnante di musica in pensione e nonna di dieci nipoti sia responsabile del salvataggio di 3.228 ebrei siriani in più di 28 anni: una storia di intrighi internazionali che ha il sapore della leggenda.
Le famiglie ebree che ha salvato la conoscono solo come signora Judy, o anche tanto. È stato solo dopo che era riuscita a portare clandestinamente l’ultima famiglia ebrea fuori dalla Siria (sono arrivati a New York meno di un’ora prima che i dirottatori facessero schiantare i due aereoplani contro il World Trade Centre) che la storia di questa donna straordinaria è diventata di dominio pubblico.
Nata a Montreal e cresciuta a Sudbury, la signora Feld Carr ha sofferto a causa dell’antisemitismo di chi la circondava sin da bambina. “Sono cresciuta in una piccola città ed ero l’unica ebrea a scuola. Sono stata picchiata in seconda elementare per aver ucciso Cristo – per le botte ho perso i quattro incisivi”.
È stato attraverso la sua vicina e reduce dell’Olocausto, la signora Sophie, che la Feld Carr dice di aver preso coscienza dell’orribile condizione del popolo ebraico. Sophie, i cui due figli erano stati uccisi ad Auschwitz e che era stata vittima dei terrificanti esperimenti del dottor Joseph Mengele, le ha dato l’ispirazione.
“Quando avevo 10 anni Sophie mi ha ditto: ‘Tu devi fare qualcosa perché tutto questo non accada mai più al popolo ebraico’. Non ho mai dimenticato queste parole”, dice la Feld Carr. “Ogni voltra che pensavo di rinunciare e lasciare perdere tutto, ovvero un giorno sì e uno no, mi tornava in mente Sophie e dicevo: va bene, torno al lavoro. Gliel’ho promesso e l’ho fatto”.
Com’è finite nel pericoloso mondo del contrabbando, della corruzione, delle vie di fuga e degli agenti segreti?
“Infinite sono le vie del Signore”, dice la Feld Carr. “Io non vengo da questo mondo. Sono cresciuta a Sudbury. Come potevo sapere come portare a termine un progetto simile? È tutto così surreale”.
La storia ha inizio nel 1972, Quando la signora Feld Carr e il suo primo marito, il dottor Ronald Feld, vengono a conoscenza del destino di 12 giovani ebrei morti nel tentativo di fuggire dalla Siria.
Decidono, insieme ad alcuni amici, di prendersi carico della causa degli ebrei siriani. Con una semplice telefonata (“L’unica telefonata che sia mai stata fatta da una comunità ebraica alla Siria”), la Feld Carr riesce a parlare con Abraham Hamra, il rabbino capo della Siria a Damasco e casse di libri religiosi iniziano a volare da Toronto alla Siria. I due gruppi comunicano attraverso un codice nell’indirizzo dei telegrammi.
Nel 1973 muore suo marito. La Feld Carr decide di continuare il lavoro, aiutata in questo dal Fondo Ronald Feld per gli ebrei nei Paesi arabi creato dal comitato esecutivo della congregazione Beth Tzedec. Lancia una campagna per i diritti umani per esercitare pressione su politici e opinione pubblica. Nel 1977 sposa Donald Carr, il quale la sostiene nei suoi sforzi.
Col passare del tempo si capisce che in Siria c’erano persone disposte a farsi corrompere e che si poteva pagare un riscatto per far uscire gli ebrei dal Paese. “Così ho cominciato a comprare le persone”. La Feld Carr sviluppa una rete attraverso la quale convoglia il denaro ad agenti incaricati di pagare il riscatto e a contrabbandieri affidabili. “Questa operazione di salvataggio ha avuto tanto successo perché non ha detto a nessuno come funzionava”.
“La tensione era terribile”, aggiunge. La Feld Carr ha viaggiato in tutto il mondo per intraprendere i suoi negoziati segreti, che si svolgevano sempre attraverso intermediari. “Dovevo vivere due vite – una vita di intrighi internazionali e una in cui ero una mamma che faceva le cose normali di una vita normale”.
Il pericolo era enorme, sia per le famiglie che cercava di salvare e che se scoperte potevano venire uccise, sia per la Feld Carr, che ha ricevuto numerose minacce. “Che io sia ancora viva è un miracolo”, dice.
A volte il lavoro era ripugnante. “Dover comprare un altro essere umano era disgustoso. Come si stabilisce il prezzo di una vita umana? Separavo i figli dai loro genitori. Era come negli anni ’40: cercavano disperatamente di mettere in salvo i figli”, nota la Feld Carr.
La maggior parte delle persone salvate dalla signora Feld Carr vivono oggi in Israele, ma è possible trovarne anche a Città del Messico e San Paolo in Brasile. E molti di loro hanno chiamato le figlie Judy.
La signora Feld Carr ha ricevuto molti riconoscimenti per i sui eroici sforzi da parte della comunità ebraica siriana, ma quello a cui tiene di più è làOrdine del Canada. “È incredibile: ho ricevuto l’Ordine del Canada per aver salvato degli ebrei. Non era mai successo nella storia del Canada. Ecco, questo sì che è importante. Ciascuno fa quello che può. Tutti possono fare la differenza”.
(Fonte: La federazione della Grande Toronto dell’AUI)

venerdì 4 aprile 2008


No. 397 - 14.12.07
40° anniversario della campagna in difesa degli ebrei sovieticiUn omaggio agli eroi della battaglia per la libertà degli ebrei sovietici Una cerimonia a Gerusalemme
In occasione del 40 anniversario della battaglia per la libertà degli ebrei sovietici, il Ministero dell’Immigrazione e l’Agenzia Ebraica per Israele hanno organizzato una serata di gala alla presenza del primo ministro Ehud Olmert, del ministro dell’Immigrazione Yaakov Edri, del presidente dell’Agenzia Ebraica per Israele Zeev Bielski e del presidente del comitato pubblico per il 40° anniversario della battaglia per la libertà degli ebrei sovietici Nathan Sharansky e del Direttore-Generale del Keren Hayesod-UIA, Greg Masel. La celebrazione fa parte di una serie di eventi organizzati in tutto il mondo per commemorare la battaglia per la libertà degli ebrei sovietici.
Durante i difficili anni in cui l’Unione Sovietica non garantiva la libertà di religione, chi voleva studiare l’ebraico e immigrare in Israele lo faceva clandestinamente. Gli ebrei venivano continuamente perseguitati e molestati; molti sono stati imprigionati per le loro attività sioniste e nazionaliste e per molti anni è stato loro impedito di lasciare l’Unione Sovietica. Alla fine la resistenza ha prevalso e negli anni ’70 130.000 ebrei sovietici hanno fatto l’aliyah, i prigionieri di Sion sono stati liberati (il più famoso è Natan Sharansky) e dal 1991 più di un milione di ebrei provenienti dall’ex-Unione Sovietica sono immigrati in Israele
“Il regime sovietico ha tentato di liquidare il movimento sionista” ha detto il primo ministro Olmert durante la cerimonia. “Stiamo parlando di David di fronte a Golia”, ha continuato, cercando di dare un’idea delle proporzioni dello scontro.
Nathan Sharansky, presidente del comitato pubblico per il 40° anniversario della battaglia per la libertà degli ebrei sovietici e uno dei più famosi attivisti ebrei sovietici ha raccontato: “Le centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza per manifestare, lo hanno fatto dopo che un pugno di attivisti le aveva precedute ed era finito in prigione in Siberia. Abbiamo tratto la nostra forza da Israele e sono stati le sue vittorie e i suoi successi che ci hanno dato il coraggio di continuare la battaglia”.
Il ministro dell’Immigrazione Edri ha dichiarato che l’Aliyah è il futuro d’Israele, mentre il presidente dell’Agenzia Ebraica ha ammesso: “Lo Stato d’Israele non è più quello che era prima di questa immigrazione… ma il compito non è ancora finito. Ci sono centinaia di migliaia di ebrei, cittadini dell’ex-Unione Sovietica, che vivono in stati che erano un tempo parte dell’USSR, in Germania, a New York e in altri paesi. Dobbiamo fare tutto il possibile per portarli in Israele”. Il signor Bielski ha promesso che l’Agenzia Ebraica continuerà a consolidare il legame con gli ebrei russi della Diaspora e a permettere loro di ricevere l’educazione ebraica sionista per incoraggiarli a visitare e sostenere Israele e a considerare l’idea di fare l’aliyah.Hanno partecipato a questo evento speciale ex-prigionieri di Sion e refuseniks (ebrei ai quali era stato rifiutato il permesso di immigrare in Israele) che avevano partecipato alla battaglia per la libertà, ex-attivisti provenienti da tutto il mondo, rappresentanti delle organizzazioni che si occupano dell’aliyah e dell’accoglienza degli ebrei sovietici – in particolare l’Agenzia Ebraica e il ministero dell’Immigrazione – e centinaia di giovani che sono arrivati in Israele negli ultimi mesi attraverso veri programmi dell’Agenzia Ebraica.



No. 339 - 7.1.08

Tel Aviv- Gondar-Tel Aviv, un giro sulle montagne russe delle emozioni
Jacob (Yankele) SnirDirettore per l’Europa del Keren Hayesod
Cari amici,
Il mese scorso sono tornato da un altro viaggio in Etiopia. A farmi compagnia c’erano una meravigliosa famiglia olandese, che mi aveva affiancato durante una breve missione, e 50 olim, che si erano imbarcati ad Addis Abrba alle 3:00 del mattino e 4 ore dopo si sono svegliati all’aereoporto Ben Gurion di Tel Aviv. Siamo scesi dall’aereo poco dopo l’alba e quel momento ha segnato la fine di centinaia d’anni d’esilio per i miei amici etiopi.
Non appena messo piede a terra la maggior parte di loro è caduta in ginocchio e ha baciato l’asfalto della pista d’atterraggio. Ancora una volta ho dovuto asciugare di nascosto una lacrima che scivolava giù lungo la mia guancia.
Il volo Addis Abeba – TLV ha letteralmente attraversato l’intera lunghezza del Mar Rosso, per cui era di fatto impossibile non ripensare all’esodo biblico. Se dividere il Mar Rosso era stata un’impresa quanto meno ardua, immaginate che cosa significhi passare dalla realtà della regione rurale di Gondar (da dove i Falashmura provengono) all’Israele del 21° secolo in sole 4 ore.
Come ha fatto questa tribù perduta a preservare la sua fede, a celebrare lo Shabbath, a cantare ninna nanne su Gerusalemme ai suoi bambini? Dove hanno trovato l’ostinata determinazione per sfidare monarchi, missionari e vicini diversi da loro, che hanno tutti cercato invano di assimilarli, e questo nonostante siano rimasti completamente tagliati fuori del resto della comunità ebraica, della cui esistenza non erano nemeno consapevoli? Perché 4.000 membri della comunità Beta Israel hanno sacrificato le loro vite (1978-1984) vagando nel deserto del Sudan alla ricerca di Gerusalemme? Che cosa li ha spinti a mandare ogni mattina i figli alla scuola ebraica lungo un sentiero di montagna traditore che non può essere percorso in meno di tre ore di cammino?
La settimana scorsa mi sono fermato di nuovo di fronte alla scuola di Ambover (dove ora risiedono non ebrei) e non ho trovato risposte. La mancanza di risposte ha solo aumentato la mia ammirazione, che è cresciuta ulteriormente mercoledì mattina, quando ci siamo uniti alla preghiera del mattino (Shacharit) nella sinagoga del campo di Gondar. Più di seicento tra uomini e donne, tutti avvolti nei Talitot, hanno seguito intensamente i giovani chazanim, si sono alzati in piedi per l’Amidah e hanno trafitto i nostri cuori quando hanno ripetuto lo Shma Israel. Un’ora dopo eravamo nel cortile della scuola, dove centinaia di bambini Falashmura hanno iniziato la giornata cantando l’Hatikwah, steccando terribilmente, ma anche così le parole Li'hiot Am Chofshi Be'arzeinu, Eretz Zion Jerushalaim (Essere un popolo libero nella nostra terra, Patria Sion Gerusalemme) hanno assunto il loro più profondo significato mentre risuonavano in quel cortile.
Ci stiamo avvicinando alla fine di un capitolo della storia degli ebrei etiopi. Ci sono ancora 1425 Falashmura che hanno ricevuto il permesso di fare l’Aliah e arriveranno tutti in Israele prima del prossimo luglio.
L’Agenzia Ebraica è stata coinvolta nel progetto etiope dal primo istante. Per più di vent’anni abbiamo mandato gli ebrei nella loro terra promessa. Hanno aspettato per generazioni che questo momento arrivasse, silenziosamente, con infinita pazienza, con impareggiabile dignità, con una capacità di resistere alle avversità che noi non avremo mai, con quella rimarchevole innocenza che rende la loro integrazione in Israele così difficile!
Negli ultimi 4 anni Ori Konforti ha guidato la squadra dell’Agenzia Ebraica per Israele in Etiopia. Ogni settimana è responsabile di una delle più emozionanzi visioni notturne di Addis Abeba: l’arrivo degli olim, che emergono dal buio nelle loro vesti bianche e caricano i loro averi nei camion che aspettano sul ciglio della strada. In silenzio salutano i parenti che si lasciano alle spalle. I genitori baciano i figli nella speranza di poterli rivedere in un futuro non troppo lontano. Per molti di loro questo è il momento che hanno aspettato per 7-9 anni! Le forze di sicurezza lì vicino controllano ogni mossa.
Verso mezza notte il convoglio si mette in Marcia verso l’aeroporto. Per tutti loro è il primo volo della loro vita. Arrivati all’aeroporto devono superare i metal detector, che mai sveleranno la determinazione d’acciaio di queste persone a raggiungere Gerusalemme.
Quando il segnale d’imbarco si accende, Ori accompagna gli olim al cancello e li saluta; cinque ore dopo il personale dell’Agenzia Ebraica per Israele in forza presso l’aeroporto Ben Gurion dà loro il benvenuto in Israele e li assiste nei loro primi passi in patria. Se ho detto che un capitolo è quasi chiuso, devo aggiungere che la sfida più grande la dobbiamo ancora affrontare: l’integrazione. Le sfide dell’integrazione sono molto più grandi di quanto noi vorremmo pensare. È un processo complesso, a lungo termine e richiede la cura e la compassione che preferiremmo riservare a periodi di tempo più brevi. È qui che verremo giudicati dalle future generazioni.
Non possiamo permetterci di venire loro meno, non possiamo venire loro meno, e non lo faremo, con il vostro aiuto!
È grazie a Sylvia, Albert, Tsirah, Ishay e Meirah, che hanno insistito tanto per andare in Etiopia, che io ho avuto il privilegio di essere testimone di questo esodo dei giorni nostri. La mia gratitudine verso di loro viene qui ribadita.
In fede,
Jacob (Yankele) Snir

Gerusalemme


«Il ponte-arpa di Calatrava mette in crisi Gerusalemme»


GERUSALEMME ‹ Fania tiene le tende chiuse anche di giorno per non vedere il «mostro» che cresce. Il «mostro», come lo chiamano lei e gli altri vicini, è venuto su lentamente, più piano di quanto avrebbe voluto chi l'ha progettato. È venuto su lentamente, ma adesso è la cosa più alta che ci sia a Gerusalemme: 120 metri, un pennone d'acciaio visibile da qualunque punto della città. Dà il benvenuto a chi arriva da nord-ovest ed è risalito verso le montagne dal mare e dalla piana di Tel Aviv. Quando sarà finito ‹ il comune spera nelle prossime settimane ‹ accoglierà i capi di Stato e i primi ministri, invitati per le celebrazioni dei 60 anni dalla fondazione di Israele.

Disegnato dall'architetto Santiago Calatrava, il dito di acciaio poggia su un ponte, una virgola di metallo che si curva tra i palazzi. A raggiera, si aprono 66 cavi che reggono il viadotto, dove entro il 2010 passerà la nuova linea di treno leggero. «Ho pensato a un'arpa ‹ ha commentato Calatrava ‹ lo strumento suonato da re Davide. Mi è sembrato un simbolo per la città». I detrattori del progetto fanno paragoni con immagini meno eleganti e ispirate. «Quel punto è troppo affollato di case, persone, auto ‹ dice il poeta Haim Gouri al New York Times ‹ e il valore estetico del ponte va completamente perso, avrebbe bisogno di spazio. È stato messo nella zona più inappropriata». Calatrava è stato scelto da Ehud Olmert, primo ministro israeliano e allora sindaco di Gerusalemme. «Quando sono andato a firmare il contratto ‹ ricorda l'architetto spagnolo ‹ mi ha detto: lei ha creato molti ponti, per Gerusalemme deve idearne uno che davvero significhi qualcosa. Questa sarà l'opera più bella che avrà mai fatto».

Che Calatrava abbia creato molti ponti ‹ oltre quaranta, uno sul Canal Grande a Venezia ‹ irrita i critici più che confortarli. «Questa città è unica ‹ spiega l'architetto Arthur Spector ‹, non ha senso costruirci qualcosa che si può trovare nel resto del mondo». L'area scelta è una delle più congestionate, smog e confusione. «E anche una delle più brutte, con o senza il ponte», continua Spector. È l'incrocio dove si incontrano via Jaffa e viale Herzl, in certe ore sembra che tutti gli israeliani si siano dati appuntamento qui. In macchina. I costi del progetto sono cresciuti quanto il pennone d'acciaio e il comune arriverà a sborsare 70 milioni di dollari (circa 44 milioni di euro). «La spazzatura invade le strade e le case vengono abbattute per fare spazio a orribili palazzi moderni. Sarebbe stato meglio investire per rilanciare una città che il cemento sta abbruttendo», dice Yoram Amir, fotografo che documenta «gli scempi edilizi ». Più che cemento è pietra, i blocchi giallo-rossa pallidi vecchi di millenni, utilizzati anche per i nuovi edifici e che Calatrava ha voluto per la base del ponte.Ex ufficiale dei paracadutisti, Amir si sente «più nemico di Calatrava che dei palestinesi». Con il gruppo di anarchici che guida nelle sue azioni di guerriglia urbana, è salito due volte in cima alle gru che stanno lavorando al progetto.

Nell'ultimo raid ‹ pochi mesi fa ‹ ha minacciato di buttarsi di sotto, se la costruzione non fosse stata fermata. «È come una spada piantata nel cuore della città. Il popolo ebraico è contro gli idoli e i religiosi hanno lasciato che una statua venisse eretta alle porte di Gerusalemme ».La galleria del fotografo è in mezzo agli odori del mercato Mahane Yehuda. Sulle pareti, finestre che si aprono ormai solo sul muro, reliquie di antichi palazzi distrutti. «Rappresentano la nostra memoria e l'abbiamo seppellita troppo in fretta, come bambini che giocano al Monopoli e si sfidano a chi costruisce di più».
Calatrava spiega di aver voluto innalzare un ponte che sembrasse volare, una curva di metallo sospesa sopra i tetti delle auto. «Volevo dare l'idea di un'entrata, un punto d'accesso. Non tirar su un altro muro». Gli urbanisti progettano di sviluppare sotto al cavalcavia una piazza con centinaia di alberi. «Se un senso di rinnovamento comincia ad emergere‹ scrive Amotz Asa-El sul Jerusalem Post
‹ la città potrebbe richiamare le élite laiche che l'hanno abbandonata. Poche cose simbolizzano il suo declino più della fuga di intellettuali e scrittori. Anche Olmert, terminati i nove anni da sindaco, si è comprato un appartamento a Tel Aviv».

Corriere della Sera 3 aprile 2008 di Davide Frattini

museo Turgeman Post - Gerusalemme


da Roberto e Ruggero - Milano


Leggiamo con molto piacere il blog e le lettere dei suoi compagni di viaggio, anche se ciò contribuisce ad aumentare il nostro rammarico per non aver potuto essere con voi. L'entusiasmo che traspare dai suoi articoli, dalle sue relazioni e dalle lettere dei partecipanti al recente viaggio dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l'unicità dei suoi tours e degli amici di Israele che ne fanno parte. Penso che non ci sia miglor cosa per comprendere veramente la situazione di Israeleche toccare con mano e vedere con i propri occhi quale è la realtà ed è perciò che mi auguro che un numero sempre maggiore di persone partecipi ai suoi viaggi,anche se questo, purtroppo, siginficherebbe un maggior lavoro per lei!! Ci auguriamo ardentemente di poter partecipare a uno dei suoi prossimi tours

giovedì 3 aprile 2008

Soldati al museo Turgeman Post - Gerusalemme


In Israele gli ultraortodossi a “rischio astinenza”


Singolare protesta in Israele: i mariti delle ebree ultraortodosse rischiano di rimanere a "bocca asciutta" a causa di uno sciopero nel letto coniugale. Le mogli degli ultraortodossi intendono reagire così al ritardo di oltre cinque mesi nel pagamento degli stipendi delle inservienti dei "mikve", luoghi dove secondo il rito ebraico tutte le donne religiose dovrebbero compiere abluzioni rituali almeno una volta al mese con lo scopo di "purificarsi" e poter poi avere rapporti con il partner.

"Fermiamo le abluzioni, e di conseguenza niente più sesso ! " ha annunciato con sprezzante tono l'avvocatessa Batia Kahane-Dror che, in un intervento nel forum femminista religioso "Kolech", ha denunciato l’insostenibile situazione nel suo "mikve".
Di solito ci sono varie "mikve" per ogni quartiere, e persino le ebree laiche sono obbligate ad andare lì almeno una volta nella loro vita, con lo scopo di ottenere una sorta di “lasciapassare” indispensabile per contrarre matrimonio. Secondo una interpretazione biblica, l'emersione che segue a un'immersione nel "mikve", ripete simbolicamente il processo di rinascita.
Le inservienti che lavorano in questa sorta di "bagni pubblici" (caratterizzate dal fatto che l'acqua deve essere piovana e deve essere accumulata o ricambiata senza l'ausilio di tubazioni) percepiscono un stipendio molto basso pagato dai consigli religiosi, dipendenti a loro volta dal ministero degli affari religiosi e quindi dal Governo. Ma a causa di problemi burocratici negli ultimi cinque mesi, i pagamenti si sono bloccati del tutto.


Le inservienti a loro volta,essendo anch'esse ebree ortodosse, non se la sentono di chiudere i "mikve" privando migliaia di donne del diritto di "purificarsi" mensilmente. Così è scattata la spinta rivoluzionaria di Kahane-Dror che con la sua proposta di proclamare lo sciopero del sesso si ispirara alla protagonista dell’omonima commedia di Aristofane,Lisistrata, che decisa a far cessare la guerra, convocò in assemblea tutte le donne greche esponendo il suo piano: le donne non dovranno più fare l'amore con i loro uomini se questi non accetteranno di concludere la pace.
Alle sue compagne Kahane-Drod fa notare che se esse, in segno di solidarietà con le loro inservienti, cesseranno di compiere le abluzioni saranno "impure" agli occhi dei loro mariti i quali dovranno dunque rassegnarsi a settimane, forse anche a mesi, di durissima astinenza sessuale. Fino a quando cioè non si trovino i fondi per pagare gli stipendi arretrati. L'auspicio, ovviamente, è che la minaccia del drastico ed astuto sciopero spinga gli uomini a esercitare pressioni sul potere politico sbloccando i pagamenti e soddisfacendo tutti.


Intanto in Israele le reazioni alla provocazione di Kahane-Dror sono in continuo aumento: da un lato arrivano apprezzamenti e commenti entusiastici, dall'altro c'è lo scetticismo di quante trovano la sua proposta "populista" ed inefficace. Ma l’audace Kahane-Dror va per la sua strada e replica duramente: "Diciamocelo onestamente – avverte tutti - noi donne non moriremo di certo ! ".
Chissà se anche il finale sarà lo stesso della commedia, la pace verrà concluso e si festeggerà con passionali canti ed accese danze.
G. A.

Agenzia Radicale giovedì 03 aprile 2008

kibbutz Ruhama - deserto del Neghev

da Bruno - Genova


Carissima CHICCA,
solo facendo il viaggio si può capire l’eccezionalità dell’evento. Mia moglie ed io ti siamo molto grati e cresce in noi la voglia di ripartire. Tutta la pattuglia genovese ne è entusiasta!
Poi, sarà anche fortuna, ma tutti i partecipanti erano molto simpatici, e mi rimarranno nel cuore per sempre.
Molto bene il gruppo dei tuoi collaboratori da Angela inesauribile e molto efficiente a tutti gli altri.
Se dovessi scrivere tutto ciò che ho nel cuore non finirei mai. Ognuno poi aveva sue particolari motivazioni.
Le mie ti sono note. La visita ai Kibbutz in particolare mi ha entusiasmato. Quando ho salutato il bravo David gli ho detto che la prossima vita sarò lì. Lui mi ha detto che se voglio posso ancora essere utile... ci sto pensando! Tu sai quanto ho studiato e scritto su questo tema, un fenomeno unico al mondo un ideale realizzato e sperimentabile.
Alle ore 6.30 ero già in giro, a rompere con le mie domande agli addetti alle pulizie, ai giovani in bici per i viali.
Ricordo un uomo sui cinquant’anni che dopo avermi ascoltato, in una frase mi ha riconfermato quanto sapevo certo ma mai “visto”. Mi ha detto: “Vede, noi ogni giorno, dentro di noi, ci diciamo: nessun bambino ha paura, nessun vecchio è solo, nessun malato è in difficoltà, nessuno spreca. Istruzione obbligatoria sino a 18 anni, poi militare e studi superiori, anche duro lavoro per la proprietà comune.
La commozione, le lacrime, nel sentire la registrazione del giorno in cui fu proclamato lo Stato di Israele, momento che ho voluto vivere vicino a te, quell’inno cantato in quel giorno...
Del Museo dell’Olocausto non c’è niente da scrivere. Io ci porterei i giovani del Mondo, ci farei fare la Conferenza dei potenti, come all’ONU!
Ti stimavo tanto, ora Ti ammiro e Ti sono grato. Il nostro non è stato un viaggio turistico. È stata una lezione di vita, una esperienza indimenticabile. Forse abbiamo visitato il Paese che rispecchia il futuro dell’Umanità, così almeno io spero!

monumento a Bernstein - Gerusalemme

da Paola - Milano


Io sono tornata dal viaggio con la voglia di tornare in Israele appena possibile,
E' stata una esperienza così forte ed intensa che mi ha lasciato una pace profonda nell'anima e nel cuore e nello stesso tempo la capacità di "leggere" gli avvenimenti con occhi nuovi .
Grazie a te e ad Angela! Vi ho nel cuore!

Gerusalemme

Fuoco amico

di Abraham B. Yehoshua

Traduzione di Alessandra Shomroni
Einaudi € 19

Il nuovo romanzo di Yehoshua non è solo un duetto fra moglie e marito, una coppia di mezz’età innamorata e armoniosa, ma è anche il teatro di una vicenda familiare che si dipana nell’arco di una settimana fra Israele e l’Africa.
In Israele sono i giorni della festa di Hanukkah, la festa delle candele, e mentre Daniela Yaari parte per la Tanzania per incontrare il cognato Yirmiyahu, rimasto in Africa come contabile al seguito di una spedizione paleoantropologica dopo la morte del figlio Eyal e della moglie Shuli (sorella di Daniela), Amotz rimane a Tel Aviv ad occuparsi dei turbolenti membri della famiglia Yaari.
Chi sono i rappresentanti di questa piccola comunità che ruotano attorno ad Amotz costringendolo a preoccuparsi per ciascuno di loro?

Il figlio Moran che lavora con il padre nello studio di progettazione di ascensori, finito agli arresti per non essersi presentato alla chiamata dell’esercito; la bella nuora Efrat, consapevole del fascino che esercita sugli uomini; gli scatenati e adorati nipotini Nadav e Neta; la giovane figlia Nofar dal temperamento indipendente e dal carattere difficile che svolge il servizio civile in un ospedale di Gerusalemme; il vecchio padre malato di Parkinson del quale il figlio sessantenne scoprirà l’ amore segreto per un’arzilla “ragazzina” di ottant’anni.
Attorno a questa famiglia scompaginata si muovono i personaggi più disparati, ritratti indimenticabili calati nella complessa società israeliana: la famiglia di filippini, devota e affidabile, che accudisce il vecchio Yaari con il piccolo Hylario che si rivela uno studente giudizioso e orgoglioso di apprendere le tradizioni religiose ebraiche; Rorale, l’esperta di acustica, minuscola ed efebica che alla fine del romanzo scoprirà il guasto tecnico che provoca sibili e ululati in un grattacielo di recente costruzione a Tel Aviv.

Se Amotz vive la turbolenta e frenetica vita quotidiana fra impegni di lavoro e preoccupazioni familiari, Daniela, intenzionata ad affrontare nuovamente il lutto per la morte della sorella affinchè il dolore non sprofondi nell’oblio, si trova alle prese con l’anziano cognato Yirmiyahu: un personaggio difficile che dopo la morte del figlio Eyal, ucciso a Tul Karem dal “fuoco amico” di un commilitone che lo aveva scambiato per un ricercato, matura un atteggiamento di totale rifiuto per Israele.
E’ un personaggio insolito e nuovo nell’universo letterario di Yehoshua per la sua decisione di staccarsi da tutto ciò che gli ricorda Israele, gli ebrei e la loro storia; quando Daniela arriva a Morogoro con i giornali israeliani Yirmi li brucia e analoga fine faranno le candele di Hanukkah che la cognata gli ha portato in dono. Si tratta di un rifiuto che, pur non derivando da un atteggiamento critico, esprime inequivocabilmente l’intento di Yirmiyahu di dire: “Ora basta”!
Una sensazione che peraltro pervade molti israeliani stanchi di guerre, di terrorismo e desiderosi di vivere in pace e armonia con il mondo.
L’impianto narrativo del romanzo poggia su un incessante alternarsi fra il racconto di Amotz e quello di Daniela e, seppur non vi siano momenti salienti nella narrazione, spuntano fra le due storie connessioni particolari, legami simbolici. Ad esempio mentre Amotz cerca l’origine dei sibili che turbano gli inquilini del grattacielo di cui ha progettato gli ascensori, Daniela giunta in Tanzania è attesa all’aeroporto da Sijin Kuang, una giovane sudanese la cui famiglia è stata massacrata in Sudan, lavora come infermiera al seguito della spedizione archeologica, è animista e crede negli spiriti: in una situazione reale riecheggiano dunque continue metafore fra le due vicende.

Al termine del romanzo i coniugi Yaari si ricongiungono all’aeroporto di Tel Aviv; sui loro volti aleggia un’ombra di stanchezza: Daniela per non essere riuscita a riaccendere nell’animo del cognato l’amore per il suo paese, Amotz totalmente esausto e schiacciato dalle incombenze familiari. Una volta a casa però accenderanno tutte le candele di Hanukkah e insieme canteranno Ma’oz Tzur “in duetto”. “Il matrimonio – dice Yehoshua – è un duetto musicale dove ciascun coniuge canta la sua parte”.
Fuoco amico è un romanzo profondo, scorrevole nella prosa e accattivante nello snodarsi di una trama che, seppur priva di colpi di scena, esplora gli aspetti più reconditi dell’animo umano affrontando altresì tematiche di notevole spessore: la delusione e l’incertezza per il futuro del paese, la religione, la politica, la stanchezza per un conflitto del quale non si intravvede una soluzione. Su tutto emerge la famiglia, più o meno armoniosa, popolata di nonni, figli, nipoti, generi e nuore, imperfetta, fonte di soddisfazioni e pene, di timori e gioie: è un piccolo microcosmo quello che ritrae Yehoshua oltre che un fedele ritratto della complessa e variegata società israeliana, piena di contraddizioni ma pervasa da un’inesauribile voglia di vivere.

Giorgia Greco

Kotel (Muro del pianto) - Gerusalemme


Gli ayatollah sono considerati i più deleteri, ma Israele è al secondo posto. Gli Usa poco meglio del Nord Corea. Trionfa la vecchia Europa


L'Iran degli ayatollah e delle lapidazioni nella percezione globale, quanto di più vicino al male assoluto: un vero Paese canaglia per dirla con Bush. Ma attenzione perché al secondo posto in questa classifica bipartisan c'è Israele. Tallonato dal Pakistan e dal Nord Corea. La nazione più virtuosa? La Germania.Sorprese dei sondaggi. Questo offerto dalla Bbc ed èormai tradizionale World Service poll che dal 2005 indaga gli umori del mondo. Diciassettemila intervistati in 34 Paesi che hanno detto la loro analizzando gli ultimi tre mesi, dal 1 gennaio 2008 al 31 marzo, sovvertendo e a volte confermando le analisi degli esperti.


Gli Usa, ad esempio. I difensori della democrazia globale sono nella percezione di questo campione di cittadini del mondo poco meglio del regime familiar-comunista di Pyongyang e un po' peggio della Russia di Putin. In base alle rilevazioni a considerare positiva l’influenza degli Usa sarebbe il 35% degli intervistati contro il 31% di un anno fa. Certo c'è ancora un bel 47% che ritiene l’impatto americano sulla scena global totalmente negativo e alcuni di questi detrattori sono proprio i vicini di casa: i tre Paesi da cui arriva il giudizio più severo sugli yankee sono infatti Canada, Libano ed Egitto.Le elezioni plebiscitarie e un po' farsesche non hanno invece nuociuto all'ex impero sovietico. Anzi. La Russia mostra il maggiore incremento tra i commenti positivi, cresciuti dal 29 al 37 per cento in un anno.


Trionfa quello che fu, nella seconda guerra mondiale, l'impero del male: dopo la Germania, che inclusa nel sondaggio per la prima volta, il Paese incoronato dagli intervistati, con il 56% di giudizi positivi contro un 18% di bocciature, al secondo posto nella lista dei buoni c'è il Giappone, con il 56% di voti a favore e il 21% di contrari. Anche in questo caso a diffidare sono i Paesi contigui, in prima fila Cina e Corea del Sud. In quanto all'eroe negativo di questo sondaggio, l'Iran malvisto dal 54% degli intervistati, preoccupati soprattutto del suo programma nucleare. Israele va male ma migliora: non lo ama il 52% delle persone interpellate contro il 57% dello scorso anno.In tutto questo l'Unione europea, fra tante difficoltà e contraddizioni, regge bene: il 52% degli intervistati apprezza il suo operato, facendole guadagnare così un bel terzo posto nella classifica dei buoni. Dove curiosamente la Francia, che pure ne fa parte, mantiene, a conferma della sua "difference" un quarto posto autonomo. E la Cina? Tutto sommato bene: malgrado giocattoli velenosi, concorrenza commerciale e diritti umani approssimativi piace al 47%. Più dell'India ferma al 42% malgrado il suo status di democrazia e l'eredità Gandhiana.


La Stampa 3 aprile di Carla Reschia

«E verrà un diluvio che la travolgerà» di Amos Oz

Rachel ha colto, o forse solo indovinato, l'alternanza di alta e bassa marea. Affonda il viso nell'incavo della sua spalla e dice con una voce più intima che mai: dimmi, sei davvero qui? Mi vuoi convincere che non sto sognando?Vuoi perché aveva l'impressione che tutto ciò fosse soltanto un sogno, vuoi semplicemente perché non l'ha fermato quando le ha tirato fin sopra i fianchi la camicia da notte. Non solo non gliel'ha impedito, anzi, gli ha tenuto la mano e l'ha guidata a muoversi su di lei, mano nella mano, passando alla consistenza di un altro tessuto, setoso e sottile molto più di quello della camicia, un tessuto caldo che al contatto con le dita di lui tradiva piegoline e nicchie umide tali da ridare a lui il vigore, ora sì che non ha più bisogno del povero Yuval e nemmeno della cameriera Riki con il ricordo delle linee accennate sotto la gonna.
E così nel giro di un istante il suo desiderio monta e arriva al punto in cui l'impulso di godere sino all'apice viene respinto e cede il passo a un ritmo fisico teso, un ritmo pieno di generosità sessuale, ansioso di elargire a lei sempre più appagamento, e di ritardare per contro l'appagamento della propria stessa sete, saggiando i modi per farla sempre più godere, tanto da non sopportarlo più. Pertanto, con il timone dell'abnegazione si dà ora a pilotare il carico dei suoi desideri con delle dita ora esperte, financo ispirate, sino al porto d'approdo, interiore, all'ancoraggio più profondo, al cuore del desiderio.
Con un ritmo infinitamente sottile, come un sonar capace di sentire i rumori profondi, inafferrabili all'orecchio, ora coglie il flusso dei mormorii che risalgono dalle profondità di lei via via che continua a farla godere, captando e inventariando senza rendersene conto le sottilissime sfumature di differenza fra un mugolio e l'altro, assorbendo con la pelle e non con le orecchie le minuscole oscillazioni nel ritmo del respiro, contenendo le onde di fremito sulla pelle di lei, come se fosse diventato un sofisticato sismografo che registra e pure traduce il codice reattivo del corpo di lei, e poi investe tutti i dati raccolti nel tenere una rotta precisa capace di prevedere e aggirare prudentemente ogni banco di sabbia, evitare ogni secca, respingere ogni ombra di sfregamento a parte quello lento che va e viene va e gira e torna e passa e fa tremare tutto il suo corpo. Intanto il suo mugolio è diventato una serie di piccoli gemiti imploranti e sospiri e strilla acute di sorpresa, mentre le labbra di lui scoprono improvvisamente che ha le guance piene di lacrime.
Ogni suono, ogni respiro e tremito, ogni onda passata sulla sua pelle ha aiutato le sue dita a guidare la rotta di lei, con destrezza, dentro, all'approdo di casa.Ecco che man mano che montano le ondate di piacere anche l'orgoglio di lui le segue e così meglio rimandare ancora la propria di soddisfazione, trattenerla finché non avrà attinto da lei tutto l'arcobaleno del piacere, finché i suoi gemiti avranno smesso di essere controllati, finché non verrà un diluvio che la travolgerà come una barchetta di carta in una cascata (e tuttavia malgrado questi elevati propositi, tuttavia di tanto in tanto questo capitano così votato al proprio ruolo ruba lesti anticipi di piacere sfregando il proprio corpo teso, sfregandolo con un moto lento e profondo sul fianco della sua coscia, un ritmo che sazia e affama al tempo stesso, e subito dopo torna al compito che si è assunto, con impegno e presenza di spirito).
E così, come un pianista che è tutto punta delle dita sopra i tasti, non ricorda nemmeno più che solo qualche ora prima quel timido scoiattolo gli era sembrato carino, bello a modo suo ma certo non attraente. Adesso le sue mani sono ansiose di scoprirle il seno sotto la camicia, il suo seno da dodicenne, e lei questa volta non lo ferma più, avvinta com'è tutta dal piacere, e quando finalmente lui le afferra i boccioli si riempie di amorevolezza e desiderio, porta la lingua sui capezzoli e li stringe uno alla volta fra le labbra e li circuisce con la lingua uno dopo l'altro, mentre le dita tornano a titillarle le labbra della vulva e i petali della corolla intorno alla ciliegina che è piena e turgida e par quasi un terzo capezzolo. Dopo le dita, scendono anche labbra e lingua. Lei, come una bambina, si ficca improvvisamente il pollice profondo in bocca e comincia a succhiare forte, schioccando, poi la schiena tutta si alza e s'inarca come una corda d'arco teso e dopo ancora un momento, ora che il dorso torna contro il materasso, come dal fondale del suo pozzo sgorga uno strillo lungo e morbido, uno strillo che esprime non solo piacere ma anche stupore, meraviglia, come se mai in tutta la sua vita fosse approdata a quel molo così addentro di lei, e come se nemmeno nelle sue fantasie più sfrenate avesse mai immaginato che cosa l'aspettava, laggiù, a quell'approdo.Con ciò, lei si dà improvvisamente a piangere forte, e gli dice: Guarda. Sto piangendo. Ed è un pianto infantile che l'induce ad affondare nella spalla di lui il suo faccino da roditore e bisbigliare, scusa, è solo che mi vergogno con te.Poi prende ad accarezzarlo sulle guance e sulla fronte, carezze lunghe e lente, smettendo a poco a poco di piangere. È calma. Dopo due o tre secondi, però, si siede sul letto e si toglie, le mani sopra il capo e la faccia che si cela per un momento, si sfila la camicia da notte che le è rimasta sino a ora avvoltolata addosso come una spirale intorno ai fianchi, dopo che era stata respinta dal basso e dall'alto. Poi dice: Ora non m'importa che mi guardi. Torna distesa supina, aperta e ansiosa di lui. Ma lui le rimane accanto, in posizione fetale, per nasconderle la ritirata avvenuta di nuovo tutt'a un tratto dopo che lei ha goduto e si è rilassata. Al momento lui teme che questa situazione la offenda, o forse la faccia sentire in colpa.

Lei invece prende quel coraggio di cui non immaginava d'essere capace, sorprendendo se stessa e lui col bagnarsi le dita e spedire timidamente una mano al suo membro, cominciando ad accarezzarlo con un tocco umido che non ha mai osato usare né con il suo primo ragazzo in gioventù, dodici anni prima, e nemmeno con il tizio sposato, sei anni e mezzo fa.Quelle carezze le dicono quel che già supponeva, ma non si mortifica anzi quasi al contrario, viene travolta da un'onda di affetto magnanimo e di materna pietà per l'imbarazzo di lui, pietà per le ansie e la vergogna di lui chissà mai che cosa penserà lei ora, ansia e vergogna che ora di sicuro lo atterriscono.
Contemporaneamente, si risveglia in lei anche un istinto di femmina accompagnato da un senso del dovere, il dovere improrogabile di aiutarlo, e così supera l'imbarazzo, si lecca le dita e le pone intorno al suo membro molle, ci passa sopra, tutt'intorno, gesti esitanti e inesperti e tuttavia pieni di devozione, trasporto e bontà e stillanti mirra. Con tutte e cinque le dita ora piene di ambizione, glielo fa, con puntiglio, sempre più, non proprio che sappia come ma ce la mette tutta per farlo nel modo giusto, e poi anche con le labbra, con la lingua vellutata, con costanza, come una brava scolaretta, finché in lui non tornano i primi spasmi che annunciano la rimonta.

Corriere della sera 2 aprile 2008

Gerusalemme


«E verrà un diluvio che la travolgerà» Amos Oz, la più lunga notte d'amore - L'eros e la scrittura tutto in otto ore: la vita a Tel Aviv

GERUSALEMME ‹ Amos Oz si siede alla scrivania ogni mattina alle 5.30 e lavora fino a mezzogiorno. Le pagine possono restare bianche, lavorare non vuol dire riempirle.«Con il tempo, ho sviluppato un mantra. Sono come un commerciante: apro il negozio e aspetto i clienti. Se vengono è una buona giornata; altrimenti, sto comunque facendo il mio dovere, seduto ad aspettare».Negli anni le parole sono arrivate, clienti fedeli che ne portano di nuovi. La vita fa rima con la morte è il libro numero 31 di Oz.


Un romanzo che lui stesso ha definito «insolito, non so come verrà accettato dal pubblico». «È sul processo della scrittura ‹ spiega al quotidiano israeliano Haaretz ‹ ed è possibile che i lettori vogliano il piatto preparato, senza essere invitati in cucina». Racconta otto ore in una notte di Tel Aviv e si sviluppa nella cucina-mente dello scrittore protagonista, un quarantenne due volte divorziato. Ha raggiunto la notorietà, ma continua a guadagnarsi da vivere come socio in un ufficio di contabilità. Oltre dieci pagine sono dedicate al suo incontro con Rachel Reznik, conosciuta a una lettura pubblica. «È la scena intima più lunga che io abbia mai scritto, la descrizione sessuale più dettagliata che si possa trovare nei miei libri. Microscopica.Volevo essere preciso. Precisione è stata la mia parola chiave».Carne e carni. «Ma non è una macelleria», precisa. Lo scrittore vive da 21 anni ad Arad, nel deserto del Negev. Il suo studio è un garage convertito, dalla finestra si vedono gli alberi di limone e i cipressi nel giardino.


Alle pareti, migliaia di libri. «Posso dire ‹ racconta, sempre ad Haaretz ‹ dove si trova ogni titolo.Non per niente, sono il figlio di un bibliotecario e il marito di un'archivista». Nei fine settimana, si sposta a Tel Aviv, dove possiede un appartamento, per stare vicino ai nipotini. «Anche se vi ho ambientato pochissimi romanzi, è una città che amo. Amo la sua vitalità e il modo in cui è presa da se stessa, come una ragazzina». Oz non usa Internet, non ha l'e-mail. «Non sono collegato. Mi piace parlare con degli sconosciuti nei caffè o per strada, non la comunicazione astratta sul Web. Per il resto, preferisco essere circondato dai libri e vivere con i miei libri».Ricorda di essere nato così: «Fin da quando avevo cinque o sei anni, inventavo piccole storie nella mia testa e le raccontavo ad altri bambini. Era il mio modo di fare colpo sulle ragazze. E forse ancora lo è».


CORRIERE della SERA del 2 aprile 2008 di Davide Frattini


Nella rubrica "L'angolo della lettura" un'anticipazione del libro

Gerusalemme

L’Associazione Trevigiana Italia-Israele esprime la solidarietà a Israele,
le cui manifestazioni culturali sono sotto attacco
tramite un boicottaggio che ricorda quello nazista antisemita del 1938.

Allora finirono bruciati prima milioni di libri poi milioni di Persone.

NON LO PERMETTEREMO MAI PIU’

e per questo oggi non permettiamo ai “cattivi maestri” di seminare odio
così come sta accadendo alle Fiere del Libro di Torino e di Parigi dove è in atto un boicottaggio
contro la cultura israeliana solo perché israeliana.
Essendo poi Israele un Paese libero e democratico (l’unico del Medio oriente peraltro)
gli scrittori israeliani sono assolutamente liberi di criticare lo Stato e il Governo pertanto
questo boicottaggio non ha assolutamente alcun alibi e si qualifica come un atto
contro la Libertà, la Cultura, la Libertà di manifestazione del Pensiero.
Essendo rivolto stranamente contro l’unico Stato dove “sporco ebreo” è l’ebreo che non si lava
tale boicottaggio suscita la più vibrante indignazione e la più forte condanna.

Facciamo appello

a tutta la Società civile
di isolare e muoversi contro i fautori del boicottaggio
con tutti i mezzi che la difesa della Cultura e della Libertà
richiede e suggerisce, ricordando il forte ammonimento di Primo Levi

“Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

O VI SI SFACCIA LA CASA
LA MALATTIA VI IMPEDISCA,
I VOSTRI NATI TORCANO IL VISO DA VOI”

mercoledì 2 aprile 2008

Università di Gerusalemme

E’ passato un mese dal nostro ritorno a casa - Parma 2 aprile 2008


riordino le foto del mio primo viaggio in Israele e mi rendo conto di quanto le mie aspettative al riguardo fossero alte e di come quel che ho visto e vissuto sia stato veramente alla loro altezza.
Era il mio primo viaggio ma ho vissuto la strana sensazione (non poi così strana a dire la verità) di esserci già stata.
50 anni di letture su Israele, dai saggi alle testimonianze e alla narrativa ,di visioni di film e documentari, di ascolto di musica klezmer, hanno sviluppato in me una sensibilità molto “ ebraica” , comunque un amore forte . E’ per questo che quando anche a casa o fra amici parlo di Israele devo premettere di essere forse un po’ parziale come ogni volta che si parla di qualcuno o qualcosa che si ama molto.


Ma ciò nonostante parlando di Israele non posso non pensare all’altro popolo che gli vive così vicino e il cui destino è così inestricabilmente unito al suo. La mia emozione più grande è stata essere nella Sala dell’indipendenza, ascoltare la voce di Ben Gurion che proclamava la nascita dello Stato, e dopo le parole della guida ( albanese se non ricordo male) che ci ha parlato della speranza di pace del suo popolo, ma anche della pietà per le madri palestinesi e per il loro dolore così simile al dolore di tante madri israeliane.
Pochi giorni dopo a casa ho assistito ad una conferenza per l’8 marzo fatta da una musulmana italiana che ha parlato di donne nell’Islam e il discorso è ovviamente scivolato su Gaza e sulle madri e figli palestinesi…..Le ho parlato del mio viaggio, delle donne israeliane, del loro amore per la vita e di quanto avevo visto e ascoltato. In un discorso fra donne tutto questo è stato possibile, doloroso ma comprensibile ,assolutamente umano .


Ecco cosa ho portato a casa da Israele oltre alla bellezza dei luoghi, alla bravura di Angela e alla simpatica ed efficiente presenza della nostra “emerita” Chicca: immagini di persone, , testimonianze , racconti, le immagini dello Yad Vashem ma anche dei soldati della base e dei loro racconti, della famiglia che mi ha ospitato per la cena dello shabbat, e dei volontari di Zaka……E mi viene in mente anche Yosh Amishav con il quale l’ultima sera mi sono sentita in profonda sintonia umana e politica e col quale sarei rimasta a parlare a lungo se solo ci fosse stato più tempo.
Ma forse nel prossimo viaggio……
Ciao a tutti i compagni di viaggio da


Laura

Casa Presidente Weizmann - Rehovot

Debora

di Esther Singer Kreitman

Traduzione di Lorenza Lanza e Patrizia Vicentini
Baldini Castoldi Dalai € 17,50

“Mia sorella aveva molto talento e ha scritto alcuni romanzi niente male”.
Queste parole di Isaac Bashevis Singer, Premio Nobel nel 1978 per la Letteratura, trovano conferma nello struggente romanzo autobiografico di Esther Singer Kreitman, sorella maggiore di Isaac e Israel, pubblicato dalla Casa editrice Baldini Castoldi Dalai con il titolo “Debora”.

Siamo agli inizi del Novecento, nel villaggio di Zelechòw, “un piccolo gruppo di casette e capanne di legno al limitare delle pinete polacche”; durante lo shabbat Debora ascoltando le lodi che i genitori rivolgono al fratello Mikhl “……..un giorno sarà un brillante talmudista”, trova il coraggio di chiedere al rabbino suo padre: “Padre, ed io che cosa sarò un giorno?”
“Che cosa sarai tu un giorno? Niente, è ovvio”.
Una scena amara che si svolge in una famiglia di ebrei ortodossi che vivono in uno shtetl e che delinea la condizione femminile nel mondo ebraico tradizionale, quando l’unico destino concepibile per una donna era il matrimonio.
Se nella prima parte del romanzo lo sguardo dell’autrice si concentra sul villaggio di Zelechòw, sulla famiglia di Debora, la madre Reyzele, “malaticcia e debole”, il padre Rev Avrom Ber “di solito miope e disattento a quanto accadeva attorno a sé, il fratello Mikhl che veniva cresciuto affinchè dedicasse la sua vita allo studio del Talmud, nella seconda parte l’attenzione si sposta sulla figura di Debora che pian piano emerge come protagonista, acquisendo una propria individualità.

Una presa di coscienza che trova nuova linfa nel fermento della vita ebraica di Varsavia dove “le vetrine dei negozi erano un incendio di luce dorata riflessa” e si rafforza grazie all’incontro con Shimen, giovane dalle idee rivoluzionarie del quale si innamora senza sapere di essere ricambiata.
Ma il destino di Debora, donna dal carattere indomito, determinata a voler essere protagonista della sua esistenza, è segnato dalle decisioni che la famiglia prende, a dispetto della sua volontà, dandola in moglie al figlio di un rabbino che vive ad Anversa.
Un destino amaro fatto di umiliazioni, miseria, fame e squallore attende la giovane Debora come emerge dolorosamente dalle ultime pagine, grottesche e allucinate, del romanzo che paiono anticipare la tragedia della Shoah.
E’ una prova narrativa di notevole spessore quella che ci regala Esther Singer Kreitman: è il racconto, senza abbellimenti, della durissima condizione femminile nel mondo tradizionale ebraico, dell’amara sottomissione della donna all’uomo, del conflitto fra genitori e figli ma anche dell’indomita volontà di ribellione che germoglia nell’animo della donna e che ha portato la stessa Esther a perseguire con ostinazione il traguardo della scrittura, facendone una delle figure più importanti del panorama letterario femminile yiddish.

Debora non è solo la storia di una ribellione contro un ambiente familiare e sociale arido e insensibile, intessuto di maschilismo, ma è anche un affresco magistrale dei luoghi e dei personaggi che caratterizzano la letteratura yiddish; un libro narrato con un linguaggio tanto brillante quanto incisivo che resistendo alla tentazione del melodrammatico sa toccare le corde più nascoste dell’animo umano.

Giorgia Greco

...nel giardino della residenza Weizmann - Rehovot

Sonderkommando Auschwitz

di Shlomo Venezia

Rizzoli € 17,50

“Noi, nel Sonderkommando, abbiamo probabilmente avuto delle condizioni di sopravvivenza quotidiana migliori, abbiamo avuto meno freddo, più da mangiare, ma abbiamo visto il peggio. Ci eravamo dentro tutto il giorno….eravamo nel cuore dell’inferno”.
E’ l’inferno di Auschwitz-Birkenau, il campo di sterminio dove Shlomo Venezia ebreo italiano, arrestato ad Atene verso la fine di marzo del 1944 fu deportato e assegnato all’unità detta Sonderkommando.
Il Sonderkommando, la squadra speciale di detenuti ebrei obbligati a lavorare nelle camere a gas e nei crematori di Auschwitz, ha in questo ebreo nato a Salonicco nel 1923 uno fra i testimoni più incisivi.
Il libro che nasce da una lunga intervista di Béatrice Prasquier a Shlomo Venezia, pubblicata per la prima volta in Francia nel gennaio 2007, rappresenta un documento eccezionale che racconta il cuore della terribile esperienza dello sterminio degli ebrei all’interno dei lager nazisti, destinati a distruggere l’intero popolo ebraico dell’Europa.

Dopo quarantasette anni dalla liberazione, Shlomo diventa un testimone; nel 1992 si reca per la prima volta ad Auschwitz dalla fine della guerra, poi negli anni successivi vi ritornerà accompagnando le scuole. La sua è una testimonianza preziosa per le nuove generazioni, una denuncia degli orrori della guerra oltre che un grido di speranza affinchè una simile infamia non abbia più a ripetersi.
Ma scegliere di raccontare si rivela una prova dura, una sfida dolorosa “testimoniare rappresenta un enorme sacrificio, riporta in vita una sofferenza lancinante che non mi lascia mai….appena provo un po’ di gioia, qualche cosa mi si blocca dentro; la chiamano la malattia dei sopravvissuti”.

Sono pagine laceranti, dinanzi alle quale a volte è necessario interrompere la lettura, quelle che raccontano la ferocia dei nazisti che non si ferma neppure davanti ad una neonata di tre mesi trovata miracolosamente in vita nella camera a gas e uccisa subito dopo con un colpo di pistola, la sveglia dei detenuti la mattina presto con “urla e botte” per farli uscire più in fretta dalle baracche, gli appelli estenuanti al gelo e alla pioggia, la quotidiana lotta per la sopravvivenza dove anche i più elementari sentimenti di solidarietà sembrano banditi.
E’ con estrema precisione non disgiunta da un’intima compassione che Shlomo racconta lo “sporco lavoro” che i membri del Sonderkommando sono costretti a svolgere con la consapevolezza che, presto, anche loro sarebbero stati condotti a morire: accompagnare i deportati appena scesi dai treni alle camere a gas, aiutarli a svestirsi, tagliare i capelli ai cadaveri, estrarre i denti d’oro, occuparsi di trasportare nei forni i corpi delle vittime.
I disegni, contenuti nel libro, di David Olère, pittore nella Parigi degli anni Trenta e deportato da Drancy ad Auschwitz nel 1943, illustrano con intensità ed efficacia l’orrore indicibile vissuto quotidianamente dagli ebrei nei campi di sterminio.
L’obiettivo dei nazisti di distruggere i prigionieri sia nel corpo, sia nello spirito, di privarli della loro identità, di trasformarli in non-uomini non è riuscito con Shlomo Venezia.

Seppur segnato in modo indelebile da questa esperienza “Shlomo ha saputo uscire da questo incubo trasformando il suo dolore in una forza che ci trasmette affinchè noi possiamo difendere quell’innocenza e quella normalità che gli sono state strappate. La trasmette a noi ogni volta che, come con questo libro, ripercorre il suo cammino tra i campi di sangue” (W.V.)

Giorgia Greco

martedì 1 aprile 2008

Casa Presidente Weizmann - Rehovot

No. 400 - 11.1.08

60° anniversario dello Stato d’Israele – Il sionismo non è morto – Ayalim, i nuovi pionieri del 21° secolo

“La gente pensa che questo Paese sia stato fondato nel 1948, ma noi lo stiamo fondando ancora adesso”

Adatto dal sito dell’Agenzia Ebraica

Grazie al continuo sostegno del Keren Hayesod e dell’Agenzia Ebraica, l’associazione Ayalim sta provocando una rivoluzione sociale in Israele. Ispirata dal risoluto impegno delle generazioni che hanno fondato lo Stato d’Israele, Ayalim sta resuscitando lo spirito pionieristico su cui Israele si fonda. I suoi pionieri sono studenti universitari pieni di ideali che si stabiliscono nel nord e nel sud del Paese per rafforzare dall’interno queste regioni di priorità nazionale e in difficoltà.
Tramite Ayalim giovani studenti universitari provenienti da tutta Israele vivono in aree povere, città di periferia e centri storici, mettendosi volontariamente a disposizione delle comunità locali e lavorando per migliore la vita degli abitanti dei quartieri sotto i profili fisico, educativo e sociale. Nel deserto e in campagna gli studenti stanno letteralmente costruendo villaggi con le loro mani, trasformando luoghi brulli e sterili in centri pieni di vita attraverso la loro determinazione e il loro entusiasmo.
“Con il sostegno del Keren Hayesod e dell’ Agenzia Ebraica abbiamo costruito tre nuovi villaggi studenteschi”, racconta Dany Gliksberg, 28 anni, vice direttore e uno dei fondatori dell’Associazione Ayalim. “Uno ad Acri, uno nel kibbutz settentrionale di Neve Ur e il terzo nel centro storico di Dimona – e ne abbiamo ampliati altri quattro”.
Ayalim è stata chiamata così in menoria di due amici dei fondatori, Eyal e Yael Sorek, una giovane coppia uccisa a sangue freddo in un attacco terroristico durante il culmine della seconda Intifada. Fino a oggi Ayalim ha fondato 8 villaggi studenteschi nel Negev e in Galilea; un nono villaggio verrà costruito l’estate prossima nella città vecchia di Beersheva. “La gente pensa che questo Paese sia stato fondato nel 1948,ma noi lo stiamo fondando ancora adesso”, dice Dany.
Con 430 giovani che oggi vivono nei loro villaggi studenteschi, Ayalim sta facendo la differenza in Israele. “Quando abbiamo inaugurato la nostra organizzazione eravamo degli outsider”, ricorda Yuval Cohen, uno dei fondatori di Ayalim e direttore dei villaggi giovanili del nord. “Nessuno parlava dei valori del Sionismo. Ora è fiorito in qualcosa di bello e noi siamo in continua crescita. Ci sono molti giovani che vogliono fare qualcosa che abbia senso”.
“Sto costruendo il Negev. Sono dentro alla storia e questo è molto emozionante”, dice Adina Kruger, 23 anni, che sta studiando arte ed educazione presso l’università Ben Gurion University e vive Adiel primo villaggio studentesco costruito da Ayalim. Il villaggio è iniziato con due caravan nel mezzo del deserto su un terreno donato dall’Agenzia Ebraica.
Il mese scorso il presidente Shimon Peres lo ha visitato insieme a due grandi donatori del KH greco, Sylvia e Nissim Cofinas, che hanno messo a disposizione del villaggio un importantissimo contributo, fondando un nuovo campus residenziale per i suoi studenti. Alla cerimonia erano presenti anche l’amb. Avi Pazner, il presidente mondiale del Keren Hayesod e Zeev Bielski, presidente del Comitato Esecutivo dell’Agenzia Ebraica.
Gli studenti che si aggregano ad Ayalim ricevono una borsa di studio accademica, che ripagano dedicando 500 ore all’anno a servizi di volontariato nelle comunità limitrofe e guidando iniziative sociali di cruciale importanza, pensate per consolidare le comunità locali e attuare un cambiamento reale dall’interno. Un anno e mezzo fa, quando è stato fondato un villaggio studentesco nella città settentrionale di Kiryat Shmona, i suoi studenti hanno aperto un club per i ragazzi del posto in una delle strade più degradate da droga, crimine e violenza. “Alcuni mesi fa abbiamo ricevuto una lettera dalla polizia che diceva che la situazione era migliorata a tal punto che non avevano più bisogno di fare ogni ora la ronda”, racconta Dany.
Inizialmente Ayalim pensava di costruire i suoi villaggi studenteschi solo nel Negev, ma nell’estate del 2006 Dany e gli altri fondatori di Ayalim sono stati richiamati per prestare servizio nella seconda guerra del Libano, ed è cambiato tutto. “Abbiamo attraversato Kiryat Shmona più di una volta e abbiamo visto quanto disperata era la situazione. Abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa. Un minuto dopo essere stati congedati abbiamo iniziato a costruire un villaggio studentesco urbano”, ricorda Dany.
Dopo la seconda guerra del Libano, come parte del suo continuo impegno volto al risanamento del Nord e delle comunità al confine con Gaza, l’Agenzia Ebraica, col sostegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche statunitensi, del Keren Hayesod e delle federazioni AUI del Canada, ha donato ad Ayalim 3 milioni di dollari. Il denaro è stato usato per costruire villaggi nelle città settentrionali di Kiryat Shmona, Hatzor e Acri. Questo è il primo villaggio Ayalim aperto a studenti arabi.
Inoltre, il finanziamento ha coperto le borse di studio degli studenti e permesso la costruzione di un villaggio studentesco anche a Yachini, un insediamento rurale al confine con Gaza, che ha sofferto moltissimo a causa del continuo bombardamento di razzi Kassam lanciati da oltre confine.
“Il nostro obiettivo è di arrivare a 10 villaggi studenteschi con 1.000 studenti che lavoreranno ogni settimana con circa 20.000 giovani”, dice Dany. Con 10 domande per ogni posto disponibile Ayalim è sulla buona strada per raggiungere il suo obiettivo. Ma questo non si riduce a portare studenti nelle zone sottosviluppate del Negev e della Galilea. L’idea è che questi studenti si stabiliscano definitivamente nel Nord e nel Sud, costruiscano l’economia e intreccino un tessuto sociale che ispirerà altri Israeliani a seguire il loro esempio.
A questo scopo l’anno scorso Ayalim ha inaugurato due nuovi programmi centrati sullo spirito imprenditoriale e le opportunità d’impiego. Coloro che sono interessati ad aprire una piccola impresa frequentano un corso di un anno per acquisire le nozioni base dell’imprenditoria e vengono anche affiancati da un mentore che li aiuta a definire i piani economici e strategici. Con l’assistenza dell’Agenzia Ebraica, Ayalim ha stabilito un fondo d’investimento per sostenere queste nuove idee imprenditoriali. Ayalim ha anche realizzato un programma di collocamento dove i datori di lavoro locali ricevono incentivi per assumere gli studenti dell’ultimo anno con un orario part-time a condizione che una volta laureati li assumano a tempo pieno.
“Quando entri a far parte di un villaggio studentesco è molto difficile tornare a Tel Aviv”, dice Dany. “Fino ad oggi l’85% dei nostri laureati ha scelto di rimanere nel Negev e in Galilea. Ma dobbiamo tornare su questi dati tra 10 anni. È ora il momento di investire sui giovani. Li aiutiamo a trovare un lavoro e un posto dove vivere, ma l’interrogativo è se è possibile rimanere in queste zone dopo alcuni anni. Noi siamo convinti di sì”.




















No. 401 - 18.1.08
La famiglia Mizrachi: da Salonicco a Gerusalemme, passando per la Colombia
Una famiglia colombiana originaria di Salonicco, composta da circa 130 persone, ma molto unita, è felice nella sua nuova Patria. Un sogno che è diventato realtà.
di Julio Bircz

pubblicato da PIEDRA LIBRE: edizione € 26
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Il nome “Mizrahi” significa “una persona che viene dall’Est” – ma secondo Rosita, la matriarca del clan israeliano, ha anche un altro significato: “il sole dall’Est”. Rosita è uno degli oltre 130 membri della famiglia Mizrahi che sono partiti da Santa Marta, in Colombia e si sono stabiliti in Israele. Oggi Mizrahi colombiani di ogni età vivono sparsi in tutto Israele, dal centro del Paese fino ad Eilat. Si conoscono bene tutti e si tengono in stretto contatto, riunendosi spesso per celebrare eventi o ricorrenze di famiglia.
Jenny, una Mizrahi di terza generazione, racconta la storia dei suoi nonni e dei suoi genitori e cerca di ricordare tutti i nomi che compaiono nell’albero genealogico della famiglia, ma invano. “Sfortunatamente, - dice - ad un certo punto la famiglia si è ingrandita così velocemente che io non posso più ricordare tutti i nomi e sto addirittura iniziando a dimenticare i nomi dei membri più anziani”, ammette con un sorriso. “Posso segnalare i nomi di alcuni cugini che possono raccontare le loro esperienze, o forse posso indicare i miei genitori, o uno zio. Tuttavia l’esperta è zia Rosita. Lei conosce tutti i nomi, anche dei neonati, sa tutto sulle nostre origini a Salonicco, sull’espansione della famiglia a Santa Marta, su quelli che sono immigrati in Israele e su quelli che sono rimasti indietro; sa anche che lavoro fa ciascuno. È lei l’archivista ufficiale della famiglia Mizrahi.
E così ci siamo rivolti a Rosita, la storica della famiglia. “I Mizrahi hanno iniziato ad immigrare in Israele quattro anni fa. Era il sogno della mia vita, che ho spesso temuto che non si sarebbe mai realizzato. Sto parlando del primo gruppo di 23 persone che è partito in avanscoperta per conto della famiglia. Loro sono diventati la testa di ponte di tutto il movimento e sono riusciti a convincere anche i più scettici. Da quel momento ogni membro della famiglia Mizrahi ha iniziato a fare le valigie e a trasferirsi in Israele, a gruppi, uno dopo l’altro. L’unica eccezione alla regola è stato Machi, che è stato l’unico ad arrivare da solo e poi a ritornare a Santa Marta. Tutti gli altri si sono stabiliti tra Tel Aviv ed Eilat, dove la maggior parte di loro ancora vive”.
Rosita racconta tutte le sue storie con un sorriso e con una grazia tutta colombiana. La conversazione con Rosita scorre veloce e noi le chiediamo di parlarci della sua vita nella comunità di Santa Marta e dintorni. Immediatamente si lancia in una girandola di storie. “Sono la figlia di Samuel Vitali Mizrahi, il patriarca della dinastia di Santa Marta, che era immigrato da Salonicco e aveva sposato una profuga della guerra civile spagnola (nata Espinoza, una famiglia di origini marrane). Mio padre era cieco e ha fondato un’istituzione per ciechi che opera negli Stati Uniti e in Colombia, naturalmente. I miei genitori hanno avuto 13 figli - Israel, Alberto, Corina, José e io, che viviamo tutti in Israele, Isaac, Sara, Salvador, León, Reina, Vitali, María e David, che sono ancora a Santa Marta. Io ho 65 anni e il mio lavoro è quello di preservare la storia della famiglia e i suoi legami. Mi viene naturale perché le mie radici sono importanti e ho a cuore i miei cari”. Continua a descrivere gli eventi della saga famigliare: i 13 figli di Samuel Vitali hanno prodotto 43 nipoti, ma è difficile tenere sotto controllo il numero dei bis-nipoti, perché la famiglia si è dispersa in tutte le direzioni.
Già sei bis-nipoti sono nati in Israele e altri quattro sono in arrivo. Vorrei sottolineare che ci sono Mizrahi in Uruguay e a Cuba, e che anche loro sono parte della nostra famiglia”.
Brit Mila di un nuovo piccolo Mizrahi in Israel
Una riunione quotidiana di giovani Mizrahi
Juan, il primo membro della famiglia ad arruolarsi nello Tzahal per “proteggere i diritti del nostro Popolo”, è motivo di grande orgoglio per la sua famiglia, così come Rifka, una dei pionieri della famiglia in Israele, che vive a Beer Sheva e sta aspettando il quarto figlio. Rosita ricorda anche Salvador, “che vive a Ramle e che è appena diventato il papà di un bellissimo bambino” e Rosemary (l’abbiamo trovata che rincorreva il suo bimbo) che è sposata con un israeliano e vive a Natania. Un’altra Mizrahi che ha contribuito ad accrescere il tasso di natalità israeliano è Corina, “madre di sette figli”.
Riunire tutto il clan per una foto di gruppo è una missione impossibile. I loro impegni di lavoro fanno sì che risulti praticamente impossibile trovare un giorno libero che vada bene per tutti. Le madri sono impegnate con i bambini e le distanze non facilitano le cose. Vengono da Natania, Tel Aviv, Ramle, Beer Sheva, i kibbutz e i moshav sparsi in tutto il Paese, Raanana, Gerusalemme, e da una varietà di altri luoghi giù in fondo fino ad Eilat, dove vive la maggior parte della famiglia.
Abbiamo chiesto loro di raccontarci come si vive da ebrei a Santa Marta. “Ogni settimana andavamo fino Barranquilla, a 45 km di distanza, per frequentare la sinagoga. I nostri genitori ci hanno sempre parlato delle nostre radici e solo negli ultimi anni i matrimoni misti sono diventati più comuni. In America Latina la minaccia dell’assimilazione si nasconde dietro ad ogni angolo”.
- Come mai avete iniziato ad immigrare in Israele tutti insieme solo di recente?
“Per una serie di ragioni diverse”, risponde Jenny Mizrahi. “Per molti di noi Israele era un sogno e siamo cresciuti senza poterlo realizzare, per diversi motivi. Abbiamo dovuto convincere tutti perché in Colombia siamo sempre stati una famiglia molto unita e abbiamo sempre voluto che tutta la famiglia insieme convenisse che questo è il Paese a cui apparteniamo. Ma problemi di lavoro, legami sociali, figli, scuola e gli interessi personali di ciascuno di noi rendevano impossibile l’organizzazione di un’immigrazione di massa dell’intero clan. Alla fine gli anziani hanno preso l’iniziativa e poco a poco hanno ridotto le loro attività, venduto le proprietà e organizzato tutto dalla A alla Z. Hanno iniziato ad arrivare in Israele per convincere coloro che erano rimasti indietro e che erano ancora indecisi”.
- La situazione economica ha costituito un fattore determinante?
“No, niente affatto. Il nostro passato in Colombia era tranquillo, senza problemi. Lavoravamo tutti e non avevamo problemi economici. Naturalmente alcuni avevano più di altri, ma a nessuno mancava nulla. Mio padre – ha aggiunto Jenny – aveva tre negozi che vendevano materiali da costruzioni, e uno aveva persino una gigantesca stella di David sul muro accanto all’entrata”. Rosita ci racconta che prima di venire in Israele lavorava nella scuola per ciechi fondata dal padre. Jose era un gioielliere di successo e ciascun membro della famiglia Mizrahi riusciva a mantenersi con la professione che aveva scelto. “Non abbiamo fatto l’aliyah per sfuggire alla crisi economica. Non avevamo bisogno di farlo”.
- Qual è stata la vostra prima impressione d’Israele? Che cosa vi piace qui e che cosa vi disturba in Israele?
“Israele è il luogo a cui apparteniamo. È il luogo a cui apparterranno i nostri figli e dove alla fine troveranno una sistemazione anche quelli che sono rimasti indietro e che stanno pensando di venire qui. Abbiamo tutti un lavoro: la nostra casa è qui, la nostra vita qui è più tranquilla e il futuro dei nostri figli è assicurato. La vita qui è diversa da com’era in Colombia. Siamo circondati dal nostro popolo e non abbiamo problemi di disoccupazione. L’unico problema, soprattutto per i membri più anziani della famiglia, è la lingua. Alcuni hanno difficoltà ad esprimersi, ma per tutti gli altri è la realizzazione del nostro sogno. Che cosa potremmo chiedere di più?”
Il nostro consiglio per voi che ci leggete è che se incontrate qualcuno che parla con un tipico accento colombiano (“Ma attenzione: non da ogni parte della Colombia. Noi siamo gente che viene da Santa Marta, dalla costa”, ci mettono in guardia con un grande sorriso) e vi dà la mano dicendo: “Mizrahi, piacere di conoscerla”, allora è molto probabile che vi siate imbattuti in un altro rampollo di una famiglia che ha iniziato il suo viaggio a Salonicco sotto la guida di Samuel Vitali Mizrahi, ha tenuto viva la brace dell’ebraismo (inclusa la frequenza della sinagoga) e ha realizzato e continua a realizzare il sogno di vivere nella Terra Promessa, dando il suo contributo e crescendo per creare un Israele ancora migliore, con un ricco aroma di caffè colombiano.