mercoledì 24 settembre 2008

lo shofar che si suona a rosh hashana


TRE DONNE NEL GIORNO DI ROSH HA SHANAH

La lettura della Torah, che si fa il primo giorno di Rosh ha-Shanah (capitolo 21 di Genesi), ha per protagoniste Sara ed Agar. L’haftarah dello stesso giorno, presa dall’inizio del primo libro di Samuele, ha per protagonista Anna, moglie di Elcana. Sono tre donne, tre madri, rispettivamente di Isacco, di Ismaele, di Samuele, ultimo e grande tra i Giudici.
Sara, che non ha creduto possibile avere un figlio all’età sua e del marito, ridendo all’annuncio dell’angelo, ha ottenuto quel che anelava, partorendo Isacco e riuscendo perfino ad allattarlo. Si festeggia, con un gran banchetto, il divezzamento del bimbo. Ismaele, il fratellastro grandicello, gioca, come fanno tutti i ragazzini: mezahek. Ma sulle valenze di significato di questo verbo gira la percezione di Sara: zahak vuol dire giocare e anche ridere e anche deridere. Vuol dire anche, per inciso, scherzare amorevolmente in abbraccio tra innamorati o tra coniugi, come farà Isacco con Rebecca, al capitolo 26 di Genesi.
Lei ha riso all’annuncio, poco verosimile, della propria maternità, e ora coglie, in contrappasso, nel gioco ridente del ragazzo una punta di irrisione al suo pupo, secondogenito, e alla sua così tardiva maternità. Le viene in mente il pericolo dell’insidia all’eredità di Isacco nel retaggio, nei beni, nella promessa della benedizione divina alla stirpe di Abramo e di lei, legittima moglie. Già prima di generare Isacco, allorché incinta era rimasta Agar, Sara aveva colto nel viso e nel fare di lei un’insolenza di serva più fortunata della padrona, e la aveva, a sua volta, trattata così duramente da indurla a fuggire (capitolo 16 di Genesi). Il messo del Signore aveva persuaso Agar a tornare, sottomettendosi a Sara. Ora non è Agar che fugge, ma Sara che chiede ad Abramo di cacciarla con il figlio, perché vuole, con imperiosa determinazione: Caccia questa schiava Non sia erede il figlio di questa schiava con il mio figlio Abramo ne soffre, nel paterno amore e nella paterna giustizia verso entrambi i figli, ma il Signore lo persuade ad ascoltare la moglie, per una univoca linea di principale discendenza nel futuro del casato e per la priorità di Isacco nel disegno provvidenziale circa il futuro del popolo e dei suoi valori, assicurandolo nel contempo che vigilerà su Ismaele e che da lui farà discendere un altro popolo dotato di futuro, perché anche Ismaele "è prole tua": Dunque Abramo fa uscire di casa Agar, dandole una provvista di cibo e di acqua, ma la provvista finisce presto nel triste cammino della donna col suo figlio per i sentieri del deserto.
Immaginate quale è stata la sua angoscia, finché la Provvidenza ha risolto la situazione, mantenendo in vita Ismaele e dandogli un vigoroso avvenire. Agar è una delle poche donne, e l’unica non ebrea, che ha goduto, nella narrazione della Torah, di una rivelazione divina.
L’angelo di Dio chiamò Agar: Alzati, tira su il ragazzo e sostienilo con forza Enzo Sereni, valida figura di ebreo del Novecento, l’eroico pioniere e combattente sionista, mise nobilmente nome Agar a sua figlia, nell’auspicio della comprensione e conciliazione ebraico-araba, tuttora così ardua. E quando Abramo muore, Isacco ed Ismaele lo seppelliscono insieme, da fratelli. Sara è matriarca di tutto rispetto, grande prima madre di Israele, ma con senso critico oso pensare che il fraterno ritrovamento fu agevolato dal fatto che era morta prima di Abramo.
Veniamo all’ haftarah.
Anna si mette in cammino verso il luogo di culto di Shilò, dimora dell’Arca santa, con il marito Elcana e l’altra moglie, Penina, che procede indaffarata coi suoi marmocchi, mentre lei non ha potuto generare un bimbo. Il marito la amava, la preferiva, ma "Adonai sagar rahmah": Dio le aveva chiuso l’utero. Anna è triste, angustiata, derisa dalla rivale sotto lo stesso tetto, in una civiltà antica che giudica le donne soprattutto dalla fecondità. Ma il bravo, comprensivo Elcana, uomo e marito superiore al suo milieu, la ama lo stesso, anzi la ama di più, la conforta, le offre doppia porzione del cibo, in una società dove, con immediata concretezza, come dicono a Napoli, "L’ammure se vede a cusselle". Anna, figura patetica, piange e il marito, con stringente affetto, le chiede e le dice: "Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché si affligge il tuo cuore? Ma non sono io per te meglio di dieci figli?". La parola dello sposo e forse più la lunga camminata restituiscono ad Anna l’appetito, sicché, giunta a Shilò, fa un pasto abbondante. Rifocillata, va da sola alla soglia del tempio, dove, in quell’ora, stava solo, ieratico, sul suo seggio, in meditazione e orazione, il sacerdote Eli. Anna prega con l’impeto del suo cuore il Signore di concederle di avere un figlio maschio. Pronuncia un voto: se avrà una tale grazia , consacrerà il figlio al culto come permanente nazireo. Di solito i nazirei erano asceti per un tempo della loro vita, tornando poi a un’esistenza normale. Anna lo promette invece a vita, con una prepotente determinazione materna, che forse prevarica sul figlio non ancora nato, ma che lo predestina ad un ruolo speciale.
Il voto è chiarissimo, la determinazione è ferrea come quella di Sara, ma il sentimento frattanto straripa in strani movimenti delle labbra, in gesti confusi, emotivamente incontenibili, che richiamano l’attenzione del sacerdote, davvero non abituato a condividere la sacralità del tempio con una donna e per giunta così bizzarra. La prende per una ubriaca e la redarguisce con severo sdegno: "Fino a quando tracannerai? Vai a smaltire il tuo vino".
Anna, dolcemente rispettosa, comprende e si fa comprendere, esprimendo ora la piena del sentimento con parole decise e sensate: "No, mio signore, io sono una donna tribolata. Non ho bevuto vino né altra bevanda inebriante. Ho effuso l’anima mia davanti al Signore. Non considerare la tua serva perversa o invasata. L’eccesso del mio dolore e della mia angoscia mi ha fatto parlare fin adesso". L’austero uomo di religione non è curioso di sapere quale sia il motivo che travaglia la donna. Probabilmente lo ha capito. Comunque è convinto della sua buona fede e del suo giusto desiderio. La congeda con parole che possono suonare di semplice incoraggiamento o di rassicurante profezia: "Vai in pace e il Dio di Israele ti concederà ciò che tu gli hai chiesto". Per fortuna, Eli sapeva quel che diceva ed è stato profetico. Reduci dal pellegrinaggio, i coniugi si uniscono in atto di amore ed Anna resta incinta. Nella Bibbia ebraica la provvidenza divina agisce per far nascere un figlio desiderato, ma sempre, senza eccezioni, attraverso il congiungimento sessuale dei genitori, che è marcato nel testo:
"Elcana conobbe sua moglie e il Signore si ricordò di lei". Immagino il sorriso divino nel vederli abbracciati e la divina soddisfazione al primo sintomo della gravidanza.
Dopo nove mesi nasce un sano bambino, cui vien dato nome Samuele, Shmuel, Dio ha ascoltato. L’anno seguente Elcana torna al santuario, ma Anna decide di restare per non esporre il piccolo al rischio del viaggio. Le è troppo prezioso. Lo allatta, lo custodisce, lo guarda, lo protegge, lo fa crescere. Diventerà il gran giudice, guida del popolo, e quando il popolo chiederà un re, mettendolo in guardia dalle conseguenze della monarchia, lo contenterà, ungendo il Re.
Anna, madre felice, diviene un cantore, cantore donna, poetessa, in Israele, con il bel cantico, che si recita appunto a Rosh ha-Shanah: "Esulta il mio cuore nel Signore …. Si erge la mia fronte in grazia del Signore ….. Si apre la mia bocca ….. Non vi è santo come il Signore, né rocca eguale al nostro Dio …..L’arco degli eroi è infranto mentre i deboli vengono cinti di forza….Quella che era sterile partorisce per sette volte [pare che Anna ci prenda gusto] mentre la madre feconda resta desolata [ora Anna trionfalmente esagera]……. Il Signore fa morire e fa risorgere ……. Solleva il misero dalla polvere…… Al Signore appartengono le colonne della terra……Egli veglierà sui suoi devoti…..Giudicherà gli estremi confini della terra, darà vigore al suo re ed esalterà la potenza del suo unto".
SHANAH TOVAH, Bruno Di Porto

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