«Figlio mio, l’unico tuo impegno deve essere quello di salvare il popolo ebraico, che io vedo a rischio come mai nella storia recente» è stato, quella sera, il consiglio di papà Benzion facendo riecheggiare le stesse parole pronunciate il giorno del suo centesimo anniversario. Per il primo ministro la scelta è proprio questa: arroccarsi sulle colonie rischiando l’emarginazione internazionale o preparare la difesa strategica contro l’Iran stringendo patti di ferro con il maggior numero di nazioni al mondo? Più semplicemente: sopravvivere come leader o passare alla storia come statista?Sostiene il politologo americano Fareed Zakharia: «A Bibi piace paragonarsi a Winston Churchill per il suo monito al mondo sulla tempesta in arrivo. Ma lui dovrebbe ricordare che l’unica ossessione di Churchill alla fine degli anni Trenta era di rafforzare l’alleanza con gli Usa, a qualsiasi costo, concessione e compromesso».La verità è che Netanyahu è finito in rotta di collisione con Obama non capendo che l’America è cambiata. E anche il resto del mondo. Ha scommesso su un presidente tutto impegnato sulle questioni di politica interna ed è sbarcato a Washington il giorno dopo la storica vittoria congressuale con l’approvazione della legge di riforma della sanità, che ha galvanizzato ancor più Obama. Ha pensato di fare affidamento ancora una volta sulla potente lobby ebraica dell’Aipac e non si è accorto della sua perdita progressiva di peso a favore di altre organizzazioni (J Street e Israel Policy Forum) più liberal e composte da giovani ebrei che vogliono la pace e non nuovi insediamenti. Ma soprattutto non ha creduto fino in fondo alla svolta impressa dalla Casa Bianca alla politica mediorientale.
Se solo Netanyahu avesse prestato attenzione alle parole pronunciate dal generale David Petraeus, il supremo comandante americano dei teatri di guerra più caldi (dall’Afghanistan al Medio Oriente), forse sarebbe stato meno baldanzoso, com’è nel suo carattere. Testimoniando alla commissione Forze armate di Washington, Petraeus ha sostenuto che il conflitto fra israeliani e palestinesi continua a fomentare sentimenti anti Usa, coltivati da Al Qaeda, Hezbollah, Hamas e Iran per complicare la vita innanzitutto ai soldati americani nella regione. Il governo guidato da Netanyahu, che non sblocca il negoziato con i palestinesi, diventa «una zavorra strategica» per l’interesse nazionale americano.È una svolta, sì, che però va a fare il paio con un’altra svolta in Israele. Il presidente Shimon Peres lo ha ricordato poco prima dell’inizio della Pasqua ebraica partecipando al compleanno della figlia di Ytzhak Rabin, Dalia. «Tutti i governi israeliani, compresi quelli di Menachem Begin e di Yitzhak Shamir, hanno sempre accettato di non costruire nuove abitazioni nelle aree di Gerusalemme a maggioranza arabe. Potevano costruire solo in quelle ebraiche» ha detto Peres.Ora la parola finale spetta a Netanyahu. Obama vuole un riscontro scritto (e non più solo verbale, perché non si fida) alle 10 richieste fatte e lo pretende entro pochi giorni. Il cosiddetto Forum dei sette (i ministri più importanti della coalizione di governo) è spaccato: almeno quattro sono per rispondere picche a Washington e ricordano tutti i giorni a Netanyahu quali potrebbero essere le conseguenze di un cedimento alla pressione internazionale su Gerusalemme: la rottura della coalizione e probabilmente la fine della leadership del Likud con Benny Begin pronto a soppiantarlo. Altri tre ministri sono meno intransigenti. In particolare Barak, pressato dal suo partito perché si ritiri dalla coalizione aprendo le porte a una nuova maggioranza con i moderati di Kadima.Netanyahu è strattonato. C’è chi gli ricorda il suo passato di soldato coraggioso nei reparti speciali della famosa Sayeret Matcal. Chi invece punta a quello di diplomatico giovane e brillante a Washington. I suoi detrattori gli sbattono in faccia al contrario l’eccessiva emotività dimostrata da quando è entrato in politica e citano quell’impietoso giudizio di Ariel Sharon: «È un bambino viziato di Rehavia, nato con il cucchiaio d’argento in bocca», laddove per Rehavia si intende il quartiere chic di Gerusalemme dove Bibi ha sempre vissuto.Quel che è certo è che, dopo avere tanto meditato, ponderato i pro e i contro, interpellato intelligence e militari, chiamato a raccolta i suoi fedelissimi, alla fine l’unico che ascolterà sarà sempre papà Benzion, convocato di nuovo a cena prima della fatidica risposta a Washington.http://blog.panorama.it/, 6 aprile 2010
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