Penso - e certo non sono il solo - che la questione del rapporto tra ebraismo e cristianesimo sia essenziale per la storia delle idee: anche se non mi piace chi brandisce l’Occidente come arma ideologica so bene che c’è, eccome, una storia dell’Occidente con percorsi e snodi tutti suoi, tra i quali si colloca anche - in posizione abbastanza centrale - il rapporto tra le due religioni. Tra quanti se ne occupano si manifesta una seria divergenza di opinioni: da una parte si schierano coloro i quali ritengono che tra ebraismo e cristianesimo vi sia un solido trait d’union fondato sulla comune matrice biblica, così che si possa senz’altro parlare di una vera e propria tradizione giudaico-cristiana; dall’altra quanti, come me, nicchiano, e pensano invece che le due fedi abbiano, sul piano storico come su quello ideale, caratteri tali di diversità da non consentire un rapporto che non sia di buon vicinato, o di correttezza istituzionale. Non vi è dubbio che il mondo cristiano - forse per retaggio di un duro antisemitismo pagano, fomentato anche da imperatori che hanno pur lasciato un buon nome di sé, tipo Vespasiano o Traiano (vedi: Martin Goodman, Roma e Gerusalemme, Laterza ed.) - ha presto tenuto a distinguersi e via via anche ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti dei figli di David. Proprio ieri il cardinal Walter Kasper, autorevole collaboratore di Benedetto XVI, ha ricordato come “secoli di teologia cristiana anti-giudaica hanno contribuito alla Shoah favorendo lo sviluppo di un’avversione generalizzata agli ebrei che ha impedito alla resistenza dei cristiani verso l’antisemitismo razziale e ideologico del nazismo di raggiungere la dimensione e la chiarezza che si sarebbero potuti attendere”. Kasper avverte che la revisione di quell’atteggiamento ostile è giunta tardi, avendo “come tornante decisivo” addirittura il Vaticano II. D’altra parte il mondo ebraico fu sempre restio a farsi integrare e a perdere la propria identità, adattandosi alle imposizioni ma resistendo nelle sue fondamentali strutture religiose, culturali, linguistiche e comunque identitarie. Dove mi pare che la divergenza si approfondisca in modo irrecuperabile è nel rapporto che il mondo ebraico ebbe con la modernità, fin dal momento della sua costituzione ed affermazione: un rapporto assai diverso da quello della chiesa cattolica. Quale che sia il giudizio che si deve dare alla famosa iniziativa di Napoleone di convocare nel 1806 un sinedrio per regolare (o regolamentare?) il rapporto con gli ebrei francesi e italiani, la modernità seguita alla rivoluzione francese e all’illuminismo nasce avendo tra le sue fasce la stella di David. Un secolo dopo, a cavallo tra ottocento e novecento, assistiamo alla formidabile esplosione dell’intellettualità austriaca, negli anni in cui Vienna supera Parigi quanto a contributi alla formazione del paradigma della modernità. Bene, quel magico momento fu segnato da cervelli, menti, cuori di una borghesia ebraica sciolta dai ceppi dei ghetti e magari dei pogrom e libera di esprimere quella cultura che essa sempre privilegiava tra le attività degne dell’uomo. E va riconosciuto che i “viennesi” Freud e Schoenberg, forse più che il prussiano Nietzsche, hanno seminato e coltivato il fiore del nichilismo europeo. Lontano da Vienna, i Marx, Einstein o Wittgenstein, tutti di ceppo ebraico - ma potremmo elencare una infinità di altri nomi - ampliano a dismisura il portato ebraico alla formazione del mondo di oggi. Sarebbe interessante analizzare quanto debbano agli ebrei i concetti stessi di laicità e magari di laicismo, muovendo dalla Francia del capitano Dreyfus e dei vari Ferry e Combes. A me non piace la polemica virulenta contro la chiesa “reazionaria”. Sicuramente la chiesa fu, negli ultimi due secoli, “reazionaria” ma - credo si debba riconoscere - nel senso che reagì a una modernità che si allontanava da lei respingendola ai margini della storia e tentò di contrapporle una visione dello sviluppo sociale e culturale diversa, nella quale anche la chiesa avesse il suo posto. Ci fu il “Sillabo”, però il laicato cattolico della seconda metà del XIX secolo diede un contributo positivo alla crescita della società europea: oltre ai movimenti sociali che in Italia affiancarono dialetticamente quelli socialisti o comunque laici, va ricordato il Zentrum tedesco, nato per combattere il Kulturkampf di Bismarck ma sostenitore di Weimar contro il nascente nazismo. Concludendo: da una parte si ha una chiesa, un cattolicesimo, che elabora una sua risposta, modulata in modi e forme complesse, non sempre banalmente “reazionarie” ma certo in contrasto con la modernità avanzante, dall’altra una “intellighenzia” ebraica tesa alla definizione della modernità laica e del modernismo. Sono solo spunti approssimativi (e di questo mi scuso) ma forse non del tutto sballati e magari degni di approfondimento.da “Il Foglio”giovedì 10 giugno, di Angiolo Bandinelli
sabato 12 giugno 2010
Ancora Nabucco
L’ebraismo e la modernità
Penso - e certo non sono il solo - che la questione del rapporto tra ebraismo e cristianesimo sia essenziale per la storia delle idee: anche se non mi piace chi brandisce l’Occidente come arma ideologica so bene che c’è, eccome, una storia dell’Occidente con percorsi e snodi tutti suoi, tra i quali si colloca anche - in posizione abbastanza centrale - il rapporto tra le due religioni. Tra quanti se ne occupano si manifesta una seria divergenza di opinioni: da una parte si schierano coloro i quali ritengono che tra ebraismo e cristianesimo vi sia un solido trait d’union fondato sulla comune matrice biblica, così che si possa senz’altro parlare di una vera e propria tradizione giudaico-cristiana; dall’altra quanti, come me, nicchiano, e pensano invece che le due fedi abbiano, sul piano storico come su quello ideale, caratteri tali di diversità da non consentire un rapporto che non sia di buon vicinato, o di correttezza istituzionale. Non vi è dubbio che il mondo cristiano - forse per retaggio di un duro antisemitismo pagano, fomentato anche da imperatori che hanno pur lasciato un buon nome di sé, tipo Vespasiano o Traiano (vedi: Martin Goodman, Roma e Gerusalemme, Laterza ed.) - ha presto tenuto a distinguersi e via via anche ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti dei figli di David. Proprio ieri il cardinal Walter Kasper, autorevole collaboratore di Benedetto XVI, ha ricordato come “secoli di teologia cristiana anti-giudaica hanno contribuito alla Shoah favorendo lo sviluppo di un’avversione generalizzata agli ebrei che ha impedito alla resistenza dei cristiani verso l’antisemitismo razziale e ideologico del nazismo di raggiungere la dimensione e la chiarezza che si sarebbero potuti attendere”. Kasper avverte che la revisione di quell’atteggiamento ostile è giunta tardi, avendo “come tornante decisivo” addirittura il Vaticano II. D’altra parte il mondo ebraico fu sempre restio a farsi integrare e a perdere la propria identità, adattandosi alle imposizioni ma resistendo nelle sue fondamentali strutture religiose, culturali, linguistiche e comunque identitarie. Dove mi pare che la divergenza si approfondisca in modo irrecuperabile è nel rapporto che il mondo ebraico ebbe con la modernità, fin dal momento della sua costituzione ed affermazione: un rapporto assai diverso da quello della chiesa cattolica. Quale che sia il giudizio che si deve dare alla famosa iniziativa di Napoleone di convocare nel 1806 un sinedrio per regolare (o regolamentare?) il rapporto con gli ebrei francesi e italiani, la modernità seguita alla rivoluzione francese e all’illuminismo nasce avendo tra le sue fasce la stella di David. Un secolo dopo, a cavallo tra ottocento e novecento, assistiamo alla formidabile esplosione dell’intellettualità austriaca, negli anni in cui Vienna supera Parigi quanto a contributi alla formazione del paradigma della modernità. Bene, quel magico momento fu segnato da cervelli, menti, cuori di una borghesia ebraica sciolta dai ceppi dei ghetti e magari dei pogrom e libera di esprimere quella cultura che essa sempre privilegiava tra le attività degne dell’uomo. E va riconosciuto che i “viennesi” Freud e Schoenberg, forse più che il prussiano Nietzsche, hanno seminato e coltivato il fiore del nichilismo europeo. Lontano da Vienna, i Marx, Einstein o Wittgenstein, tutti di ceppo ebraico - ma potremmo elencare una infinità di altri nomi - ampliano a dismisura il portato ebraico alla formazione del mondo di oggi. Sarebbe interessante analizzare quanto debbano agli ebrei i concetti stessi di laicità e magari di laicismo, muovendo dalla Francia del capitano Dreyfus e dei vari Ferry e Combes. A me non piace la polemica virulenta contro la chiesa “reazionaria”. Sicuramente la chiesa fu, negli ultimi due secoli, “reazionaria” ma - credo si debba riconoscere - nel senso che reagì a una modernità che si allontanava da lei respingendola ai margini della storia e tentò di contrapporle una visione dello sviluppo sociale e culturale diversa, nella quale anche la chiesa avesse il suo posto. Ci fu il “Sillabo”, però il laicato cattolico della seconda metà del XIX secolo diede un contributo positivo alla crescita della società europea: oltre ai movimenti sociali che in Italia affiancarono dialetticamente quelli socialisti o comunque laici, va ricordato il Zentrum tedesco, nato per combattere il Kulturkampf di Bismarck ma sostenitore di Weimar contro il nascente nazismo. Concludendo: da una parte si ha una chiesa, un cattolicesimo, che elabora una sua risposta, modulata in modi e forme complesse, non sempre banalmente “reazionarie” ma certo in contrasto con la modernità avanzante, dall’altra una “intellighenzia” ebraica tesa alla definizione della modernità laica e del modernismo. Sono solo spunti approssimativi (e di questo mi scuso) ma forse non del tutto sballati e magari degni di approfondimento.da “Il Foglio”giovedì 10 giugno, di Angiolo Bandinelli
Penso - e certo non sono il solo - che la questione del rapporto tra ebraismo e cristianesimo sia essenziale per la storia delle idee: anche se non mi piace chi brandisce l’Occidente come arma ideologica so bene che c’è, eccome, una storia dell’Occidente con percorsi e snodi tutti suoi, tra i quali si colloca anche - in posizione abbastanza centrale - il rapporto tra le due religioni. Tra quanti se ne occupano si manifesta una seria divergenza di opinioni: da una parte si schierano coloro i quali ritengono che tra ebraismo e cristianesimo vi sia un solido trait d’union fondato sulla comune matrice biblica, così che si possa senz’altro parlare di una vera e propria tradizione giudaico-cristiana; dall’altra quanti, come me, nicchiano, e pensano invece che le due fedi abbiano, sul piano storico come su quello ideale, caratteri tali di diversità da non consentire un rapporto che non sia di buon vicinato, o di correttezza istituzionale. Non vi è dubbio che il mondo cristiano - forse per retaggio di un duro antisemitismo pagano, fomentato anche da imperatori che hanno pur lasciato un buon nome di sé, tipo Vespasiano o Traiano (vedi: Martin Goodman, Roma e Gerusalemme, Laterza ed.) - ha presto tenuto a distinguersi e via via anche ad assumere un atteggiamento ostile nei confronti dei figli di David. Proprio ieri il cardinal Walter Kasper, autorevole collaboratore di Benedetto XVI, ha ricordato come “secoli di teologia cristiana anti-giudaica hanno contribuito alla Shoah favorendo lo sviluppo di un’avversione generalizzata agli ebrei che ha impedito alla resistenza dei cristiani verso l’antisemitismo razziale e ideologico del nazismo di raggiungere la dimensione e la chiarezza che si sarebbero potuti attendere”. Kasper avverte che la revisione di quell’atteggiamento ostile è giunta tardi, avendo “come tornante decisivo” addirittura il Vaticano II. D’altra parte il mondo ebraico fu sempre restio a farsi integrare e a perdere la propria identità, adattandosi alle imposizioni ma resistendo nelle sue fondamentali strutture religiose, culturali, linguistiche e comunque identitarie. Dove mi pare che la divergenza si approfondisca in modo irrecuperabile è nel rapporto che il mondo ebraico ebbe con la modernità, fin dal momento della sua costituzione ed affermazione: un rapporto assai diverso da quello della chiesa cattolica. Quale che sia il giudizio che si deve dare alla famosa iniziativa di Napoleone di convocare nel 1806 un sinedrio per regolare (o regolamentare?) il rapporto con gli ebrei francesi e italiani, la modernità seguita alla rivoluzione francese e all’illuminismo nasce avendo tra le sue fasce la stella di David. Un secolo dopo, a cavallo tra ottocento e novecento, assistiamo alla formidabile esplosione dell’intellettualità austriaca, negli anni in cui Vienna supera Parigi quanto a contributi alla formazione del paradigma della modernità. Bene, quel magico momento fu segnato da cervelli, menti, cuori di una borghesia ebraica sciolta dai ceppi dei ghetti e magari dei pogrom e libera di esprimere quella cultura che essa sempre privilegiava tra le attività degne dell’uomo. E va riconosciuto che i “viennesi” Freud e Schoenberg, forse più che il prussiano Nietzsche, hanno seminato e coltivato il fiore del nichilismo europeo. Lontano da Vienna, i Marx, Einstein o Wittgenstein, tutti di ceppo ebraico - ma potremmo elencare una infinità di altri nomi - ampliano a dismisura il portato ebraico alla formazione del mondo di oggi. Sarebbe interessante analizzare quanto debbano agli ebrei i concetti stessi di laicità e magari di laicismo, muovendo dalla Francia del capitano Dreyfus e dei vari Ferry e Combes. A me non piace la polemica virulenta contro la chiesa “reazionaria”. Sicuramente la chiesa fu, negli ultimi due secoli, “reazionaria” ma - credo si debba riconoscere - nel senso che reagì a una modernità che si allontanava da lei respingendola ai margini della storia e tentò di contrapporle una visione dello sviluppo sociale e culturale diversa, nella quale anche la chiesa avesse il suo posto. Ci fu il “Sillabo”, però il laicato cattolico della seconda metà del XIX secolo diede un contributo positivo alla crescita della società europea: oltre ai movimenti sociali che in Italia affiancarono dialetticamente quelli socialisti o comunque laici, va ricordato il Zentrum tedesco, nato per combattere il Kulturkampf di Bismarck ma sostenitore di Weimar contro il nascente nazismo. Concludendo: da una parte si ha una chiesa, un cattolicesimo, che elabora una sua risposta, modulata in modi e forme complesse, non sempre banalmente “reazionarie” ma certo in contrasto con la modernità avanzante, dall’altra una “intellighenzia” ebraica tesa alla definizione della modernità laica e del modernismo. Sono solo spunti approssimativi (e di questo mi scuso) ma forse non del tutto sballati e magari degni di approfondimento.da “Il Foglio”giovedì 10 giugno, di Angiolo Bandinelli
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