martedì 8 giugno 2010


Comunicato del Sindicato generale dei lavoratori ebrei della terra di Israele 1940


Israele è come un pugile suonato, e l’avversario è sulle gradinate che ghigna

Ascolta Israele. Guarda la tua mano sinistra. E’ diversa dalle mani sinistre degli altri. E’ una mano abituata a fare. In modo anomalo, e che pochi notano, la tua mano sinistra è dovuta divenire quella del lavoro quotidiano, e quello che tutto il mondo fa da sempre con la destra, tu lo fai con la sinistra. Dalla tua fondazione usi la mano destra per la prerogativa di imbracciare un fucile e difenderti, e con la sinistra lavori. E lo fai a un ritmo meno incisivo di quello che potresti, se solo tu usassi abitualmente la destra come tutti, e potessi vivere in modo normale, lavorando. Con le idee che hai, con le tue capacità, cosa non faresti con una vita normale. Ma non è così. Sei tornata a casa tua, atto per il quale i maledetti ti accusano, ti offendono, dicono nazista nelle stesse strade di Europa dove i tuoi figli furono deportati dai nazisti. E appena sei tornata a casa tua, hanno cominciato a spararti a Tel Aviv e a infamarti in Europa.Da allora, con la destra tieni il fucile e con la mano sinistra, abile ma sottodimensionata, lavori: imballi le casse di frutta da spedire in Europa; regoli il microscopio e individui virus, microcostruisci i gangli invisibili dell’informatica, vendi ciambelline a King George St., suoni fatalmente il pianoforte e il violino.
La mano destra deve sparare. E’ sempre stato così. Ma adesso si vede bene che questa tua azione dissociata giunge al capolinea. Lo sappiamo che sei mossa da necessità ignote al mondo occidentale, alla comunità viziata e immensamente uniforme che la sera, seduta in poltrona, guarda la flottiglia di Gaza al cinema televisivo. Sei occidentale, Israele, ma vivi una vita duramente diversa – come gli ebrei sempre. C’è una disparità di condizione che nessuno conteggia, o almeno prova a farlo, tra noi e la tua vita sull’orlo del minaccioso calanco mediorientale, a un passo dal fiato di Teheran e dal nuovo profilo della Turchia, che come certe signore mature si è fatta la plastica e non la riconosce nessuno. Ora, questa signora turca è venuta sul tuo pianerottolo, e si è messa a baccagliare. Leggo analisi per cui la Turchia non solo ha cambiato asse politico, ma ha rinverdito aspirazioni di egemonia sulla regione come ai tempi di Lawrence D’Arabia.Secondo queste analisi tu avresti deciso di stroncare sul nascere tali aspirazioni, poi transitoriamente legate alle elezioni politiche di Ankara. Che sia stata o no questa l’analisi di Netanyahu, con la tua mano destra abituata a colpire prima che sia tardi, ti sei abbattuta su un nugolo di mosche. Ho letto l’idea amena che sarebbe bastato smontare le eliche delle barcarole e farle rimanere in panne tra le correnti del Mediterraneo. Ma è tardi. Sei nell’angolo, Israele, come un pugile suonato che prende un gancio tremendo e crede di avere steso il suo avversario, ma l’avversario non c’era. E’ sulle gradinate che ghigna. Non è giusto, ma il mondo te le sta dando di santa ragione.Ascolta Israele: la morte è lo scandalo di tutti. E la morte violenta, lo scandalo peggiore. Protesti come un bambino di nome Bibi che loro non erano pacifisti, ma terroristi. Diciamo che erano teppisti, e sarebbero bastati due schiaffi. Ma non è questo il punto. Il fatto è che se vuoi avere confini sicuri e popolo sicuro, devi vangare il terreno della pace, portare il cilicio del sacrificio. Ascolta, Israele. Ascolta l’intimità degli altri. A Gaza vive una popolazione immersa nel terrore di Hamas, dai il tuo ascolto a quella gente, conquistala all’idea di una vita normale. E’ vero che il presidente Obama crede fermamente, forse qualche volta in modo semplificato, nel dialogo tra le nazioni, e include il bunker di Teheran – quello sì nazista – nel novero delle nazioni – ma col nemico si tratta; è vero che Shalit in Europa è una canzone dimenticata – ma tu hai molti loro prigionieri. Esiste solo la rigidità come soluzione? C’è già la loro di rigidità. E’ vero che nessuno conosce la storia ebraica del quartiere est di Gerusalemme e tutti gridano di restituirlo ai palestinesi che non lo hanno mai posseduto e ora si fregano le mani; è vero che nessuno conosce il numero delle vittime dei pogrom arabi, e che il primo fu un quindicennio dopo l’anno Seicento; è sacrosanto che nessuno ha la minima idea che gli ebrei sono a Hebron da tremila anni. Ma questo non significa aspettare che passi Ahmadinejad perché il popolo palestinese abbia non dico uno stato governato da Hamas, ma cibo, medicine, e una vita. La loro condizione è inguardabile. Se agisci per loro, Israele, agirai per te. Non considerare Storia solo le alef già vergate sui sefarim, la Storia si volge anche nel futuro. Per il futuro, sono generati i figli. Certo, coi Filistei non siamo mai andati d’accordo. Ma non è base di speranza, hatikva, uccidere dieci teppisti con i corpi di élite.Ascolta: chi scrive, viene da tuoi lombi. E’ tua microscopica fibra. Ti ama. Ha nel proprio dna la paura concentrazionaria dei ghetti, il senso di accerchiamento ossessivo che porta a pensare che l’unica strada per salvarsi è quella breve: una pelle di capra per sembrare Esaù; un’antica strada romana nel deserto sulla quale gettarsi e colpire il nemico alle spalle, e sopravvivere un’altra volta. Ma oggi ci sei tu, Israele: una nazione in piedi, stanziale, forte, con case, scuole, auditorium, industrie, esercito – e ciò, non nell’ordine contrario, partendo ancora una volta dall’esercito. La tua guerra più difficile, ora che sei adulta, è l’edificazione della normalità. I falsi amici di tutto il mondo, naturalmente escludendo dagli amici Israele, si riempiono la bocca della parola pace. La cantilenano come ebeti che mastichino un cibo che non sanno neanche come sia finito in bocca. Tu, lo sai benissimo: la pace è la vita normale che da sessant’anni cerchi di attuare tutti i giorni senza riuscirci.Ricorda i tempi dei kamikaze, quando i genitori con i figli piccoli avevano i turni per andare al super, e una volta andava il padre, una la madre, in modo che uno dei due si salvasse. Non è normalità: è la vita dei pogrom, della rivolta del ghetto di Varsavia che tu trattieni nelle vene; nei sonni notturni dei tuoi padri e delle tue madri che si svegliano di soprassalto, e guardano nella penombra per vedere se la casa c’è. Ricorda, Israele, la soluzione (da me personalmente condivisa) del muro di Sharon, per fermare l’onda di esplosioni che dei tuoi figli faceva pezzi irriconoscibili. Fu giusto edificare in fretta quella barriera di pietra che il mondo criticò perfino esteticamente. Il brutto muro di Sharon fu diga, arrestò la violenza di Hamas. Ora è lì, inerte. I muri non bastano. I nipoti di Teheran, e di Istanbul, stanno trovando altre strade per colpirti. Gridano che lo faranno ancora dal mare. Non vogliono davvero passare tra le tue linee per portare aiuti a Gaza stremata.Sai che gliene frega al mondo arabo dei palestinesi, a parte farne uso per i propri particolarismi. Ti impongono una nuova sfida. Sottolineano il tuo arroccamento, ti fanno sembrare accerchiata. L’islam del XXI secolo cerca un consenso interno per mantenere i propri regimi, minacciati dalla vista televisiva della vita in occidente: giovani per strada abbracciati fra loro, le ragazze vestite come credono, omosessuali liberi. Il mondo arabo del XXI secolo ha bisogno dei propri martiri, e non puoi essere tu, Israele, a donarli negli eccessi fisiologici della guerra e della morte dei civili – gli scudi umani di cui il jihad fa abbondante uso, donne, bambini; i pacifisti – scudi umani che credono che la minuscola Israele sia l’Unione federale e i palestinesi le tribù indiane decimate fino alla sparizione. Dieci morti, e dicono Shoah. Infami. Ma tu ascolta, Israele, le strade brevi che hai sempre cercato e trovato sono finite. Gli atti di quella chirurgia fulminea sono reperti archeologici di un modernità fulmineamente divenuta antichità. Macerie del muro di Sharon, del sud del Libano, di piombo fuso, e di corpi palestinesi. Dolore inutile, il nostro come il loro.Israele, sii forte fra le tue mura. Inizia a costruire una paziente normalità. E’ quella la pace.di Alessandro Schwed, Il Foglio 4 giugno 2010

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