lunedì 21 giugno 2010


Gilad Shalit su un poster di Hamas
Gilad. Tutti facciano qualcosa, ogni giorno

Giovedì prossimo, il 24 giugno, saranno quattro anni da quando Gilad Shalit è stato rapito dai terroristi di Hamas. Una prigionia che può sembrare una piccola cosa, in mezzo ai grandi disastri della guerra, alle persone uccise dai terroristi, alle bombe dell'11 settembre o alle esplosioni suicide nei ristoranti e nei centri commerciali di qualche anno fa. Eppure non ci stanchiamo di protestare, continuiamo a indignarci, sappiamo che non dobbiamo stancarci di chiedere la liberazione di Shalit. Lo facciamo ogni volta che possiamo, lo faremo ancora la sera del 24 con la manifestazione convocata dal Bené Berit con la Comunità ebraica e il Comune di Roma per questo anniversario alle 21.30 di fronte al Colosseo. (Segnalo un'altra iniziativa a Torino alle 20.30 in Corso Cairoli, angolo via dei Mille.) Non si tratta solo della palese violazione della legge internazionale che il rapimento costituisce e neanche della ferita profonda che possiamo immaginare in un giovanissimo che ormai ha passato un quinto della propria vita da solo, prigioniero di nemici feroci, senza una visita o un conforto. Chi ha figli sente cosa devono voler dire quattro anni di prigionia solitaria per un ventenne. La ragione per cui tutti gli ebrei, senza distinzione di parte politica o di identificazione religiosa sentono una solidarietà profonda per Shalit e la sua famiglia è profondamente iscritta nella nostra identità collettiva. Noi siamo un piccolo popolo e ciascuno è un po' parente di tutti gli altri, non solo astrattamente responsabile, ma concretamente vicino. La bellissima scoperta degli scienziati israeliani secondo cui vi è davvero un DNA comune al popolo ebraico mostra che dicendo di essere tutti fratelli, discendenti dai nostri patriarchi, non usiamo solo un simbolo, ma parliamo di qualcosa di molto concreto, una traccia materiale del nostro spirito, incisa nel nostro corpo come la milà. Quando qualcuno di noi muore, piangiamo tutti. Ma soprattutto quando qualcuno è tenuto prigioniero come Shalit, siamo tutti prigionieri. Giorno dopo giorno, una parte di noi, da qualche parte nel nostro inconscio o nelle nostre viscere, soffre in una cantina di Gaza, incatenata da carcerieri inumani. Non è un sentimento nuovo: lo studio delle carte della Genitzà del Cairo, per esempio, ha mostrato come si impegnasse quella comunità quando ottocento anni fa era diretta dal Rambam e dalla sua famiglia per liberare i prigionieri che anche allora erano rapiti da pirati islamici crudeli e avidi. In mezzo alle immense difficoltà che vive in questo momento Israele e con esso tutto l'ebraismo, nonostante i tentativi di legittimare il regime sanguinario di Gaza, lottare perché Shalit sia sottratto al gruppo criminale che lo trattiene schiavo, che lo ha ridotto al ruolo di cosa da scambiare, di prezzo di un riscatto, è un impegno comune. Ognuno di noi faccia qualcosa ogni giorno per la liberazione di Gilad Shalit, parte di noi stessi che ci è stata rubata.Ugo Volli http://www.moked.it/

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