sabato 12 giugno 2010
Israele e i simboli complicati della storia
di Gad Lerner “Vanity Fair” 9 giugno 2010
La simbologia della terra e del mare in Israele è fortissima. Dagli albergoni sul Mar Morto, attraverso il panorama spettrale di Sodoma e Gomorra ci hanno trasportati in pullman fino a ridosso della fortezza di Masada, dove l’ultimo contingente ebraico che resisteva alla colonizzazione romana scelse il suicidio collettivo piuttosto che arrendersi, quattro anni dopo la distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme a opera dell’imperatore Tito (70 dopo Cristo). E pazienza se il vento caldo del deserto di Giudea interferiva nei microfoni: era magico assistere lì, in mezzo al nulla, al Nabucco di Giuseppe Verdi, cioè la storia degli ebrei trascinati in cattività a Babilonia quasi 6 secoli prima di Masada, dopo che re Nabuccodonosor aveva distrutto il primo Tempio.Non mi era mai capitato che il direttore d’orchestra concedesse il tris. Dopo avere ripetuto una seconda volta il “Va pensiero sull’ali dorate”, sommerso da applausi emozionati, Daniel Oren ha interrotto l’esecuzione: “Per favore non applaudite fino all’ultima voce in discendendo, che è la più bella. Come per voi è magico anche per me condividere la musica in questo luogo santo. Partecipate al coro, e pazienza se non conoscete tutte le parole”.Così abbiamo cantato in seimila il “Va pensiero”, una terza volta, immedesimandoci negli ebrei che piangevano la perduta Gerusalemme. Tra effettacci scenici che trasformavano il deserto con l’acqua ed il fuoco. All’uscita, prima di reimbarcarci sui pullman, venivano offerti dei provvidenziali ghiaccioli al limone per reidratarsi. Ma siccome non si scherza con l’acqua ed il fuoco, con la terra ed il mare, la forza dei simboli ci costringerà a ricordare il Nabucco di Masada quale colonna sonora della tragedia consumatasi pochi giorni prima al largo di Gaza.Sapevo di suscitare la reazione insofferente di molti ebrei parlando di un Exodus rovesciato, dopo l’arrembaggio cruento e dilettantesco della marina israeliana alla nave turca “Mavi Marmara”. Ma era la mia sofferenza. Chi vive immerso nella simbologia, fino a trasformare quasi la memoria della Shoah in una religione civile, difficilmente sfuggirà a una tale nemesi. So bene che le navi armate da diverse ong internazionali per violare l’embargo della striscia di Gaza, congegnato assieme da Israele e Egitto, non solo lontanamente paragonabili all’Exodus che nel 1947 tentò invano di entrare nel porto di Haifa con a bordo 4500 soperstiti dei lager.. Le cacciatorpediniere britanniche speronarono l’Exodus, costringendolo a ripiegare su Cipro. Tutta un’altra storia? Certo.Saltiamo disinvoltamente fra il mito e la realtà, fra i secoli e i millenni, dalla Babilonia del 580 avanti Cristo, alla Masada del 74 dopo Cristo, fino al 1947 dopo Cristo. E rimaniamo feriti dalla nostra medesima disinvoltura. Chi trova nella Bibbia, e poi nel trattamento subito dagli ebrei dispersi per duemila anni nell’esilio, la legittimazione del loro miracoloso ricongiungersi come popolo d’Israele, sa bene quale grande responsabilità morale ciò assegni.I governanti e i militari israeliani che si macchiano di azioni disonorevoli non commettono dunque solo un errore politico disastroso, come dimostra la rottura della partnership con la Turchia. Essi macchiano la storia di quello che fu un nazionalismo mite, eppure grandioso e duraturo, così come lo abbiamo cantato tutti in coro, con le lacrime agli occhi, a Masada.
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