venerdì 8 aprile 2011

La chance di Gerusalemme


Per non restare isolato, Israele deve ritrovare la Turchia e imparare a parlare con la piazza araba Non è difficile comprendere le ragioni dell’apprensione con cui Israele – tutto Israele non soltanto il governo – guarda alla rivolta araba. La prima, mai rilevata ma stranamente intuita dal rais siriano Bashar el Assad, è che con un ritardo di trent’anni la Guerra fredda è finita anche in medio oriente. E’ finito quell’equilibrio tra i campi che la Guerra fredda, anche per merito di Henry Kissinger, era riuscita a imporre nella regione. Non a caso, i tre regimi strategici (la Tunisia non lo è, è sempre stata periferica) che sono crollati o che sono in procinto di farlo – Egitto, Siria e Yemen – sono nati e si sono rafforzati grazie alla politica estera dell’Unione Sovietica dopo il 1956. Questi tre paesi sono diventati “socialisti” negli anni Sessanta e sono sopravvissuti per decenni (la Siria continua tuttora) grazie alle poderose forniture militari e agli aiuti economici e diplomatici dell’Unione Sovietica (anche il colonnello libico Muammar Gheddafi senza l’Urss e senza i suoi Mig non sarebbe mai sopravvissuto alle convulsioni che il suo regime ha vissuto). Certo, l’Egitto nel 1972 e lo Yemen più recentemente hanno cambiato fornitore e campo, ma la struttura di questi tre regimi, economia inclusa, continua a essere quella impostata nella fase “socialista” degli anni Sessanta. L’intera area mediorientale – incluso il programma atomico dell’Iran – dopo una parentesi di un decennio ha continuato a essere dominata dalla ripresa da parte di Mosca della tradizionale influenza sovietica, quantomeno sino alla rivolta araba attuale. In un’intervista a Repubblica del 10 maggio dello scorso anno, un Assad per una volta perspicace ha irriso il presidente americano, Barack Obama, per la sua mancanza di comprensione del contesto mediorientale, e ha aggiunto: “I russi non hanno mai creduto che la Guerra fredda fosse finita. E neppure noi. Ha soltanto cambiato forma, si è evoluta con il tempo. La Russia sta riaffermandosi. E la Guerra fredda è la normale reazione al tentativo americano di dominare il mondo”. Israele ha goduto sinora di quella ricerca di equilibrio algebrico tra le potenze su scala regionale che la Guerra fredda (era il suo unico aspetto positivo) era riuscita a conseguire su scala planetaria. I negoziati di pace con l’Autorità nazionale palestinese sono stati influenzati sinora dalla certezza della propria forza inattaccabile. Quel quadro oggi si è frantumato. Le incognite sul governo futuro di Egitto, Libia, Yemen e forse anche Siria (per non parlare della catastrofica ipotesi di un improbabile crollo del regime saudita) fanno saltare equilibri e controequilibri e costringono Israele ad aggiustamenti strategici veloci. Ma la rapidità d’analisi e di proposte innovative non è facile da conquistarsi dopo 40 anni di quadro stabile. Dunque Israele deve prepararsi a calibrare i suoi rapporti di forza nei confronti dei paesi arabi senza avere alcun punto fermo e consolidato – novità assoluta – nella certezza della imminente e apocalittica minaccia atomica iraniana che è tale in quanto la Russia ha scelto di renderla possibile, in una logica appunto di Guerra fredda (di una miopia devastante, anche per gli interessi russi). Il quadro mediorientale è oggi caratterizzato da un’instabilità improvvisa e fluida, che avrà un probabile esito per Israele: l’incremento della minaccia terroristica dentro i suoi confini (se ne sono già visti i prodromi), dal Libano e da Gaza. Ma le Brigate al Qassem, così come Hamas e Hezbollah, non potranno costituire una minaccia esiziale per Israele. Scriveranno nuove pagine di sangue, imporranno sempre più minuziose e moderne difese missilistiche, obbligheranno a nuovi raid, ma Tsahal ha ampi mezzi per contenerle, contrastarle, e anche distruggerle, se mai Gerusalemme lo decidesse. Non c’è nessun pericolo però che il nuovo governo egiziano (o quello che potrebbe prendere il posto del Baath siriano) possa minacciare l’esistenza di Israele con guerre tradizionali. Anche se il prossimo premier del Cairo fosse Muhammed Badi, antisemita e fanatico leader dei Fratelli musulmani (e non sarà così, il pericolo islamista in Egitto è sopravvalutato), l’esercito egiziano non potrà neanche fingere un’aggressione a Israele. La ragione è semplice: dal 1979 in poi l’esercito egiziano ha cessato di essere strutturato per guerre d’aggressione. E’ tanto imponente (450 mila soldati) quanto inefficiente e obsoleto, e soprattutto può fare la guerra solo col totale e pieno accordo di Washington, che controlla i suoi ricambi, i suoi arsenali e anche – personalmente – estende la propria “catena di comando” sul suo stato maggiore (a partire dall’attuale capo di stato ad interim, il generale Hussein Tantawi). Meno ancora una minaccia bellica può arrivare da una Siria (magari governata, per paradosso – ma non sarà così – dai Fratelli musulmani dopo l’auspicabile collasso degli Assad) armata tuttora – e malamente – dalla Russia. Questa è la stessa Siria che già diede pessima prova sul campo – nonostante avesse un vantaggio psicologico e militare immenso – quando aggredì Israele sul Golan nel 1973. Avendo sempre presente il pericolo del nemico strategico che è l’Iran, Israele ha sì da temere una ripresa del terrorismo, problema non da poco, ma gode di una tale deterrenza militare che scoraggia qualsiasi ipotesi di aggressione bellica tradizionale. Ma Israele, se smette di lamentarsi per quel che è accaduto come ha fatto sinora – esercizio sterile, anche se comprensibile – ha ora anche due formidabili nuove linee d’azione da intraprendere per reagire in attacco al nuovo quadro regionale. La prima opportunità è quella di capovolgere la grave crisi che si è aperta – non soltanto per sua responsabilità, ma anche per sua responsabilità – con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. E’ infatti imperativo che Israele dismetta la sua non intelligente “faccia dell’armi” nei confronti di Ankara e che offra piuttosto una prospettiva “Westfalia”. Se Gerusalemme smettesse di tenere troppo orgogliosamente il punto sulla questione della Mavi Marmara, la nave che voleva violare l’embargo su Gaza e che è stata fermata con un blitz militare di Israele l’anno scorso – un esempio di disastrosa incompetenza militare, pur con ragione piena sul punto politico; se comprendesse che è suo interesse concordare con Ankara tempi e modi di una nuova sistemazione delle aree di interesse regionali; se ricordasse che il “sogno” turco non è affatto distruggere Israele, ma tornare a esercitare egemonia (soprattutto economica) sulla Siria, “perla” del dominio ottomano, Gerusalemme potrebbe tornare a quella sostanziale alleanza con lo stesso Erdogan che si era addirittura rafforzata dal 2002 sino all’operazione “Piombo fuso” a Gaza del 2009 (nel 2003 è stata la flotta turca a proteggere Israele sulle sue coste per evitare eventuali rappresaglie di Saddam Hussein attaccato dagli Stati Uniti). L’alleanza si era rafforzata anche con forniture militari incrociate (addirittura con grandi manovre militari della Nato congiunte) e con la collaborazione fra servizi segreti. L’alleanza oggi si è incrinata a fronte delle avventuristiche aperture di Erdogan a Hamas, che però possono essere disinnescate con un tavolo di trattative in cui Gerusalemme discuta con il premier turco – senza alcuna perdita di sovranità – dell’equilibrio tra le proprie indubbie ragioni di sicurezza e le altrettanto indubbie esigenze umanitarie che concernono Gaza (che Israele sottovaluta con troppo orgoglio). Erdogan è oggi nella posizione di soppiantare gli sterili egiziani Omar Suleiman e Hosni Mubarak nella triangolazione con il leader dell’Anp, Abu Mazen. Certo, la sua posizione risente delle sue origini islamiste e le sue aperture di credito all’Iran sono sospette, ma Erdogan non è un dittatore, è il leader democratico di un paese democratico. Israele può offrire alle legittime aspirazioni di egemonia regionale di Ankara ben più di quanto non offra la spregiudicata triangolazione con Teheran sul nucleare (in compagnia del Brasile). Israele puo dunque sparigliare, riconoscendo alla Turchia un ruolo di supplenza a un Egitto catatonico. Persino il presidente americano, Barack Obama, e il segretario di stato, Hillary Clinton, lo possono capire. E’ l’unica possibilità, peraltro, per evitare di dovere agire in difensiva, a fronte di quella proclamazione unilaterale di indipendenza della Palestina che un disperato Abu Mazen si prepara a giocare e che Gerusalemme può contrastare soltanto a livello di trattati cartacei. Ma questa possibile e auspicabile forte correzione della sua politica estera porta alla svolta cruciale. Oggi la “piazza araba” è “scalabile”, il suo consenso o dissenso non sono più manovrati a piacere da regimi che hanno sempre giustificato corruzione e malgoverno scaricandone le colpe su Israele. Oggi in Egitto e Tunisia e un domani prossimo in Yemen, Libia e fose anche Siria, Israele può e deve parlare abbandonando quell’atteggiamento di assoluta permeabilità e autosufficienza che l’ha contraddistinto dal 1967 (non prima) in poi. Israele dovrebbe ricordare che per cinquanta anni tutti i suoi massimi dirigenti sionisti, a iniziare da Cahim Weizman, per finire con David Ben Gurion e Moshe Dayan, hanno considerato l’interlocuzione con le “masse arabe” un elemento fondamentale della politica estera di Israele. Basta leggere le parole che Moshe Dayan pronunciò il 30 aprile 1956, sul feretro del suo più caro e intimo amico, quasi un fratello, Ro’i Rothberg, responsabile della sicurezza del kibbutz Nahal ’Oz, ucciso dai palestinesi: “Non biasimiamo, oggi, gli assassini di Ro’i. Che cosa possiamo obiettare al loro implacabile odio nei nostri confronti? Ormai da otto anni vivono nei campi profughi di Gaza, e ci guardano fare nostri le loro terre e i loro villaggi, in cui vivevano al pari dei loro progenitori. Non sugli arabi di Gaza, ma su noi stessi dobbiamo trovare le macchie del sangue di Ro’i. Perché abbiamo chiuso gli occhi e cercato di non guardare in faccia la nostra sorte, riconoscendo il destino della nostra generazione in tutta la sua brutalità? Possiamo dimenticare che questo nostro gruppo riunito a Nahal ’Oz porta sulle spalle i pesanti cancelli di Gaza? Oltre il confine rumoreggia un mare di odio e sete di vendetta, in attesa del giorno in cui la quiete ottunderà la nostra vigilanza, in attesa del giorno in cui daremo ascolto agli inviati dell’ipocrisia malevola del segretario delle Nazioni Unite, che ci chiede di abbandonare le armi. Siamo la generazione degli insediamenti, e senza l’elmetto sul capo e il fucile a portata di mano non potremo piantare un albero né costruire una casa. Non dobbiamo avere paura di guardare in faccia l’odio che consuma gli arabi da cui siamo circondati. E’ il destino della nostra generazione”. E’ un atteggiamento omerico, la piena, sofferta, sconvolgente comprensione delle ragioni del nemico che ti uccide il fratello, la stessa pietas che portò il 19 novembre 1977 Golda Meir ad accogliere all’aeroporto di Lod l’allora presidente egiziano, Anwar el Sadat, per portarlo a parlare alla Knesset con queste parole: “Noi vi possiamo perdonare per avere ucciso i nostri figli. Ma non vi perdoneremo mai per averci portato a uccidere i vostri figli”. Da allora, soprattutto dopo che Sadat pagò con la sua vita quel gesto di pace, Israele ha vissuto circondato da un muro di odio e volente o nolente ha dovuto parlare soltanto a se stesso ed è sopravvissuto soltanto minacciando. Ma già con la guerra del Libano del 2006 Gerusalemme ha dovuto comprendere che non può e non potrà più basarsi soltanto sulle sue forze e sulle sue lontane alleanze e ha dovuto chiedere a Italia e Francia che muovessero l’Onu per creare una zona cuscinetto – la forza Unifil – nel sud del Libano. Però Israele non vuole prendere atto della propria interdipendenza, della impossibilità di “fare da solo”. Si dimostra sempre più cieco di fronte alla necessità di competere con media arabi ormai sofisticati e aggressivi (al Jazeera e al Arabiya) sul fronte dell’opinione pubblica europea (la decisione di impedire l’accesso ai media durante “Piombo fuso” fu autopunitiva). Ma ora l’opinione pubblica araba (e turca) non è distante e secondaria per Israele come quella europea. Da oggi in poi formerà i propri governi e concorrerà a determinare le politiche nei confronti di Israele. E’ un interlocutore privilegiato dei governi di Gerusalemme, che si devono muovere e devono parlare – per la prima volta in 50 anni – come facevano Ben Gurion e Weizmann sino al 1956, pensando anche alla “piazza araba”, che ora urla “dignità” e non “jihad”. Questo è il punto. Wikileaks ha distrutto su questo fronte tutto il tessuto negoziale con l’Anp. Israele ne prenda atto, si renda conto che disegnare una nuova dinamica di equilibri nella regione gli impone costi e riveda le sue posizioni su un punto: abbandoni gli insediamenti che intende preservare per pure ragioni demografiche (non pochi) e si irrigidisca soltanto su quelli determinanti per la propria sicurezza. Offra quindi generose compensazioni territoriali. Gli altri punti – Gerusalemme e rifugiati – non sono negoziabili (oltre quanto concesso da Ehud Barak a Tabas nel 2000), ma in un certo senso vanno “negoziati” con quella opinione pubblica araba e turca ora “scalabile”. Israele spieghi a gran voce quanto è disposto a indennizzare i cosiddetti “profughi”, si faccia carico (con Washington) economicamente e con gesti plateali del mantenimento di Sabra e Chatila e degli altri campi. Invii tonnellate di latte in polvere a Gaza. Ricordi l’intimo rispetto per il nemico che animava Moshe Dayan. E lo trasformi in una grande, duratura, campagna mediatica. FOGLIO QUOTIDIANO di Carlo Panella

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