venerdì 20 gennaio 2012

Israele: la legittimazione non viene dalla Shoah

Lo storico George Bensoussan apre il calendario culturale del Meis

Sala gremita per la prima conferenza ospitata dal Meis, il Museo dell’ebraismo italiano e della Shoha. Per inaugurare il calendario dei propri appuntamenti culturali la Fondazione che gestisce lo spazio museale è riuscita a chiamare a Ferrara George Bensoussan, responsabile editoriale della Shoah di Parigi, professore alla Sorbona ed autore di numerose ricerche sulle tematiche relative allo stato di Israele e al movimento sionista. La sua conferenza ha aperto il programma delle numerose iniziative che, dislocate in vari luoghi della città, nei giorni a venire prepareranno la cittadinanza al 27 gennaio, Giornata della Memoria.

Introdotto da Raffaella Mortara, consigliere della Fondazione Meis nonché curatrice delle tre mostre attualmente allestite nella palazzina, e dalla direttrice dell’Istituto di storia contemporanea Anna Quarzi, Bensoussan ha voluto in questa occasione tralasciare gli aspetti più noti della vicenda ebraica del dopoguerra, per concentrarsi su alcune questioni irrisolte e di cui raramente si sente parlare, relative al luogo comune che vorrebbe lo stato di Israele “legittimato” dalla tragedia dello sterminio nazista.“Questa teoria dimentica sessant’anni di storia, di costruzione economica, politica e culturale – ha sottolineto più volte lo storico -. A Gerusalemme l’università in lingua ebraica è stata fondata nel 1925, la compagnia nazionale di trasporto nel 1935, uno dei quotidiani più importanti risale nasceva addirittura nel 1919. La Shoah ha reso fragile Israele da un punto di vista demografico, portandogli via centinaia di migliaia di uomini e donne che avrebbero potuto contribuire alla sua crescita, ma non bisogna credere che da essa abbia potuto nascere uno stato. La compassione non ha nulla a che vedere con la decisione presa nel 1947 a New York, quando l’Onu stabilì la creazione di due stati, Israele e Palestina”.Bensoussan ha esplorato inoltre la complessità dei sentimenti che hanno inizialmente indotto gli ebrei di Israele a rapportarsi freddamente con i sopravvissuti arrivati dai campi: un misto di senso di colpa per non essere potuti intervenire in Europa, di aggressività derivante dal disprezzo che il sionismo ha sempre nutrito nei confronti degli ebrei della diaspora – “considerati deboli, incapaci di rivolta” – e di sospetto “quando iniziarono a circolare le prime voci sull’inferno che quelle persone dovettero attraversare”.“La vittima veniva considerata in ogni caso dalla parte del torto: se era morta nei campi aveva sbagliato perché non aveva saputo difendersi, se era sopravvissuta perché chissà quali compromessi aveva finito per accettare” ha concluso lo studioso.Il Meis continuerà il proprio percorso di approfondimento sulle vicende della Shoah mercoledì primo febbraio, con la tavola rotonda “La conservazione della Memoria nell’era digitale”. http://www.estense.com/?p=192440

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