venerdì 26 ottobre 2012
La testimone Elsa Morante
Non
mi pare che sia stata adeguatamente celebrata, quest’anno, la
ricorrenza del centenario della nascita di Elsa Morante: scrittrice, a
mio avviso, tra le più grandi di tutti i tempi, straordinaria testimone
letteraria della tragedia della guerra e delle sofferenze del popolo
ebraico (a cui apparteneva per parte materna, in quanto figlia naturale
della maestra ebrea Irma Poggibonsi), una tra le pochissime voci a
essere riuscita a coniugare mirabilmente il magistero della creazione
narrativa con la responsabilità dell’insegnamento etico. Insegnamento
duro, di pietra, privo di sbocchi (come quello, per esempio, di Elie
Wiesel) sul piano della fede, quantunque ferita e lacerata, o (come per
Primo Levi) sul terreno della missione educativa e pedagogica, della
fiducia, nonostante tutto, nell’umana ragione. Un insegnamento chiuso,
sigillato, la cui moralità pare risiedere in null’altro all’infuori
della pura rappresentazione del dolore. Il dolore degli ultimi, degli
sconfitti, dei diseredati, di tutti coloro che la Storia, nel suo
flusso crudele, schiaccia e travolge, senza lasciare traccia, segno,
memoria. Un dolore che non sarà mai consolato, riscattato, vendicato e,
forse, non chiede neanche di essere ricordato. Tanto, a che serve? Solo
l’oblio cancellerà il dolore, per lasciare posto a nuovo dolore.Vale la pena, credo, a distanza di 38 anni dalla pubblicazione del
capolavoro della scrittrice, il romanzo La Storia, interrogarsi sulla
feroce accoglienza che ad esso riservò buona parte del mondo
intellettuale dell’epoca, dedicando al libro – pur accolto da un
gradissimo successo di pubblico: anzi, forse proprio in ragione di tale
successo – un’impressionante serie di stroncature, volte a demolirlo
non solo sul piano narrativo (sdolcinato, sentimentale, retorico…) ma
anche, e soprattutto, politico (borghese, reazionario,
“antiresistenziale”…: all’epoca non si parlava ancora di
‘revisionismo’, ma il senso era quello). Senza addentraci su un terreno
che non ci compete, osserviamo solo, sul primo punto, che le critiche
appaiono ingiustificate, ma ben comprensibili, dal momento che la
rappresentazione che la Morante fa del dolore è talmente vera, talmente
cruda, che il lettore – e soprattutto il critico – si vede costretto
parteciparvi emotivamente, o a vergognarsi – inconsciamente – per il
proprio rifiuto a farlo. E questo, naturalmente, può mettere in
imbarazzo. Quanto al secondo punto (ossia le censure ‘politiche’),
credo che il carattere scandaloso del libro sia consistito
semplicemente nella scelta dell’ambientazione cronologica del racconto,
che va, com’è noto, dal gennaio 1941 al giugno 1947, attraversando
l’ultimo periodo della guerra, la cacciata degli invasori, i primi mesi
di libertà. Ma in questo breve lasso di tempo, che in tutti i libri di
storia del mondo è segnato da una frattura radicale, da un assoluto
spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, mentre la grande Storia dei
libri registra la Grande Svolta, la piccola storia dei protagonisti del
romanzo, uomini e animali (nessuno, come la Morante, ha dato alle
bestie un’anima, una ‘personalità’) continua a consumarsi nel segno
della sconfitta, dell’irrimediabile solitudine delle creature viventi.
Poteva, tale visione, non essere vista come un attentato al mito della
Resistenza, della Liberazione, del Nuovo Inizio? Eppure, nessuno come
la Morante ha capito, e descritto, l’orrore del nazifascismo. Ma la sua
conoscenza dell’animo umano le ha fatto capire come il dolore
attraversi la vittoria come la sconfitta, e come il destino dei viventi
non possa essere espresso attraverso alcun sentimento, se non quello
della pietà. E la sua conoscenza della storia le ha fatto esprimere una
dura verità, che sarebbe poi stata ripetuta anche da Primo Levi: “la
guerra è sempre”. Non conosce fine, ma, a volte, soltanto una “tregua”.Francesco
Lucrezi, storico,http://www.moked.it/
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