Barack parla ai giovani israeliani: ora tocca a voi costruire la pace
martedì 26 marzo 2013
«Giovani
di Israele, tocca a voi vincere la sfida della pace»: con un
discorso di quasi 45 minuti davanti a duemila persone, Barack Obama
svela il motivo per cui ha scelto lo Stato Ebraico per il primo
viaggio del secondo mandato. Le assicurazioni date al premier
Netanyahu sul sostegno al diritto all’autodifesa dal nucleare
iraniano e la rinuncia a chiedere di fermare gli insediamenti come
precondizione per il negoziato con i palestinesi sono passi politici
tesi a presentarsi come un leader di cui ci si può fidare. Obama
vuole entrare in sintonia con i cittadini dell’unica democrazia del
Medio Oriente anche nell’impostazione del discorso. Esordisce
parlando del legame di Martin Luther King con la Terra Promessa,
rende omaggio alla realizzazione del sionismo, al coraggio dei
soldati che combattono il terrorismo ed ai valori che accomunano Usa
e Israele. E sulle minacce alla sicurezza va oltre il no alla bomba
di Teheran, pronunciando in ebraico la frase «Atem lo levad», non
siete soli, per ribadire che l’America non abbandonerà mai lo
Stato Ebraico.Ma
tutto ciò è propedeutico al vero intento del 44° presidente
americano, che definendo la pace come «la migliore garanzia della
sicurezza» dice agli israeliani quanto nessun leader politico
nazionale ha fatto durante l’ultima compagna elettorale. «Parlo da
amico preoccupato per il vostro futuro» dice, rivolgendosi alla
«generazione che può rendere permanente il sogno sionista»
contribuendo a «creare uno Stato di Palestina indipendente, unica
maniera per assicurare la continuità di uno Stato ebraico e
democratico». E ancora: «Mettetevi al posto dei palestinesi, non è
giusto che i loro figli non possano crescere in un loro Stato, alla
presenza di un esercito straniero che gli restringe i movimenti, li
priva delle case, l’occupazione non è una risposta». Obama cita
l’ex premier Ariel Sharon e lo scrittore David Grossman
sull’impossibilità di «controllare tutta Eretz Israel»,
chiedendo di «fidarsi di Abu Mazen e del premier Fayyad perché
rigettano la violenza».Sono
le parole di un manifesto propace, chiedono «la fine degli
insediamenti» e scommettono sulla possibilità che siano gli
israeliani a compiere le scelte sulle quali esitano i suoi leader.
«Le paci avvengono fra i popoli e non fra i leader» sottolinea,
richiamandosi al discorso del Cairo del 2009 nell’esplicito
auspicio che «i cambiamenti in atto nella regione» portino anche
gli israeliani a «un nuovo approccio». Soprattutto nel loro
interesse «perché se ciò avverrà avrete una stagione di
prosperità davanti» grazie ad una creatività unica «che porta a
scrutare il futuro guardando Tel Aviv».L’intento
è spingere gli israeliani a costringere Netanyahu all’accordo
finale con i palestinesi ma la reazione del pubblico - pur
selezionato dall’ambasciata Usa - suggerisce che è una scommessa
tutta in salita. Vi sono settori che applaudono a ripetizione, fino
alle standing ovation, ed altri pressoché immobili. Gli universitari
scontenti non possono contestare il presidente in base agli impegni
sottoscritti alla vigilia ma in molti la pensano come Itzik,
trentenne di Lod: «Ha parlato da ingenuo, chiedendoci rinunciare a
territori che significano sicurezza in cambio della vaga promessa di
un futuro migliore».la STAMPA, Maurizio Molinari
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