venerdì 12 aprile 2013
Di Susie Lubell,http://www.israele.net/
Lunedì scorso mio figlio è andato a scuola con una camicetta rossa.
Sapeva che era il Giorno della Memoria della Shoà, ma non aveva voglia
di indossare la camicia bianca, come fa la maggior parte dei ragazzini
israeliani in questo giorno di cordoglio nazionale. Immagino che la
coscienza collettiva ebraica che circonda la Shoà non faccia ancora
parte della sua identità. È in seconda elementare e siamo in Israele
solo da un anno e mezzo, e benché sappia che questo è un giorno triste e
che molto tempo fa morirono tanti ebrei, non siamo ancora entrati nei
dettagli. Sicché non è ancora parte di lui nel modo in cui so che, prima
o poi, lo sarà.Mi ha detto che metteva una camicia rossa per via dei fuochi. Non ho
insistito nel chiedergli maggiori spiegazioni, un po’ perché eravamo in
ritardo per scuola e un po’ perché non sono pronta a sapere cosa sa
esattamente. I fuochi dei negozi ebraici in fiamme? Delle sinagoghe
incendiate? O il fuoco dei forni crematori?L’apprendimento della Shoà fa parte del curriculum della scuola pubblica
israeliana, anche se non so esattamente che cosa ciò comporti. So che
alla scuola materna fanno la conoscenza di Janusz Korczak, il pediatra
ebreo polacco, rinomato autore di libri per l’infanzia, che gestiva un
orfanotrofio a Varsavia. Gli fu offerta la libertà quando i suoi orfani
vennero rastrellati per essere caricati sul treno per Treblinka, ma lui
scelse di restare con loro e confortarli nel loro viaggio. Qui è dove
finisce il racconto, per i bambini della scuola materna. Non vengono a
sapere di come fu che quei 192 bambini, alcuni di non più di tre anni,
salirono sul treno nel 1942, aggrappati ai loro orsacchiotti, e nessuno
li vide mai più. Prima o poi lo verranno a sapere.E verranno a sapere che non è successo poi così tanto tempo fa: è
successo quando la nonna era una ragazzina. E verranno a sapere che il
padre di lei fu abbastanza fortunato da lasciare la Polonia per
l’America prima che scoppiasse la guerra. Verranno a sapere che il resto
della famiglia della loro nonna non fu altrettanto fortunato, e se la
mamma della nonna riuscì a lasciare in tempo la Germania, lei e suo
fratello furono gli unici a farcela.Prima o poi vedranno tutte quelle immagini di SS in marcia. Vedranno i
carri bestiame usati per trasportare persone e verranno a sapere di
quante persone vi venivano spinte dentro. Verranno a sapere delle
impossibili condizioni di vita nei ghetti. Sentiranno i racconti delle
selezioni, e dei bambini strappati alle madri, e degli inverni gelidi, e
delle finte carrozzine usate per ingannare i rappresentanti della Croce
Rossa in visita. Verranno a sapere di Anna Frank, e di Hannah Szenes, e
di Elie Weisel e dei tanti altri. Verranno a sapere della resistenza e
dei partigiani, e dei non ebrei che nascosero i loro vicini a rischio
della vita. Verranno a sapere delle fosse comuni, e della fame, e degli
esperimenti “scientifici”. Verranno a sapere dei paralume fatti con
pelle di ebrei. Verranno a sapere delle camere a gas e dei forni
crematori.Ne verranno a sapere abbastanza per sei milioni di vite. E avranno gli
incubi: di essere nei campi, di essere braccati dalle guardie, caricati
sui treni. Ed ecco che allora saranno definiti in qualche misura, grande
o piccola, dalla Shoà. Ed ecco che un’altra generazione di ebrei
condividerà il fardello della nostra coscienza collettiva.Quando siamo arrivati a scuola abbiamo visto la maggior parte degli
altri ragazzini con le loro camicette bianche e per un momento ho
desiderato che anche lui avesse messa la sua. Ma poi una parte di me è
stata felice che questa terribile cicatrice della nostra storia non sia
ancora parte di lui nel modo in cui so che, prima o poi, lo sarà. Perché
una volta che lo è diventata, non può più essere cancellata. La sua
idea di umanità ne sarà per sempre segnata.(Da: Times of Israel, 8.4.13)
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