venerdì 16 aprile 2010



Kannuchià

Lo scandalo pedofilia e le «colpe» degli ebrei

Una storiella yiddish racconta di un ebreo che in treno sente un passeggero dichiarare: «Gli ebrei sono la causa di tutti i nostri guai». Interviene dicendo: «Sono d'accordo. Ma anche i ciclisti». «Che cosa c'entrano i ciclisti?». «Non c'entrano come gli ebrei?». Questa barzelletta ritorna di attualità quando gli ebrei (coi massoni e gli atei) vengono indicati come una delle cause - se non addirittura la principale - della bufera che sta scuotendo l'autorità della Chiesa. Perché è di autorità, è di potere che si tratta, non di fede o di religione. Come in tutte le lotte di potere, anche in questo caso la storia - come diceva Marx - si manifesta prima in chiave di tragedia, poi di commedia. Questo non significa che la bufera che il Vaticano deve affrontare non comporti pericoli dai quali è giusto difendersi e falsità che debbono essere smentite. Tuttavia la denuncia di presunte responsabilità ebraiche in questa crisi ha qualche cosa di comico e di grottesco. Comico per l'immaturità con cui la Chiesa che, è bene ricordare, ha invitato la Congregazione per la Propaganda della Fede - sta difendendosi ignorando i principi basilari della propaganda e della contro propaganda. Grottesco per il tentativo di farlo sventolando lo spauracchio giudaico. L'elemento base della propaganda, che si tratti della diffusione di un'idea o della vendita di un dentifricio, è che sul mercato esista il prodotto che si vuol vendere. Lo sapevano già i bolscevichi quando inventarono il ruolo del commissario politico. Quel delegato del partito comunista preposto ad ogni iniziativa, istruito nelle tecniche di collegamento fra gli slogan non necessariamente veritieri ma immediatamente comprensibile alla folla - come pace e pane - e la logica di concetti destinati agli intellettuali, sempre per fondata su fatti veri e concreti - come un'epidemia a Londra o a uno sciopero di ferrovieri in Francia. In un mondo che ha bisogno - nel vuoto delle ideologie, nella confusione dell'informazione e della globalizzazione, nell'incertezza economica e sociale di punti di riferimento di fede e di verità, prendersela con gli ebrei, avrebbe commentato Talleyrand, «più di un crimine è un sbaglio». La Chiesa, con tutti i suoi difetti, non è un'associazione di malaffare come proclamava Voltaire. È una struttura complessa, vetusta, forte della sua provata aspirazione alla santità e alla misericordia, ma composta da comuni mortali che il potere - grande o piccolo - rischia di corrompere. E dunque comprensibile che quando in essa emergono personaggi decisi a ripulire gli armadi dagli scheletri, sapendo che la verità è la più efficace delle menzogne, si scontrino con forti resistenze. Sarebbe stato utile, in questi frangenti, ricordare la parabola del Grande Inquisitore, di Dostoievskij. La storia di Gesù che torna sulla terra e il Grande Inquisitore mette in prigione accusandolo di un peccato imperdonabile. Quello di essere portatore di verità che solo pochi possono comprendere e solo gli eletti possono realizzare con esistenze esemplari. Chi invece nella Chiesa ha raccolto il suo messaggio legittimandosi nel suo nome, di Gesù non crede di aver più bisogno. Preferisce per mantenersi al potere, perfezionare il compromesso che ha imposto o raggiunto con il popolo: ottenere obbedienza in cambio di pane e sicurezza. Gli ebrei non sono più un pane da gettare in pasto dopo la Shoah. Molti dentro e fuori alla Chiesa si ostinano a non capirlo e ancor meno quanto possa essere controproducente a metterseli fra i denti. Non a causa di un potere immaginario che gli ebrei non hanno e non hanno mai avuto. Ma a causa di quei principi di moralità e giustizia ebraici su cui si regge ogni società civile, che la Chiesa ha fatto suoi e sulla base dei quali sarebbe più proficuo collaborare, piuttosto che osteggiarsi.Vittorio Dan Segre, il Sole 24 ore, 14 aprile 2010

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