martedì 15 giugno 2010


Il sogno di una lingua universale

Lo straordinario destino delle utopie.Herzl e Freud, Ben Yehuda e Zamenhof. Sionismo e psicanalisi, la rinascita di ebraico e yiddish. E poi l’invenzione dell’esperanto, lingua della speranza, la Tiqvà. Tutti figli di uno stesso clima culturale. È nel fermento ideale dell’ebraismo di fine ‘800 che nacquero le grandi visioni del XX secolo È il 1897. Un anno denso di significati per la storia dell’ebraismo. A Basilea, Theodor Herzl riunisce il primo Congresso del movimento sionista. A est, si riunisce il primo Congresso del Bund, la prima organizzazione socialista nell’impero zarista. Nello stesso anno Sigmund Freud elabora la teoria dell’Edipo. Sullo sfondo del lutto per la perdita del padre, e in risposta all’antisemitismo, Freud aderisce al movimento internazionale dei B’nai B’rith. Il fermento politico fa da specchio al fermento linguistico. Se lo yiddish era il gergo materno di undici milioni d’ebrei, da cui aveva preso origine una letteratura e poesia moderne, l’ebraico non era solo ed esclusivamente la lingua dei morti e delle preghiere. Se lo yiddish poteva contare sul fatto di essere la lingua viva degli ebrei, l’ebraico era la loro radice più antica, il nucleo attorno a cui era stata conservata e sviluppata l’esistenza religiosa attorno alla sinagoga nel corso dei secoli. L’ebraico univa tutti gli ebrei e non solo una parte di essi, e tale era stata la sua funzione nella giurisprudenza rabbinica e nelle composizioni poetiche religiose che da un continente all’altro avevano tenuto uniti nel corso dei secoli le diverse famiglie dell’ebraismo. La rinascita dell’ebraico, lo sviluppo dello yiddish, erano fenomeni altrettanto moderni, figli di una stessa vicenda storica, parte di un processo che toccava ogni aspetto dell’esistenza. In un contesto meno drammatico, la rinascita dell’ebraico si sarebbe potuta conciliare con la conservazione e lo sviluppo dello yiddish, forse anche col recupero del ladino, la lingua che gli ebrei sefarditi avevano portato con sé nel loro doloroso esilio per le coste del Mediterraneo e in America. Se ciò non è accaduto, non è per le divisioni che lacerarono il movimento di emancipazione ebraica. Fu per l’immane tragedia che ha cancellato la quasi totalità dell’ebraismo in Polonia e in Lituania e in molti altri luoghi d’Europa. Nel breve tempo in cui fu possibile, lo yiddish fu accanto all’ebraico uno dei motori della rinascita cultura e spirituale. Grazie all’opera di grandi scrittori e poeti, da dialetto che era nel giro di una generazione era diventato una grande lingua letteraria. Dal canto suo l’ebraico, che non aveva smesso di alimentare la fiammella della speranza, uscito dalle mura della sinagoga dov’era stato custodito con amore, è diventato nell’arco di mezzo secolo una lingua ricca e sofisticata che ha dato corpo ad una delle più grandi esperienze letterarie di questo secolo. Il progetto di Eliezer Ben Yehuda, il padre della rinascita linguistica ebraica, non era nato per avere una vita facile. Se i nuclei più oscurantisti dell’ortodossia religiosa si opponevano all’uso dell’ebraico nella vita quotidiana -perché l’ebraico doveva essere conservato puro e sacro-, bolscevichi e menscevichi, per opposte ragioni, non erano da meno. Divisi su tutto, meno che sull’atteggiamento da assumere verso le istanze nazionali e culturali ebraiche, gli uni come gli altri consideravano la scelta dell’ebraico “controrivoluzionaria”. In un’epoca ossessionata dalla centralità delle lingue nazionali e dall’identificazione di questa con un territorio e con un popolo, la questione della lingua era una pietra miliare attorno a cui unirsi o dividersi. Rispetto alla questione ebraica nemmeno gli austro-marxisti avrebbero agito diversamente. Pur avendo sottolineato in linea di principio la necessità di svincolare il problema dell’appartenenza a una terra da quella linguistica e nazionale, quando si erano trovati di fronte al problema ebraico avevano rifiutato di trarre la logica conclusione della loro impostazione. Lo svincolamento dell’appartenenza nazionale e linguistica da quello territoriale, valeva solo per i popoli che avevano già da qualche altra parte un territorio. Al contrario non valeva per gli ebrei che, non possedendo un proprio territorio, erano chiamati ad assimilarsi. Sul piano dei valori nemmeno il riconoscimento dello yiddish come lingua nazionale sfuggiva a questa logica. La scelta dello yiddish si rendeva necessaria perché era in quella lingua che gli operai ebrei comunicavano fra loro. Il fatto che potesse svilupparsi e diventare una lingua nazionale era di per sé secondario. Le difficoltà concrete, l’economicismo, l’ansia escatologica e palingenetica con cui le diverse correnti del socialismo guardavano al futuro postrivoluzionario, non lasciavano spazio ad altre letture. Ebraico e esperanto, due lingue gemelleVi è però un ulteriore aspetto da prendere in considerazione e approfondire, attraverso cui accedere ad uno strato della moderna vita ebraica in tutta la sua valenza simbolica e culturale. Mi sono trovato a pensarci percorrendo la parte vecchia della città di Tel Aviv ad uno degli incroci che conducono per la centrale via Ben Yehuda, il padre della rinascita dell’ebraico moderno. Leggendo i nomi delle vie si resta colpiti dall’esistenza di una via legata al nome di Zamenhof, il padre dell’esperanto. I progetti di Eliezer Ben Yehuda (il vero nome era Perlman) e di Ludwik Lazar Zamenhof erano agli antipodi, ma entrambi figli della stessa condizione e del bisogno di trovare una soluzione ai dilemmi della condizione ebraica.Eliezer ben Yehuda vedeva, nella rinascita dell’ebraico, la condizione stessa per riscattare gli ebrei dalla loro condizione di oppressione. Al contrario il progetto di Zamenhof - che non era certo un paladino dell’assimilazione e condivideva le preoccupazioni che assillavano i padri del Risorgimento ebraico-, affondava le sue radici nella speranza di vedere superata ogni barriera, anche linguistica, tra i popoli. “Il luogo della mia nascita e dei miei anni giovanili -scrive Zamenhof in una lettera-, impresse il loro primo indirizzo a tutte le mie idee future”. A Bialystok, la sua città di nascita, la popolazione “si componeva di quattro elementi diversi: russi, polacchi, tedeschi ed ebrei”, in cui ciascuno parlava la sua propria lingua, avendo con gli altri “rapporti ostili”. “Per strada, nelle case, ad ogni passo, tutto mi dava la sensazione che l’umanità non esistesse. Esistevano solo i russi, i polacchi, i tedeschi, gli ebrei...”. La città, al centro di una regione oppressa che era oggetto di aspre dispute, era per Zamenhof un esempio paradigmatico di dove potesse condurre l’esasperato conflitto linguistico e nazionale. Da qui l’idea di “una lingua neutra” e “sovranazionale” che unisse anziché dividere, che avvicinasse gli uomini anziché rinsaldarli nella loro opposta sordità. “Nessuno, annota Zamenhof, può sentire la necessità di una lingua umanamente neutra e sovranazionale quanto un ebreo, che è obbligato a pregare Dio in una lingua morta da molto tempo, è educato e istruito nella lingua di un popolo che lo emargina, e ha compagni di sventura su tutta la terra, con i quali non può capirsi!”. Nessuno meglio di un ebreo, si potrebbe aggiungere parafrasando le parole di Freud nella sua lettera a Pfister, poteva trasformare questo bisogno in un programma praticabile, qualcosa che andasse oltre una bizzarra fantasia, di un’utopia senza prospettive reali. Nelle intenzioni di Zamenhof, la lingua universale, l’esperanto appunto, non doveva nascere dal nulla. Per non creare difficoltà di apprendimento insormontabili per la presenza di radici sconosciute, aveva ampiamente utilizzato la lingua latina, matrice o base di prestiti, secondo i casi, di gran parte delle lingue europee. La scelta di Perlman invece, che in seguito prese il nome di Eliezer Ben Yehuda, procedette in un’altra direzione: non la ricerca di un substrato europeo su cui edificare una lingua comune, ma il ritorno all’ebraico, la lingua ancestrale dei padri. La scelta di Perlman conquistò i militanti ebrei che erano stati costretti ad un duro risveglio, dopo l’ondata di pogrom del 1882. Due linguisti di genioCome Kafka, anche Zamenhof e Perlman ad un certo momento della loro ricerca si erano dovuti scontrare con delle impossibilità linguistiche. Per Zamenhof si trattava della difficoltà insormontabile rappresentata dall’uso di una lingua inventata, anche se l’esperanto, grazie all’ampio uso del latino, aveva maggiori possibilità d’imporsi come lingua comune dei popoli europei. Emigrato in Palestina nel 1888, Ben Yehuda aveva preso l’estrema decisione di parlare col figlio solamente in ebraico, proibendo a chiunque di rivolgersi ad esso in un’altra lingua. Settimana dopo settimana, i membri dell’Yishuv, la comunità ebraica nata dall’immigrazione sionista, facevano l’incontro con decine di parole da lui coniate, alcune delle quali sopravvivevano ed entravano nell’uso, mentre altre cadevano. L’attività svolta sulla lingua da un solo uomo sopravanzò quella di un’intera generazione di studiosi. Nella cella di un carcere turco, dove fu rinchiuso in Palestina per due anni, Perlman lavorò al suo progetto per 18 ore al giorno, dalle sei di mattina alle dodici di notte. In America dove visse per un certo periodo, lavorò per dodici, tredici ore al giorno. Dei 16 volumi di cui si compone l’atlante storico della lingua ebraica, terminato solo nel 1959, sei sono tutti suoi. Quando Perlman morì consumato dal suo sforzo nel 1922, l’ebraico parlato era la lingua di una piccola comunità. Nei decenni successivi l’ebraico avrebbe recuperato i secoli perduti.Andare oltre le barriereL’atto di nascita del progetto di Ben Yehuda, è un articolo del 1878 in cui si faceva appello agli ebrei di parlare solo in ebraico. L’atto di nascita dell’esperanto, è del 1887. Non è un caso che la denominazione sia la stessa dell’inno nazionale ebraico, l’Hatikvah (speranza, esperanto). Sono più che coincidenze. Dieci anni dopo nascevano il movimento sionista ed il movimento bundista, fratelli gemelli e speculari nella loro reciproca opposizione anche linguistica. Il primo avrebbe propugnato l’ebraico, il secondo lo yiddish come lingua nazionale ebraica. In quello stesso anno, Freud formulava la teoria del complesso edipico. Ben Yehuda era nato nel 1858, Zamenhof nel 1859, due e tre anni dopo Freud. Come Freud, anche Zamenhof era medico. L’attraversamento della lingua e dei codici, la necessità di ridare un significato alla multi-appartenenza, in un’epoca di nazionalismi esasperati che consideravano tutto ciò un pericolo e la psicologia accademica vi vedeva il sintomo di un disturbo o peggio di una malattia, è all’origine del progetto freudiano. Il fatto che il pensiero psicoanalitico si sia ad un certo momento dovuto misurare con gli apporti della linguistica non è solo il risultato di un inevitabile e fecondo incontro su terreni di confine di discipline diverse. Per chi ha capacità di ascolto, questa discussione scientifica conserva l’eco di eventi storici drammatici da cui ha preso avvio la ricerca freudiana di una lingua franca, capace di far parlare oltre il sintomo. Si comprende dunque come lo studio della componente ebraica di Freud, intenda non solo a riscattare un aspetto importante della vita e dell’opera del fondatore della psicoanalisi, ma sia anche un prisma entro cui riflettere problemi di portata più ampia. È nello sguardo “straniero” che una società poteva imparare a comprendersi meglio, e capire perché determinate scoperte, alla cui radice vi era un ethos particolare, si fossero poi affermate e diffuse come parte del vivere quotidiano in Occidente. David Meghnagi http://www.mosaico-cem.it/

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