mercoledì 16 giugno 2010


Souad Sbai

"Sbai: femministe assenti. 'Non serve il coro per esserci' - Per Hina e Sanaa lo stesso ergastolo, ma si diffonde l'indifferenza»

MILANO— «Sono rammaricata». Non è la prima volta che succede e Souad sa bene che non sarà l’ultima. Però ci tiene lo stesso a farlo notare: «Mi dispiace sono rammaricata di vedere ancora una volta la pressoché totale assenza delle femministe. Tutta l’Italia si deve schierare dalla parte delle donne e di Sanaa. Oggi siamo tutte Sanaa». Da parlamentare pdl o da presidente dell’associazione delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai ha già seguito decine di casi simili a quello di Sanaa, magari non così tragici ma comunque storie di sopraffazioni, di donne che soccombono, che soffrono, che a volte si arrendono alla violenza di un marito, un padre, un fratello. E ogni volta che ha potuto, Souad ha fatto presente quell’assenza: le femministe. «Peccato che il femminismo non sia un gruppo di presenza, non si muova come i carabinieri. È un movimento», le risponde stizzita Ritanna Armeni, giornalista e scrittrice nonché convinta femminista da sempre. «Che cosa miserabile questo modo strumentale per attaccare il femminismo di sinistra... — se la prende —. E poi mi fa specie che venga da persone che ritengono vetero le manifestazioni, folli i cortei, sbagliata la piazza... Vogliamo ricordare che il femminismo ha imposto le leggi contro la violenza?». E che sia chiaro: «Se il ministro Carfagna o un gruppo di femministe è al processo di Sanaa dico che è una cosa buona, certo. Ma se non c’è non è una cosa cattiva. Lo so dove si vuole arrivare: dire che le donne di sinistra non sono femministe quando si tratta di colpire un islamico. Una teoria che non si può sentire». Inascoltabile anche per Carmen Leccardi, docente di Sociologia della cultura e delegata per le pari opportunità dell’università Bicocca di Milano. «Più che le femministe — ragiona — io direi che il vero problema è che la società civile tutta assieme stenta a far sentire la sua voce. E poi chiunque può capire che non siamo negli anni Settanta e che la frammentazione del movimento rende difficile far sentire in modo univoco la voce delle donne in casi come questo di Sanaa. Ma non è vero che siccome non c’è il coro allora niente si muove». Quando, nell'agosto 2006 in provincia di Brescia, Hina Saleem, una ventenne pakistana fu sgozzata dal padre (e sepolta nel giardino di casa) perché «si comportava da occidentale e rischiava di diventare come le ragazze di qui», l'opinione pubblica rimase sconvolta con tanto di mobilitazione del dibattito culturale sullo scontro o confronto di civiltà tra Islam e Occidente. Al delitto si aggiunse l'agghiacciante dichiarazione della madre di Hina, che dava ragione al marito: «Mohammed ha fatto giustizia».
Tre anni dopo, e cioè nel settembre scorso, a Pordenone, un destino analogo è toccato a Sanaa Dafani, una diciottenne marocchina, uccisa dal padre che (esattamente come il padre di Hina) pretendeva di disporre della vita della figlia e non accettava la sua relazione con un ragazzo italiano. Ieri il tribunale ha emesso la stessa sentenza di tre anni fa: ergastolo. Il delitto d'onore, per fortuna, è punito dalla nostra legge. Giustamente, la deputata Souad Sbai, presidente delle donne marocchine in Italia, si è rammaricata del fatto che il processo è stato disertato dalle femministe, che neanche si sono dichiarate parte civile in difesa della povera Sanaa. Ma forse, a ben pensarci, ci sarebbero ragioni di rammarico più sottile e forse più gravi. Non da ultimo la sensazione che mentre in passato si restava indignati e increduli di fronte a queste forme di violenza tribale, oggi si sia passati a una sorta di generale indifferenza. Che può essere tranquillamente assimilata ad altri tipi di assuefazione che si manifestano in presenza delle ordinarie follie cui assistiamo quasi quotidianamente e che non hanno nessuna coloritura etnica o religiosa: insensate stragi familiari, carneficine di provincia, regolamenti di conti tra vicini e lontani. Ma viceversa la stessa indifferenza si può interpretare anche come una alzata di spalle di fronte a fenomeni che tutto sommato ci appaiono (erroneamente!) estranei. Un modo per dire: «In fondo sono fatti loro!». Tra complicità e autolesionismo. CORRIERE della SERA 15/06/2010

Nessun commento: