Tra i massimi studiosi internazionali delle dinamiche della risata, Laura Salmon, slavista e docente dell’Università di Genova, è autrice di Meccanismi dell’umorismo. Sull’opera di Sergej Dovlatov (Mosca, 2008), lavoro frutto di 20 anni di ricerche che è stato recentemente pubblicato in Russia e che dovrebbe arrivare presto anche in Italia, nella sua componente prettamente ebraica, grazie alla casa editrice Giuntina. “Si fa un gran parlare di umorismo ebraico – spiega la professoressa ai nostri lettori – ma spesso questo avviene a sproposito. Per molti, anche tra gli addetti ai lavori, gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. Un’affermazione che non rende giustizia a una tradizione dissacrante ed eversiva che ha contaminato tanta letteratura di valore del Novecento”. Professoressa Salmon, sui giornali, nei libri, al cinema va sempre più di moda la risata ‘ebraica’. Sgombriamo il campo da equivoci, cosa rappresenta questo particolarissimo genere nel vasto panorama dello humour? Partirei da un presupposto che ritengo essenziale: quello che definiamo con il termine humour è in realtà una macrocategoria in cui rientrano fenomeni molto differenti. In questa diversità spicca in particolare il dualismo comicità-umorismo scettico. Da una parte un modello verticale, dall’altro un sistema di tipo orizzontale. È un binomio da tenere bene a mente per non cadere in fraintendimenti purtroppo comuni. Qual è la differenza tra i due generi? Tutte le forme di comicità richiedono un atteggiamento di superiorità da parte di chi fa la battuta. Si tende quindi a denigrare, a deridere la vittima della nostra arroganza. L’umorismo scettico ha invece come oggetto non una persona e neppure una categoria di persone. Ad essere messo in crisi è un determinato modello, un sistema di valori. Lo scopo è quello di condividere la consapevolezza della paradossalità della vita umana. L’umorismo ebraico appartiene alla seconda categoria? Certamente nella sua componente più specifica. Gli ebrei, legati da una parte alla loro singolare e instabile vicenda diasporica attraverso i secoli e dall’altra all’assenza di posizioni dogmatiche, di verità indiscutibili, sono senza dubbio dei maestri capaci nel trovare, grazie a questa sospensione, a questo processo di ricerca perennemente incompiuto, una vera e propria solidità nell’assurdo. L’umorismo ebraico, quello specifico, quello che non è vittima di banalizzazioni e distorsioni, si basa sulla comprensione dell’assurdità che ci circonda e sulla condivisione di questa scoperta con chi ci è vicino. Un umorismo quindi fortemente empatico e basato sulla caduta di barriere e pregiudizi. Un modo per dire ‘Siamo tutti dei disgraziati, rendiamoci conto di questo e facciamoci una risata perché altro da fare non ci resta’. La contrapposizione è evidente: la comicità tradizionale ti dà un pugno, l’umorismo ebraico una mano. Parlando in altri termini la comicità, che serve a rafforzare gli stereotipi su cui fa leva, è definibile come un’azione conservativa-reazionaria. L’umorismo è invece eversivo, un’acutissima presa in giro, spesso in forma aforistica, con poche ma pungenti parole, del sistema binario buono/cattivo – bello/brutto assai diffuso nella nostra società. Una tra le tante spiegazioni per le feroci persecuzioni antiebraiche nel passato e per il disagio che ancora oggi suscita in alcuni questo approccio rivoluzionario e destabilizzante. Qual è la consapevolezza complessiva di questa peculiarità umoristica? Scarsa in modo impressionante, purtroppo anche tra gli addetti ai lavori. La percezione generale è che gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. È un peccato perché un approccio differente permetterebbe di cogliere l'essenza particolare di questa sofisticata tipologia di humour. Non si tratta comunque di un appannaggio facile: per arrivarci sembra necessario un lungo e consapevole addestramento che tenga lontani dai cliché. In fondo è anche questo il segreto del suo fascino perché, in chi ne è appassionato cultore, tende a radicarsi la sensazione di appartenere a una specie di ‘èlite’. Si trasforma la paura della precarietà in quella che definirei ‘euforia da montagne russe’: la condizione di vertigine, oscillando tra un paradosso all’altro, rappresenta infatti un’esperienza che rende divertente la sospensione esistenziale. Dovendo spiegare una tipica situazione di umorismo ebraico ai suoi studenti quale figura, quale momento utilizzerebbe come esempio? Senz’altro la famosa scena della patata nel film ‘Ogni cosa è illuminata’, scena che ci porta a vedere come personaggi in partenza antitetici diventino a un certo punto come fratelli. Il meccanismo di condivisione tra i due parte proprio da una risata: si ride della mancanza di senso, dell'incomprensione latente. Tra gli autori inserisco a pieno titolo Sergej Dovlatov, scrittore russo di cui ho avuto la fortuna di tradurre il vasto corpus letterario. Dovlatov è un personaggio emblematico: ebreo per i non ebrei, non ebreo per gli ebrei. Halakhicamente un goy, ci ha lasciato in eredità alcune pagine straordinarie e inequivocabili di umorismo ebraico. Tutta la sua opera è infatti protesa eversivamente a farci vedere l’amico nel nemico e l’intimo nel lontano. Dovlatov ci comunica che nella disavventura siamo tutti uguali senza distinzione di razza, colore, religione. La sua è un’operazione che porta al dissolvimento di ogni certezza, che ci fa vedere il mondo da un punto di vista differente da quello propugnato dall'ideologia, dal dogma. È il ridere nel pianto di pirandelliana memoria, il witz scettico freudiano e la ‘chochma’ ebraica.Adam Smulevich, Pagine Ebraiche marzo 2012 - twitter @asmulevichmoked
mercoledì 7 marzo 2012
Dovlatov, maestro del paradosso
Tra i massimi studiosi internazionali delle dinamiche della risata, Laura Salmon, slavista e docente dell’Università di Genova, è autrice di Meccanismi dell’umorismo. Sull’opera di Sergej Dovlatov (Mosca, 2008), lavoro frutto di 20 anni di ricerche che è stato recentemente pubblicato in Russia e che dovrebbe arrivare presto anche in Italia, nella sua componente prettamente ebraica, grazie alla casa editrice Giuntina. “Si fa un gran parlare di umorismo ebraico – spiega la professoressa ai nostri lettori – ma spesso questo avviene a sproposito. Per molti, anche tra gli addetti ai lavori, gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. Un’affermazione che non rende giustizia a una tradizione dissacrante ed eversiva che ha contaminato tanta letteratura di valore del Novecento”. Professoressa Salmon, sui giornali, nei libri, al cinema va sempre più di moda la risata ‘ebraica’. Sgombriamo il campo da equivoci, cosa rappresenta questo particolarissimo genere nel vasto panorama dello humour? Partirei da un presupposto che ritengo essenziale: quello che definiamo con il termine humour è in realtà una macrocategoria in cui rientrano fenomeni molto differenti. In questa diversità spicca in particolare il dualismo comicità-umorismo scettico. Da una parte un modello verticale, dall’altro un sistema di tipo orizzontale. È un binomio da tenere bene a mente per non cadere in fraintendimenti purtroppo comuni. Qual è la differenza tra i due generi? Tutte le forme di comicità richiedono un atteggiamento di superiorità da parte di chi fa la battuta. Si tende quindi a denigrare, a deridere la vittima della nostra arroganza. L’umorismo scettico ha invece come oggetto non una persona e neppure una categoria di persone. Ad essere messo in crisi è un determinato modello, un sistema di valori. Lo scopo è quello di condividere la consapevolezza della paradossalità della vita umana. L’umorismo ebraico appartiene alla seconda categoria? Certamente nella sua componente più specifica. Gli ebrei, legati da una parte alla loro singolare e instabile vicenda diasporica attraverso i secoli e dall’altra all’assenza di posizioni dogmatiche, di verità indiscutibili, sono senza dubbio dei maestri capaci nel trovare, grazie a questa sospensione, a questo processo di ricerca perennemente incompiuto, una vera e propria solidità nell’assurdo. L’umorismo ebraico, quello specifico, quello che non è vittima di banalizzazioni e distorsioni, si basa sulla comprensione dell’assurdità che ci circonda e sulla condivisione di questa scoperta con chi ci è vicino. Un umorismo quindi fortemente empatico e basato sulla caduta di barriere e pregiudizi. Un modo per dire ‘Siamo tutti dei disgraziati, rendiamoci conto di questo e facciamoci una risata perché altro da fare non ci resta’. La contrapposizione è evidente: la comicità tradizionale ti dà un pugno, l’umorismo ebraico una mano. Parlando in altri termini la comicità, che serve a rafforzare gli stereotipi su cui fa leva, è definibile come un’azione conservativa-reazionaria. L’umorismo è invece eversivo, un’acutissima presa in giro, spesso in forma aforistica, con poche ma pungenti parole, del sistema binario buono/cattivo – bello/brutto assai diffuso nella nostra società. Una tra le tante spiegazioni per le feroci persecuzioni antiebraiche nel passato e per il disagio che ancora oggi suscita in alcuni questo approccio rivoluzionario e destabilizzante. Qual è la consapevolezza complessiva di questa peculiarità umoristica? Scarsa in modo impressionante, purtroppo anche tra gli addetti ai lavori. La percezione generale è che gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. È un peccato perché un approccio differente permetterebbe di cogliere l'essenza particolare di questa sofisticata tipologia di humour. Non si tratta comunque di un appannaggio facile: per arrivarci sembra necessario un lungo e consapevole addestramento che tenga lontani dai cliché. In fondo è anche questo il segreto del suo fascino perché, in chi ne è appassionato cultore, tende a radicarsi la sensazione di appartenere a una specie di ‘èlite’. Si trasforma la paura della precarietà in quella che definirei ‘euforia da montagne russe’: la condizione di vertigine, oscillando tra un paradosso all’altro, rappresenta infatti un’esperienza che rende divertente la sospensione esistenziale. Dovendo spiegare una tipica situazione di umorismo ebraico ai suoi studenti quale figura, quale momento utilizzerebbe come esempio? Senz’altro la famosa scena della patata nel film ‘Ogni cosa è illuminata’, scena che ci porta a vedere come personaggi in partenza antitetici diventino a un certo punto come fratelli. Il meccanismo di condivisione tra i due parte proprio da una risata: si ride della mancanza di senso, dell'incomprensione latente. Tra gli autori inserisco a pieno titolo Sergej Dovlatov, scrittore russo di cui ho avuto la fortuna di tradurre il vasto corpus letterario. Dovlatov è un personaggio emblematico: ebreo per i non ebrei, non ebreo per gli ebrei. Halakhicamente un goy, ci ha lasciato in eredità alcune pagine straordinarie e inequivocabili di umorismo ebraico. Tutta la sua opera è infatti protesa eversivamente a farci vedere l’amico nel nemico e l’intimo nel lontano. Dovlatov ci comunica che nella disavventura siamo tutti uguali senza distinzione di razza, colore, religione. La sua è un’operazione che porta al dissolvimento di ogni certezza, che ci fa vedere il mondo da un punto di vista differente da quello propugnato dall'ideologia, dal dogma. È il ridere nel pianto di pirandelliana memoria, il witz scettico freudiano e la ‘chochma’ ebraica.Adam Smulevich, Pagine Ebraiche marzo 2012 - twitter @asmulevichmoked
Tra i massimi studiosi internazionali delle dinamiche della risata, Laura Salmon, slavista e docente dell’Università di Genova, è autrice di Meccanismi dell’umorismo. Sull’opera di Sergej Dovlatov (Mosca, 2008), lavoro frutto di 20 anni di ricerche che è stato recentemente pubblicato in Russia e che dovrebbe arrivare presto anche in Italia, nella sua componente prettamente ebraica, grazie alla casa editrice Giuntina. “Si fa un gran parlare di umorismo ebraico – spiega la professoressa ai nostri lettori – ma spesso questo avviene a sproposito. Per molti, anche tra gli addetti ai lavori, gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. Un’affermazione che non rende giustizia a una tradizione dissacrante ed eversiva che ha contaminato tanta letteratura di valore del Novecento”. Professoressa Salmon, sui giornali, nei libri, al cinema va sempre più di moda la risata ‘ebraica’. Sgombriamo il campo da equivoci, cosa rappresenta questo particolarissimo genere nel vasto panorama dello humour? Partirei da un presupposto che ritengo essenziale: quello che definiamo con il termine humour è in realtà una macrocategoria in cui rientrano fenomeni molto differenti. In questa diversità spicca in particolare il dualismo comicità-umorismo scettico. Da una parte un modello verticale, dall’altro un sistema di tipo orizzontale. È un binomio da tenere bene a mente per non cadere in fraintendimenti purtroppo comuni. Qual è la differenza tra i due generi? Tutte le forme di comicità richiedono un atteggiamento di superiorità da parte di chi fa la battuta. Si tende quindi a denigrare, a deridere la vittima della nostra arroganza. L’umorismo scettico ha invece come oggetto non una persona e neppure una categoria di persone. Ad essere messo in crisi è un determinato modello, un sistema di valori. Lo scopo è quello di condividere la consapevolezza della paradossalità della vita umana. L’umorismo ebraico appartiene alla seconda categoria? Certamente nella sua componente più specifica. Gli ebrei, legati da una parte alla loro singolare e instabile vicenda diasporica attraverso i secoli e dall’altra all’assenza di posizioni dogmatiche, di verità indiscutibili, sono senza dubbio dei maestri capaci nel trovare, grazie a questa sospensione, a questo processo di ricerca perennemente incompiuto, una vera e propria solidità nell’assurdo. L’umorismo ebraico, quello specifico, quello che non è vittima di banalizzazioni e distorsioni, si basa sulla comprensione dell’assurdità che ci circonda e sulla condivisione di questa scoperta con chi ci è vicino. Un umorismo quindi fortemente empatico e basato sulla caduta di barriere e pregiudizi. Un modo per dire ‘Siamo tutti dei disgraziati, rendiamoci conto di questo e facciamoci una risata perché altro da fare non ci resta’. La contrapposizione è evidente: la comicità tradizionale ti dà un pugno, l’umorismo ebraico una mano. Parlando in altri termini la comicità, che serve a rafforzare gli stereotipi su cui fa leva, è definibile come un’azione conservativa-reazionaria. L’umorismo è invece eversivo, un’acutissima presa in giro, spesso in forma aforistica, con poche ma pungenti parole, del sistema binario buono/cattivo – bello/brutto assai diffuso nella nostra società. Una tra le tante spiegazioni per le feroci persecuzioni antiebraiche nel passato e per il disagio che ancora oggi suscita in alcuni questo approccio rivoluzionario e destabilizzante. Qual è la consapevolezza complessiva di questa peculiarità umoristica? Scarsa in modo impressionante, purtroppo anche tra gli addetti ai lavori. La percezione generale è che gli ebrei sono ‘quelli che raccontano tante barzellette’. È un peccato perché un approccio differente permetterebbe di cogliere l'essenza particolare di questa sofisticata tipologia di humour. Non si tratta comunque di un appannaggio facile: per arrivarci sembra necessario un lungo e consapevole addestramento che tenga lontani dai cliché. In fondo è anche questo il segreto del suo fascino perché, in chi ne è appassionato cultore, tende a radicarsi la sensazione di appartenere a una specie di ‘èlite’. Si trasforma la paura della precarietà in quella che definirei ‘euforia da montagne russe’: la condizione di vertigine, oscillando tra un paradosso all’altro, rappresenta infatti un’esperienza che rende divertente la sospensione esistenziale. Dovendo spiegare una tipica situazione di umorismo ebraico ai suoi studenti quale figura, quale momento utilizzerebbe come esempio? Senz’altro la famosa scena della patata nel film ‘Ogni cosa è illuminata’, scena che ci porta a vedere come personaggi in partenza antitetici diventino a un certo punto come fratelli. Il meccanismo di condivisione tra i due parte proprio da una risata: si ride della mancanza di senso, dell'incomprensione latente. Tra gli autori inserisco a pieno titolo Sergej Dovlatov, scrittore russo di cui ho avuto la fortuna di tradurre il vasto corpus letterario. Dovlatov è un personaggio emblematico: ebreo per i non ebrei, non ebreo per gli ebrei. Halakhicamente un goy, ci ha lasciato in eredità alcune pagine straordinarie e inequivocabili di umorismo ebraico. Tutta la sua opera è infatti protesa eversivamente a farci vedere l’amico nel nemico e l’intimo nel lontano. Dovlatov ci comunica che nella disavventura siamo tutti uguali senza distinzione di razza, colore, religione. La sua è un’operazione che porta al dissolvimento di ogni certezza, che ci fa vedere il mondo da un punto di vista differente da quello propugnato dall'ideologia, dal dogma. È il ridere nel pianto di pirandelliana memoria, il witz scettico freudiano e la ‘chochma’ ebraica.Adam Smulevich, Pagine Ebraiche marzo 2012 - twitter @asmulevichmoked
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento