Da due millenni e passa celebriamo Purim; e come tutte le ricorrenze ebraiche lo facciamo non per esaltare la gloria dei protagonisti, secondo il modello storico greco, o per curiosità antiquaria, o per puro amore della scienza, secondo l’etica universitaria moderna, ma per imparare. Dobbiamo dunque sempre interrogarci sul nostro rapporto con quella storia, su quel che dice a noi oggi. Tanto più che in fondo la vicenda di Purim non è così diversa nel suo nucleo strutturale da quella di Amalek (e infatti i maestri cui dobbiamo il nostro calendario liturgico istituiurono Shabbat Zakhor subito prima di Purim, e la tradizione indica Haman come amalecita), ma anche di Hannukkah e di Pesach, feste consecutive nel primo semestre del calendario ebraico: c’è sempre un oppressore che ci assale, che cerca di distruggere il nostro popolo, c’è una resistenza che deve anche superare la debolezza, se non proprio l’inazione e la debolezza del popolo (le mormorazioni degli anziani prima delle piaghe, le braccia tese di Moshé che si piegano per la stanchezza, il collaborazionismo con i dominatori ellenisti, le esitazioni di Ester. Ma poi la salvezza arriva, con un intervento divino diretto e proclamato, come per Pesach, con il miracolo evidente come nel caso della battaglia con Amalek, o per l’azione umana quando il divino si occulta, come nel caso di Purim e forse anche di Hannukkah (dove il miracolo avviene dopo la vittoria). L’insegnamento è ottimistico e incita in tutti i casi all’azione, allo sforzo e all’impegno personale, non all’attesa passiva dell’intervento divino, com’è chiaro nel momento culminante dell’uscita dall’Egitto, quando si tratta di affrontare il mare e Moshé è invitato ad agire, invece che a lamentarsi.Ora, se noi ci chiediamo se possiamo applicare questo schema alla nostra storia attuale, la risposta non può che essere affermativa. Il popolo ebraico ha subito nei tempi recenti la Shoah e ne è sopravvissuto, sia pure con gravissime perdite, e ora, come nella conclusione della storia di Purim o delle altre storie che ho citato è più libero e prospero di prima. Per metà o più è rientrato in Terra di Israele, si autogoverna, vive una straordinaria stagione di produttività culturale e di benessere materiale. In altri tempi e con altri linguaggi diremmo che siamo testimoni di uno straordinario miracolo. Certo, alcuni che si considerano ultrareligiosi dicono che il popolo ebraico non doveva “salire sul muro” e doveva restare nell’esilio (ma costoro sarebbero rimasti in Egitto, a suo tempo, certo non avrebbero creduto a Moshé) o magari si lamentando del carattere laico dello Stato, come già non tutti gli ebrei approvarono il comportamento di Mordecai, troppo impegnato a salvare gli ebrei per studiare in yeshivà, come ha fatto giustamente notare Anna Segre un paio di giorni fa. E del resto è noto che i maestri furono incerti a lungo se inserire la Meghillà nel canone delle scritture ebraiche, forse anche perché se non proprio il testo – chissà – almeno le lettere che lo raccomandavano erano di mano femminile.Ma poi approvarono il testo e noi abbiamo l’obbligo di leggerlo anche se racconta azioni in apparenza solo umane, senza mai citare direttamente la presenza divina. E magari fra secoli il nostro tempo sarà ricordato come un altro Purim, un momento miracoloso della nostra storia, anche se Ben Gurion non portava la kippà (ma a modo suo studiava la Torah). Noi siamo testimoni di quel ritorno che per millenni è stato sognato e sperato e pregato e per questo abbiamo l’obbligo di essere doppiamente felici per Purim. Non è come se l’avessimo sperimentato, non è che “ciascuno di noi deve considerarsi come se fosse stato personalmente salvato dall’Egitto”, secondo quel che dice la Haggadah di Pesach; noi siamo effettivamente testimoni dell’esistenza di Israele, “germoglio della nostra redenzione”, come diciamo pregando.Le storie ebraiche finiscono bene, sono talvolta raccontate nei modi della narrativa popolare, com’è il caso della Meghillà. Ma non sono fiabe e quindi il lieto fine è solo parziale. Lo stesso carattere ripetitivo dello schema oppressione-liberazione che ho evocato è allarmante, soprattutto se lo integriamo con le volte in cui vi è stata solo oppressione e magari poi faticosa e difficile sopravvivenza, non liberazione trionfale: la doppia caduta del Tempio, la cacciata di Spagna, i cicli terribili delle persecuzioni delle Crociate e nella Polonia del Seicento, per citare solo alcuni episodi. L’obbligo di ricordarsi di Amalek, cioè delle persecuzioni, che Shabbat Zakhor ha ribadito solennemente, è importante soprattutto nei periodi felici. E infatti i candidati al ruolo di Amalek o di Haman o di Hitler non mancano mai. Sicché è ragionevole sostenere che noi siamo oggi non solo nei capitoli finali della Meghillà, ma anche in quelli iniziali, in cui l’oppressore prepara la strage. Uno di questi nuovi Haman è di nuovo il governatore dell’impero persiano e domani lunedì il primo ministro di Israele incontrerà l’uomo più potente del mondo (il nuovo incerto e seducibile Achashverosh?) per convincerlo a non abbandonare Israele nelle grinfie di Haman. Possiamo solo sperare che ci riesca, che la sua lucidità e la sua forza morale prevalgano anche sulle resistenze interne al nostro popolo, prima che una nuova difficilissima prova di coraggio e un nuovo rischio di genocidio ci si presenti davanti. Ugo Volli, http://moked.it/blog
lunedì 5 marzo 2012
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