giovedì 8 maggio 2008

Gerusalemme

Una nuova forma di antisemitismo

“The State of the Jews has became the Jew of the nations”.

Così, durante la seconda Intifadah, scriveva Yossi Klein Halevi dalle pagine del Jerusalem Report per definire la condizione di Israele nello scenario internazionale.
Una “condizione” costruita nel tempo grazie ad una poderosa e decennale campagna fatta di deformazione e manipolazione dei fatti, di una progressiva revisione storica, di costruzione di una vulgata e di un immaginario che ha messo insieme luoghi comuni terzomondisti, reazionari, razzisti e panarabisti.
Processo questo scatenato da quando negli anni 50 l’URSS, e quella parte di sinistra a lei legata, hanno abbandonato Israele per una più conveniente alleanza con i nuovi regimi arabi.
Come d’incanto Israele, fino allora considerato “cuneo rosso nel medioevo arabo” divenne un “avamposto dell’imperialismo americano”; così come improvvisamente divennero “progressisti” i nuovi nazionalismi arabi che in realtà avevano perseguitato partiti e leader liberali, socialisti e comunisti.
Da allora, confondendo “cause nazionali” e nazionalismi, leggendo come “lotta di liberazione” qualsiasi conflitto armato nel sud del mondo, si è riusciti a legittimare qualsiasi atto ostile nei confronti di Israele, lo Stato del popolo ebraico.
Ma non sono le politiche dei governi israeliani ad essere criticati, a torto o a ragione, ma la legittimità stessa dello Stato di Israele ad esistere perchè la nascita di Israele sarebbe macchiata da un peccato originale: la sottrazione di terra e la mancata costituzione di uno stato per il popolo palestinese.
Questa la tesi di sempre, questa la tesi di oggi, dei contestatori della presenza di Israele persino al Salone del Libro di Torino.
Costoro, sbadati o incolti che siano, dimenticano che la tragedia del popolo palestinese ha origine nel “rifiuto arabo” di trovare qualsiasi soluzione negli anni quaranta (stato binazionale o spartizione in due stati), nel tentativo arabo di risolvere la questione con le guerre e con lo sterminio degli ebrei in Medio Oriente (’47, ’48, ‘49, ’67), e infine nell’occupazione da parte dei regimi arabi delle terre destinate allo stato arabo palestinese.
Anche la vicenda dei profughi (e no solo quelli palestinesi!) trova origine nelle scellerate scelte sciovinistiche del primo nazionalismo arabo.
La nascita di Israele, secondo costoro, sarebbe una iattura, o avrebbe dovuto essere miracolosamente pacifica e indolore, senza guerre e spargimenti di sangue, senza profughi: ma nessuna nazione al mondo è nata così e il miracolo, forse, si sarebbe realizzato se non fossero stati eliminati e leader arabi favorevoli al raggiungimento di un accordo.
È dalla rimozione di queste verità storiche che trovano fondamento le posizioni antisioniste o quelle pregiudizialmente anti-israeliane, quelle insomma che pongono Israele sempre sul banco degli imputati.
Ma l’antisionismo non è solo questo: è anche la negazione di un diritto che viene (almeno nominalmente) riconosciuto a qualsiasi altro popolo. È quindi una “nuova” forma di antisemitismo, che discrimina gli ebrei non più come individui, ma come nazione.
Il fenomeno, che coinvolge non fasce marginali di società ma significative personalità della politica e della cultura, è così profondo che durante la celebrazione del Giorno della Memoria dello scorso anno, il presidente Giorgio Napolitano dichiarava a chiare lettere che bisognava combattere “ogni rigurgito di antisemitismo, anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele”
Una dichiarazione così netta che spiega con chiarezza il perché il presidente Napolitano abbia deciso di inaugurare lui stesso il Salone del Libro di Torino: giungere a negare spazio e legittimità alla cultura di un intero popolo, negare diritto di cittadinanza a libri e persone, è già un atto, una pratica politica, di vera discriminazione.
È un trattamento questo che non è stato riservato alla cultura di nessun altro paese, compresi quelli più razzisti, aggressivi, dittatoriali.
Accade solo con Israele.
E la cosa più triste e beffarda è che la discriminazione, che ha sempre bisogno di un paravento di menzogna, si permette anche di manipolare temi per noi sacri, come quello della pace o dei diritti dei popoli.
Chiedo dunque ai contestatori di Torino, agli intellettuali che li guidano, se non sia più consono per degli amanti della cultura, per i paladini della pace, costruire “ponti” fra le due parti in causa, Israele e mondo arabo.
Chiedo loro se non sia proprio la letteratura israeliana uno dei più formidabili strumenti per permettere, per sviluppare, il dialogo e la comprensione fra i popoli del Medio Oriente.
È tempo, per chi voglia dare un contributo alla pace, di assumersi la responsabilità di chiamare le cose con il loro nome: l’antisionismo è antisemitismo; gli ebrei, come nazione, sono Israele, ed Israele, oggi, è l’ebreo fra le nazioni.
Victor Magiar – Europa - 7 maggio 2008

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