sabato 31 gennaio 2009

Gerusalemme - Santo Sepolcro

S.Sede:catalogo manoscritti ebraici

Ambasciatore Israele, pietra miliare collaborazione culturale (ANSA) - CITTA' DEL VATICANO, 30 GEN - Si e' svolta stamani in Vaticano la presentazione del ricco 'Catalogo dei manoscritti ebraici della Biblioteca Vaticana'.'Una pietra miliare nella collaborazione culturale tra il Vaticano e Israele', ha detto l'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Lewy. 'Le nostre relazioni - ha aggiunto - hanno solo 15 anni, ma entrambi possiamo guardare indietro per alcune migliaia d'anni'. Per il prefetto della Biblioteca apostolica, mons. Pasini, e' una 'straordinaria collezione'.

venerdì 30 gennaio 2009

Gerusalemme - Santo Sepolcro

Gentili Amici,
vi invitiamo ad aderire alla Dichiarazione di cattolici contro la negazione della Shoah accessibile dalla Home page del sito http://www.sidic.org/. Dal sito sarà possibile inserire direttamente il vostro Nome ed inoltrarlo, aggiornando la lista dei firmatari.Ci auguriamo che questo piccolo gesto ci aiuti a fare quella Memoria che è tanto più vera in quanto ci aiuta a rinnovare vincoli di amore e di responsabilità gli uni verso gli altri.Grazie e saluti a tutti Ombretta Pisano

mercoledì 28 gennaio 2009


DEFIANCE – I GIORNI DEL CORAGGIO di Edward Zwick, USA, 2008

“Cominceremo a ricostruire quella vita che avete perduto…”
Non conoscevo la vicenda dei fratelli Bielski finché l’estate scorsa non lessi su il Foglio un articolo di Giulio Meotti “Fango sui fratelli Bielski, eroi della Gerusalemme bielorussa” in cui veniva dato conto della campagna diffamatoria operata, da parte di una prestigiosa testata polacca (la Gazeta Wyborcza), ai danni di tre fratelli ebrei bielorussi di origine polacca, Tuvia, Zus e Asael Bielski, i quali, nei terribili anni della Seconda Guerra Mondiale, dopo che i tedeschi avevano sterminato la loro famiglia, presero le armi e a cavallo si rifugiarono nelle foreste all’intorno. Da quei luoghi remoti dettero vita ad un progetto ambizioso: salvare dalla furia omicida e genocidaria degli invasori, oltre che dalla complice polizia locale, quante più persone possibile del loro popolo. A prezzo di inenarrabili sacrifici e di lancinanti dilemmi morali, pian piano costruirono nei boschi un piccolo ospedale, una scuola ed una sinagoga e dettero vita a una banda musicale. Alla fine della guerra oltre 1200 ebrei furono salvate da questi Mosè del XX secolo. Il periodico polacco spiega che i fratelli furono sì coraggiosi, ma presero insieme con i sovietici anche parte a stragi di civili collaborazionisti polacchi. La storica Nechama Tec dell’Università di Stanford (Connecticut), autrice di un documentato saggio -Defiance, 1993, uscito in Italia presso Sperling & Kupfer col titolo “Gli ebrei che sfidarono Hitler”- parla di “menzogne che sottintendono tendenze antisemite”. Come che sia e considerando il contesto tragico in cui si svolsero gli eventi, è certo che la piccola compagine familiare, divenuta col tempo un vero e proprio gruppo partigiano ben organizzato (l’otriad Bielski), compì un’impresa eroica: salvare dalla furia sterminatrice nazista quante più persone possibili, donne, bambini, vecchi, malati, che erano state ammassate dai nazisti nei ghetti per essere umiliate oltre l’indicibile e poi massacrate. La storia dei Bielski manda in frantumi il mito, caro ancora oggi a tanti, dell’ebreo inerme che si fa portare al macello senza reagire, il personaggio pittoresco, l’equilibrista sul filo, buono magari per una rappresentazione teatrale, ma privo di dignità. Notissima è la vicenda dell’insurrezione del ghetto di Varsavia nella primavera del 1943, ma ben poco sono conosciute le storie di coloro che, privati di tutto e cacciati, si ribellarono con forza; storie che furono più numerose di quanto si possa pensare. Il noto regista e produttore statunitense, Edward Zwick (del quale ricordiamo, per tutti, L’ultimo samurai con Tom Cruise e Blood Diamond interpretato da Leonardo Di Caprio) ha ricostruito la drammatica vicenda in un avvincente film, da alcuni giorni nelle nostre sale, che porta il titolo originale del libro “Defiance - I giorni del coraggio” e che si avvale come protagonista, garanzia di successo al botteghino, di Daniel Craig, l’ultimo attore, in ordine di tempo, a vestire i panni di James Bond. Questo film però non ha nulla di romanzesco, anzi è assai realistico nel rappresentare la vita difficile di questa comunità, varia e sempre più grande, nel cuore delle foreste bielorusse, dove “nemmeno i feroci cani dei nazisti” osarono inseguire i fuggiaschi; la vita che muore, ma anche la vita che nasce -da una ragazza che, pur violentata da un soldato tedesco e resa incinta, non vuole, per nessuna ragione al mondo, rinunciare al suo piccolo-. Le inevitabili rivalità tra i fratelli, le paure, le angosce, l’amore e la speranza. I contrasti con i loro “salvati”, persone appartenenti alla buona borghesia ebraica, dedite allo studio, soprannominate con sarcasmo dai membri armati della brigata “Malbushim” (letteralmente: Vestiti). L’antisemitismo incorreggibile delle brigate partigiane sovietiche; antisemitismo che, ad un certo punto, induce Zus a rientrare tra i suoi. La sete di vendetta nei confronti degli assassini non viene sottaciuta, anzi è raccontata in un paio di episodi a forti tinte; ma, sono le parole di Tuvia Belski: “Saremo braccati come animali, ma non diventeremo come animali” e “La nostra vendetta: vivere”. Dopo il conflitto Tuvia e Zus (il secondogenito Asael morirà in Germania, combattendo con l’Armata Rossa) si stabilirono negli USA; ma prima –elemento significativo!- avevano servito nell’esercito israeliano e combattuto nella guerra Indipendenza del 1948. Tuvia è morto nel 1987; ma, un anno dopo, è stato riseppellito a Gerusalemme, nel cimitero Har Hanenuchot.Con la moglie Lilka, la compagna dei boschi, ha dato vita alla Tuvia and Lilka Belski Family Foundation dedicata “to the preservation, documentation, and history of the Bielski resistance and rescue movement and Jewish Heritage. 1941 – 1944”.

Mara Marantonio Bernardini, 27 gennaio 2009, Giornata della Memoria

In occasione della giornata della memoria è stata dedicata la prima ora di lezione , in tutte le classi , nella scuola media di 1o grado " Giuliano da Sangallo " di Nettuno.I ragazzi hanno risposto all' iniziativa in modo straordinario , ascoltando le letture proposte, osservando le immagini dell' olocausto , commentando in modo personale la documentazione evidenziando interesse e mostrando sensibilità e presa di coscienza insospettabili. Alcuni hanno testimoniato l' interesse , anche , dei loro genitori, con i quali hanno assistito a film che trattavano l' argomento ( Shindler list- Il bambino dal pigiama a righe- La vita è bella ). Insomma , grande è stata la soddisfazione di noi insegnanti , perchè è evidente che abbiamo seminato bene e continueremo a farlo per non " dimenticare " e non" far dimenticare". Così potremo dire che non siamo tutti dei " Santoro "! Luca Scarabello


Matteo MARANI, Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo Aliberti Editore, Collana I lunatici, 2007

“…Fatto sta che di [lui], a sessant’anni dalla morte, si era perduta ogni traccia. Eppure aveva vinto più di tutti nella sua epoca, un’epoca gloriosa del pallone, aveva conquistato scudetti e coppe."
Chi scrive queste righe è Matteo Marani, giovane direttore del celebre il Guerin Sportivo. Tempo fa, in modo fortuito, durante la lettura di un volume sul calcio, egli si era imbattuto in un personaggio per lui quasi sconosciuto: Arpad Weisz. Il libro ne faceva un breve accenno, limitato al fatto che era stato allenatore, dalla fine degli anni ’20 in poi, di Inter (allora chiamata Ambrosiana) e Bologna, alle quali aveva fatto vincere ben tre scudetti e altri prestigiosi tornei; si precisava che era un ebreo ungherese, deportato e ucciso dai nazisti. Nient’altro. Il contrasto tra quelle scarse, ma significative, notizie e il silenzio che, nell’ambiente, a cominciare da quello bolognese, circondava il personaggio fa scattare in Matteo un profondo interesse per il personaggio. Arpad Weisz sembrava essere scomparso nel nulla, per decenni nessuno, o quasi, ha parlato di lui. Con pazienza e costanza Marani inizia la sua ricerca, con l’animo del detective appassionato e una domanda che emerge ad ogni passo: come mai un personaggio tanto rilevante per lo sport più amato in Italia, è scomparso nel nulla? Certo il passaggio dalla guerra alla pace, il desiderio di buttarsi tutto alle spalle, hanno influito sulla rimozione delle vicende che compongono quell’immane tragedia per la quale ogni aggettivo, ogni espressione rischiano di suonare inadeguati: la Shoah. Ma questa sorta di annullamento, più o meno inconscio, egli non se lo sa spiegare del tutto. I testimoni, in un primo momento, non li trova; i giocatori del Grande Bologna- Campioni d’Italia, per merito di Weisz, nel 1936 e nel 1937- non ci sono più; com’è scomparso il collega di cui aveva letto le notizie sulla rivista del Club. La sua indagine inizia dalla fine della storia: Weisz era davvero morto ad Auschwitz e quando? Senza perdersi d’animo, con il solo aiuto dapprima dei documenti originali, Marani trova anzitutto in Michele Sarfatti, direttore del Centro di Documentazione Ebraica di Milano, un aiuto prezioso nella difficile opera di ricostruzione del percorso agli inferi di questa famiglia (padre, madre, due figli bambini); egli scartabella archivi, interroga giornali dell’epoca e uffici anagrafe, in diverse parti d’Italia, a cominciare da Bologna, e nel Paese dove la famiglia Weisz si rifugiò, nella vana speranza di sfuggire al suo destino, l’Olanda. Pian piano i contorni del gruppo si fanno più distinti, il libro prende forma. Arpad Weisz era nato a Solt (Ungheria) il 16.4.1896; dopo un periodo di attività come calciatore, egli diviene allenatore, dapprima nella terra d’origine, poi giunge in Italia; preceduto da una fama di serio professionista. Dopo un breve periodo in club minori, approda all’Ambrosiana, alla quale fa vincere lo scudetto nel 1929/30. Weisz non è solo un tecnico competente, ma un innovatore: cura a fondo la preparazione atletica dei calciatori, scendendo a sua volta in campo durante gli allenamenti, comprende l’importanza dei ritiri di quadra e del“fare spogliatoio”; è un formidabile talent scout: valorizza e aiuta a crescere un diciassettenne di nome Giuseppe Meazza. Insieme ad Aldo Molinari (un dirigente dell’Ambrosiana, specializzato in calcio mercato) scrive, nel 1930, un manuale, Il Giuoco del calcio (con prefazione di Vittorio Pozzo), notevole perché anticipatore di molte idee sul pallone, sui ruoli in campo e sulle metodologie di allenamento. Nel 1935, chiamato dallo “storico” Presidente rossoblu, Renato Dallara, egli giunge a Bologna, con la moglie Elena e i figli Roberto e Clara, nati in Italia. Il libro di Marani si apre a Bologna, nella primavera del 1938. Arpad è stimato ed amato, ma pervaso da una certa inquietudine per gli eventi tragici che si profilano all’orizzonte; si concentra sul lavoro, sugli affetti familiari, quasi a voler dimenticare ciò che si sta preparando per lui, per i suoi cari, per milioni di altri esseri umani innocenti. Matteo segue partecipe e commosso, ripercorrendo ogni luogo fino al tragico epilogo, le vicende di questa famiglia, vicende che si intrecciano con l’intera tragedia del popolo ebraico: dagli anni bolognesi, alla fuga dall’Italia nel gennaio 1939, a seguito delle infami leggi razziali (si dimette da tecnico del Bologna, nell’ottobre 1938, non “viene esonerato”, come afferma qualcuno), al breve passaggio a Parigi, al rifugio in Olanda, nella cittadina di Dordrecht, dove Arpad allena la locale squadra di calcio. Mi sono chiesta, durante la lettura, come mai Arpad non sia fuggito lontano, quando ancora avrebbe potuto farlo, magari in Sud America. Forse la risposta sta nel fatto che egli, un vero signore, cresciuto in un ambiente cosmopolita come l’Ungheria di inizio Novecento, neppure riusciva a concepire quale inedita mostruosità stesse attuando Hitler con i suoi volonterosi carnefici, non solo tedeschi. All’alba del 2 agosto 1942, gli stivali degli agenti della Gestapo battono quindici colpi, tanti quanti sono i gradini della casa di Bethelehemplein 10 road. La famiglia è deportata, prima nel campo di smistamento di Westerbork, posto in una località nascosta, lontana da sguardi indiscreti, indi è caricata su uno di “quei” treni. Elena e i figli vengono uccisi subito, all’arrivo ad Auschwitz, Arpad “sopravviverà” fino al 31 gennaio 1944. Un libro, il primo di Matteo Marani, da leggersi tutto d’un fiato, con commoventi testimonianze, prima tra tutte quella del Sig. Giovanni Savigni, che era stato il miglior amico di Roberto durante gli anni bolognesi e che il giornalista va a trovare nella sua abitazione; indi da riprendere in mano, per porsi domande sul PERCHÉ, per riflettere su un aspetto, all’apparenza secondario: anche il mondo dello sport è stato investito dall’orrore dell’antisemitismo. Grazie al volume/testimonianza di Matteo Marani è stata stracciata la coltre di oblio che aveva avvolto la figura del valoroso tecnico ungherese. E stamani, Giornata della Memoria, alla presenza delle massime autorità cittadine, del Presidente del Bologna FC, Francesca Menarini, di Matteo Marani e di un gruppo di cittadini partecipi e commossi, all’entrata del settore distinti dello Stadio Comunale, la celebre Torre di Maratona, è stata scoperta in ricordo di Arpad Weisz, ebreo ungherese, una significativa lapide, proprio in quel luogo che egli aveva tanto amato ed onorato.
Mara Marantonio Bernardini, 27 gennaio 2009, Giornata della Memoria


"I nostri soldati vincono non per la forza delle armi ma per il senso della loro missione; per la loro consapevolezza nella giusta causa, per l'amore profondo per il loro paese, e per la comprensione del pesante compito che grava sulle loro spalle: assicurare l'esistenza del nostro popolo nella propria patria ed affermare, perfino a costo della loro propria vita, il diritto del popolo ebraico di vivere la propria vita nel proprio stato in libertà, indipendenza e in pace" Yitzhak Rabin

Sono stato un numero. Alberto Sed racconta


Roberto Riccardi Giuntina Euro 15,00
Per quante testimonianze sui campi di sterminio si possano leggere ogni nuovo racconto è un mondo a sé, un frammento di storia prezioso e irripetibile nella sua drammaticità.
E ogni volta la mente lacerata da quei ricordi dolorosi che i sopravvissuti trovano la forza di condividere con noi - attraverso il racconto orale oppure tramite le pagine di un libro – si pone la medesima domanda. Dov’era Dio? Dov’era l’uomo?Chissà quante volte se lo sarà chiesto Alberto Sed, ebreo romano deportato ad Auschwitz insieme alla madre e alle sorelle…eppure la sua testimonianza, dopo lunghi anni di silenzio, scritta da Roberto Riccardi – giornalista e tenente colonnello dell’Arma – è priva di odio nei confronti dei suoi aguzzini.
L’incapacità di comprendere il male inflitto e lo sconcerto dinanzi alle atrocità perpetrate dai nazisti rivelano un animo limpido e buono che si apre con gioia alla gratitudine verso coloro che, in un modo o in un altro, si sono prodigati per salvargli la vita.“Quale parola può descrivere ciò che l’uomo ha saputo fare all’uomo”?Alberto Sed ci è riuscito con la sua testimonianza scarna e diretta dove nessuna parola può essere adeguata a descrivere l’inferno dei campi di sterminio, ma rappresenta quel filo che si tende fra noi e i sopravvissuti.
L’infanzia per Alberto Sed termina bruscamente con la morte del padre e il successivo ingresso nel Collegio ebraico Pitigliani dove insieme alla sorella Angelica continuerà gli studi: un periodo della sua vita che ricorderà “fra i più felici” una volta arrivato ad Auschwitz, ma destinato a finire con l’avvento delle leggi razziali.I successivi mesi di difficoltà economiche e di sotterfugi per nascondersi hanno come drammatico epilogo l’arresto e la deportazione , il 16 maggio 1944, con l’unica colpa di essere ebreo.Alberto giunge ad Auschwitz con la mamma e le sorelle: “….per la mamma e la piccola Emma, otto anni, il destino si compì il giorno stesso dell’arrivo ad Auschwitz. Appena scese dal treno erano finite nella fila di destra, quella della morte…”. Angelica e Fatina vengono destinate al lavoro e alle sofferenze della vita nel campo di sterminio. Solo la piccola Fatina di 13 anni riesce a sopravvivere perché la dolce e affettuosa Angelica, chiamata dai suoi cari “mani d’oro” per il talento nel ricamo, muore un mese prima della liberazione, sbranata dai cani delle SS che in una domenica di noia avevano fatto una scommessa sulla bestia più feroce.
A 15 anni Alberto è costretto ad imparare le dure leggi della sopravvivenza nel campo. Con l’aiuto di Tasca, un militare di Frascati, apprende i segreti per sfuggire alle selezioni, per procurarsi cibo, per tenersi alla larga dalle SS nei giorni di domenica quando”…le SS non hanno niente da fare…per divertirsi ti aizzano i cani contro”.Con i suoi occhi di ragazzo vede l’orrore quando un prete greco è ucciso barbaramente per aver indossato la veste talare nel giorno dedicato al Signore e conosce la disperazione più profonda quando una SS costringe un suo compagno a lanciare in aria un bimbo di pochi mesi per colpirlo “come fosse al poligono di tiro”.
Un episodio talmente sconvolgente per il giovane Alberto che avrà ripercussioni anche nella sua vita di uomo libero: da quel giorno non riuscirà più a prendere un bimbo in braccio.
“ Posso dargli la mano. In braccio no: mi assale la paura che qualcuno mi gridi di lanciarlo in alto….”Alberto è tenace e vuole vivere: il suo fisico robusto lo aiuta a sopportare il lavoro massacrante di trasportare massi, scavare canali per l’acqua potabile, spingere carrelli di legna verso i crematori. Per un pezzo di pane in più accetta di fare il pugile per il divertimento dei nazisti e conia il termine “gladiatori del lager”.Dopo Birkenau e il lavoro nella miniera presso Furstengrube, per Alberto si apre “l’ultimo degli orrori della Shoà: le marce della morte.
Prima di arrivare al campo di Dora, nel cuore della Germania, molti compagni di sventura moriranno e lo stesso Alberto non è convinto di “rientrare appieno” fra i vivi: ha ormai perso la voglia di combattere e un dolore lancinante allo stomaco gli fa agognare le camere a gas per porre fine alle sue sofferenze.Il destino però ha deciso diversamente: un medico ebreo francese lo opera di appendicite, senza anestesia, e poi lo nasconde sotto il letto consentendogli in tal modo di sfuggire alla selezione nazista.Ed è con il cuore gonfio di gratitudine per questo giovane medico che ha rischiato la vita per salvarlo che, dopo alcuni giorni, Alberto viene mandato in una fabbrica nei pressi della cittadina di Nordhausen dove, durante un bombardamento alleato, un ufficiale italiano della Marina lo nasconde, insieme ad altri prigionieri, sotto l’elica di un aereo.
Ancora una volta Alberto si salva.
Prima di tornare a Roma è proprio nel campo di Dora che il giovane Sed scopre la solidarietà umana che sembrava scomparsa nell’inferno di Auschwitz, nel volto di Giovanni Serini e nella frase “…Non ti lascio qui a morire, figliolo!” c’è tutto l’amore e la generosità di un essere umano nei confronti di un ragazzo ferito, denutrito, incapace di muoversi e di mangiare.Un’amicizia che, nata in un luogo disumano, rimarrà salda per tutta la vita.Alberto Sed oggi non è più il numero A-5491, ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti e al produttore televisivo che vuole realizzare un documentario e insiste affinchè torni nel lager per “una grande rivincita” mostra con orgoglio una foto scattata alle sue nozze d’oro con la moglie, le figlie e i mariti, i nipoti e i pronipoti e con impeto risponde: “Questa, solo questa è la mia rivincita”.La testimonianza di Alberto Sed, raccontata con rara sensibilità e delicatezza da Roberto Riccardi, non è che una microscopica goccia in quel mare di sofferenze umane che è stata la Shoah.Milioni di gocce non possono sostituire del tutto il mare di pregiudizi e ignoranza che ancora alberga nella nostra società, ma è dalla lettura e dall’ascolto di questi racconti che diventiamo testimoni di domani perché la “Memoria non muoia con noi” Giorgia Greco

Gino Bartali e Gastone Nencini nel 1962

«Così Bartali in bici portava ai conventi i documenti salva-ebrei»

Suor Alfonsina e suor Eleonora guardavano fuori, attraverso le fessure della Ruota degli Innocenti, e vedevano due gambe muscolose che uscivano da un paio di pantaloni attillati e corti. Sussurravano un nome, «Bartali», perché la fama aveva valicato le mura del monastero di San Quirico, clausura per clarisse. Gino Bartali, che aveva vinto il Giro d'Italia nel '36 e nel '37 e il Tour nel '38, per almeno 40 volte, dopo l'8 settembre 1943, salì a San Quirico in Assisi, tra San Francesco e il Vescovado, con la sua Legnano rossa e verde. Nascosti nella canna, sotto il sellino o dentro le impugnature del manubrio, portava foto e documenti di ebrei. Documenti da falsificare, per permettere le fughe. Partiva da Firenze, faceva più di 200 chilometri di strade secondarie e di montagna, addosso una maglia con scritto «Bartali».
Qualche volta lo fermarono, i tedeschi, a un posto di blocco, ma finiva che gli facevano domande di ciclismo. A San Quirico Bartali consegnava alla madre superiora carte e foto, che poi venivano portate in una tipografia, lì dietro, tre minuti di buon passo. Gli ebrei ottenevano così le identità necessarie a circolare e a raggiungere l'Abruzzo, oltre la linea Gustav, nell'Italia già liberata. Il primogenito di Bartali, Andrea, è andato ad Assisi, ha ritrovato le suorine, utranovantenni, e i luoghi di queste imprese non sportive del padre. È andato a ricercare la tipografia, ha trovato al suo posto uno degli innumerevoli negozi di souvenir di Assisi, ma dentro c'era ancora la stampatrice che servì a salvare le vite di centinaia di ebrei. E lo stesso percorso era già stato compiuto da Riccardo Nencini, presidente del Consiglio regionale toscano, segretario del Partito socialista e nipote del campione che fu considerato l'erede di Bartali, Gastone Nencini: «La nuova madre superiora ci fece leggere il diario della superiora di quei tempi, dove erano annotate le visite di Bartali», racconta. E Andrea Bartali dice: «A proposito delle polemiche su Pio XII e gli ebrei, io credo che fosse necessario il permesso papale per far entrare uomini in un convento di clausura». Bartali era un militante dell'Azione cattolica e tramite monsignor Elia Dalla Costa entrò in contatto con l'organizzazione Delasem, che assisteva i profughi ebrei. Talvolta, a metà strada tra Firenze e Assisi, fermava la bici alla stazione di Terontola. Come in un film, il suo arrivo calamitava le persone presenti, i soldati tedeschi e italiani intervenivano per disperdere l'assembramento e gruppi di ebrei e di perseguitati politici venivano fatti salire sui treni. Quest'anno, in quella stazione, è stata scoperta una lapide in ricordo di Bartali. «Prima dei viaggi verso Assisi — racconta Andrea Bartali — papà aveva fatto molti "allenamenti" andando in bicicletta da Firenze fino a Genova. A Genova gli venivano consegnati dei fondi che venivano da conti depositati in Svizzera da ebrei di tutto il mondo e lui li portava a Firenze».
Il presidente Ciampi diede la medaglia d'oro al merito civile a Bartali per aver protetto l'esistenza di almeno 800 ebrei. Ciorriere della sera 28 gennaio 2009

lunedì 26 gennaio 2009


Giorno della memoria 2009
Le novità di StoricaMente.org

Konstantin Akinsha
Il naso di Alfred Flechtheim
Antisemitismo e immagini nella propaganda nazista
http://www.storicamente.org/01_fonti/antisemitismo-akinsha.htm

Antonella Salomoni
I libri sulla Shoah
Una guida storiografica suddivisa per periodi e per temi
http://www.storicamente.org/04_comunicare/shoah-salomoni.htm

Dall'archivio di storicamente.org
Cristiana Facchini e Roberta Mazza
ANNO ZERO. Testi per il Giorno della Memoria
http://www.storicamente.org/mazza_shoa.htm

Riccardo Bonavita
La Shoah e la poesia del '900
http://www.storicamente.org/bonavita_shoa.htm

Filippo Focardi
La questione dei processi ai criminali di guerra tedeschi in Italia: fra punizione frenata, insabbiamento di Stato, giustizia tardiva (1943-2005)
http://www.storicamente.org/focardi_shoa.htm

Primo Levi

DOMANI GIORNATA DELLA MEMORIA

Se questo è un uomo di Primo Levi
Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case;
Voi che trovate tornando la sera Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce la pace
Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì e per un no
Considerate se questa è una donna,Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno:
Meditate che questo è stato:Vi comando queste parole:Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli:O vi si sfaccia la casa,La malattia vi impedisca,
I vostri cari torcano il viso da voi.

Haifa

Appena tornata dal viaggio di dicembre! Un viaggio emozionante sotto ogni punto di vista. Mi si sovrappongono le immagini del Mar morto al tramonto, velato da una lieve luce rosata, con l’impatto bianco glaciale della neve di Malpensa . La città di Gerusalemme piena di storia e nei colori delle mura che si vogliono sfiorare con la punta delle dita per essere nel passato, resta nel cuore per sempre . A ogni passo vi potete sedere su una colonna romana , a meno che non ve la troviate sotto i piedi all’uscita di un mercato folkloristico, trasformata in un gradino tondeggiante di porfido rosso . Le pietre sotterranee del muro occidentale sono una testimonianza indimenticabile di tempi gloriosi passati ma anche di passi dolorosi recenti di chi fugge la morte . La fortezza di Masada in una maestosa solitudine ci impone di abbassare le voci come se soltanto ai corvi e ai piccioni fosse lecito il suono . Un’altezza straordinaria di questa reggia di Erode che si affaccia su un deserto lontano dà le vertigini . Penso “ sarà a duemila metri sul Mar Morto ! “ tanto suggestiva è la percezione dell’altezza . Angela su uno spiazzo di rocce , con un colpo di teatro sapiente, ci legge il brano di Giuseppe Flavio infiammato di eroismo , che convincerà al glorioso suicidio di massa gli abitanti ormai stretti d’assedio . Un emozionato silenzio nell’ascolto: vorremmo sentire di più e di più ancora . Magnifico il museo con ancora i 12 ostrakon del sorteggio finale , destinati a chi avrebbe dato la morte .
Non ci è mancata una vista a Qmran luogo del famoso ritrovamento di antichi rotoli di storia biblica, ai quali personalmente devo attenzione e memoria per i miei recenti studi sulla storia “rivoluzionaria “ di Maria di Magdala . Ognuno di noi ha visto in ogni pietra, in ogni luogo ciò che da tempo aveva nella mente e che cercava di conoscere da vicino : nessuno resterà deluso .
I musei dovunque sono al di sopra di ogni aspettativa per la cura , per l’architettura e per la ricchezza di contenuti . La natura è rigogliosa di verde e di cure ostinate e tenaci .
Al prossimo viaggio ! Shalom ! Anna Maria –Nuccia _

domenica 25 gennaio 2009

Haifa dall'alto

Precisazioni su Sabra e Shatila

Gli israeliani non erano "a guardia del campo", ma avevano il controllo su quella parte di Beirut, e avrebbero dovuto impedire il massacro dei palestinesi perpetrato dalla falangi cristiane libanesi. Sharon non era il comandante delle operazioni in Libano, ma addirittura il ministro della difesa, ministerialmente responsabile, oltre che di Sabra e Shatila anche del fatto di essere giunto fino a Beirut, senza che il primo ministro di allora Begin fosse al corrente del suo piano (la quale fu uno dei motivi che indusse Begin a dimettersi).
In seguito alla famosa manifestazione di protesta dei 400.000 per il massacro in piazza Rabin a Tel Aviv, il governo nominò una Commissione statale d'inchiesta (non capisco da dove derivi il termine "la commissione di saggi" nominata dal governo - le Commissioni d'inchiesta statali in Israele previste da una legge speciale, vengono nominate dal Presidente dell'Alta Corte di Giustizia su iniziativa del governo, e prevedono un giudice della Corte suprema come presidente, e come membri della stessa giudici ed esperti), la quale riconobbe la responsabilità di Sharon e decise che non avrebbe mai più dovuto ricoprire la carica di ministro della difesa, quindi non di altro ministero. Sharon non venne spostato, contrariamente a quanto detto, in quel periodo ad un altro ministero, ma solo alcuni anni dopo ricoprì la carica di ministro del commercio e dell'industria. A Primo Ministro venne eletto in seguito, nelle elezioni dirette del Primo ministro come prevedeva allora la legge (poi abrogata). Ma in ottemperanza alla decisione della Commissione, nonostante spesso il Primo Ministro si riservi anche la carica di Ministro della Difesa, Sharon non ricoprì la carica di Ministro della Difesa neppure in seguito alla sua elezione diretta a Primo Ministro. Eugenio Cuomo

antica foto del lago di Tiberiade

Oggetto : I veri numeri dei morti di Israele” – Lettere & Opinioni de La Nazionedel 24 Gennaio 09

La signora Veronica Francia, nella sua lettera del 24 u.s.,ha minimizzato le perdite di Israele, durante l’operazione “piombo fuso”,limitandosi a citare quelle palestinesi di Hamas. Ignorando le numerose precedenti vittime israeliane.Esse vanno ben oltre le 13, da lei citate,se avesse contato,anche,le tante vittime degli attentati hamikaze e quelle perite ,nei kibbuz,quotidianamente,sotto il lancio delle migliaia di missili .Ho trovato,poi,inutilmente, derisoria l’affermazione : “povero Israele,si è solo difeso dagli attacchi palestinesi” .Perché nessun’altra nazione avrebbe pazientato, altrettando, difronte al continuo lancio di missili sul proprio territorio.Tanto più che quella guerra fu provocata da Hamas che,unilateralmente,decise di rompere la tregua.Non a caso Abu Mazen e la gran parte degli altri stati arabi presero,in tutta la vicenda, le distanze da Hamas,(salvo la Siria e l’Iran). Andrea Jardella ,(Livorno)