venerdì 25 giugno 2010


La possibile costruzione di una moschea a ridosso di Ground Zero divide gli americani fra i difensori del progetto in nome della libertà religiosa e gli oppositori secondo i quali si tratterebbe di un'offesa alle vittime dell'11 settembre. Nel confronto molto acceso una voce pacata è quella di Timothy Dolan, arcivescovo cattolico di New York, che ha suggerito una soluzione ispirata al precedente del convento delle carmelitane ad Auschwitz. Negli anni Novanta si trattò di un progetto che oppose la Chiesa, che difendeva il diritto di erigere una imponente croce davanti al lager, e le comunità ebraiche che la consideravano un tentativo di impossessarsi della memoria delle vittime della Shoah. "A decidere fu Giovanni Paolo II - ha ricordato Dolan - stabilendo che il convento si sarebbe fatto ma non in quel posto". Suggerendo una via d'uscita alla crisi.MaurizioMolinari,giornalista, http://www.moked.it/

martedì 22 giugno 2010


Addio a Guillet Comandante Diavolo

Amedeo Guillet, a 101 anni di età, è uscito dalla leggenda per entrare nella storia: la sua morte, avvenuta il 16 giugno, ne consegna l'eccezionale figura ai posteri. E grazie alle cure e alle ricerche negli archivi della dottoressa Rosangela Baronelo si potrà comprendere meglio la sua esistenza avventurosa.Non era facile ma necessario farlo, per ridare a un personaggio straordinario il posto che gli appartiene – e che altri studieranno – nella storia d'Italia, del mondo arabo ed ebraico, nella diplomazia e nel pensiero militare.Parlare di lui come di un Lawrence d'Arabia italiano è uno dei miti da sfatare. Anzitutto perché, se cosi fosse, si tratterebbe di un Lawrence d'Africa. Poi perché è uno sminuire le sue gesta.Lawrence aveva dietro di sé un impero ricco e vittorioso; Guillet un impero vinto e senza risorse. Lawrence pagava in sterline d'oro e con la razzia la cooperazione dei beduini contro l'esercito turco; Guillet, su cui pesava una taglia di mille sterline, combatté per 14 mesi le forze britanniche in Eritrea con un pugno di indigeni a cui aveva proibito persino di appropriarsi di una gallina e che lo seguivano, nella miseria, per pura lealtà al leader e per fratellanza umana. Valori che testimoniano della sue qualità d'animo ma anche di applicazione all'arte della guerra appresi da Clausewitz e Tucidide.Fu certo un grande soldato che con la carica di "Cherù", in Etiopia, alla testa del Gruppo di Bande a cavallo «Amhara» permise la ritirata delle truppe italiane a Cheren, alla cui difesa partecipò aggiungendo alle altre la più dolorosa delle sue ferite. Dietro l'immagine stereotipata di «Comandante Diavolo» che gli avevano affibbiato i suoi uomini, e i suoi avversari sul campo di battaglia, c'era quella schiva del l'artista. Artista nell'arte dell'equitazione che lo aveva candidato alle Olimpiadi e nella quale aveva sviluppato un linguaggio equino con cui otteneva tutto dai cavalli.
Dotato di una memoria ferrea, recitava a memoria interi canti dell'Orlando Furioso. Era stato un ottimo pianista sino a tanto che una ferita alla mano limitò questo suo dono. Si scherniva delle sua capacità di pittore ma era un buon acquarellista. Non era né un asceta né un santo combattente. Possedeva innata l'umiltà dell'aristocratico che antepone il dovere al diritto. Questa umiltà che gli aveva permesso di vivere come venditore d'acqua fra i poveri di Massaua, lo aveva avvicinato all'Islam di cui ammirava la totale sottomissione al divino. Questa fede che Guillet aveva conosciuta in Libia studiando l'arabo coi bambini di una scuola indigena dava una dimensione mistica al suo senso di onore cavalleresco. L'onore che gli aveva impedito di accettare la resa e l'ingiustizia delle leggi razziali.A Tripoli, nel 1938 dopo aver ammaestrato il cavallo su cui Mussolini aveva levato al cielo la «Spada dell'Islam» era andato a insegnare matematica e storia a ragazze ebree cacciate da scuola perché potessero affrontare l'esame di maturità. Fu un grande ambasciatore: nello Yemen, risolse uno scontro fra quel paese e l'Italia e salvò la vita all'Imam Badr, figlio di quel principe arabo Yahia che lo aveva accolto in fuga dagli inglesi. Nella Giordania, re Hussein lo considerò «zio». Nel Marocco, fu accanto a re Hassan durante un fallito colpo di Stato. In India amico della signora Ghandi, istruì la guardia presidenziale e moltiplicò il traffico commerciale fra i due paesi. All'Onu il suo intervento presso i delegati dei paesi arabi fu decisivo per il mantenimento dell'Alto Adige in Italia.Tutta questa parte della sua vita è ancora da scrivere. Come la storia dei suoi tentativi di avvicinare Israele ai Palestinesi. Ne aveva parlato a Nasser come a Dayan; all'Imam Yahia come a Indira Ghandi; al Dalai Lama come a Carlo d'Inghilterra. Aveva messo a rischio la sua carriera militare nel 1946, nella sua qualità di capo degli affari arabi del Sim architettando la cattura del Mufti di Gerusalemme e prendendo contatto coi membri dell'Irgun esiliati dagli inglesi in Eritrea. Ambasciatore in Giordania visitò più volte Israele per perorare la causa dei yemeniti che combattevano le truppe di Nasser proponendo alla radio di Gerusalemme in lingua araba di sostenerli nelle sue emissioni.In queste iniziative non autorizzate, come in altre di carattere umanitario, c'era una vena di donchisciottismo, sempre accompagnata da un realismo che permetteva «di frenare il cavallo prima del l'ostacolo per meglio farlo saltare». Non perdette mai la speranza in una soluzione pacifica del conflitto palestinese pur restando conscio che tanto lui quanto quella soluzione «appartenevano a un'epoca di passato patriottismo in attesa di un altro ancora da inventare».
di Vittorio Dan Segre, 22 giugno 2010 http://www.ilsole24ore.com/


Tel Aviv

Gaza, Quartetto saluta alleggerimento blocco Israele

21 giu. (Apcom) - Il Quartetto per il Medio Oriente ha salutato l'alleggerimento del blocco della Striscia di Gaza annunciato questo fine settimana dal governo israeliano, ma ha sottolineato l'importanza delle modalità della sua applicazione, in un comunicato diffuso dalle Nazioni Unite. "La nuova politica nei confronti di Gaza annunciata dal governo israeliano è la benvenuta", ha affermato il Quartetto (Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite, Unione europea). Ha aggiunto che "l'elaborazione dei dettagli e delle modalità di applicazione avrà la sua importanza per garantire l'efficacia di questi notizie politiche". "Un'attuazione totale ed efficace dovrà passare per un cambiamento significativo di strategia, per soddisfare le necessità della popolazione di Gaza in materia di beni umanitari e commerciali, di ricostruzione e di infrastruttura civile, così che un'attività economica legittima, pur garantendo allo stesso tempo le necessità di Israele in materia di sicurezza", ha aggiunto il comunicato. In questo testo, il Quartetto si è inoltre impegnato a "lavorare con Israele e la Comunità internazionale per impedire il traffico illegale di armi e di munizioni verso Gaza" e ha invitato a "mettere fine alla deplorevole "detenzione" del soldato franco-israeliano Gilad Shalit.


Fini: “Israele non è isolato per la politica del suo Governo ma per il contesto internazionale che oggi è molto complesso”

Tel Aviv, 21 giu -“Un amico vicino e caloroso per il nostro Stato”, così il quotidiano Yedioth Ahronot definisce il presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha rilasciato al giornale israeliano un'intervista. "Ogni volta che il presidente dell'Iran invoca la distruzione di Israele, non si può considerarlo solo come un'altra dichiarazione o propaganda eccessiva. La comunità internazionale non comprende fino in fondo l'aspetto psicologico di questa minaccia esistenziale", queste le parole di Fini su Israele, alla vigilia di una sua visita nella regione. "Israele - precisa ancora Fini - non è isolato per la politica del suo governo, ma per il contesto internazionale che oggi è molto più complesso, mentre le minacce che incombono su questo Stato vanno crescendo. Il problema della sicurezza di Israele non è un problema fra i tanti, ma è il problema con la 'P' maiuscola". Alla domanda su cosa occorra fare per far fronte alla minaccia nucleare iraniana, Fini risponde: "E' possibile dubitare dell'intenzione dell'Iran di aderire alle richieste dalla comunità internazionale. Io stesso ho dei dubbi. Ma sinceramente non vedo altra strada che quella già intrapresa: ossia di pressione diplomatica accompagnata da sanzioni economiche. L'importante è trovare unità nella comunità internazionale. Io penso che si sia compiuto un ulteriore passo in avanti. Quanti finora si astenevano da chiedere a Teheran di fermarsi, ora lo fanno". Riguardo ai rapporti economici bilaterali fra Italia e Iran, Fini rileva infine che "i nuovi investimenti italiani si sono fermati quasi del tutto". "Il volume del nostro commercio con l'Iran - conclude - è adesso molto più equilibrato".


Cuneo

Noi, ebrei sull'altra frontiera

Credo non siano molti i luoghi in Italia dove la percezione della condizione ebraica risulti chiara come a Cuneo. Nel corso dei secoli ebraicità e cuneesità sono state due categorie in qualche modo assimilabili: due modi di rappresentare una diversità identitaria. Una condizione di marginalità da manuale, una identità di confine o come si usa dire “di frontiera” che, ovviamente, non è la stessa di Trieste. Come i bergamaschi per la Serenissima, i cuneesi per i Savoia sono stati una realtà spesso raffigurata in termini caricaturali. Deformazioni, stereotipi, luoghi comuni su vizi e le manie autolesionistiche dei cuneesi sono andate ad arricchire un armadio del pregiudizio che presenta non pochi collegamenti con il repertorio anti-ebraico.Un censimento voluto dai francesi, l’8 dicembre 1806, assegnava a Cuneo il primato della comunità più densamente abitata nel basso Piemonte: 215 persone contro 202 a Fossano, 159 a Savigliano, 140 a Saluzzo, 85 a Mondovì. La curva demografica sale nonostante la Restaurazione e il ritorno delle “Regie Patenti” (301 sono le persone censite nel 1835). Le conseguenze del processo di industrializzazione e il fenomeno dell’inurbamento invertiranno i dati. Il famigerato censimento voluto da Mussolini nel 1938 registra a Cuneo 182 persone.Le origini dell’insediamento non sono diverse da quelle di altri centri piemontesi, oggi al centro di un rinnovato interesse storiografico. Le ricerche condotte negli anni passati da Giovanni Cerutti confermano quello che risulta dalle analoghe ricerche di Renata Segre, o, nello specifico di Cherasco, da Bruno Taricco o Pier Giorgio Comino per Mondovì. E’ notevole il rapporto privilegiato con la Francia, testimoniato dai cognomi delle famiglie cuneesi. Nell’Ottocento alle memorie degli antenati protagonisti di una immigrazione provenzale si associa il dato oggettivo della libertà arrivata insieme a Napoleone, che portava con sé, come scrisse Carducci, “il vessillo della equalitade”. A Cuneo le memorie delle restrizioni, della reclusione e della persecuzione è attestata dagli scritti di rabbini illustri come Lelio della Torre o Arnaldo Momigliano, ma non vorrei che andasse dimenticata la figura di Carolina Invernizio, nata non lontano dalla Contrada dove sorge la piccola sinagoga cuneese, autrice di un libro che andrebbe riletto, non solo a Cuneo e non solo dagli ebrei, L’orfana del ghetto.Ebraismo e cuneesità devono questa tacita solidarietà di esclusi e derisi alla storia, al loro passato di emarginazioni. Il frutto migliore di questa umana “simpatia” fra oppressi avrà il suo apice nei mesi della clandestinità, nel 1943-1945, quando verso perseguitati ebrei giunti nelle vallate del cuneese da mezza Europa, si moltiplicano episodi di commovente solidarietà.Sono riflessioni che inducono a formulare un’ipotesi un po’ folle. Essere ebrei ed essere di Cuneo è come dire la stessa cosa. Barzellette spietate e crudeli vignette satiriche hanno avuto come bersaglio cuneesi ed ebrei. In questa città è ben chiaro a tutti i cittadini che cosa voglia dire essere bersaglio di una propaganda ostile oppure remare controcorrente facendo parte di una minoranza guardata con diffidenza. Viceversa per un ebreo di Cuneo, come chi scrive, gli sberleffi acrimoniosi di Totò che “ha fatto il militare a Cuneo” (o di Togliatti che derideva il conformismo cattolico dei coltivatori diretti di questo angolo di Piemonte) così come le barzellette sul gozzo hanno sempre procurato fastidio e noia. Quando si è costretti ad ascoltarle, si ride a denti stretti e si pensa ad altre caricature, ad altre barzellette che non fanno per nulla ridere.Esiste sempre una solidarietà fra vittime del pregiudizio, che induce comunque il deriso a recare testimonianza, con dignità e orgoglio, della propria appartenenza, senza cedimenti o apostasie. Si è ripetuto fino alla noia che essere ebrei è cosa difficile. Essere ebrei di Cuneo potrebbe essere una condizione doppiamente difficile, una condizione di diversità moltiplicata per due. In certi momenti della storia d’Italia, può darsi sia stato così. Ma non sempre “essere ebrei di Cuneo” ha voluto significare l’esistenza di una doppia diversità. Qui si dimostra un curioso paradosso. Le radici del pregiudizio, sommandosi, possono annullarsi in una tacita forma di reciproca comprensione. Gli ebrei, a Cuneo, sono notoriamente di poche parole. E’ una delle virtù del luogo che abbiamo meglio appreso. E’ dunque bene che mi fermi qui, limitandomi a ricordare che nella lotta contro il razzismo di cui tanto si parla, ebrei e cuneesi potranno insegnare, in un luogo d’incontro come questo che oggi s’inaugura, una elementare, matematica regola di pacifica coabitazione. Diversità più diversità uguale uguaglianza.Alberto Cavaglion http://www.moked.it/



Giordano

In Israele il desalinizzatore record

Tel Aviv, 20-06-2010, http://www.rainews24.rai.it/
300 milioni di metri cubi d'acqua l'anno. E' questa a regime la portata del più grande desalinizzatore d'acqua mai costruito al mondo, che Israele si appresta a costruire sulle rive del mare Mediterraneo, nella località di Sorek, a sud de Tel-Aviv.Un impianto dalle dimensioni straordinarie che rappresenta tuttavia soltanto un capitolo del progetto complessivo sulla desalinizzazione delle acque marine, che a regime costituiranno il 40% del fabbisogno nazionale.Lo stabilimento di Sorek sarà capace di fornire 300 milioni di metri cubi l'anno, di cui 150 milioni entro il 2013.L'Autorità israeliana delle acque indica in 700 milioni di metri cubi l'anno il fabbisogno nazionale di acqua potabile per uso civile, mentre l'industria e l'agricoltura ne consumano rispettivamente 100 milioni e 450 milioni di metri cubi di acqua riciclata.Attualmente gli impianti di desalinizzazione esistenti forniscono acqua dolce per complessivi 300 milioni di metri cubi, circa. Il piano votato permetterà a Israele di ridurre progressivamente la sua dipendenza di approvvigionamento di acqua dolce dal fiume Giordano e dal lago di Tiberiade.


Gerusalemme

Governo Netanyahu in crisi, i laburisti minacciano la stabilità

Tel Aviv, 19 giu - I laburisti minacciano la stabilità del governo Netanyahu. O si registrano progressi nel processo di pace con i palestinesi oppure abbandoneranno la coalizione per passare all'opposizione. L'avvertimento è giunto oggi dal ministro Benyamin Ben Eliezer, durante una conferenza a Beer Sheba (Neghev). Non è la prima volta che il malumore di alcuni dirigenti laburisti, nei confronti della linea politica del Governo Netanyahu, si fa sentire. Ma le loro lamentele si sono sempre placate grazie alla negoziazione del leader del partito, Ehud Barak, ministro della difesa, secondo cui la stabilità politica è di importanza critica in Israele in un periodo di gravi incognite di sicurezza: prima fra tutte, la questione iraniana. Oggi Ben Eliezer ha comunque segnalato che anch'egli nutre una crescente impazienza. "Il popolo si sposta fortemente a destra" ha lamentato. "Oggi non c'é qua un leader di sinistra che possa sospingere il processo di pace". Ma Barak, che giovedì scorso ha incontrato l'emissario statunitense George Mitchell - tornato nella Regione per proseguire i 'proximity talks' (negoziati indiretti) fra Israele e Anp – ha rassicurato ancora una volta tutti: “ Israele farà il possibile per garantire la riuscita dei negoziati”. Di fronte a tale promesse Eliezer si è detto fiducioso che "entro alcune settimane" il processo di pace con i palestinesi prenderà quota. Ma in caso contrario, a quanto pare, unirebbe la sua voce a quelle di quanti in casa laburista contestano Barak e insistono per uscire dal governo.



Atlit campo di prigionia inglese


L'yiddish al servizio di Sua Maestà

All'ingresso della Yesodey Hatorah Jewish School di Amhurst Park, periferia Est della City londinese, una foto autografata della Regina Elisabetta II accoglie ogni mattina i 500 figli con il boccoli detti «peot» e le 700 figlie in severo abito scuro d'uno degli ultimi «shtetl» d'Europa. Qui, a ridosso di quell'enclave anglo-musulmana punteggiata di minareti nota come Londonistan, vivono circa 20 mila ebrei ortodossi, un terzo della comunità haredi, disseminata tra Anversa e Parigi, che si veste, mangia, parla alla maniera degli antenati polacchi di tre secoli fa. «Il rapporto tra i gruppi chassidici europei e il paese in cui risiedono non ha nulla della conflittualità esplosa nei giorni scorsi a Gerusalemme» nota lo storico Ariel Toaff, professore emerito all'Università Bar Ilan di Tel Aviv e autore del saggio «Il prestigiatore di Dio». Vale a dire contraddizione zero tra lo studio dei precetti rabbinici e Sua Maestà britannica: «Tutti negano il primato dello Stato sulla religione e obbediscono esclusivamente alla Torah ma chi non abita in Israele si adegua alla legge del governo guidato da non ebrei accontentandosi di osservare usanze e riti nel quartiere». [...] «Il primo scontro tra gli ortodossi e il resto della comunità risale alla fine del 1600, quando nella Polonia meridionale un gruppo di oltranzisti contesta gli strumenti da macellazione», spiega lo studioso David Bidussa, che per la casa editrice La Giuntina ha curato il volume di Yosef Yerushalmi «Assimilazione e antisemitismo razziale». Il resto è un processo d'allontanamento che culmina nella frattura di duecento anni dopo: da un lato gli ebrei integrati al mondo post rivoluzione industriale, dall'altro gli ortodossi e gli ultra, custodi dell'immobilismo biblico. Le migrazioni di fine 800 verso le prosperose capitali europee e gli Stati Uniti li vedono già separati in casa, fratelli talvolta coltelli fino al battesimo dello Stato d'Israele, coronamento del sogno sionista per i primi e per i secondi colpevole anticipazione dell'ancora attesa venuta del Messia al punto che oggi le sinagoghe più oltranziste dello Yemen incoraggiano la fuga verso New York anziché verso Gerusalemme. «Gli haredim rifiutano comunque l'integrazione con la società in cui vivono, gentile o ebraica non ortodossa» nota Anna Foa, docente di Storia moderna e autrice del libro «Ebrei in Europa». Se in Israele la diatriba su chi abbia il diritto di governare e secondo quale principio investe la sfera politica, a Londra come a Parigi si compone nell'esibizione quasi folklorica di un'alterità: «Grazie alla totale assenza di conflittualità generazionale le comunità ortodosse europee tendono a chiudersi in autoghetti in cui, compatibilmente con le leggi nazionali, possano tutelare le proprie tradizioni, dalle scuole religiose private tipo yeshiva all'uso della lingua yiddish». […]Francesca Paci, La Stampa, 20 giugno 2010


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Al parco di Brooklyn la pace corre sull'iPod

Sopravvissuti alle persecuzioni naziste, fuggiti ai pogrom zaristi e sovietici, con l’iPod in tasca, la borsa della spesa lungo la Tredicesima Avenue di Boro Park e la mente costantemente impegnata a riflettere sulla «Daf Yomi», la diversa pagina di Talmud che si studia ogni giorno dell’anno: sono i chassidim di New York, concentrati a Brooklyn ma presenti anche negli altri quattro «borough» della Grande Mela dando vita a una comunità composita e numerosa al punto da gareggiare con quella residente in Israele.I chassidim di New York sono anzitutto dei sopravvissuti. L’arrivo dei primi gruppi risale al 1881 quando dopo la morte dello zar Alessandro I i cosacchi imperiali mettono a ferro e fuoco gli shtetl narrati da Sholem Aleichem ma è la Seconda Guerra Mondiale a innescare la moltiplicazione di massa. Dall’Ungheria sotto il tallone nazista dove Adolf Eichmann coordina lo sterminio di oltre 500 mila ebrei nel 1944 riesce miracolosamente a fuggire Yoel Teitelbaum, il Grande Rebbe dei Satmar, che sbarca a Williamsburg, trova casa a Bedford Avenue e salva la setta ortodossa dalla scomparsa. Oggi i Satmar che vivono a ridosso dell’East River sono oltre 130 mila e Yossi Garelik, che invece è un chassid di Lubavitch originario della Russia, ama ripetere: «Se Hitler fosse vivo vorrei portarlo a fare un giro in auto da queste parti». Anche i Lubavitch sono dei sopravvissuti, ma dalle persecuzioni in Unione Sovietica. Josef Stalin li riteneva una fastidiosa presenza, li obbligava a chiudere le sinagoghe e a violare lo Shabbat. A migliaia furono uccisi, arrestati o deportati in Siberia. Da qui la scelta di fuggire, da soli o a gruppi come riuscì a un intero treno di chassidim Lubavitch nel 1946 arrivando in Polonia con documenti che li descrivevano come «profughi sulla via del ritorno». Nessuno di loro parlava polacco, fecero l’intero viaggio senza aprire bocca e se riuscirono a mettersi in salvo fu per l’abilità del chassid Leibel Motchkin nel corrompere i doganieri e falsificare le carte di identità. La polizia segreta sovietica lo braccò per anni, riuscendo a catturarlo nel Caucaso e deportandolo in Siberia da dove, liberato dopo oltre 20 anni, arrivò a Crown Heights, Brooklyn, trovando ad accoglierlo il Grande Rebbe Menachem Mendel Schneerson che gli disse di contare d’ora in avanti la sua età scalando gli anni della prigionia.Il ricordo dello scampato pericolo è costante, immanente, in una comunità ortodossa di oltre mezzo milione di anime che è diversa in tutto: ogni setta di chassidim ha abiti, usanze, dialetti, cibi e rabbini diversi per non parlare delle interpretazioni religiose o le posizioni politiche, anche sull’esistenza di Israele. Le differenze sono non solo fra sefarditi (originari dei Paesi arabi e del Mediterraneo) e ashkenaziti (originari dell’Europa dell’Est e della Germania) ma all’interno dei gruppi e sottogruppi che li compongono. Gli stessi contrasti che in Israele fanno scaturire interminabili liti politico-religiose su leggi e identità dello Stato ebraico si dissolvono sulla Tredicesima Avenue di Boro Park dove i chassidim convivono in negozi che vendono parrucche per donne osservanti, supermercati con cibi rigorosamente «glatt kosher» e librerie con i volumi firmati da saggi contemporanei come Moshe Feinstein e Adin Steinsaltz. Ciò che tiene assieme il mosaico ortodosso della Grande Mela è l’integrazione nella «Goldene Medine», la terra d’oro come alla fine dell’Ottocento gli askenaziti arrivati da Russia e Polonia definivano l’America.Un’integrazione descritta da una miriade di fatti quotidiani: dagli show de «Le Cirque du Soleil» organizzati apposta per la festa ebraica di Purim ai film come «Ushpizin» programmati nei cinema di Manhattan, dalle linee di autobus con gli orari immaginati per non sovrapporsi con quelli delle preghiere del mattino e della sera fino all’application «Siddur» creata da un’azienda chassid di Monsey e offerta dalla Apple per consentire a ogni osservante di poter pregare sull’iPod. di Maurizio Molinari, La Stampa 20 giugno 2010



Tutto nacque da un sogno, come succede nelle favole o nella stessa Bibbia: invece c'è di mezzo l'Olocausto, la persecuzione degli ebrei romani, l'odio nazista. Settembre 1943. Bice Gilardoni Staderini, madre di 6 figli, tipica esponente dell'ottima borghesia romana (suo marito è Fausto Staderini, titolare della storica tipografia in via Baccina) ha un sogno. Le appare sua madre: «Salva i bambini di Elvira». Elvira è Elvira Perugia Campagnano, moglie di Cesare e madre di Marcello e Bianca Maria, ebrei. Le due famiglie si frequentano da anni, la loro è un'amicizia così profonda da generare quel sogno. Sono le ore dell'immondo ricatto dell'oro, la richiesta da parte del comando nazista di ottenerne 50 chili in cambio della salvezza degli ebrei. Bice Gilardoni Staderini si sveglia, racconta tutto a suo marito e va dall'amica Elvira. Lì compiono la scelta più semplice e umana: inserire Marcello e Bianca Maria Campagnano nello stuolo già nutrito dei loro sei figli. Domani, lunedì 21 giugno, quel gesto così naturale e insieme straordinario, strumento di salvezza per due bambini di sangue ebreo, avrà il suo premio. Alle 11, nella Casa della Memoria e della Storia in via San Francesco di Sales 5, Rami Hatan e Sara Ghilad dell'Ambasciata di Israele a Roma consegneranno l'onorificenza «Giusti tra le Nazioni» ai figli di Fausto e Bice Staderini. […]Paolo Conti, il Corriere della Sera, 20 giugno 2010

lunedì 21 giugno 2010

ROTOLONE AL CIOCCOLATO PARVE

INGREDIENTI: 4 uova, 5 cucchiai di zucchero, 5 cucchiai di farina, una bustina di vanillina, 200 gr cioccolata fondente PREPARAZIONE: In una ciotola amalgamare i 4 rossi d'uovo allo zucchero eaggiungere la farina. Montare le chiare a neve e servendosi di un cucchiaio versarle poco a poco nel composto già preparato, aggiungere la bustina di vanillina diluita in un bicchierino di acqua e amalgamare il tutto. Preriscaldare il forno a 160 gradi. Coprire la propria teglia da forno con della "cartaforno"oleata e stendervi l'impasto.Lasciare cuocere dai 20 ai 30 minuti. Nel frattempo cospargere su un panno umido dello zucchero, sopra il quale si adagia l'impasto cotto e arrotolandolo si lascia riposare per mezz'ora. Srotolare il tutto, cospargere di "Nocella" e arrotolare di nuovo; spolverizzarlo con un po' di zucchero a velo. N.B. Quando si aggiungono le chiare, servirsi di un cucchiaio di legno e amalgamarle sempre dal basso verso l'alto il composto così non perde le soffici caratteristiche, quindi in questo caso mai usare le fruste elettriche. Per la farcitura al cioccolato è sufficiente sciogliere a bagnomaria 200 g di cioccolata fondente e aggiungere poco latte di soia, una noce di margarina e a volontà un rosso d'uovo.Sullam n.54

DUG BURI B'NUSACH AMAMI, SGOMBRO FRITTO

INGREDIENTI: 3 libbre di piccoli sgombri, prezzemolo tritato, succo di 1 limone, 1 spicchio d'aglio, olio per frittura, sale, pepe PREPARAZIONE: Pulire il pesce per bene, asciugarlo in carta assorbente. Friggere in olio caldo, in una casseruola a fuoco medio. Aggiungere aglio, prezzemolo, sale e pepe a piacere. Girare il pesce per due volte per lato durante la frittura. Aggiungere il succo di limone quando il pesce è pronto. Servire caldo come piatto principale con vino bianco. Sullam n. 54


Giordano

Perché Israele

di Francesco Pullia, 18 giugno 2010 Notizie Radicali
Sciocco, irresponsabile, criminale e, per Israele stesso, disastroso. Così Bernard-Henri Lévy aveva definito il blitz contro la “Mavi Marmara” e la sua flottiglia esprimendo la propria collera, di fronte alla tentazione, tipica di certi dirigenti israeliani, “di credersi soli al mondo, comunque reietti, e di agire in conseguenza”. “L'autismo”, proseguiva il filosofo ebreo e francese, “non è una politica. Né, ancor meno, una strategia”. Posizione più che condivisibile soprattutto perché espressa da un pensatore da sempre in prima fila nel versante dei diritti umani. L’autore del celebre libro “La barbarie dal volto umano” (vale a dire il comunismo), che insieme alle opere del collega André Gluksmann riuscì a mandare su tutte le furie negli anni Settanta i sostenitori europei del totalitarismo comunista, non è un intellettuale opportunista, di quelli, per intenderci, che lancia il sasso e nasconde la mano. No. Ha sempre mantenuto una propria coerenza, insieme a un’inconfondibile buona dose di onestà. Così come nel suo lucido articolo uscito sul “Corriere della Sera” lunedì 14 giugno in cui, pur continuando a contestare le sciagurate e avventate decisioni assunte dal governo israeliano, mette giustamente a nudo la malafede della (dis)informazione mondiale sempre pronta a schierarsi contro Israele ogniqualvolta lo stato ebraico commetta qualche passo falso. Tra le tante riflessioni scritte all’indomani del tragico episodio, quella di Bernard-Henri Lévy spicca per intelligenza e non appiattimento al solito stucchevole coro antisraeliano e antiebraico. Innanzitutto, il filosofo sfata la leggenda che vorrebbe il blocco di Gaza “totale e spietato” perché prenderebbe “l’umanità in pericolo”. La realtà è ben diversa. Il blocco, infatti, riguarda soltanto armi e materiali per la loro fabbricazione e “non impedisce il passaggio, tutti i giorni, in provenienza da Israele, di 100, 120 camion carichi di vivere, medicinali, materiale umanitario di ogni genere; l’umanità – afferma Bernard-Henri Lévy - non è “in pericolo” a Gaza; dire che “si muore di fame” nelle strade di Gaza-City significa mentire”. In secondo luogo, “ora che il carico della flottiglia ha riempito la sua funzione simbolica, ora che quest’atteggiamento ha permesso di cogliere in fallo lo stato ebraico e di rilanciare come mai prima d’ora il meccanismo della sua demonizzazione, ora che sono gli israeliani, fatta l’ispezione, a voler inoltrare gli aiuti verso i presunti destinatari, Hamas blocca i suddetti aiuti al check point di Kerem Shalom e ve li lascia pian piano marcire. Al diavolo le merci passate fra le mani dei doganieri ebrei! Visto che i bambini di Gaza non sono mai stati altro, per la gang di integralisti islamici andati al potere tre anni fa con la forza, che scudi umani, carne da cannone o vignette medianiche, i loro giocattoli o i loro desideri sono l’ultima cosa di cui laggiù ci si preoccupi”. La verità è che la vicenda della Mavi Marmara, con i suoi pseudopacifisti, è servita ancora una volta come ennesimo pretesto per scatenare “un turbine di odio e di follia”. “Israele”, come ha notato Gianni Codovini, autore di due libri illuminanti, entrambi editi da Bruno Mondadori, sulla storia e sulla geopolitica del conflitto arabo, israeliano, palestinese, “è vittima, doppiamente e tragicamente vittima: dell’isolamento e dell’acquiescenza internazionale. E questo ricorda - purtroppo - un passato che non passa”. E dire che non più di tre anni fa il Manifesto dalla sinagoga di Firenze, alla base del satyagraha mondiale per la pace di Marco Pannella, sottolineava la necessità di “promuovere, costruire e realizzare un’alternativa strutturale alla minaccia, alla probabilità di un prossimo tremendo conflitto che, divampando dal Medio Oriente, si estenda rapidamente al mondo intero”. E continuava: “è urgente che Israele operi nel quadro giuridico, civile, politico, dell’Unione europea, quale regione - per ora, sottolineiamo: per ora - di frontiera di una comunità istituzionale di mezzo miliardo di persone, con le sue regole, leggi, giurisdizioni, il suo parlamento democratico e un suo potere esecutivo (di certo imperfetto e inadeguato, ma pur sempre corrispondente e legittimato dai suoi trattati costitutivi)”. Lo stesso testo poneva la questione spinelliana e caparbiamente pannelliana del superamento delle sovranità nazionali produttrici di “guerre civili contro le libertà e la vita dei propri popoli e dei loro membri” e aggiungeva: “I palestinesi hanno innanzitutto il diritto di non vedersi imposto una qualsiasi forma di stato che non sia espressione e forza dei loro diritti umani, politici, sociali, di coscienza”. Altro che due popoli, due stati! Si trattava e si tratta di ridisegnare con coraggio un nuovo assetto nel sud del Mediterraneo, lì “dove affondano le radici più profonde dell’Europa”. Speriamo che questo progetto non venga confinato nei reami dell’utopia e sconfessato ancora dal sangue.




Acco





Scenes from a Gaza supermarket, toy shop
These are screenshots from a new Al Jazeera English report on the "Gaza siege."


http://elderofziyon.blogspot.com/2010/06/scenes-from-gaza-supermarket-toy-shop.html

da Barbara


Tel Aviv: Herzl Street, 1915


Hamas all’Anp: lasciateci sparare i razzi su Israele anche dalla Cisgiordania

La coerenza, prima di tutto. Anche se tutt’intorno le cose sono cambiate. E non poco. Con il presidente israeliano Peres che invita Hamas ad abbandonare la politica del terrore. Con Israele che toglie il blocco sulla Striscia di Gaza (ad esclusione delle armi). Con la comunità internazionale che inizia a fare pressione su Israele perché eviti interventi bruschi.Ecco, nonostante tutto questo, loro, i capi di Hamas, vanno avanti per la loro strada. Anzi, rincarano. «Invitiamo l’Autorità nazionale palestinese a dire ai propri funzionari di non bloccare più le organizzazioni terroristiche, ma anzi di aiutarle a lanciare razzi contro Israele anche dalla Cisgiordania». Parola di Mahmoud al-Zahar, uno dei responsabili di Hamas.L’uomo, con un’intervista al quotidiano arabo “al Quds” (il nome arabo di Gerusalemme, nda), ha anche polemizzato – senza possibilità di replica – con Ramallah. «Gaza è stata liberata – ha aggiunto al-Zahar –, ora gli apparati di sicurezza dell’Anp devono lasciare campo libero a chi vuol liberare Gerusalemme e la Cisgiordania. Anche perché ora i razzi vanno lanciati dalla West Bank. Non possiamo mica farlo sempre noi da Gaza!».Coerenza, appunto. Del resto Hamas è un’organizzazione terroristica, mica di carità.http://falafelcafe.wordpress.com/


Netanyahu con l'inviato del Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) Blair

Gaza, Israele revoca il blocco terrestre

Svolta dopo il vertice con BlairSemaforo verde per tutti i beni,esclusi solo gli ordigni militari«Ma Hamas resta terrostica»
Israele ha annunciato la revoca dell’embargo su tutti i «beni ad uso civile», mantenendo però il blocco marittimo per impedire l’importazione di materiali da guerra nell’enclave palestinese. «A partire da oggi, c’è il semaforo verde per l’ingresso di tutti i beni a Gaza fatta eccezione per gli equipaggiamenti militari e il materiale in grado di rafforzare la macchina da guerra di Hamas», ha dichiarato un alto responsabile governativo. L’alleggerimento del blocco prevede che tutte le merci civili che non figurano su una lista di prodotti vietati (fra i quali armi, materiale militare o equipaggiamenti che possono essere usati a fini di guerra) potranno entrare a Gaza, ha precisato un comunicato ufficiale. Israele autorizzerà anche l’ingresso di quantità più ingenti di materiali da costruzione, ma unicamente per dei progetti approvati dall’Autorità nazionale palestinese del presidente Abu Mazen, come scuole, presidi medici, stazioni per la depurazione dell’acqua. Le restrizioni puntano ad impedire ad Hamas di utilizzare cemento o affini per costruire «bunker» o di servirsi di tubi per costruirsi dei razzi. Israele si impegna anche ad aumentare l’attività dei punti di passaggio fra lo Stato ebraico e Gaza al fine di incrementare il traffico di merci via terra. Per contro, Israele continuerà ad obbligare tutte le imbarcazioni dirette a Gaza a fermarsi nel porto israeliano di Ashdod per controllare i loro carichi, mantenendo così il blocco marittimo dell’enclave palestinese. L’annuncio israeliano è seguito ad un incontro fra il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente, Tony Blair.Giovedì scorso, il gabinetto di sicurezza israeliano aveva fissato i principi di un alleggerimento del blocco imposto da quattro anni a Gaza. La decisione odierna avviene a seguito delle pressioni della comunità internazionale. Pressioni fortemente aumentate dopo l’attacco del 31 maggio alla flottiglia umanitaria che tentava di forzare il blocco e consegnare aiuti ai palestinesi locali. L’incursione è costata la vita a nove civili turchi ed ha provocato numerose proteste nel mondo.La Casa Bianca ha subito espresso il suo pieno sostegno alla decisione di Israele, sostenendo che permetterà di migliorare la vita quotidiana degli abitanti di Gaza. L’amministrazione Usa ha anche fatto sapere che Netanyahu sarà ricevuto dal presidente Barack Obama il 6 luglio a Washington. Secondo la radio militare, l’annuncio israeliano ha «facilitato» l’organizzazione di questo incontro fra i due leader che si erano lasciati in fredda al termine dell’ultima visita di Netanyahu alla Casa Bianca il 24 marzo. Il blocco di Gaza continua tuttavia a suscitare frizioni fra Israele e la comunità internazionale. Il governo tedesco oggi ha denunciato il rifiuto delle autorità israeliane di lasciar entrare oggi a Gaza il ministro allo Sviluppo, Dirk Niebel. L’interessato ha parlato di «un grande errore di politica estera da parte del governo israeliano» mentre il capo della diplomazia Guido Westerwelle ha sottolineato che Berlino come tutta l’Ue attendeva «la fine del blocco» di Gaza.20/6/2010,http://www.lastampa.it/


Gilad Shalit su un poster di Hamas
Gilad. Tutti facciano qualcosa, ogni giorno

Giovedì prossimo, il 24 giugno, saranno quattro anni da quando Gilad Shalit è stato rapito dai terroristi di Hamas. Una prigionia che può sembrare una piccola cosa, in mezzo ai grandi disastri della guerra, alle persone uccise dai terroristi, alle bombe dell'11 settembre o alle esplosioni suicide nei ristoranti e nei centri commerciali di qualche anno fa. Eppure non ci stanchiamo di protestare, continuiamo a indignarci, sappiamo che non dobbiamo stancarci di chiedere la liberazione di Shalit. Lo facciamo ogni volta che possiamo, lo faremo ancora la sera del 24 con la manifestazione convocata dal Bené Berit con la Comunità ebraica e il Comune di Roma per questo anniversario alle 21.30 di fronte al Colosseo. (Segnalo un'altra iniziativa a Torino alle 20.30 in Corso Cairoli, angolo via dei Mille.) Non si tratta solo della palese violazione della legge internazionale che il rapimento costituisce e neanche della ferita profonda che possiamo immaginare in un giovanissimo che ormai ha passato un quinto della propria vita da solo, prigioniero di nemici feroci, senza una visita o un conforto. Chi ha figli sente cosa devono voler dire quattro anni di prigionia solitaria per un ventenne. La ragione per cui tutti gli ebrei, senza distinzione di parte politica o di identificazione religiosa sentono una solidarietà profonda per Shalit e la sua famiglia è profondamente iscritta nella nostra identità collettiva. Noi siamo un piccolo popolo e ciascuno è un po' parente di tutti gli altri, non solo astrattamente responsabile, ma concretamente vicino. La bellissima scoperta degli scienziati israeliani secondo cui vi è davvero un DNA comune al popolo ebraico mostra che dicendo di essere tutti fratelli, discendenti dai nostri patriarchi, non usiamo solo un simbolo, ma parliamo di qualcosa di molto concreto, una traccia materiale del nostro spirito, incisa nel nostro corpo come la milà. Quando qualcuno di noi muore, piangiamo tutti. Ma soprattutto quando qualcuno è tenuto prigioniero come Shalit, siamo tutti prigionieri. Giorno dopo giorno, una parte di noi, da qualche parte nel nostro inconscio o nelle nostre viscere, soffre in una cantina di Gaza, incatenata da carcerieri inumani. Non è un sentimento nuovo: lo studio delle carte della Genitzà del Cairo, per esempio, ha mostrato come si impegnasse quella comunità quando ottocento anni fa era diretta dal Rambam e dalla sua famiglia per liberare i prigionieri che anche allora erano rapiti da pirati islamici crudeli e avidi. In mezzo alle immense difficoltà che vive in questo momento Israele e con esso tutto l'ebraismo, nonostante i tentativi di legittimare il regime sanguinario di Gaza, lottare perché Shalit sia sottratto al gruppo criminale che lo trattiene schiavo, che lo ha ridotto al ruolo di cosa da scambiare, di prezzo di un riscatto, è un impegno comune. Ognuno di noi faccia qualcosa ogni giorno per la liberazione di Gilad Shalit, parte di noi stessi che ci è stata rubata.Ugo Volli http://www.moked.it/



genocidio armeno


Israele, Knesset pronta a discutere del genocidio armeno in Turchia

L'assemblea adotterà una mozione che inasprirà ulteriormente le relazioni con Ankara - Il parlamento israeliano intende discutere entro il mese una mozione sul così detto genocidio armeno, la strage di cittadini armeni commessa in Turchia all'inizio del secolo scorso ma non riconosciuta da Ankara come piano deliberato di sterminio etnico. Un'iniziativa questa, che potrebbe portare a un riconoscimento del genocidio, inasprendo certamente la crisi con la Turchia, esplosa in seguito all'attacco israeliano alla Freedom Flotilla per Gaza. La sessione sul genocidio armeno è il frutto di un'iniziativa di Haim Oron, presidente del partito Meretz, che citato dal sito del quotidiano Haaretz ha assicurato che non si tratta di una vendetta nei confronti della Turchia, visto che la sua proposta risale a un anno fa: "Non possiamo essere complici di una negazione, perché come popolo ebraico siamo stati vittime di questi comportamenti", ha dichiarato Oron. http://notizie.virgilio.it/l


Haifa

Blitz nave, Israele diffonde nuovo video su Mavi Marmara

Immagini mostrano leader IHH che incita passeggeri contro soldati
18 giu. (Apcom) - Il ministero degli Esteri israeliano ha diffuso oggi un video del 30 maggio scorso, il giorno precedente al blitz contro la Mavi Marmara, con le immagini del leader della Ong turca IHH Bulent Yildirim che, a bordo della nave, incita decine di attivisti a gettare in mare i soldati israeliani in caso di assalto. Lo riporta il sito web del quotidiano israeliano Haaretz.
"Se salgono a bordo della nostra nave li getteremo in mare, se Allah lo vorrà!", dice Yildirim nel video. "Se mostriamo di avere paura vinceranno ancora, non vogliamo essere ricordati nel libro di Allah come codardi", prosegue Yildirim, mentre decine di persone a bordo della nave scandiscono lo slogan "milioni di martiri in marcia per Gaza". Il video è stato girato il 30 maggio da una persona a bordo della nave. L'IHH è la Ong turca che ha organizzato la flottiglia umanitaria assaltata dalle forze israeliane, accusata da Israele di essere legata ad Hamas, il gruppo integralista che controlla la Striscia di Gaza dal 2007. Gli Stati Uniti hanno confermato l'esistenza di rapporti tra l'IHH e Hamas, e ieri Israele ha inserito ufficialmente la Ong turca nella sua lista nera delle organizzazione terroristiche. La Mavi Marmara è stata poi assaltata dalle forze israeliane il 31 maggio, e negli scontri scoppiati a bordo i soldati israeliani hanno ucciso nove attivisti. Per chiarire l'accaduto Israele ha istituito una sua commissione d'inchiesta, che include due osservatori stranieri.


Elton John in Israele: "Non scegliamo le nostre coscienze col lanternino"

Concerto a Tel Aviv di fronte a 50.000 persone. Di recente artisti come Elvis Costello e Pixie avevano cancellato diverse date, per le politiche dello Stato ebraico
Tel Aviv, 18 giugno 2010 http://qn.quotidiano.net/-
Dopo il Marocco, Israele: Elton John non bada alle polemiche e ieri si è esibito a Tel Aviv, davanti a un pubblico di 50mila persone.Di recente artisti come Elvis Costello e Pixie avevano cancellato le loro date israeliane, citando come causa le politiche del governo dello Stato ebraico. John si è limitato ad affermare “non scegliamo col lanternino le nostre coscienze” prima di iniziare il concerto.


(Per fortuna gli estremisti religiosi sono una minoranza!!!! n.r.)

Ebrei contro ebrei: il conflitto religioso dilania Israele

Decine di migliaia di ebrei ultraortodossi sono scesi in piazza in Israele per protestare contro una sentenza della Corte Suprema, dimostrando come la convivenza tra i gruppi più religiosi e le istituzioni laiche sia sempre più difficile nel paese – scrive il giornalista Matthew Kalman***
In Israele la guerra culturale interna tra le comunità religiose e i tribunali laici è sfociata nelle piazze giovedì scorso, quando decine di migliaia di ebrei ashkenaziti (europei) ultra-ortodossi hanno paralizzato le strade di Gerusalemme e il sobborgo di Bnei Brak a Tel Aviv con una marcia di protesta. Oggetto della loro indignazione era l’ordine di arresto nei confronti di 43 coppie per aver rifiutato di permettere alle figlie di frequentare una scuola religiosa dove si sarebbero mescolate con le figlie di ebrei religiosi mizrahiti (un termine che a volte si sovrappone a quello di ‘sefarditi’, e che si riferisce agli ebrei che provengono principalmente dal mondo arabo). Vestiti con i loro abiti del sabato, con alti cappelli e lunghi cappotti di seta nera finemente ricamati, gli uomini destinati al carcere sono stati portati a spalla da una folla danzante, che intonava canti per le strade di Gerusalemme, fino al quartier generale della polizia nel distretto della missione russa. Alcuni indossavano una cintura rossa decorata con la scritta “Santità per amore del cielo».
“Andiamo con la gioia nei nostri cuori”, ha detto il rabbino Eliyahu Biton mentre camminava verso il carcere, anche se 22 delle donne condannate e 4 degli uomini non si sono presentati.
I genitori al centro del dramma di giovedì, seguaci del rabbino Shmuel Berzovsky che guida la piccola setta chassidica degli Slonimer, hanno preferito due settimane di carcere piuttosto che mandare le loro figlie alla scuola Beis Yaakov vicino alle loro case, nell’insediamento religioso di Emanuel, in Cisgiordania. Le loro ragioni? Alla scuola, le loro bambine ashkenazite si sarebbero mescolate con le bambine mizrahite, alcune delle quali provengono da famiglie allargate più laiche e quindi, dicono gli Slonimer, ciò potrebbe esporre le loro figlie a influenze indesiderate provenienti dal resto del mondo. E la loro detenzione è stata il culmine di una battaglia durata due anni tra la setta ultra-ortodossa, che controlla di fatto la scuola, e la laica Corte Suprema di Israele. Prima della polemica della scuola Beis Yaakov, poche persone avevano sentito parlare della setta degli Slonimer, dal nome di una città in Bielorussia, dove visse il loro primo rabbino 200 anni fa, e della lotta di potere interna alla setta tra i leader rivali di Gerusalemme e Bnei Brak. Ma la lotta per le scolarette ha riunito il piccolo gruppo trasformandolo nell’ultimo portabandiera di una sempre più aspra contesa tra gli ultra-ortodossi e le istituzioni laiche.
La manifestazione di giovedì è stata la più grande a Gerusalemme da quando manifestanti ultra-ortodossi si riunirono nel 1999 in una dimostrazione di forza contro i presunti pregiudizi antireligiosi della Corte Suprema di Israele. Dieci anni dopo, la distanza che divide gli ultra-ortodossi e la Corte è più grande che mai, mentre sono in corso dibattiti su questioni come il potere dei tribunali religiosi, le sovvenzioni pubbliche per gli studenti religiosi, l’esenzione religiosa dal servizio militare e l’accesso alle strade pubbliche di sabato.Nell’agosto 2009 la Corte Suprema aveva stabilito che un corso separato creato nella scuola Beis Yaakov due anni fa per gli Slonimer equivaleva a una “palese discriminazione” contro il resto degli alunni, che sono mizrahiti per il 95%. Il giudice ha ordinato che la scuola, che è finanziata dallo Stato, rimuovesse le barriere fisiche e integrasse le classi. Per sei mesi, i genitori hanno sfidato il tribunale. Quando finalmente le barriere sono state rimosse, 43 famiglie hanno allontanato le loro figlie dalla scuola e poi le hanno inviate in un’altra scuola statale a Bnei Brak, a un’ora di distanza. Ma i genitori non possono spostare i loro figli da una scuola all’altra nel bel mezzo dell’anno scolastico senza l’autorizzazione delle autorità scolastiche; inoltre, la loro partenza ha lasciato la scuola Beis Yaakov con un numero troppo esiguo di bambini per poter funzionare.Martedì scorso, la Corte Suprema aveva stabilito che entro giovedì i genitori dovevano riportare le loro figlie alla scuola in cui era stato rimosso il regime di segregazione, o presentarsi al carcere.Il chiaro atteggiamento di sfida da parte dei genitori ha portato la leader dell’opposizione Tzipi Livni ad interrogarsi apertamente sul futuro dello stato di diritto in Israele e sul silenzio assordante dei ministri del governo, che hanno paura di offendere i partiti ultra-ortodossi che hanno in mano le sorti dell’esecutivo. “Ho sentito che c’è un gruppo di persone che ha detto in anticipo che si rifiuta di accettare una decisione della Corte Suprema”, ha detto la Livni ai suoi sostenitori questa settimana. “Non c’è spazio per queste dichiarazioni in uno stato democratico. Io non sono una fan del coinvolgimento della Corte Suprema in tutte le questioni, ma quando la leadership politica e statale non accetta le decisioni basate sui valori dello Stato di Israele, la Corte Suprema non ha scelta”.Aviad Hacohen, l’avvocato che ha presentato la petizione alla Suprema Corte per conto di Yoav Lalum, presidente dell’associazione Noar Kahalacha, che combatte la discriminazione etnica nelle scuole religiose, ha detto al Time Magazine che il rifiuto degli Slonimer di permettere che le loro figlie frequentino la scuola con le bambine mizrahite ha portato all’esclusione dalla scuola di decine di queste ultime a partire dallo scorso autunno. E – ha ammonito – il problema dell’insediamento di Emanuel è solo la punta dell’iceberg ultra-ortodosso che minaccia di far sprofondare lo stato di diritto in Israele.“Ciò può portare a una vera anarchia”, dice Hacohen. “Spero che lo stato di diritto prevalga, altrimenti la questione non finirà qui, con gli ultra-ortodossi ed altri che faranno lo stesso. Vorrei poter dire che la legge vincerà, ma non ne sono sicuro.”19/06/2010 dal TIME http://www.medarabnews.com/
***Matthew Kalman è un giornalista e regista residente a Gerusalemme dal 1998; oltre a essere corrispondente del Time Magazine, ha scritto su Newsweek, Boston Globe, USA Today, ecc.; ha prodotto reportage per televisioni come l’americana PBS e la britannica Channel 4



kibbutz Degania nel deserto

Israele ha chiesto all'Egitto di fermare le navi iraniane


Il Cairo ha respinto la richiesta
18 giu. (Apcom) - Israele ha chiesto all'Egitto di impedire alle navi iraniane dirette verso la Striscia di Gaza con aiuti umanitari a bordo di raggiungere il territorio palestinese attraverso il Canale di Suez. Lo ha scritto oggi il quotidiano egiziano A-Dar, secondo quanto riporta il sito web del quotidiano israeliano Jerusalem Post. Le autorità egiziane hanno però respinto la richiesta, ha precisato A-Dar, poiché a loro giudizio il diritto internazionale non gli consente di vietare il passaggio a qualsiasi imbarcazione attraverso il canale. Nel fine settimana una seconda nave iraniana carica con aiuti per la popolazione di Gaza potrebbe salpare dal porto di Bandar-Abbas, nel sud dell'Iran, secondo quanto ha annunciato nei giorni scorsi sul suo sito web la Mezzaluna rossa iraniana. Una prima nave sarebbe già salpata e dovrebbe arrivare a Gaza attraverso il Mar Rosso. Israele ha imposto un blocco alla Striscia di Gaza nel 2007 dopo che il gruppo integralista Hamas ha preso il controllo del territorio con la forza, estromettendo l'Autorità Palestinese. Il 31 maggio scorso le forze israeliane hanno assaltato una flottiglia navale, organizzata da una Ong turca accusata da Israele di essere vicina ad Hamas, e negli scontri scoppiati a bordo di una nave del convoglio sono rimasti uccisi nove attivisti turchi. Dopo questo episodio l'Iran ha annunciato che avrebbe inviato nella Striscia altre navi umanitarie per infrangere il blocco.


Una lettera aperta degli agenti dello Shin Bet a Ehud Olmert

Tel Aviv, 18 giu - Una lettera aperta all'ex premier israeliano Ehud Olmert. E' il gesto senza precedenti con il quale 12 agenti dello Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, hanno voluto dare il loro sostegno all'ex premier mentre questi è oggetto di indagini della polizia e viene rappresentato in maniera poco lusinghiera sulla stampa. "Che tu sia presentato adesso come il 'Nemico pubblico numero 1' non può passare sotto silenzio" scrivono indignati gli agenti nella lettera, che è pubblicata oggi dal quotidiano Yediot Ahronot. Uno dei firmatari ha detto al giornale che "Olmert è una persona straordinaria" che durante la sua lunga carriera ha sempre mantenuto un rapporto caloroso e personale con gli uomini di scorta. "E' una persona che ama aiutare il prossimo" ha aggiunto. La lettera si conclude con le firme degli agenti i quali, per motivi di segretezza, si limitano a segnare le proprie iniziali.


Tra un Mondiale e l’altro

1990: accompagno una cugina israeliana a vedere il centro di Torino. E’ sabato sera e l’Italia, che ospita i Mondiali di calcio, ha appena vinto la sua prima partita, contro l’Irlanda. Tutta via Roma è piena di gente festante, un tripudio di bianco, rosso e verde, ragazze vestite solo con la bandiera; ci saranno decine di migliaia di persone. La cugina è sconcertata: tutto questo solo per una partita di calcio? “Da noi queste cose si vedono a Yom Ha-Atzmaut” mi dice; e io un po’ fatico a immaginare che in Israele si possa fare una festa come quella senza che sia necessario aver vinto una partita.Nel 1994 sono in Olanda a un incontro degli insegnanti delle scuole ebraiche europee. La semifinale vede l’Italia contro la Bulgaria e tutta la sala compattamente tifa per la Bulgaria. “E’ Davide contro Golia” mi spiega qualcuno. Invece vince l’Italia e il preside della scuola ebraica di Sofia, tutto compunto, si alza e mi stringe la mano.Ma già da quell’anno per me il ricordo dei mondiali di calcio ha cominciato a confondersi con quello dei congressi dell’UCEI. Mozioni, liste, politica, cultura, Israele, giovani, riunioni più o meno segrete, accordi, disaccordi. Tutto spesso con la necessità di fare in fretta perché c’è una partita da guardare. Nel 1998 l’Italia gioca contro l’Austria proprio durante le votazioni per il Consiglio, nel 2006 giocherà alla sera contro la Germania e quindi i delegati devono tornare a casa in fretta. Entrambe le volte il congresso UCEI porta fortuna alla nostra nazionale, ma l’ansia per la partita ha fatto scappare qualcuno prima del tempo.2010: che stana impressione un Mondiale senza congresso. Intanto le vicende delle Comunità ebraiche italiane sembrano sempre più interdipendenti, tra le interviste incrociate dei presidenti di Roma e Milano e le vicende torinesi che vengono variamente commentate in tutta Italia. Molti richiedono un Bet Din nazionale, una kasherut nazionale. Non c’è in ballo solo la riforma dello statuto: le questioni su cui è necessario un confronto tra tutti gli ebrei italiani sono molteplici. Speriamo che a dicembre un congresso finalmente libero dai Mondiali di calcio riesca ad affrontarle.Anna Segre, insegnante, http://www.moked.it/


I due attori, a sinistra della fila, si tengono per mano a Cannes

Punizione per l'attore egiziano La colpa? Un abbraccio all'israeliana

Aperta un’inchiesta dopo la «passerella» a Cannes
Nabawy rischia la sospensione. «Non doveva farlo»
GERUSALEMME — Galeotto fu l’abbraccio. «Khaled, guarda qui!». Flash. «Liraz, vòltati!». Raffica di scatti. Un mese fa, un po’ imbarazzati, i due sorridevano sulla Croisette. Lui impomatato e incravattato. Lei coi capelli sciolti sulle spalle scoperte. Lui egiziano: attore impegnato nella politica e dai contratti con la tv di Stato. Lei israeliana: attrice trasferita a Hollywood e con un breve passato di cantante. Khaled al-Nabawy e Liraz Charhi si godevano il loro minuto di red carpet, a Cannes. Due belle particine di fratello e sorella in Fair Game, l’ultimo film con Sean Penn e Naomi Watts, storia di Spy&Iraq. «Abbracciatevi!», aveva gridato alla fine un paparazzo: e loro s’erano abbracciati. Senza pensarci troppo. Senza immaginare che quella foto, rimbalzata su tutti i siti mediorientali, pubblicata su tutti i giornali arabi, avrebbe scatenato l’ira. E sarebbe costata il posto.GELO AL CAIRO - Secondo copione, a rimetterci è stato il povero Nabawy. Che è tornato al Cairo, dove vive, e s’è trovato circondato dal gelo. I contratti rivisti. Qualche telefono muto. «Mi hanno messo sotto processo», s’è sfogato col suo agente. Letteralmente: il Sindacato attori egiziani, potente corporazione governativa, ha aperto un’inchiesta su quel film e su quell’abbraccio. Accusa: «Normalizzazione dei rapporti con Israele», attività ancora punibile nonostante trent’anni di pace firmata fra i due Paesi. Nabawy sarà interrogato nei prossimi giorni dal leader del sindacato, Ashraf Zaki: «Gli chiederò se sapeva, prima di firmare per la parte, che la Charhi era una cittadina americana d’origine israeliana e che aveva prestato due anni di servizio nell’esercito sionista». Nel caso la risposta non soddisfi la commissione interna, l’attore riceverà una lunga sospensione. E a 39 anni — nel mezzo d’una carriera che l’ha fatto recitare con Ridley Scott, girare film sulla repressione in Libano, ricevere premi panafricani —, per lavorare (e per un bel po’) dovrà cambiare aria. LA PASSERELLA CONTESTATA - Cose d’Egitto. Dov’è normale che le associazioni d’artisti decidano che cosa va bene. Qualche settimana fa, l’Unione dei musicisti ha ottenuto che «l’ateo e omosessuale» Elton John cancellasse la data del suo concerto. Ancora più delicato, se si parla d’Israele. In un Paese dove il ministro della Cultura minacciò di bruciare i libri in ebraico; dove la settimana scorsa è stato negato il visto al rettore dell’università di Haifa, ospite d’un congresso accademico, in risposta alla porta sbattuta in faccia dagl’israeliani a Noam Chomsky; dove una sentenza della Corte suprema cairota ha tolto la cittadinanza agli egiziani che sposino israeliani. La passerella di Cannes, no, non poteva passare: «Sono sicura che la foto non c’entra nulla», dice Liraz, 32 anni, discendenze iraniane: «Nabawy sapeva già che avrebbe pagato il prezzo per questa nostra collaborazione sullo schermo... ». E come fa a dirlo? «Perché Doug Liman, il regista, per quel ruolo aveva già ingaggiato un altro attore egiziano, prima di Nabawy. Ma poi erano arrivate minacce e quest’attore, saputo che nel cast c’ero io, s’era dovuto ritirare: disse che altrimenti avrebbe smesso di lavorare in tutto il mondo arabo. A quel punto, ero sicura che a rimetterci sarei stata io, che m’avrebbero lasciata a casa. E invece è arrivato Nabawy: un attore vero, un uomo, un professionista che veniva sul set solo per fare il suo mestiere». SCIOCCATA - Liraz è scioccata: «Lavorare insieme non è sembrato strano a nessuno dei due. E a Cannes, quando ci hanno fatti sedere vicini, non ci abbiamo fatto gran caso. Khaled non ha detto nulla nemmeno quando ci han fatto quelle foto. Io lo sapevo che qualcuno si sarebbe arrabbiato. Ma credevo che, vedendoci insieme, passasse anche un altro tipo di messaggio. Non potevo immaginare una simile ostilità. E che l’avrebbero addirittura messo alla porta». C’è un film di qualche anno fa, La Banda: la storia di un’orchestrina della polizia egiziana che arriva in Israele per suonare e invece finisce dimenticata, da qualche parte, in un angolo di deserto nel Negev... In questi giorni, Liraz ha provato a cercare Khaled, senza trovarlo: «Mi spiace. Sognavamo un’altra musica». Francesco Battistini 17 giugno 2010, http://www.corriere.it/


Immanuel Kant


ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD


http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4810


Roma boicotta il boicottaggio

Al Municipio XV quattro consiglieri di sinistra presentano una mozione anti-Israele. I residenti scendono in piazza per protestare: "Dovete pensare solo ai problemi del quartiere".
Roma si ribella alle scelte dei consiglieri del Municipio XV. Dai semplici cittadini fino agli assessori in Campidoglio si è alzato il coro: «No al boicottaggio dei prodotti israeliani». Un’iniziativa che è sembrata risorgere da un lugubre passato. Nella città dove è presente la più antica comunità ebraica della Diaspora, un manipolo di politici di quartiere ha cercato consensi attaccando Israele. Dimenticandosi dei problemi della città. La polemica nasce quando quattro consiglieri del Municipio XV, presieduto da Gianni Paris (Pd), depositano una mozione nella quale chiedono al governo italiano di boicottare i prodotti dello Stato ebraico e di ritirare le sedi diplomatiche. Le firme sono di Alfredo Toppi (Sinistra arcobaleno), Alessio Conti (Lista civica Rutelli), Valentino Stassi (Idv) e Gaetano Cellamare (Pd). Dei quattro solo Cellamare precisa: «Ho appreso solo leggendo Il Tempo (nell'edizione di ieri, ndr) che la mozione era diventata uno strumento per attaccare il governo israeliano e per ostacolare le attività commerciali di chi lavora onestamente nel nostro Paese. Mi dissocio completamente».Alla fine, solo in tarda serata grazie alle proteste di cittadini e politici, il Consiglio del Municipio XV decide di presentare gli emendamenti che, di fatto, cancellano la proposta di boicottaggio senza però intaccare la condanna a Israele per il blitz del 31 maggio sulla Freedom Flotilla. Soddisfatto il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici: «Ringrazio il presidente Paris che ha avuto la sensibilità di comprendere che l'ordine del giorno era sproporzionato di fronte alla gravità degli eventi, che hanno visto gli stessi firmatari del testo molto distratti, quando nazioni come l'Iran hanno compiuto massacri senza la loro mobilitazione. Voglio ringraziare inoltre - ha detto Pacifici - i cittadini del XV e l'opposizione per l'impegno dimostrato». Il documento originale, comunque, aveva scatenato un polverone. Per le strade della Capitale era salita la protesta. Piergiorgio Benvenuti, il primo a denunciare il gesto dei consiglieri, ha organizzato una raccolta firme al Circolo Pdl Marconi per chiedere il ritiro della mozione anti-Israele. L'adesione è stata in massa: «In meno di due ore - ha detto Benvenuti - abbiamo raccolto quasi 800 firme. Tra i commercianti del XV c'è stata tanta rabbia».
Per tutta la giornata, alle proteste dei cittadini si è unito lo sdegno della politica. Dal Campidoglio il presidente della commissione Politiche sociali, Giordano Tredicine (Pdl), ha ritenuto «inammissibile la richiesta di boicottaggio dei prodotti israeliani. Credo che il XV Municipio dovrebbe interessarsi ai problemi legati al proprio territorio. In questo momento delicato la città di Roma dovrebbe promuovere iniziative pacifiche e non una mozione che sembra un embargo». Della stessa opinione Giampiero Cioffredi e Carla Di Veroli, membri della direzione del Pd a Roma. La notizia è rimbalzata in Parlamento. Alla Camera, il deputato Marco Marsilio ha parlato di mozione «indecente che dimostra come i pregiudizi antisemiti si stiano facendo strada nella sinistra italiana sotto le mentite spoglie della critica politica allo Stato e al governo israeliano. Esprimo solidarietà alla Comunità ebraica romana».Da Palazzo Madama, invece, il senatore Stefano De Lillo ha criticato e stigmatizzato annunciando per «la prossima settimana una spesa simbolica nel ghetto ebraico con i giovani del Pdl e del Pri, e alla quale inviteremo anche quei consiglieri del XV Municipio, così potranno gustare con noi i prodotti tipici di una tradizione antichissima». Ha protestato anche Vito Kahlun dei Repubblicani: «È un atto di discriminazione. In un quartiere ad altissima presenza ebraica si rischia di dar vita a un'emarginazione di molti commercianti ebrei che come spesso accade vengono identificati con Israele. Chi non riesce a immaginare quali conseguenze possano avere posizioni simili, è meglio che vada a zappare la terra».18/06/2010, http://www.iltempo.it/


Tel Aviv

FRATTINI, APPREZZIAMO DECISIONE DI ISRAELE SU GAZA

(AGI 17 giugno) Roma - "Una decisione che abbiamo grandemente apprezzato": Cosi' Franco Frattini, ha commentato la scelta di Israele. "Israele ha compreso che la strategia dell'assedio di Gaza e' controproducente", ha sottolineato il titolare della Farnesina, "tenere Gaza bloccata vuol dire dare ad Hamas le chiavi del destino" della striscia, "non aiutare Abu Mazen e mettere in difficolta' la comunita' internazionale", ha spiegato il Ministro a margine dell'audizione in Commissione esteri della Camera sul Consiglio Europeo.


Israele: ebrei ortodossi in rivolta

Vogliono scuole divise tra ebrei askhenaziti e sefarditi
(ANSA) - TEL AVIV, 17 GIU - Decine di migliaia di ebrei ultraortodossi sono scesi in piazza in Israele in due manifestazioni separate. Le proteste a Gerusalemme e a Bnei-Brak, sono contro una recente sentenza della Corte suprema che ha decretato come illegale la separazione obbligata tra ebrei askhenaziti e sefarditi in una scuola nella colonia di Immanuel, in Cisgiordania. Sentenza che per i seguaci della comunita' chiamata in causa e' in contrasto con quanto prescritto dai rabbini.


La chitarra di Clapton e la Turchia alla de Gaulle

di Christian Rocca,17 giugno 2010 http://www.ilsole24ore.com/
Il mondo ha riscoperto la Turchia, non più terra di spiagge bianche, kebap profumati alla menta ed eserciti e magistratura baluardo della laicità e dell'occidente, ma improvvisamente anche un soggetto politico autonomo nello scacchiere internazionale, molto disinvolto, parecchio arrogante, forse ingenuo nel credere di poter guardare sia a est sia a ovest senza creare guai innanzitutto a se stesso, magari capace di dissimulare i piani più o meno segreti di smantellamento della laicità della repubblica e di islamizzazione del paese, certamente campione di una nuova retorica pan-musulmana, populista e con velleità neo-ottomane.Tutto il mondo si chiede se ci siamo persi la Turchia, dopo gli ammiccamenti ad Hamas, gli accordi con l'Iran degli ayatollah, le accuse feroci a Israele, il no alle sanzioni Onu sul nucleare di Teheran, gli schiaffi agli Stati Uniti. I giornali turchi si sono accorti solo negli ultimi giorni del tema che tanto appassiona l'occidente e - specie Hurriyet e Zaman, i due quotidiani che escono anche in lingua inglese - hanno cominciato ad affrontare in modo ossessivo il tema. Nemmeno loro sono riusciti a dare una spiegazione univoca.
Gli esperti, gli analisti e le fonti diplomatiche, anche israeliane, consultate dal Sole 24 Ore tendono a escludere l'idea che la Turchia abbia intrapreso la via senza ritorno dell'Islam radicale, anche se la retorica antisemita e le scelte antioccidentali del premier turco Recep Tayyip Erdogan preoccupano non poco ed è impossibile prevedere l'effetto profondo che avranno sulla società. Omer Taspinar, editorialista di Zaman, sostiene che a muovere la Turchia non sia l'Islam politico, ma una grandeur mista a frustrazione nei confronti dei partner tradizionali - America, Europa, Israele - che ricorda da vicino il gollismo francese.Resta il fatto che Erdogan guarda oltre l'Europa. Cerca nuove sponde. Si tiene le mani libere. Chiede di entrare nell'Unione europea e ha ottenuto lo status di osservatore nell'Unione africana. Discute iniziative comuni con la Lega araba ed è più attivo che mai nell'Organizzazione della conferenza islamica. La settimana scorsa ha convocato Siria, Libano e Giordania per costruire l'Unione mediorientale di libero scambio, su modello e in alternativa all'Unione europea. Fa accordi bilaterali commerciali con i paesi limitrofi, apre ambasciate in Africa, punta ai mercati dell'area turcofona che si estende fino alla Cina, agisce da mediatore nei Balcani, va a braccetto con i russi, prova a ritagliarsi il ruolo di paciere con l'Iran e a scalzare Egitto e Arabia saudita come guida della regione. Cerca, infine, di sfruttare la posizione geostrategica della Turchia e di farne il crocevia obbligato delle rotte energetiche che collegano i paesi produttori di petrolio e gas ai consumatori europei.Questo neogollismo turco ha consolidato i pregiudizi europei, ingigantito le preoccupazioni israeliane ed evidenziato l'imbambolamento di Barack Obama che un anno fa è andato in Turchia a parlare di «partnership modello» tra Washington e Ankara. La destra americana di area neoconservatrice, ben rappresentata sulle pagine degli editoriali del Wall Street Journal, ha già scritto la sentenza di condanna: la Turchia ha abbandonato l'occidente, vuole islamizzare la repubblica laica fondata da Mustafa Kemal Ataturk, sta facendo asse con i paesi canaglia e come tale va trattata.Non è così semplice. La difficoltà di decifrare la Turchia e la sua politica estera si nota girando per le strade di Istanbul, dove convivono le due anime del paese, quella occidentale e quella orientale, non come due corpi separati in attesa che l'una prevalga sull'altra, ma come elementi della medesima cultura, tradizione e storia.I caffè Starbucks sono diffusi quanto le enormi pubblicità degli hijab per signora, di marca Armine. L'elegante strada di Istiklal è circondata da moschee, sinagoghe, chiese cattoliche, greco-ortodosse e armene, mentre i vicoli dove i turisti si riparano dal sole, magari dopo aver visitato la Bible society che si trova a un passo dal liceo Galatassaray, sono pieni di bandiere e murales inneggianti alla causa palestinese. In città suona Eric Clapton, a poca distanza dalla piazza di Taksim dove nei giorni successivi alla tragedia al largo di Gaza si è tenuta l'adunata islamista pro Hamas e pro Hezbollah che ha fatto rabbrividire l'élite culturale del paese e temere per Istanbul un futuro alla Teheran. La musica nelle terrazze degli alberghi super cool di Nisantasi, il quartiere che sembra londinese più che asiatico, va avanti a tutto volume fino a notte fonda, a ridosso del primo richiamo alla preghiera del muezzin che sveglia gli abitanti della zona asiatica alle 4 e mezzo di ogni mattina. I taxi sono ovunque come a New York, ma su internet i video di YouTube sono oscurati e le mappe di Google sono impossibili da visualizzare (a meno che non si abbia un iPhone).Questa doppia anima della città si riversa anche in politica. Erdogan è un primo ministro islamico moderato, però capace di molte ambiguità. In nome della democrazia e della libertà sta cambiando le anchilosate istituzioni laiche del paese, sostenuto dalla sua grande base elettorale in Anatolia, dove la rete di piccole e medie industrie guidate da imprenditori islamici è diventata un fenomeno sempre più importante (in Turchia ci sono due confindustrie: la Tusiad, laica, e la Musiad, musulmana).La Turchia di Erdogan è una potenza economica regionale, la seconda dell'area dopo la Russia, l'ottava d'Europa, la diciassettesima del mondo, pronta a entrare tra i primi dieci nei prossimi anni, con un Pil che secondo la Banca mondiale quest'anno crescerà del 6,3%, a fronte delle difficoltà europee e del disastro degli antichi nemici greci. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), al potere dal 2002, ha liberalizzato l'economia, costruito le infrastrutture, interpretato la modernità e cavalcato la globalizzazione, al contrario delle proposte vetero socialiste dei nostalgici di Ataturk che hanno guidato il paese per ottant'anni.Con chiunque si parli per le strade di Istanbul, si capisce che prima ancora che i francesi e i tedeschi sono gli stessi turchi a non volere l'ingresso in Europa, a non farne più nemmeno una questione di orgoglio nazionale. «Vogliono essere rispettati - dice Hugh Pope, capo dell'ufficio di Istanbul dell'International crisis group - gli europei dovrebbero imparare ad avere più fiducia nella democrazia».Il ministro della Difesa americano Bob Gates ha accusato l'Europa di aver contribuito, con i suoi dubbi, a spostare l'asse geopolitico di Ankara verso est. Altri osservatori occidentali ammettono che l'Europa abbia anche serie responsabilità nell'indebolimento delle difese laiche del paese, con le continue richieste di tenere l'esercito lontano dalla vita politica. Il partito di Erdogan ha approvato una riforma della Costituzione che da un lato sembra ampliare gli spazi democratici, dall'altro è temuta come il grimaldello per aprire le porte all'islamizzazione perché sottopone i vertici militari al giudizio dei tribunali civili e cambia le procedure di nomina dei giudici costituzionali.Il testo dovrebbe andare a referendum il 12 settembre, nel trentesimo anniversario del golpe militare del 1980, ma il 12 luglio la Corte costituzionale potrebbe dichiarare nulla la riforma. La situazione è complicata dalle elezioni che si dovranno tenere entro il prossimo anno.Erdogan aumenterà la retorica populista da qui al giorno del voto, specie se la Corte dovesse bocciare la riforma costituzionale, sovvertendo la sovranità popolare. Il premier potrebbe giocare la carta democratica, il suo secondo jolly dopo quello anti-israeliano. I sondaggi non sono positivi. Almeno non lo erano prima dell'incidente di Gaza e della ferma reazione di Ankara. C'è un promettente leader dell'opposizione, Kemal Kiliçdaroglu: non è un grande visionario, ma è un politico rispettato e onesto, motivato a dare nuova linfa al vecchio partito kemalista. Anche il più potente e misterioso alleato di Erdogan, il leader islamista Fetullah Gulen - considerato "il grande vecchio" turco perché guida dalla Pennsylvania un diffusissimo movimento che dispone di scuole, ospedali e giornali - sembra aver cominciato a volgere le spalle al premier forse proprio perché ha impresso una svolta nazionalista e neogollista alla politica turca.