giovedì 8 settembre 2011


Kugel

Ingredienti: 450 grammi di carote grattugiate; 8 cucchiai di vino liquoroso; 100 grammi di zucchero di canna, 100 grammi di burro; 3 cucchiai di farina di patate; 8 cucchiai di farina, 1 cucchiaino di lievito; 1 cucchiaino cannella; 1 scorza e succo di limone; 1 uovo sbattuto, 5 cucchiai di uvette; un pizzico di sale.Preparazione: Fate fondere il burro, mescolate la farina di patate con il vino, poi aggiungete tutti gli altri ingredienti. Imburrate lo stampo, misura 20x25 e versateci il composto.Infornate nel forno a 180° finchè non diventa croccante, tempo di cottura circa un’ora. Sullam n.77


...Non prendiamoci troppo sul serio......

In una sinagoga di Praga, verso l'inizio del secolo scorso c'era il miglior hazan che si fosse mai sentito cantare e gli ebrei della città e di tutta la regione facevano a gara per entrare e poterlo ascoltare, per cui la sinagoga decide di mettere una tassa di ingresso di 2 Korone.Un giorno Smulik Levinsky tenta di entrare nel tempio ed il custode lo ferma dicendogli:
- per entrare si pagano 2 Korone
- ma io veramente - risponde smulik - sono qui per parlare di affari con Moshe Cohen....
- sicuro che entri per affari? se è così, va bene, ti lascio entrare, ma se poi ti becco a pregare in sinagoga, giuro che ti caccio fuori a calci!
****
In un ristorante kosher di new york sono sedute quattro yeddish mame. Arriva il cameriere che le conosce e dice: - Buongiorno signore, c'è qualcosa che vi va bene?

a cura di R. Modiano, Sullam n. 77


Ho inciampato e non mi sono fatta male

“Io sono…”, dètta Miriam dalla cattedra ai suoi allievi. L’insegnante vuole conoscere la classe. Ma quella spinta a incoraggiare gli altri, diventa un urlo silenzioso per se stessa: “Io sono ebrea”.“Essere ebrea” rimane per Miriam come una vocazione latente, sotto traccia, per tutta la giovinezza. Fino all’ “inciampo” che la scuote, rendendola “testimone di seconda generazione”.Ho inciampato e non mi sono fatta male, un’opera prima di sorprendente vitalità letteraria, è la storia dell’autrice, Miriam Rebhun, ed è la storia di tanti.Della sua famiglia, di chi della sua famiglia ha conosciuto e di chi non ha conosciuto. Presenze importanti -quelle di mamma, nonno, zie zii, e assenze sofferte: Miriam non ha conosciuto suo padre, non ha conosciuto i suoi nonni paterni. Volti, caratteri, affetti, richiamati a nuova vita dalla scrittura affettuosa e ironica della figlia, della nipote, della moglie, della madre, dell’amica, ma solo aridi documenti e qualche sbiadita fotografia per l’orfana.Tre sono le città importanti della vita di Miriam: “Haifa, Napoli, Berlino”.A Haifa, nel 1948, si consuma la tragedia della fine del giovane padre berlinese,fuggito nella “terra promessa” per sottrarsi alle persecuzioni razziali della Germania nazista, approdato a Napoli con la Brigata ebraica, sposo di Luciana,madre di Miriam. Napoli è la vita di Miriam, nata dopo la guerra, nata quando la Shoah si è già consumata, la vita dell’infanzia, della giovinezza,della formazione, in una famiglia numerosa e “larga”, nel cortile di via Piedigrotta,sui banchi di scuola del “riscatto” del liceo. Negli ambiti rievocati, spiccano figure di rilievo. Molte. In ciascuna, Miriam, fine interprete della fisionomia,rintraccia motivi di positiva considerazione. Un po’ come fa nella vita.Guarda sempre il lato che è in luce, tralasciando l’ombra. Questa disposizione la rende allegra, spiritosa, “festaiola”, al centro di una cerchia di affetti, di amici, da ragazza come da donna. L’ha anche spinta a pensare che avrebbe potuto avere molto, conquistandolo, quando aveva poco, confidando in se stessa, studiando, lavorando, vivendo.La Napoli di Miriam è una città doppia. Vissuta nella laica vita di tutti i giorni e goduta nell’intimità della piccola comunità ebraica. Senza contraddizioni.Miriam sa appianare, Miriam ricerca in tutto l’armonia. Si può dire che sa conciliare gli opposti. Li sa far coesistere. Nei fatti quotidiani, come nelle scelte importanti. Sposa un cattolico e rimane ebrea. Battezza le sue figlie, che frequentano la comunità ebraica. Ama ciò che è misto, ciò che si mescola. Ne ravvisa la ricchezza. Un anticonformismo notevole, in cui cominciano ad aprirsi piccole falle. La consapevolezza di viaggiare su binari scostati l’ha sempre raggiunta, lasciandole vaghe inquietudini, presto rientrate. Il caso e la necessità la fanno però imbattere, con progressiva insistenza, in quella parte di sé rimasta in ombra. Riemerge dal passato Haifa, e s’affaccia come novità Berlino. Berlino, la città di suo padre, Berlino, la città dei suoi nonni. Berlino che custodisce i segreti della sua parte in ombra. Ed è a Berlino che Miriam si rivolge, convinta che a Berlino si scoperchino le tombe.Un lungo cammino di curiosità fatica dolore, sostenuto da studio, ricerca, intraprendente bussare a molte porte, ha come sbocco la riparazione della Memoria. Verso i congiunti “sommersi”, verso se stessa, un po’ più riunita,anche nell’adempimento del compito raccomandato dal rituale ebraico: “Lo racconterai ai tuoi figli”. Nella veste ormai compiuta di “testimone di seconda generazione”.Rosella Picech, Sullam n.77
Miriam Rebhun, Ho inciampato e non mi sono fatta male, L’ancora del Mediterraneo, 2011,


Ecco Ghost, l’elicotterino (silenzioso) contro il terrorismo

È silenzioso. Piccolo. Leggero. Soprattutto: è un occhio elettronico contro possibili minacce alla sicurezza nazionale. Si chiama “Ghost”, fantasma, l’ultima diavoleria elettronica dell’Industria aerospaziale israeliana. È un elicotterino a doppia elica lungo poco meno di un metro e pesante appena due chili.Dotato di telecamera super-sofisticata, un’autonomia di volo di mezz’ora, possibilità di movimento anche tra i vicoli stretti di certe strade di città palestinesi, “Ghost” trasmette le immagini in diretta ed è stato realizzato per scovare terroristi o plichi esplosivi. La sua presentazione ufficiale è avvenuta questa settimana al “Latrun Conference”, vicino Gerusalemme. Per tutto il resto, qui sotto il video di presentazione. (l.b.) 8 settembre 2011

http://falafelcafe.wordpress.com/2011/09/08/ecco-ghost-lelicotterino-silenzioso-contro-il-terrorismo/

mercoledì 7 settembre 2011


Kenaz: "Racconto Israele tra innocenza e solitudine"

Intervista a Yehoshua Kenaz ospite del Festival di Letteratura di Mantova.

L’appuntamento è domenica 11 settembre alle ore 14:45 al Chiostro del Museo Diocesano. Lo scrittore sarà intervistato da Lella Costa.
di Daniela Gross - Pagine ebraiche

I suoi libri sono arrivati in Italia un po' in sordina. Voci di muto amore, uno fra i testi più belli mai scritti sulla vita dei vecchi. E poi Rispristinando antichi amori, forse il più noto perché ha ispirato Amos Gitai che ne ha tratto il film Alila. A seguire, alla spicciolata, gli altri. Quasi tutti, tranne Infiltrazione, in ebraico Hitganvut yehidim. Un'assenza chissà quanto casuale per un'opera considerata una pietra miliare della letteratura israeliana che ha però il difetto di affrontare un tema scabroso per l'opinione pubblica occidentale: la Tzavah e i suoi soldati.In Infiltrazione Yehoshua Kenaz, che sarà ospite d'eccezione al Festivaletteratura di Mantova, narra di un gruppo di militari diciottenni. E' un ritratto ambientato negli anni Cinquanta che affronta temi sempre attuali, dalla perdita dell'innocenza alle oscurità dell'esercito. Una storia di grande potenza, una sorta di Platoon in versione israeliana, capace di svelare al lettore un lato ancora poco noto di quella realtà e di sfatare il luogo comune che vuole Kenaz autore squisitamente intimista, attento solo ai moti dell'animo e al trasalire dei sentimenti. Lontano anni luce da quel tratto epico ed engagé che ha fatto amare, anche nel nostro Paese, scrittori come Amos Oz, A.B. Yehoshua o David Grossmann."Non posso scrivere di temi politici come i miei colleghi e buoni amici - spiega lui -. Non è un fatto di scelta ma di carattere: non ne sono capace. Ciò non significa però che non mi esprimo su temi politici. Sono iscritto a un partito, Meretz (laico e di sinistra ndr); firmo spesso appelli pubblici e il pubblico sa bene come la penso". Il punto è, chiarisce con un tratto garbato, accentuato dall'impeccabile francese con cui sceglie di rispondere alle domande, che ad attrarre come un polo magnetico la sua scrittura sono le persone, quell'aroma inconfondibile di voci, dolori, emozioni che si sprigiona dal vivere insieme: in una casa di riposo nel caso di Voci di muto amore o in un condominio nella prima periferia di Tel Aviv in Rispristinando antichi amori.Yehoshua Kenaz, in quasi tutte le sue opere mette in scena dei complessi microcosmi da cui si dipanano le diverse storie. Perché questa scelta?Credo che la verità dei personaggi passi proprio attraverso questa complessità e si esprima grazie all'intreccio di più voci. Per questo ho scelto di utilizzarlo anche in Infiltrazione.Come mai questo romanzo non ha ancora avuto la diffusione che merita?E' un libro che parla dell'esercito israeliano, argomento che oggi gli europei non apprezzano molto. In questi anni ho sentito spesso persone di valore, intellettuali, che lo condannavano senza sapere ciò che realmente accade in Israele, giusto per il piacere di sentirsi politicamente corretti. Un libro che va al di là di questi cliché è difficile possa trovare una buona accoglienza, com'è accaduto d'altronde per Tredici soldati di Ron Leshem. Il romanzo, da cui è stato tratto il film Beaufort, ha avuto un gran successo in Israele, ma in Europa è passato quasi inosservato.I suoi personaggi emanano un senso molto forte di solitudine e talvolta anche d'isolamento. Una condizione che sembra smentire quel forte senso di comunità che, secondo l'immaginario collettivo, pervade Israele.La loro condizione in Israele è vissuta come del tutto normale. Si trovano all'incrocio tra la collettività in cui vivono, in un ricovero o in un condominio, le relazioni che intrattengono con i vicini o gli amici e la solitudine che tocca inevitabilmente ciascuno di noi.I suoi lavori hanno avuto anche una traduzione cinematografica. Voci di muto amore è stato adattato da Gurevitch, nel 2009 Dover Kosashvili ha tratto un film da Infiltrazione mentre Ripristinando antichi amori ha ispirato, nel 2003, Alila di Amos Gitai. Come ha vissuto l'esperienza di incontrare il suo stesso mondo poetico sul grande schermo?Non ho partecipato alle trasposizioni cinematografiche: mi sono limitato a vendere i diritti d'autore. In linea generale il risultato è stato terribile. Quei film non hanno niente a che fare con il mondo raccontato dai miei libri, soprattutto Alila. Ma in un certo senso me lo aspettavo.Lei ha tradotto in ebraico molti classici della letteratura francese, da Stendhal a Flaubert a Gide e ha regalato ai lettori israeliani la possibilità di leggere Simenon. E' stato difficile trasportare quel mondo culturale nel suo Paese?Non in modo particolare. Gli israeliani amano i libri, li comprano. Simenon è stato molto apprezzato come d'altronde i classici. Non mancano però le sorprese. Di recente ho tradotto Le père Goriot di Balzac. Un libro geniale che tratta un argomento di stringente attualità come il denaro e l'avidità che con mio grande stupore non ha avuto la risposta che mi attendevo.Quali sono le principali difficoltà di tradurre in ebraico?Qualche volta mi sento lacerato tra le due culture: devo riuscire a rendere il francese in un ebraico bello e buono. E' un equilibrio che con Simenon si realizza invece facilmente grazie al suo francese così semplice ed esatto.Qualcuno sostiene che l'ebraico è privo di molte sfumature che caratterizzano altre lingue.Non sento questa difficoltà. Talvolta può essere vero, ma in ebraico vi sono termini che mancano in altre lingue. Il francese utilizza ad esempio il verbo jouer per indicare l'atto del recitare, del giocare o del suonare: in ebraico ognuna di queste azioni ha un verbo specifico.La rinascita dell'ebraico, con la fondazione dello Stato d'Israele, viene spesso rappresentata come un miracolo. E' d'accordo?Non conosco un fenomeno simile in altre nazioni. Ma non saprei dare un giudizio perché sono nato nell'ebraico. I miei genitori lo parlavano in Eretz Israel ancora prima dello Stato e quando ero bambino c'era una sorta di fanatismo su questo tema: la lingua nazionale era molto importante, soprattutto a scapito dell'yiddish, che rappresentava la lingua dell'esilio. Oggi invece siamo pronti a torturare il nostro ebraico.In che senso?Come tutte le lingue parlate anche l'ebraico è in costante cambiamento. I giovani parlano uno slang che non sempre gli adulti capiscono, sono entrate nell'uso molte parole arabe e spesso saltano le distinzioni fra maschile e femminile nella coniugazione dei verbi o nella concordanza degli aggettivi. E' un problema legato a carenze del sistema scolastico. Ma non è un'evoluzione isolata: in Francia i ragazzi massacrano la loro lingua più o meno nello stesso modo.Ma c'è anche chi stenta a impadronirsi della lingua. In Ripristinando antichi amori si riproduce il dialogo di alcuni anziani incapaci di parlare ebraico se non in modo elementare.E' un problema ormai in via di esaurimento. Grazie alla scuola e all'esercito le nuove generazioni parlano tranquillamente l'ebraico. Le difficoltà sono ormai appannaggio solo dei vecchi o dei nuovi arrivati.

n.b. la rivista Pagine Ebraiche è oggi disponibile anche come applicazione scaricabile gratuitamente per Ipad e Android Minna Scorcu Coordinatrice Ufficio Culturale Ambasciata di Israele Via Michele Mercati 14 - 00197 Roma





Why a Unilateral Declaration of Palestinian Statehood is a Bad Idea: video

http://www.youtube.com/watch?v=HF3KWiUWz2A&feature=player_embedded

Gerusalemme, un ragazzo batte il tram in velocità

Non son bastati gli anni (travagliati) di lavoro: 12. Non son bastati nemmeno i soldi spesi per costruire l’intera rete: 300 milioni di euro. E non son bastate nemmeno le polemiche e le paure di attentati. Per non parlare del fastidio e dei disagi nel dover ogni giorno aver a che fare con la polvere, con i reticolati, con il cemento sparso un po’ ovunque, con la ferraglia mollata ai lati delle strade e i blocchi stradali.Il tram dei desideri, quel CityPass che in 13,8 chilometri collega Gerusalemme Ovest a quella Est, continua a far parlare. Per carità: per ora di incidenti – tra arabi ed ebrei – non ce ne sono stati. Le pietre sono ancora al loro posto. La polizia ogni tanto controlla, ma non è che sia dovuta intervenire granchè.Il problema, per ora, è un altro: la velocità. «Va così lento questo tram che facciamo prima a fare il percorso a piedi», è il lamento di molti. Frase fatta, certo. Lo si dice anche di certi mezzi pubblici di Milano e Roma.Poi però qualcuno ci ha pensato su e quel percorso l’ha davvero fatto a piedi. Michael Spivak (foto in alto), 28 anni, studente alla Hebrew University, s’è messo un paio di giorni fa a camminare a passo di jogging di fianco al tram. Alla fine dei 13,8 chilometri di binari e ferraglia la conferma: quel treno è davvero lento. Spivak è arrivato per primo al capolinea di Pisgat Ze’ev staccando il bolide di quattro minuti.La notizia non è irrilevante. Appena s’è sparsa la voce che un ragazzo aveva battuto il tram in velocità il Comune di Gerusalemme ha detto subito che il mezzo pubblico sarà impostato per aumentare i chilometri orari. «Quando l’ho visto per la prima volta – ricorda Spivak – mi sono chiesto se sono io o davvero questo tram procede come una tartaruga». Dopo una veloce verifica sul campo, la conferma: il «problema» è nel CityPass.5 settembre 2011

http://falafelcafe.wordpress.com/


18 AGOSTO: Ero ad Eilat....

Eravamo spaparanzate al sole quando ha squillato il cellulare della signora vicino a noi. Subito ha cominciato ad alzare la voce, i toni si sono fatti concitati, le persone intorno hanno cominciato a guardarla. Finita la telefonata ha spiegato: c’era stato un attentato lì vicino (per fortuna l’amica Esperimento – d’ora in avanti E. – se la cava bene con l’ebraico, e ha potuto tradurmi tutto), l’aveva chiamata il figlio per rassicurarla, avevano assaltato un autobus, doveva prenderlo anche lui ma poi non lo aveva preso. Immediatamente la ragazzina bionda in bikini leopardato che prendeva il sole sulla riva si fionda sul cellulare. La signora capisce che vuole chiamare i suoi per rassicurarli e le dice no, state tutti tranquilli, quelli coinvolti erano tutti soldati, ma io SONO un soldato, risponde la ragazzina bionda. Poi, nel giro di un’ora, arrivano le notizie di altri due attentati, sempre sulla stessa strada: quella che avevamo percorso noi il giorno prima, sulla stessa linea di autobus. Ancora più impressionante vedere poi alla televisione le immagini dell’attentato, con un grosso foro di proiettile esattamente nel punto in cui, meno di 24 ore prima, ero stata seduta io.
Quello che qui, probabilmente, nessuna televisione ha dato modo di vedere, è ciò che è successo dopo. Noi, che eravamo lì, possiamo dirlo con piena cognizione di causa: non è successo niente, assolutamente niente. Nessuna isteria, nessun panico, nessuna variazione alle abitudini di sempre. Sono un po’ aumentate le misure di sicurezza perché si sapeva che c’erano ancora dei terroristi in giro, è stata chiusa la strada in cui erano avvenuti gli attentati, nei grandi magazzini e centri commerciali alla persona che all’ingresso controlla le borse si è aggiunto un poliziotto fuori della porta che guardava bene chi entrava, e questo è stato tutto. Vengono in mente le dieci parole della regina Elisabetta dopo gli attentati del 2005: “They will not make us change our way of life”. E infatti oltre a permettere l’instaurazione di decine - ma a questo punto saranno diventate almeno un centinaio – di corti islamiche, oltre ad accettare la nascita di un’infinità di “no go areas”, oltre a comminare pene severissime per chi si permette di criticare l’islam, oltre a chiudere occhi e orecchie sulle aggressioni anticristiane e antiebraiche e alcune altre insignificanti quisquilie, non hanno cambiato praticamente niente. In Israele no, in Israele gli attentati VERAMENTE non cambiano la vita delle persone. Raccolgono i loro morti, li piangono, li seppelliscono, e poi si rimettono in marcia.D.o benedica Israele e il suo popolo meraviglioso. Am Israel chai ve chaiam. Barbara Mella

lunedì 5 settembre 2011


Israele, in 500mila giovani in piazza per una maggiore giustizia sociale

Quasi 500mila manifestanti hanno sfilato ieri sera in 20 città israeliane, per quella che gli organizzatori avevano chiamato “La marcia del milione”. Una protesta imponente nonostante l’obiettivo numerico sia stato mancato. Il corteo più consistente ha avuto luogo a Tel Aviv. Più di 300mila hanno percorso le vie del centro fino a piazza Kikar Hamedina. A Gerusalemme in decine di migliaia si sono radunati sotto le finestre del Primo Ministro Benjamin Natanyahu.La protesta è nata a luglio da un post su Facebook di Daphni Leef, venticinquenne studentessa di cinema. La Leef, esasperata dal costo degli affitti a Tel Aviv, invitava tutti a prendere una tenda e a piazzarla in centro città. Le prime tende, sono spuntate il 14 luglio (da qui il nome del movimento J14, July 14), in Bouleverd Rotschild, una delle arterie commerciali della città. Con le settimane la protesta è cresciuta, facendo nascere una ventina di campeggi spontanei in diverse città israeliane.La prima manifestazione nazionale fu indetta il 23 luglio e vi parteciparono in 30mila, diventano dieci volte di più nella marcia del sabato successivo e poi 400mila il 6 agosto. Con il crescere dei numeri sono cambiate le richieste dei manifestanti: se in un primo momento si erano mobilitati per l’emergenza case, ora chiedono giustizia sociale.Israele, dal punto di vista demografico, è un paese giovane. Ha un alto tasso di natalità, dovuto anche alla minoranza araba palestinese, circa il 20 per cento della popolazione. A protestare sono in gran parte giovani della classe media, studenti e lavoratori, con un buon livello di educazione, la parte della società che vive l’incertezza del futuro, sicura che non avrà le possibilità economiche delle passate generazioni. Le associazioni universitarie si sono ritagliate nel movimento un ruolo importante, in particolare l’Unione nazionale studentesca (National Student Union). Il suo presidente Itzik Shmuli, 31 anni, ieri sera dal palco della manifestazione a Tel Aviv ha detto: “Questa piazza è piena di nuovi israeliani, che sono pronti a morire per il proprio paese, ma spetta a Lei, Signor Primo Ministro, lasciarci vivere in questo paese”.Il governo Netanyahu ha tentato già negli ultimi giorni di luglio di dare una risposta alle richieste dei manifestanti. Il premier, all’indomani della prima grande manifestazione di piazza, ha annullato un viaggio diplomatico in Polonia per incontrare i leader della protesta. La proposta di Netanyahu è stata un regolamento, che permette la riduzione della burocrazia per la costruzione di nuovi alloggi privati. Questo però non è bastato ai giovani israeliani che chiedono politiche sociali più ampie e non un’ulteriore apertura liberale. L’economia israeliana non è stata troppo colpita dalla crisi globale: la disoccupazione è attorno al 6 per cento, e il tasso di crescita è tra i più alti dell’Occidente. Questi fattori non bastano però a garantire alla classe media, in un paese dove il divario tra ricchi e poveri è molto accentuato, un adeguato accesso ai servizi basilari: casa, sanità ed educazione.I portavoce del movimento hanno ribadito sin da luglio l’aspirazione apartitica delle proteste, cercando sempre di separare l’occupazione dei Territori Palestinesi, dalle politiche necessarie per sedare le proteste. Una parte dei manifestanti sottolinea però che Israele spende in sicurezza il 7 per cento del proprio Pil, a cui vanno sommati ogni anno 3 miliardi di dollari di aiuti militari statunitensi. Settembre si annuncia come un mese caldo: relazioni diplomatiche quasi interrotte con la Turchia, grandi tensioni con l’Egitto e il 20 settembre il voto alle Nazioni Unite per il riconoscimento dello Stato palestinese. Questa situazione internazionale potrebbe far passare sotto silenzio nuovi aumenti alle spese militari, sottraendo fondi a quelle spese sociali che la piazza chiede da settimane.di Cosimo Caridi http://www.ilfattoquotidiano.it lunedì 5 settembre 2011