sabato 15 gennaio 2011


Pierbattista Pizzaballa (dal viaggio in Israele di dicembre 2010)

Sinceramente, non me l’aspettavo. Perché conosco la storia. E conosco, nello specifico, la triste e trista storia dei francescani. I secoli passati a battere palmo a palmo tutta l’Europa, città per città, villaggio per villaggio, parrocchia per parrocchia, vomitando le loro prediche infiammate e infiammanti, scatenando sistematicamente micidiali pogrom, seminando sul proprio cammino morte e distruzione. E i trecento francescani che con le armi benedette da Sua Eminenza Aloisius Stepinac, arcivescovo di Zagabria, elevato all’onore degli altari da Sua Santità Giovanni Paolo II (santo subito!) – quello che tuonava “non muri ma ponti” (santo subito!) perché i muri impediscono ai terroristi di macellare gli ebrei, e ciò è male; quello della “terra del Risorto messa a ferro e fuoco” (santo subito!); quello della “occupazione che si fa sterminio” (santo subito!) e mai una parola sul terrorismo (santo subito!) – i trecento francescani, dicevo, che con quelle armi andavano insieme agli ustascia a fare strage di serbi e di ebrei nei campi di sterminio croati. E il predecessore di Pierbattista Pizzaballa, Giovanni Battistelli – sia cancellato il suo nome – e il suo odio e le sue menzogne, anche lui conosciamo fin troppo bene. E dunque, ecco, non me lo aspettavo, e quando ho saputo che avremmo incontrato il Custode di Terrasanta avevo promesso: gli farò vedere i sorci verdi. E invece no: padre Pizzaballa è una persona degna del massimo rispetto. Non ci ha propinato il solito, frusto mantra che “i cristiani in terrasanta continuano a diminuire” ma ha detto, correttamente, che i cristiani continuano a diminuire a Gaza e in Cisgiordana, e in Israele invece no. Non ha tentato di raccontarci la storiella che i disagi dei cristiani dipendono dal “muro”: ha detto che il problema è il fondamentalismo islamico. E ha persino osato parlare del COSIDDETTO assedio della Natività (sì, proprio così: marcando la parola). E ha confessato di essere arrivato lì, come tanti, con un sacco di pregiudizi, e di aver dovuto fare un duro lavoro su se stesso per liberarsene. Potrebbe sorgere spontaneo il sospetto che adatti, ipocritamente, le proprie esternazioni a seconda del pubblico che ha di fronte, ma ciò che ha detto a noi, lo ha detto davanti a due registratori, cioè sapendo che ogni sua parola poteva essere diffusa e documentata. In breve, è stato un incontro bello e appagante, che neanche per un momento mi ha ispirato la tentazione di essere cattiva – e chi mi conosce si renderà conto di che cosa ciò significhi. E per definire padre Pizzaballa mi viene un solo aggettivo: una persona onesta, qualità che tutti gli riconoscono. ................... Ma preferisco fermarmi qui, che tanta attenzione un tale personaggetto non la merita davvero, e ritornare, per concludere, a padre Pierbattista Pizzaballa, che in questo bellissimo viaggio, contrariamente a quanto mi aspettavo, anziché il neo ha rappresentato una perla di non secondaria grandezza. Barbara Mella


Marya, il cuore degli israelini vince sulla burocrazia

Marya, 10 anni, potrà restare in Israele per curarsi. Assieme al padre e al fratello, che non la lasciano mai sola, ha ottenuto il permesso di residenza. A concederlo, il ministro dell’Interno Ishai. Appena la notizia si è diffusa, molti occhi si sono riempiti di lacrime di gioia all’ospedale di Gerusalemme, dove da 5 anni è ricoverata.Marya è una bambina palestinese di Gaza.. Il cielo le è letteralmente crollato addosso, la mattina del 20 maggio del 2006, quando un missile israeliano ha centrato l’auto di un terrorista, a pochi metri dalla sua. L’onda d’urto le ha portato via la madre, la nonna e un fratello. Lei è stata tirata fuori dalle lamiere in fin di vita e trasferita in Israele. Ce l’ha fatta, ma è rimasta paralizzata dal collo in giù.Gli ospedali di Gaza non sono attrezzati per le cure di cui ha bisogno. Per le autorità israeliane un dilemma. Da un lato il timore di stabilire un precedente, concedendole la residenza. Dall’altro la pressione dell’opinione pubblica, favorevole ad una soluzione umanitaria. Alla fine hanno vinto le ragioni del cuore su quelle di stato.Marya ha ottenuto la residenza temporanea. Tra qualche tempo diventerà cittadina israeliana a tutti gli effetti. In ospedale ha imparato l’ebraico. E da tre anni ogni mattina va a scuola . Con ottimi risultati, assicurano gli insegnanti, soprattutto in matematica.14 gennaio http://www.claudiopagliara.it/


Sinagoga Trieste

Sono una cittadina qualunque che ha, però, a cuore l'onore e il senso civico dell'Italia. Esprimo il mio sdegno per la clamorosa dimostrazione di antisemitismo espressa dai compilatori di una tremenda lista di imbroglioni ma in cui porre in evidenza "cognomi di origine ebraica" diviene una colpa infamante più della disonestà degli approfittatori e getta una cupa ombra del più spregevole nazismo su chi ha avuto l'idea di fare quella sottolineatura. E' deprimente che atteggiamenti simili si mantengano sino ad oggi dopo che il genere umano ha conosciuto l'ignominia della Shoah, ma, certamente, i coautori staranno sgomitando per entrare nella sempre troppo affollata schiera dei negazionisti della stessa! Grazie per la battaglia sostenuta per stigmatizzare questi degradanti atteggiamenti, vi do tutto il mio più convinto sostegno. Luisa Fazzini (Trieste) 13 gennaio


Il premier Netanyahu rende pubblica la sua busta paga: “Guadagno 3.500 euro al mese”

Tremilacinquecento euro. Tolte le tasse, i contributi, le assicurazioni varie. E’ lo stipendio – mensile – del premier israeliano. Il dato è stato reso pubblico dopo le numerose mail dei cittadini. A farlo è stato l’ufficio di Benjamin Netanyahu che ha scritto le cifre sul profilo pubblico di Facebook.A dicembre, lo stipendio – lordo – di Netanyahu è stato di 43.952,29 mila shekel, poco più di 9.500 euro. Cifra che, al netto delle tasse e dei contributi, supera di poco i 3.500 euro. Nello specifico: 3.900 euro di tasse sul reddito, 802 per l’assicurazione obbligatoria, 684 per i contributi pensionistici e 602 per l’assicurazione sanitaria.Certo, un po’ di privacy è stata conservata. Ma, spiega lo staff, solo limitata a dati come il numero della carta d’identità, le coordinate bancarie, i dati della compagnia di assicurazioni, i fondi di capitale, l’imposta sul reddito nazionale e l’identificativo dell’assicurazione».In tutto, Netanyahu guadagna poco rispetto ai suoi colleghi. Una frazione rispetto alla busta paga del primo ministro di Singapore (che tocca uno stipendio annuale di 2 milioni di euro). Ma, ci tengono a precisare sempre dall’ufficio del premier israeliano, «Netanyahu ha l’alloggio gratuito, il rimborso spese per i viaggi istituzionali all’estero e per i trasporti nazionali».Leonard Berberi,12 genn http://falafelcafe.wordpress.com/



Dallo spazio, le luci di Tel Aviv

Paolo Nespoli, l’astronauta italiano che in questo momento si trova a centinaia di chilometri dalla Terra, continua a inviare le immagini del nostro pianeta visto dall’alto. Dopo l’Italia, gli Stati Uniti e l’Europa, è la volta di Israele. In questa immagine si vede Tel Aviv di notte e le strade che la collegano al resto del Paese che sembrano dei vasi sanguigni. (l.b.)14 genn http://falafelcafe.wordpress.com/


A Gaza è caccia alle streghe. Hamas: “Fermate 150 donne”

In Hamastan è caccia alle «streghe». Streghe vere, secondo i miliziani musulmani che comandano nella Striscia di Gaza. Nel 2010 – informano i dirigenti di Hamas – sono state 150 le donne fermate perché ritenute colpevoli di aver fatto ricorso a sortilegi di vario genere. «Le attività di queste donne – hanno detto – rappresentano un vero pericolo sociale e rischiano di disgregare le famiglie, di provocare divorzi e di causare sperperi di denaro».Proprio per questo, Hamas ha lanciato una campagna di sensibilizzazione contro le «streghe» attraverso grandi cartelli affissi nei pressi delle moschee, delle università e negli uffici pubblici frequentati da donne. Anche se non si fermano gli episodi di violenza. L’ultimo risale allo scorso 18 agosto. Quando, nel centro di Gaza, viene uccisa a colpi di arma da fuoco Jabryieh Abu Ghanas, 62 anni, accusata di aver provocato «sortilegi» e di aver prodotto e venduto «bambole voodoo».L’assassinio aveva destato grande allarme nelle organizzazioni palestinesi di difesa dei diritti civili, al-Mezan e Pchr-Gaza. Ed è anche per questo che, per ora, sulle donne sospettate di praticare la stregoneria i militanti di Hamas non starebbero usando particolare violenza. Le «streghe» sono però obbligate a sottoscrivere un impegno nel quale dichiarano di abbandonare per sempre le loro pratiche, ritenute incompatibili con l’Islam.Leonard Berberi,15 genn http://falafelcafe.wordpress.com/


Israele: lanciato un sistema innovativo per il monitoraggio dei call center

Giovedì 13 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
La compagnia israeliana Tikal Networks, specializzata in alta tecnologia, ha lanciato un sistema unico ed innovativo per il controllo della qualità dell'organizzazione dei centri servizi al pubblico. La società, una delle aziende guida della rivoluzione VOIP (la tecnologia che rende possibile effettuare una conversazione telefonica sfruttando una connessione Internet) nelle comunicazioni in Israele, sta lanciando un sistema che permetterà di valutare i tempi di risposta e la qualità del servizio dei call center. Il meccanismo è in grado di misurare accuratamente i tempi di risposta dei centri di assistenza negli uffici governativi ed altre organizzazioni. L'amministratore delegato di Tikal Network, Alex Argov, ha dichiarato che molte aziende dispongono del servizio al pubblico. "Noi offriamo un sistema che simula le chiamate in entrata, calcola il tempo di risposta e la qualità dell'assistenza fornita dal dipendente" ha affermato.


Sondaggio: gli arabi di Gerusalemme preferiscono essere cittadini israeliani

Il futuro di Gerusalemme è considerato una delle questioni chiave del contenzioso e dei negoziati israelo-palestinesi, nonché uno degli ostacoli più significativi al raggiungimento di un accordo di pace definitivo fra le parti. Tuttavia, sul versante palestinese coloro che vivono a Gerusalemme pare che per lo più abbiano già fatto la loro scelta in materia, ed è una scelta che la dirigenza dell’Autorità Palestinese a Ramallah potrebbe non apprezzare.Un sondaggio d’opinione condotto dalla American Pechter Middle East Polls per conto del Council on Foreign Relations insieme a Nabil Kukali, direttore del Palestinian Center for Public Opinion, rivela che se Gerusalemme venisse divisa, nel quadro di un accordo di pace fra Israele e futuro stato palestinese, gli arabi di Gerusalemme est preferirebbero rimanere sotto sovranità israeliana.Il sondaggio, che comprendeva gli abitanti dei diciannove quartieri prevalentemente arabi di Gerusalemme est, indica anche che la loro opposizione alla prospettiva di una divisione della città è così forte che in maggioranza preferirebbero trasferirsi in una nuova casa all’interno dei confini d’Israele piuttosto che vivere sotto l’autorità di uno stato palestinese. Lo studio mostra inoltre che i palestinesi che vivono a Gerusalemme sono interessati a conservare la loro carta d’identità israeliana e continuare a godere dei servizi sociali e sanitari garantito dallo stato.Circa il 35% degli intervistati ha affermato che la cittadinanza israeliana è preferibile, contro il 30% che sceglierebbe quella del futuro stato palestinese. Un altro 35% dice di non sapere o di non voler rispondere alla domanda.E cosa dicono i vicini? Alla domanda la gente del proprio quartiere preferirebbe diventare cittadino palestinese o israeliano, il 31% ritiene che la maggior parte dei propri vicini preferirebbe essere cittadino palestinese, mentre il 39% ritiene che i vicini preferirebbero essere cittadini israeliani. Anche in questo caso c’è un 30% che dice di non sapere o di non voler rispondere.A quanto risulta dal sondaggio, la maggior parte degli arabi palestinesi che abitano a Gerusalemme est sarebbe pronta a spingersi molto avanti pur di conservare la carta d’identità blu dello stato d’Israele: il 40% dice che sarebbe disposto a traslocare per rimanere cittadino israeliano, nel caso il suo quartiere passasse sotto sovranità palestinese. Per contro, solo il 27% dice che, nel caso contrario in cui il quartiere rimanesse sotto sovranità israeliana, sarebbe disposto a traslocare verso un’area sotto autorità palestinese.Come motivazione, oltre ai benefici sociali, coloro che prediligono la cittadinanza israeliana menzionano soprattutto la possibilità di muoversi liberamente all’interno di Israele, il reddito più elevato e le migliori opportunità di lavoro. Invece quasi tutti quelli che optano per la cittadinanza palestinese citano ragioni di ordine nazionalistico e patriottico come motivazione principale.“Suppongo che la dirigenza palestinese non sarà troppo contenta di questi risultati – dice ad Ha’aretz David Pollock, senior fellow del Washington Institute che ha supervisionato e analizzato la ricerca – Ma penso che i risultati siano molto attendibili e solidi. Ho personalmente supervisionato la ricerca a Gerusalemme, lo scorso novembre, e li reputo molto affidabili”. Pollok aggiunge di ritenere che “il principale motivo per cui si presta così poca attenzione all’opinione della gente che vive a Gerusalemme è che molti temono le risposte a queste domande. Anche dal punto di vista di Israele – aggiunge – il messaggio è a due facce. Da una parte costituisce probabilmente una gradita sorpresa il fatto che un’alta percentuale di palestinesi di Gerusalemme preferisce non dividere la città; dall’altra, tuttavia, circa la metà degli abitanti di Gerusalemme est ritiene di subire una dose significativa di discriminazione. Le autorità israeliane dovrebbero dunque risolversi ad integrare veramente questi 270.000 palestinesi. Esiste una netta discrepanza – conclude lo studioso – fra ciò che presumono i decisori politici, in Israele e nei territori, circa i palestinesi di Gerusalemme est, e ciò che questi ultimi vogliono effettivamente. Penso che tutti, israeliani, palestinesi e altri arabi, dovrebbero prestare molta attenzione a questi risultati”.(Da: YnetNews, Haaretz, 13.1.11) http://www.israele.net/


Beersheva

Gerusalemme A un arabo su tre piace Israele

Almeno un 35% di cittadini arabi residenti a Gerusalemme est preferirebbe restare in Israele, anche a costo di trasferirsi, piuttosto che diventare cittadino d’un futuro Stato palestinese. Solo il 30% preferirebbe diventare cittadino d’una Palestina sovrana . Un 40% si dichiara inoltre disposto a trasferirsi in altre aree di Israele per ottenere la cittadinanza, se il proprio quartiere diventasse palestinese; e un 27% dice di essere pronto al contrario a spostarsi entro i confini di un’ipotetica Palestina indipendente se Gerusalemme 14 gennaio 2011,http://www.ilgiornale.it/


Safed - centro della Kabalà

Gaza: Haniyeh impone il rispetto della tregua con Israele

secondo un comunicato diffuso dal suo ufficio, Ismail Haniyeh, premier del governo di fatto di Hamas a Gaza, ha ordinato oggi ai suoi servizi di sicurezza di imporre di nuovo il rispetto del cessate il fuoco con Israele, ripetutamente violato nelle scorse settimane da gruppi armati di diverse fazioni palestinesi. Haniyeh, incontrando le diverse fazioni oltranziste, le aveva già ripetutamente invitate nei giorni scorsi a rispettare la tregua di fatto instaurata nei confronti di Israele dopo l’offensiva militare Piombo Fuso di due anni fa. Haniyeh aveva pure informato queste fazioni di un avvertimento preciso giunto in settimana da esponenti politici e di apparato egiziani sul rischio concreto e non lontano di un’ulteriore offensiva militare israeliana a largo raggio – una sorta di bis di Piombo Fuso – laddove l’escalation di scontri e incidenti di confine fosse proseguita. Israele ha più volte fatto sapere di considerare Hamas – in quanto forza dominante a Gaza – responsabile ultimo di ogni azione ostile contro il territorio israeliano proveniente dalla Striscia. Fonti informate a Gaza hanno riferito di aver constatato già stamane un rafforzamento della presenza di militari di Hamas nelle aree vicine al confine con Israele e il moltiplicarsi di meticolosi controlli sugli automezzi in direzione della frontiera.http://moked.it/


Il bet ha-keneset mancato

E’ difficile, visitando l’interno della Mole Antonelliana, che ospita il Museo del Cinema di Torino, ricordare che la costruzione inizialmente doveva essere una sinagoga. Come sarebbe oggi se le cose fossero andate diversamente e se la comunità di Torino fosse stata in grado di far fronte all’impegno economico esagerato che si era assunto? Ci troveremmo ancora oggi (almeno nelle festività principali) in poche centinaia a dire tefillà in quell’immenso salone che oggi si anima di suoni e luci tra centinaia di turisti? Come sarebbero disposti i banchi? E le donne dove starebbero? Guardando la sala dalla balconata in salita che oggi ospita la mostra temporanea mi domando quanto in alto saremmo state collocate e cosa riusciremmo a vedere e sentire. E’ curioso affacciarsi da quello che avrebbe potuto essere il matroneo e vedere troneggiare un gigantesco idolo (è vero che nessuno lo ha mai considerato davvero una divinità, e ha una connotazione negativa nello stesso film Cabiria che gli ha dato i natali, ma il contrasto tra quello che vediamo e quello che lo stesso luogo avrebbe potuto essere resta comunque stridente).Tutto sommato, considerati i costi di gestione che avremmo (non oso immaginare le assemblee comunitarie sul bilancio), e i problemi di acustica, per non parlare della sicurezza, possiamo dire che ci è andata bene così. Rimane una curiosa pagina di storia, che smentisce clamorosamente i pregiudizi sul nostro innato senso degli affari (già solo per questo è utile farla conoscere) e ci racconta di una comunità così integrata nella società e orgogliosa di sé da diventare persino un po’ megalomane. E ancora oggi in fin dei conti fa piacere pensare che siamo stati all’origine di quello che poi è diventato il monumento simbolo della nostra città.Anna Segre, insegnante, http://www.moked.it/

venerdì 14 gennaio 2011


tetto del Museo del Libro
Tra le tante emozioni scelgo, come prima, il Museo di Israele.(dal viaggio in Israele di dicembre 2010)

Dalla preistoria alle neoavanguardie, dall’archeologia alle installazioni dell’arte contemporanea, dal patrimonio ebraico alle diverse declinazioni della tradizione monoteistica, con la sua ineguagliabile raccolta di vestigia della tradizione ebraica. Nel museo di Israele c’è un affascinante panorama della civiltà ebraica, dall'epoca biblica fino ai giorni nostri, attraverso l'archeologia, l'etnologia e l'arte. L'orgoglio di questo museo è il santuario del Libro. Non fa tanta meraviglia, dunque, che un antico disegnatore di mappe pose Gerusalemme al centro del mondo. Secondo la leggenda, quando Dio creò la Terra, le diede dieci misure di bellezza. Nove le diede a Gerusalemme, quella che rimaneva fu distribuita al resto del mondo.Ci siamo stupiti di fronte ai Rotoli del Mar Morto, visto la magnifiche collezioni di antichità e arte moderna, passeggiato tra le antiche e splendide sinagoghe …. Come quella di Vittorio Veneto, meglio di Ceneda che con Serravalle ha dato origine a Vittorio Veneto nel 1866.Ho riletto una ricerca eseguita dall’ITC, istituto superiore di Vittorio Veneto: “Gli Ebrei a Ceneda”. Lionella Livieri


Maalè Adumim
Non potendo sostituire l’ideologia alla matematica, Israele sopravvive se resta piccolo

La paura più grande per un demografo è di non essere ascoltato quando legge le sue carte e indica il destino di un popolo. Quella di Sergio Della Pergola, demografo israeliano di fama mondiale, è che Israele ignori di essere al suo bivio esistenziale: dal Mediterraneo al Giordano gli arabi crescono più degli ebrei. Più si occupano territori meno si afferma il carattere ebraico di Israele: la ragione per cui è nato lo stato.Terra e demografia sono i pilastri del conflitto. Un sondaggio del giornale Ma’ariv rivela che per gli israeliani il problema demografico è “la minaccia”: più del programma nucleare iraniano, del terrorismo e di Hezbollah. Rinunciando a fermare gli insediamenti, la negazione di uno stato palestinese è evidente e l’annessione della Cisgiordania la conseguenza implicita. Della Pergola trae il risultato, precisando di non partire «dalle mie convinzioni politiche ma dall’analisi. Già il 15% della popolazione israeliana è araba», spiega. «Con i palestinesi di Cisgiordania salirebbe al 35% circa. Se diamo loro tutti i diritti civili e si organizzano in un partito, avranno il gruppo parlamentare più grande della Knesset. In un governo di coalizione Abu Mazen potrebbe chiedere gli Esteri, Salam Fayyad il Tesoro. Non riconoscere diritti a una sezione così importante della popolazione è insostenibile, farlo porterebbe a questo risultato».La paura di Della Pergola di non essere ascoltato da Bibi Netanyahu, è evidente. Più di cinque anni fa Ariel Sharon invece lo aveva fatto: tolse le colonie dalla Striscia di Gaza dove novemila ebrei vivevano insieme a un milione e mezzo di arabi. Sono 13 milioni e mezzo gli ebrei nel mondo; 5,7 in Israele; 5,3 negli Stati Uniti. Della Pergola sottolinea che la popolazione ebraica d’Israele cresce poco ma costantemente: 80mila l’anno. Tuttavia non basta per sostenere la demografia degli arabi.«La situazione è questa», spiega. «Più di due milioni di palestinesi in Cisgiordania, 270mila a Gerusalemme Est, un milione e mezzo a Gaza; 1,2 milioni gli arabi cittadini d’Israele. Senza Gaza siamo già al 61% di ebrei e 39 di arabi. Ma è illusorio escluderla perché quando i palestinesi partecipano alla trattativa di pace contano anche Gaza. Nell’analisi dei dati dobbiamo includere i 200mila lavoratori stranieri in Israele e i 300mila del milione d’immigrati dalla Russia che non sono ebrei. Se contiamo tutto questo, dal Mediterraneo al fiume Giordano siamo già al 50% di ebrei e 50% non ebrei».Non potendo sostituire l’ideologia alla matematica, il movimento dei coloni sostenuto da una parte della destra di governo e da alcuni milionari americani, ha tentato di confutare la demografia ufficiale con altri dati: in Cisgiordania vivono un milione e mezzo di palestinesi, meno di quanto dica Della Pergola. «La questione fondamentale non è la demografia, ma la natura dello stato», ribatte. «Anche se avessero ragione, fra circa un ventennio saremmo 54 a 46. Può il 54% pretendere che un inno e una bandiera siano l’inno e la bandiera di quello stato?».In questo vuoto d’ingegneria nazionale democratica, l’illusione della formula di uno stato per due popoli guadagna sempre più terreno sull’obiettivo del processo di pace: due stati per due popoli. Finora la prima era sostenuta dall’estrema sinistra israeliana e dai molti palestinesi convinti di vincere con la demografia il conflitto politico. Ora ci crede anche la destra di governo, il sionismo revisionista. «Con le sue incertezze riguardo alla moratoria sulle colonie, Bibi Netanyahu è diventato la sinistra del suo governo», dice Della Pergola. «Rinunciando alla Cisgiordania ha l’occasione storica di essere un grande leader. Viene da una famiglia nazionalista, ha combattuto, ha girato il mondo. Ha tutti gli elementi per prendere la decisione». Sergio Della Pergola non è un intellettuale di sinistra: crede che il processo di pace debba concludersi col riconoscimento della natura ebraica di Israele. «Uno stato ebraico nazionale, non religioso: è un concetto civile. La Norvegia si definisce luterana e protestante».È ancora la demografia che secondo Della Pergola offre una soluzione politica. Rinunciare alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est come si è fatto con Gaza; annettere i blocchi di colonie concedendo alla Palestina quell’area in Galilea, il Triangolo, dove vivono 250mila arabi israeliani. «Trasferendo i confini, non la popolazione». È un’ipotesi illiberale se quella popolazione vuole restare in Israele: ma potrebbe essere un male minore per un bene superiore. Rifacendo i calcoli demografici su queste premesse, gli ebrei d’Israele sarebbero il 90%. «E questo definirebbe i caratteri dello stato nazionale», conclude Della Pergola.di Ugo Tranballi,http://mariarubini.wordpress.com/


Israele premia gesuita italiano: «salvò ebrei anche grazie al consenso delle massime autorità cattoliche»

InChiesa e Nazismo su 12 gennaio 2011
La medaglia di “Giusto tra le Nazioni” è stata consegnata qualche settimana fa a Roma dall’Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, alla memoria di padre Raffaele de Ghantuz Cubbe. Il padre gesuita ha infatti salvato dallo sterminio tre bambini ebrei durante gli anni 1942-1947, quando nel bel mezzo della guerra mondiale, il regime nazista catturava e deportava tutta la popolazione di origine ebraica al fine di portarla nel campi di sterminio. In quell’epoca padre Raffaele de Ghantuz Cubbe ricopriva l’incarico di rettore del Nobile Collegio di Mondragone presso Frascati ed era vice presidente della Pontificia Opera di Assistenza (POA), voluta da Pio XII per il sostegno delle vittime della Seconda Guerra Mondiale. Dopo il 16 ottobre 1943, quando i nazisti fecero irruzione nel ghetto di Roma per deportare tutti gli ebrei, Graziano Sonnino insieme al fratello Mario ed al cugino Marco Pavoncello dopo aver cercato rifugio nella campagna romana riuscirono a mettersi in salvo nel Nobile Collegio di Mondragone presso Frascati dove furono ospitati fino a guerra conclusa. Graziano Sonnino ha raccontato: «L’accoglienza di padre Cubbe ci salvò dalla Shoah e dalla follia nazista. E ci permise di vivere in modo quasi normale quel periodo difficile. Alla fine del guerra restammo al convitto per altri 4 anni. E’ stato padre Cubbe – ha aggiunto -, insieme con i suoi confratelli, padre Primo Renieri, padre Dante Marsecano, padre Alberto Parisi, padre Ulisse Floridi, padre Silvio Benassi e padre Umberto Zaccari, ad accoglierci sotto la loro protezione e a far sì che la furia omicidia che si agitava sul capo degli ebrei non ci colpisse». Nel corso della cerimonia la dottoressa Livia Link, consigliere per gli Affari Pubblici e Politici dell’Ambasciata d’Israele a Roma, ha spiegato che come si legge nella motivazione del riconoscimento, padre Cubbe «scelse di nascondere i ragazzi a rischio della sua stessa vita e senza tentativi di convertire i piccoli alla fede cattolica». Infatti padre Cubbe non soltanto nascose e protesse i piccoli, ma si dimostrò sempre rispettoso della loro identità ebraica consentendo loro di rispettare anche le proprie regole alimentari. Il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, era presente ed ha ricordato che suo padre stesso fu salvato da un sacerdote cattolico. Ha sottolineato che tra i Giusti riconosciuti dallo Yad vaShem ci sono 487 italiani. Nel consegnare la medaglia dei Giusti nella mani del nipote di padre Cubbe, l’onorevole Mordechay Lewy, ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, ha detto una cosa di fondamentale importanza: «Il suo coraggio e la sua compassione lo hanno portato a salvare la vita ad ebrei. Onorando la sua memoria evidenziamo il suo coraggio personale ma ricordiamo anche quello dei molti religiosi che in Italia, e a Roma in particolare, si distinsero nel salvataggio di ebrei. E’ stato certamente il loro istinto umanitario, ma sarebbe poco saggio ritenere che hanno agito senza il consenso dei loro superiori e delle massime autorità cattoliche». La notizia è apparsa anche sull’agenzia Zenit.it.


Israele: prospettive energetiche per il 2020

Mercoledì 12 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
Le prospettive israeliane in campo energetico non sarebbero luminose. Questa è l'opinione di Marc Coroler, vicepresidente per l'Europa centrale e per gli esteri della Schneider Electric, una grande società internazionale di gestione dell'energia con sede a Rueil-Malmaison, in Francia. Coroler, è stato in Israele per incontrare clienti e funzionari e per verificare l'efficienza del progetto energetico Schneider.Durante l'incontro, in un'affermazione molto forte ha ammesso che il Paese attualmente importa la maggior parte della propria energia e dovrebbe aspettarsi scarsità di energia elettrica entro il 2013. I funzionari israeliani hanno descritto gli obbiettivi energetici israeliani per il 2020: ridurre il consumo di energia del 20% e fare il 10% della produzione di energia verde.


In kibbutz ai primi del '900

Tu quoque, liberal-progressista?

Di David Dabscheck http://www.israele.net/
Fra i tanti critici di Israele esiste una categoria che è particolarmente tediosa: i progressisti delusi. Invariabilmente la loro storia inizia in gioventù con una idilliaca esperienza di volontariato in qualche kibbutz degli anni ’60, per poi passare a raccontare della crescente costernazione per la direzione imboccata dal paese negli ultimi decenni, e infine concludere con virile indignazione che Israele non merita più il loro sostegno dal momento che ha tradito il suo retaggio liberal-progressista.Tony Judt, l’accademico recentemente scomparso, era un tipico esempio di questa categoria: il fiero sionista laburista di un tempo è approdato successivamente a qualificare Israele come un “anacronismo” e a chiedere di rimpiazzarlo con il cosiddetto “stato bi-nazionale”.In effetti il paese è notevolmente cambiato dai tempi della sua nascita nel 1948. Ma a onor del vero, sotto quasi ogni aspetto – dai diritti civili e sociali, al trattamento delle minoranze, al processo di pace – si è spostato nettamente più a sinistra. Oggi Israele è una società più pluralista, più multi-culturale e più aperta di quanto i suoi fondatori socialisti avrebbero mai potuto immaginare. Di fatto, anzi, in molti campi ha imboccato una strada espressamente più “liberal” degli stessi Stati Uniti. Ad esempio, sebbene il diritto di voto sia la chiave di volta di ogni sistema democratico, attualmente gli Stati Uniti privano di questo diritto circa 5,3 milioni di loro cittadini sulla base di condanne penali. In diversi stati americani la limitazione o addirittura la privazione del diritto di voto si estende persino a detenuti in libertà condizionata. Israele, al contrario, non pone restrizioni al diritto di voto dei detenuti, una prerogativa che viene garantita anche ai condannati per i reati più riprovevoli.Analogamente, nel 1993 l’amministrazione Clinton tradusse in legge la politica del “non chiedere, non dichiarare” che costringeva alla clandestinità i militari omosessuali, uomini e donne, in servizio nelle forze armate statunitensi. In quello stesso anno la Knesset, dopo aver ascoltato testimonianze sulle discriminazioni a danno di omosessuali nell’esercito, adottava esattamente la linea di condotta opposta. Di conseguenza, le Forze di Difesa israeliane modificarono la loro politica ufficiale e da allora gay e lesbiche vengono trattati esattamente allo stesso modo dei loro commilitoni eterosessuali.E ancora. Nonostante Israele si sia trovato sotto minaccia di guerra praticamente per tutta la sua esistenza, anche il suo comportamento verso gli arabi palestinesi, sia dentro che fuori i confini del paese, si è spostato a sinistra. I progressisti disillusi possono ricordare con nostalgia i primi tempi d’Israele, ma per i cittadini arabi del paese non si trattò di tempi tanto felici. Fino al 1966 vissero sotto amministrazione militare, vi furono confische di terre, permaneva una iniqua distribuzione delle risorse. È solo negli ultimi vent’anni che i vari governi israeliani hanno seriamente affrontato la disparità socio-economica fra le due comunità attraverso una legislazione di “affermative action” e altre scelte politiche nella stessa direzione. Scelte che hanno ben presto iniziato a dare i loro frutti, con la nomina del primo ambasciatore arabo nel 1995, il primo giudice arabo alla Corte Suprema nel 1999 e il primo ministro arabo (dopo vari vice ministri) nel 2007.Naturalmente la questione più assillante per questi critici è l’atteggiamento d’Israele sul processo di pace e sul controllo della Cisgiordania (e, fino al 2005, della striscia di Gaza). Anche qui, tuttavia, nel corso degli ultimi decenni la tendenza sia delle politiche di governo che dell’opinione pubblica israeliana si è innegabilmente avvicinata sempre più al campo delle “colombe”. Se era stato un primo ministro laburista, Golda Meir, ad affermare nel 1969 che “esistono dei profughi palestinesi, ma non esiste un popolo palestinese”, è stato un primo ministro di destra, Binyamin Netanyahu, a propugnare ufficialmente l’anno scorso la creazione di uno stato palestinese. Incolpare sempre e soltanto “l’intransigenza israeliana” per la mancanza di un accordo significa non solo operare una grossolana semplificazione della storia, ma anche perdere completamente di vista la classica foresta (progressista) che sta dietro al singolo albero (apparentemente conservatore).Dunque, ciò che sembra realmente ispirare questo rancore non sono tanto le nobili preoccupazioni progressiste, quanto qualcosa di assai più banale: un bieco pregiudizio. L’élite di socialisti laici e askenaziti che un tempo dominava in Israele, e con la quale questi critici si identificavano, è in larga misura scomparsa. La società israeliana contemporanea è più apertamente religiosa e culturalmente meno europea di quanto non fosse nei primi decenni. Inoltre oggi è gestita da gente che non agisce, e certamente non si presenta, con i tratti tipici di questi autoproclamati progressisti. Per cui, ricorrere continuamente ad accuse di tradimento scarsamente fondate nei fatti è solo un modo gratificante di mascherare il proprio disagio di fronte a una crescente “alterità”.Paradossalmente questo schema ha tratti curiosamente simili al movimento americano di estrema destra detto Tea Party. Entrambi si rifanno a un presunto passato “perfetto” per sostenere che il paese ha perduto la giusta direzione. Naturalmente tale visione in bianco e nero nasconde gran parte dei dati storici, ma serve a legittimare l’appello a “riprendersi il paese” dalle mani di intrusi dall’aspetto alieno. Fortunatamente per gli israeliani, i loro equivalenti dei Tea Party non sono in genere cittadini del paese, e così viene loro risparmiato lo spettacolo di una Christine O’Donnell che parla ebraico.I progressisti devono esigere di più da Israele? Certamente, in particolare per l’introduzione del matrimonio civile, per la riduzione delle disuguaglianze delle minoranze, per portare avanti negoziati di pace in buona fede. Esiste il pericolo di una crescita di estremismo e intolleranza? Senza dubbio. Tuttavia, il fatto che un paese che ha sostenuto tante guerre, una imponente crescita della popolazione ed enormi trasformazioni sociali, tenga ancora salda questa direzione di marcia è un primato di cui ogni progressista dovrebbe andare fiero.(Da: Jerusalem Post, 7.12.10)


Israele, sentenza caso stupro Katsav attesa per marzo

GERUSALEMME (Reuters 12 gennaio) - Il tribunale che ha riconosciuto l'ex presidente di Israele Moshe Katsav colpevole di stupro lo scorso mese deciderà se mandarlo in prigione a fine febbraio o ad inizio marzo. Lo ha detto oggi uno degli avvocati della difesa.L'avvocato Avigdor Feldman, che ha parlato dopo che il Tribunale Distrettuale di Tel Aviv ha fissato un'udienza pre-sentenza per il 22 febbraio, ha detto di non sapere se l'ex capo di Stato farà appello. Solitamente, in Israele, i colpevoli di stupro ricevono condanne che variano dai 4 ai 15 anni di prigione.Feldman ha detto a Reuters di aspettarsi la sentenza per il 65enne Katsav "entro una settimana o dieci giorni" dopo l'udienza del prossimo mese.Katsav è stato condannato il 30 dicembre per aver costretto un'impiegata ad avere rapporti sessuali con lui e per altre accuse di molestie. Alcuni analisti sostengono che, essendo stato costretto a dimettersi nel 2007, a Katsav verrà risparmiato il periodo in carcere.Ma altri analisti prevedono invece che i tre giudici che dovranno decidere sul destino di Katsav cercheranno di farne un esempio. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, leader del Likud, ha accolto il verdetto definendolo la prova che in Israele "tutti sono uguali davanti alla legge".


M.O. Raid israeliano contro obiettivi terroristici a Gaza

Attacco degli aerei militari israeliani nella notte di ieri contro tre obiettivi terroristici nelle Striscia di Gaza. A confermare l'operazione è stato un portavoce dell'esercito dello Stato ebraico, secondo quanto riporta il sito del quotidiano Jerusalem Post, spiegando che dopo aver colpito i target i velivoli sono rientrati alla base.L'attacco fa seguito all'uccisione da parte dell'Israel Air Force di un leader della Jihad Islamica, il 24enne Mohammed Najar, attivo nella Striscia controllata da Hamas, che secondo Israele pianificava attacchi su larga scala contro lo Stato ebraico.Immediata la reazione del movimento estremista islamico. «In risposta a questo crimine tutte le opzioni sono possibili. Il sangue di un nostro martire non sarà versato invano. Risponderemo nel momento e nel posto giusto» hanno avvertito i membri della Jihad Islamica. Il raid israeliano è stato effettuato un giorno dopo l'avvertimento del ministro della Difesa Ehud Barak che aveva detto che il paese avrebbe risposto in modo agressivo ad aventuali attacchi da Gaza. Sia lunedì che martedì razzi lanciati da Striscia hanno colpito Israele.12 Gennaio 2011 http://www.loccidentale.it/


Challenge Cup: Macerata a Tel Aviv.

Lampariello: "Dobbiamo imporre il nostro ritmo"
MACERATA - Impegno in Europa prima di tuffarsi nella doppia sfida con Vibo Valentia, in campionato e Coppa Italia.La Lube Banca Marche è partita questa mattina per Tel Aviv, dove domani alle 19.30 orario italiano affronterà il Maccabi nella gara di ritorno degli ottavi di finale della Challenge Cup.Vinta nettamente la partita di andata giocata mercoledì scorso al Fontescodella per i biancorossi, che mai prima d’ora avevano giocato in Israele, è d’obbligo aggiudicarsi anche questa sfida di ritorno per conquistare l’accesso ai quarti di finale della competizione, senza dover passare per l’eventuale Golden set................mar 11 gen, http://www.volleyball.it/


Due compagnie israeliane cadidate all'Oscar della tecnologia

Martedì 11 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
Due compagnie israeliane di start-up sono state nominate per i Crunchies Award, gli Oscar della tecnologia aperti a circa una cinquantina di Paesi. Le aziende che rappresenteranno Israele sono la Soluto, candidata nella categoria delle start-up internazionali, e la Boxee, che potrebbe aggiudicarsi il premio per il “Best New Device”, il miglior nuovo apparecchio elettronico.Il gadget con cui la compagnia israeliana concorre è la Boxee Box, una sorta di scatola nera che può essere collegata con televisioni e internet, e che consente di trasferire i dati da altri computer alla rete domestica. La Soluto, invece, ha meritato la nomination per aver sviluppato un software che analizza automaticamente le applicazioni scaricate ogni volta che il computer viene acceso. Il sotware è dotato di una schermata che consente agli utenti di modificare definizioni e cancellare operazioni non necessarie, permettendo in questo modo al loro apparecchio di lavorare a maggiore velocità. I fondatori della Soluto, Tom Dviri e Ishay Green, hanno confessato ai giornali locali il loro entusiasmo per la candidatura: «E’ un concorso prestigioso, conosciuto a livello mondiale. Anche solo parteciparvi è per noi un onore».


Haifa

Democrazia alla prova o prova di democrazia?

Se ne discute in Israele: alcuni commenti dalla stampa israeliana
Scrive l’editoriale di HA’ARETZ: «Un gruppo di intellettuali israeliani, fra i quali alcuni premi Nobel, ha deciso di attivarsi e ha inviato una lettera aperta ai 41 parlamentari che hanno votato a favore dell’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare che indaghi le fonti di finanziamento di vari gruppi per i diritti umani. Nella lettera i firmatari avvertono che, se la commissione verrà istituita, “il governo israeliano perderà la sua ultima legittimità, e tutte le sue leggi e attività saranno palesemente illegali”.La protesta pubblica da parte di intellettuali in Israele è un fatto importante e incoraggiante. Il loro monito circa lo slittamento dalla democrazia verso il fascismo razzista costituisce un estremo appello rivolto a coloro che scivolano lungo questa china sdrucciolevole e pericolosa.La corsa ad approvare leggi discriminatorie come quella sul giuramento di fedeltà o la proibizione agli arabi di vivere nelle piccole comunità ebraiche, unita al sostegno a rabbini razzisti e ora alla guerra contro i gruppi per i diritti umani, è già più di un fenomeno inquietante. Essa ha generato una rivoluzione culturale e di governo iniziata sin da quando l’Alta Corte di Giustizia divenne il capro espiatorio dell’estrema destra e degli ultra-ortodossi. È una cultura guidata dall’estrema destra religiosa della politica israeliana, che cerca di ridefinire il concetto di diritti umani e civili. I loro metodi sono ben collaudati. Prima gettano discredito sui gruppi per i diritti umani, poi indagano i sospetti, infine se ne escono con una pubblica condanna indipendentemente dal fatto che essa regga o meno davanti a un tribunale. In questo modo questi estremisti puntano a controllare la società civile, ultimo rifugio dei cittadini da un governo arbitrario.Illuderemmo noi stessi se pensassimo che gli intellettuali – a loro volta sospetti, agli occhi di molti, di essere “anti-sionisti” – abbiano il potere di fermare questa tendenza. Senza l’intervento di politici dalla schiena dritta e l’attivo sostegno della gente, è dubbio che le voci assennate possano fare breccia nel muro del fascismo che si sta impadronendo dello stato. Qui non è più in gioco solo il buon nome di Israele e la sua immagine globale. Qui si tratta di ridefinire la società israeliana, trasformandola in una società che, come in Cina, Corea del Nord, Iran e alcuni paesi arabi, rigurgita anche gli intellettuali che ancora perseguono un cammino onorevole.»(Da: Ha’aretz, 10.1.11)Scrive RONEN SHOVAL (presidente del movimento Im Tirtzu): «L’anno scorso si è avviato in Israele un vivace dibattito fra decine di organizzazioni provviste di forti finanziamenti che si definiscono “gruppi per i diritti umani”, e alcune altre organizzazioni che sostengono che tali gruppi sfruttano cinicamente il discorso dei diritti umani come strumento di propaganda per diffamare le Forze di Difesa israeliane e favorire la delegittimazione di Israele. Da una parte vi sono organizzazioni che accusano Israele di perpetrare crimini di guerra, comprese quelle coinvolte nel dare la caccia ai più alti rappresentati israeliani all’estero e nell’invocare boicottaggi e disinvestimenti contro Israele. Tali organizzazioni ritengono che Israele sia un regime antidemocratico, militarista e razzista. Dall’altra parte vi sono organizzazioni convinte che Israele sia una società democratica, morale e tollerante che si batte fisicamente e ideologicamente per la propria stessa esistenza come patria nazionale del popolo ebraico. Queste organizzazioni vedono Israele come una magnifica democrazia costretta a fare i conti con minacce gigantesche pur preservando norme democratiche al più alto livello possibile. Queste organizzazioni sono convinte che Israele sia vittima di una campagna di menzogne che mira ad accusarlo di crimini che non ha perpetrato e a giustificare in questo modo una politica volta a negare il suo diritto a difendersi e la sua concreta possibilità di farlo.Il fatto stesso che, nel corso dell’ultimo anno, si svolto in Israele questo dibattito pubblico ha messo in evidenza il fatto che Israele è uno stato democratico di primissimo ordine. Vi sono stati reportage, inserzioni, centinaia di articoli, interviste a non finire, insieme a dimostrazioni pubbliche e altre iniziative di vario tipo volte a spiegare e convincere. A volte il dibattito è stato puntuale e circostanziato, altre è stato demagogico: un dibattito appassionato, aspro, a tratti incandescente. Proprio come avviene in un paese democratico.Quest’anno in Israele si è avuta una rivoluzione, dopo che per tanti anni avevano avuto cittadinanza nel discorso pubblico, nei mass-media e nell’intellighenzia solo coloro che danno addosso a Israele (un minima percentuale della popolazione). Per la prima volta, su questi temi, nella democrazia israeliana sono riuscite ad emergere distintamente due collocazioni e due voci: due opinioni, insomma, come è consuetudine in una democrazia e nell’ebraismo.Nel corso dell’ultimo anno la grande maggioranza della gente si è fatta la convinzione che le organizzazioni che si definiscono “gruppi per i diritti umani” appartengano in realtà ad uno schieramento politico di estrema sinistra che cerca di imporre agli altri i propri principi estremisti grazie a finanziamenti stranieri. La grande maggioranza della gente non crede alle bugie che vengono diffuse contro i soldati delle Forze di Difesa israeliane e sa che Israele fa ogni sforzo possibile per evitare di colpire persone innocenti. La maggior parte della gente sa che Israele è uno stato aperto e democratico. Non si beve la frottola secondo cui noi israeliani saremmo tutti sottosviluppati, violenti e razzisti solo perché una marginale minoranza ha deciso di possedere il monopolio del pensiero illuminato, della democrazia e dei diritti umani.L’opinione pubblica israeliana è saggia e capace di comprendere una realtà complessa, e le manipolazioni dei mass-media, anche se i “gruppi per i diritti umani” – caratterizzati da arroganza, ipocrisia e mancanza di rispetto per gli esseri umani, per la gente e per i rappresentanti da essa eletti – la pensano diversamente. La gente è dotata di senso critico e ha buone antenne, e pertanto è in grado di identificare facilmente chi cerca di diffamarla e chi cerca di promuovere i suoi diritti.Dal momento che Israele è una democrazia e dato che la trasparenza è una condizione per la democrazia, abbiamo il diritto di sapere chi sta finanziando e alimentando la campagna di odio contro di noi. Quali interessi particolari stanno cercando di manovrare la democrazia israeliana conferendo un grande potere – talvolta sproporzionato, talvolta non democratico – nella mani di una minoranza estremista? Fra pochi mesi avremo le risposte a cui abbiamo diritto.»(Da: Ha’aretz, 10.1.11)Yediot Aharonot scrive: «La proposta di Yisrael Beteynu di costituire una commissione parlamentare d’inchiesta per svelare le fonti di finanziamento delle organizzazioni che si identificano con l’estrema sinistra israeliana è l’attuazione sbagliata di un’idea valida. L’opinione pubblica ha effettivamente il diritto di sapere se e quali soggetti stranieri interferiscono nelle sue questioni interne con lo scopo di persuaderla o di manovrarla, e di sapere chi, a questo scopo, sta finanziando attività politiche all’interno di Israele. L’opinione pubblica che queste organizzazioni cercano di convincere ha il diritto di sapere chi sono i patrocinatori stranieri, per poter giudicare a ragion veduta l’intento effettivo, le motivazioni e gli scopi che stanno dietro a quelle attività. Tuttavia, una commissione d’inchiesta della Knesset non è lo strumento adatto per conseguire questo obiettivo essenziale e delicato perché il contesto inevitabilmente politico della sua composizione ne trasformerebbe ogni dibattito in un vano tumulto di vituperi senza riguardo a qualsiasi giustificazione sostanziale che possa avere.» Secondo l’editoriale, Israele dovrebbe piuttosto adottare una legge sulla falsariga del "Foreign Agents Registration Act" statunitense.(Da: Yediot Aharonot, 11.1.11)http://www.israele.net/


Israele - Shalit, ripresa la mediazione

Secondo i media locali, il mediatore tedesco Gerhard Konrad ha ripreso i suoi sforzi di mediazione per ottenere la liberazione del soldato israeliano Ghilad Shalit, prigioniero di Hamas a Gaza dal giugno del 2006, in cambio di circa un migliaio di palestinesi detenuti in Israele. Fonti di Hamas a Gaza, citate dalla radio pubblica israeliana, hanno confermato la notizia, precisando che l' inviato tedesco è stato ieri a Gaza per la terza volta in tre mesi sottoponendo non meglio precisate "nuove idee". Il padre del soldato israeliano, Noam Shalit, ha dichiarato alla stessa emittente di non avere informazioni su nuovi sforzi per ottenere la liberazione del figlio.13.01.2011 http://www.moked.it/


Conversioni

"Con la sua intrusione violenta, il sionismo è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme". Lo ha scritto il più celebre editorialista cattolico. Chiudete gli occhi, tornate indietro con il pensiero. Dite se non sembra un proclama di Bin Laden o Ahmadinejad. L'uomo che scriveva le interviste ai papi, potrebbe essersi convertito all'Islam e aver dimenticato di farcelo sapere. Basta distrazioni. Il Tizio della Sera, http://www.moked.it/


Sette autori e un reportage per raccontare la Shoah con Parole chiare

“La Memoria non è una cosa positiva di per sé, né negativa. Semplicemente, è come respirare, inevitabile.” Lo ha detto Alessandro Portelli, professore di letteratura americana all’Università La Sapienza di Roma ed esperto di storia e memoria, alla presentazione del libro “Parole chiare – Luoghi della memoria in Italia 1938 – 2010”, avvenuta alla Biblioteca Romana Sarti ieri pomeriggio. Un piccolo, grande evento nel cuore della capitale, che ha coinvolto un folto pubblico e che ha visto succedersi ai microfoni, oltre a Portelli, il Consigliere dell’Ucei con delega alla Memoria della Shoah Victor Magiar, il Preside del liceo Newton (e Presidente dell’Associazione Nazionale Presidi) Mario Rusconi, e cinque dei sette autori dei reportage contenuti in “Parole chiare”: Eraldo Affinati, Elena Stancanelli, Emanuele Trevi, Fulvio Abbate e Gianfranco Goretti. Presente anche il fotografo Luigi Baldelli, che ha dato un contributo sostanziale al libro con le sue evocative fotografie, e le curatrici del volume Sira Fatucci e Lia Tagliacozzo, che lo hanno promosso e realizzato per l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. “Parole chiare”, pubblicato dalla casa editrice Giuntina e da ieri in libreria, contiene sette “reportage letterari” da altrettanti luoghi d’Italia teatro di tragici eventi durante il secondo conflitto mondiale. Da Fossoli, “anticamera” in Italia delle deportazioni verso Auschwitz, alle isole Tremiti, luogo dove venivano confinati gli omosessuali; da Agnone, dove vennero imprigionati rom e sinti italiani “colpevoli”, come gli ebrei, di essere “diversi”, alle Fosse Ardeatine e via Tasso, dove si espresse la ferocia dell’occupazione nazista a Roma; da Meina, teatro di una strage efferata, a Ferramonti di Tarsia, posto di confino per diverse persone e categorie invise al regime. Infine, la risiera di San Sabba a Trieste, vero e proprio campo di sterminio su territorio italiano. “Quando ero giovane, negli anni ’60, quel che era accaduto solo pochi anni prima era stato completamente rimosso. Ricordo la sorpresa e lo stupore di alcune persone che, durante un mio viaggio giovanile in Germania, vennero a sapere che ero andato in visita a Mauthausen. Erano quasi arrabbiate, come se avessi violato un tabù”, ha detto Mario Rusconi. “Oggi la situazione è molto diversa. Le scuole fanno un forte lavoro sulla Memoria, che trovo tra i momenti più emozionanti del mestiere di insegnante. Anche se dobbiamo essere coscienti di un fatto: che ogni anno si ricomincia da capo, con nuovi ragazzi da formare e a cui insegnare i valori del rispetto, della dignità delle persone.”La formazione è un tema centrale. In questo periodo – ogni anno maggiormente dilatato – di forte attenzione per la Memoria della Shoah occorre, anno dopo anno, parlarne con la maggiore precisione e cognizione di causa possibile. Per non banalizzare, per coglierne la portata universale e valoriale. Come ha detto Victor Magiar, fortunatamente “si è passati da una fase quasi liturgica, quella dei primi anni di celebrazione, ad una di approfondimento, di maggiore attenzione ai concetti e alle sfumature. E’ in questa direzione dell’apprendere cose che non sapevamo, di andare più in profondità che, a mio avviso, si muove questo libro di racconti sui luoghi della memoria in Italia.”Luoghi che, come è stato notato nel corso della presentazione, sono spesso abbandonati a se stessi, come dimostrano le fotografie di Luigi Baldelli che ritraggono soprattutto macerie e posti privi di visitatori, di persone. Ha detto ieri Emanele Trevi: quando scompariranno i sopravvissuti, a testimoniare quel che è accaduto saranno i luoghi. Di certo “Parole chiare” è uno stimolo a prestarvi maggiore attenzione.Marco Di Porto,http://www.moked.it/



Shai Noiland del Gruppo volontari Beresheet LaShalom ha vinto il primo premio per il cortometraggio "Il soldato e il bambino" per il concorso di Pace – ONE VOICE
3 minuti da vedere fino in fondo!

http://www.youtube.com/watch?v=D9DETCGjpVQ&feature=channel

giovedì 13 gennaio 2011


Gerusalemme

Una lista contro noi ebrei non riuscirà mai a zittirci

Il Giornale, 13 gennaio 2011 Fiamma Nirenstein
Un sito antisemita legato al Ku Klux Klan pubblica l’elenco degli italiani filosionisti. Ed è la prova che neanche la Shoah cancella il razzismo.Quando Ilan Halimi scomparve il 21 gennaio 2006 dal negozio dove lavorava, si indagò per ogni dove: una pista di donne, una di droga, una di sporchi commerci. Nessuno cercò quel ragazzo ebreo di 24 anni dove avrebbe dovuto cercarlo: in una banlieue dove per 24 giorni un gruppo di estremisti islamici antisemiti lo torturò fino a ucciderlo. Stavano uccidendo il loro ebreo, lo credevano ricco quel commesso di un negozio di forniture elettroniche, chiedevano un riscatto impossibile per una mamma che ho abbracciato quando mi ha detto: «Nessuno mi ha creduto quando spiegavo che dovevano seguire la pista antisemita». Eppure già si assalivano nelle strade di Europa le ragazze con la stella di David al collo e gl i uomini con la kippà, già si gridava «Hamas hamas gli ebrei al gas» nelle strade di Londra e di Berlino, le edizioni del Mein Kampf e dei Protocolli dei Savi di Sion vomitate sui mercati europei da importatori mediorientali diventavano popolari come le serie televisive in cui un ebreo faceva togliere gli occhi a una bambina musulmana per trapiantarli su un ragazzino ebreo. Già si sapeva che gli incidenti antisemiti insieme, e mai disgiunti per il modo e per il contenuto, da quelli antisionisti, crescevano fino a superare quelli precedenti al 1939, e che da noi il 54% degli italiani pensa qualcosa di poco piacevole degli ebrei.Ma l'antisemitismo è nella mentalità comune una bazzecola da ridere: chi è quel demente, dice il comune buon senso, che dopo Hitler può pensare che sussistano le teorie della cospirazione sugli ebrei che vogliono dominare il mondo, la demonizzazione dei giudei devoti al male, che permanga la mitomania di un potere esclusivo, sovrannazionale, ri cchissimo, volto a dominare il mondo? Eppure quel demente è qui con noi, accanto a me che sto in quella lista demenziale. Si adopera come un Golem rincretinito, un Frankestein ubriaco che però sa usare la scala mondiale di Internet, e così io faccio parte di una congiura per dominare il parlamento italiano, sono un agente del Mossad, sono un settler finanziato dal governo israeliano, sono una parte della cospirazione che ha distrutto le Twin Towers, odio gli arabi, odio i poveri, i bambini, odio la libertà di opinione… odio tutti. Sono una pedina e anche una burattinaia giudeoplutomassonica, sono israelo-americana e dominerò il mondo schiacciando degli innocenti con uno stato di apartheid la cui preferenza va a uccidere i bambini. Sono anche una riccona, una diabolica cospiratrice, un'essere ignobile che in una parola, è degno di morire.E' la delegittimazione che attacca oggi frontalmente gli ebrei e lo Stato d'Israele. La mia faccia «deve essere cancellata» dicono sul loro sito dove mi mettono in fila con tanti amici e anche con tante persone di cui non condivido le idee, e lo ripetono senza tregua in tante occasioni, come quando un loro leader, che non nomino, su internet si chiede «Cosa fare alla Nirenstein» e risponde che ci vorrebbe un volontario kamikaze per sistemarmi. La Commissione per l’Indagine Conoscitiva sull’Antisemitismo della Camera, che ho contribuito a fondare, è ritenuta, sullo stesso sito, una longa manus filosionista e tutti i suoi membri, uno a uno, sono nel mirino.E' un decennio preciso che mi accompagnano alcuni bravi poliziotti, io so sulla pelle che cosa è l'antisemitismo odierno. Per prima cosa, è ciò che era: si serve dei medesimi «Protocolli» e degli altri testi base di costruzione della Shoah. Si è aggiornato con la Carta di Hamas, con Ahmadinejad, con una messe infinita di antisemitismo mediorientale che si è mescolato a quello neonazista, e fa un tutt'uno. La demonizzazione degli ebrei e di Israele si serve degli stessi stereotipi che ho elencato prima. Il restyling di certi temi classici sotto forma di esaltazione «liberal» dei diritti umani, per esempio la continua, ossessiva denigrazione d'Israele che l'Onu compie da quando definì il sionismo «razzismo», ricicla vecchie idee eliminazioniste. Israele e gli ebrei non hanno legittimità in un mondo dominato da maggioranze automatiche e da ONG terzomondiste. Ma queste idee sono sempre più esposte dai loro portabandiera: Ahmadinejad promette di distruggere gli ebrei e, in Europa, ormai gli si fa eco. La riformulazione “liberal” dell’antisemitismo, senza sottovalutare il neo-nazismo, è il suo nuovo passpartout.Per chi avesse qualche interesse a sapere come mi sento, il mio animo è tranquillo. Non credo che riusciremo a battere l'antisemitismo, mai. L'antisemitismo è un problema dell'antisemita, non mio, una sua miserabile distorsione della realtà. Io lo combatterò perché non mi danneggi, non perch é si redima. Personalmente, di certo non sarò meno ebrea per fargli piacere. Nella bildung gli ebrei tedeschi immaginarono di integrarsi e spegnere il fuoco antisemita, gli ebrei fascisti sperarono di acquietarlo, gli ebrei liberal immaginano che quanto più pacifisti si mostrano tanto meno l'antisemitismo li tormenterà.Anche il sionismo ha immaginato che, piegandosi a una ipotetica normalizzazione, l'antisemitismo venisse fermato, o almeno mitigato. E' stato un fallimento. Contro l'antisemitismo vale solo la lotta frontale delle idee, vale l'integrità di un'identità che da più di 4000 anni costruisce l'idea della responsabilità dell'uomo di fronte a un Dio unico e invisibile, plasma una società di vita e di diritti umani, e oggi ha costruito, dopo indicibili sofferenze, un piccolo Stato democratico. Peccato per gli antisemiti, è bellissimo essere ebrea.




L'Exodus, simbolo della diaspora e del ritorno

L’ex traghetto americano traboccava di «vittime, di profughi martoriati e pieni di cicatrici. Oggi essi sono uno Stato»
LO Stato d'Israele non nacque nel 1948, quando fu proclamato ufficialmente nel museo di Tel Aviv, ma circa un anno prima, il 18 luglio 1947, nel momento in cui la sgangherata nave americana President Warfield, ribattezzata Exodus, entrò nel porto di Haifa. Lo Stato d'Israele nacque prima di avere un nome, quando le sue porte erano sprangate agli ebrei e gli inglesi combattevano i sopravvissuti della Shoah. Nacque quando l'accesso alle coste del paese venne impedito a coloro ai quali erano in realtà destinate, per mezzo di quarantacinque modernissime navi militari, quasi tutte di classe C, che gli inglesi avevano costruito verso la fine della seconda guerra mondiale ma che non avevano fatto in tempo a utilizzare, una flotta enorme anche secondo i parametri odierni: incrociatori, fregate, dragamine, vedette corazzate, pattugliatori. [...] Israele nacque il giorno in cui i soldati di Sua Maestà assalirono i passeggeri di una nave che, fino a poco tempo prima, stava concludendo sul Potomac, nell'Est degli Stati Uniti, una lunga esistenza come traghetto destinato al salvataggio, e lanciarono centinaia di bombe lacrimogene sulle 4515 persone che vi erano rimaste intrappolate, gente che due anni prima aveva rischiato di essere uccisa da un altro gas, in un altro luogo. Mentre la nave veniva rimorchiata verso il porto di Haifa, sotto gli occhi attenti della delegazione dell'Unscop, il noto avvocato Bartley Cramm, membro della commissione anglo-americana incaricata di risolvere la questione della Terra d'Israele, enunciò l'equazione «Exodus uguale rivolta del tè di Boston». Lo stato ebraico nacque prima ancora di essere creato, dall'incontro dell'Exodus con i delegati condotti a Haifa non appena fu annunciato l'arrivo della nave, dall'intelligenza degli ufficiali di bordo e soprattutto dalle sofferenze dei passeggeri, dalla frustrazione per l'attacco in mare aperto, proprio davanti alle coste del paese, e dall'avvilimento dovuto all'espulsione e al tormentato viaggio via mare verso la Germania, dove vennero gettati nel campo di Poppendorf, vicino ad Amburgo, un ex campo di concentramento nazista. [...]Era mattina presto. Yossi camminava lungo la spiaggia di Tel Aviv e pensava: però, ne abbiamo fatte di cose. Più o meno quattrocentomila rifugiati hanno attraversato l'Europa e si sono ritrovati sulle coste del Mediterraneo per venire qui. Certi ce l'hanno fatta. Nell'agosto del 1945, con la prima nave dell'Agenzia per l'aliyah parallela, la Dalin, ne sono arrivati trentacinque. I pan [le navi più grandi della storia dell'immigrazione clandestina in terra d'Israele fra la fine della guerra e la creazione dello stato ebraico] (che in realtà concludevano la storia dell'immigrazione clandestina) ne hanno trasportati 15.236 in una sola volta. Mentre tornava a casa, fu preso comunque da un'opprimente sensazione di vuoto. Si era portato dietro la popolazione di due città, e gli sembrava di tornare da un campo di battaglia. In Terra d'Israele gli scontri erano all'ordine del giorno, sanguinosi, violenti. Capì che si chiudeva un capitolo, e che in quel preciso istante cominciava il resto della sua vita. Dopo l'Exodus, ci fu la guerra d'indipendenza. Finiva il primo capitolo, cominciava il secondo. Dopo i pan, Yossi proseguì il suo cammino, che per molti anni ancora lo portò ad agire soprattutto nell'ombra. E per tutto quel tempo, l'Exodus, l'«Uscita dall'Europa», fu la sua parola d'ordine, la giustificazione esistenziale che gli permise di credere che la strada che aveva scelto fosse quella giusta. E poi, l'Exodus non era arrivato solo. Era arrivato in compagnia di milioni di morti e di vivi, di sognatori, di una lotta permanente. Era arrivato in compagnia di un piccino sepolto in mare, di una macchia nera nella storia dell'umanità, delle porte chiuse in faccia a un popolo da sempre indesiderato. Era arrivato in compagnia di un cittadino del mondo come Raul Wallenberg, che salvò degli ebrei ungheresi e poi scomparve, di qualcuno come Hillel Kook, di quelli che reagirono, e fecero del loro meglio, e tennero duro nonostante l'indifferenza e la crudeltà degli Alleati. Era arrivato in compagnia del silenzio urlante della Chiesa, della stampa internazionale, della maggior parte degli uomini di spirito di tutto il mondo, degli intellettuali inglesi che videro il loro governo rimandare in Germania i superstiti dell'Olocausto e tacquero. Era arrivato in compagnia di una donna morta di parto e di tre martiri, i suoi martiri: Bill Bernstein, giovane volontario americano; Mordehai Baumstein, ventitre anni, membro del movimento giovanile haShomer haTzair; Zvi Jacubowicz, sedici anni, orfano. Era arrivato in compagnia di migliaia di candele azzurre, di duecento feriti, di 2437 maapilim [immigrati clandestini] morti in mare mentre viaggiavano verso una terra che non toccarono mai, di 700 disgraziati abitanti di Kladovo che furono costretti a nuotare nel ghiaccio del Danubio, a correre nudi e a scavare la fossa nella quale in nazisti li avrebbero gettati dopo averli abbattuti. Era arrivato in compagnia della Struma, della Mekfure e della Salvador, che erano affondate. Era arrivato in compagnia dei 115.000 maapilim il cui viaggio fu coronato dal successo. Erano vittime, erano profughi martoriati e pieni di cicatrici. Sono lo Stato d'Israele.
Stage Roma 2007 1 - Francesca Colista 10 gennaio 2011


Maratona d'Israele: vince Chemlaly

Si è svolta nello scorso fine settimana La corsa del lago di Tiberiade che è stata vinta dal kenyano Chemlaly in 2:10:02 sul congolese Tambwe (2:10:09) e l'altro kenyano Muriuki (2:10:11). Poco distaccati dai primi sono giunti sul traguardo anche l'etiope Gebremedhin e l'altro kenyano Bungei. Sempre su strada, rientro di Josphat Kiprono Menjo (suo il 10000 metri più veloce del 2010), che ha vinto la 10 km di Valencia in 27:58. 11/01/2011 http://corrintoscana.myblog.it/


Per la prima volta, General Motors investe in un’azienda israeliana

Lunedì 10 Gennaio 2011 http://www.focusmo.it/
Il gigante americano delle automobili ha firmato un accordo commerciale del valore di cinque milioni di dollari con la Powermat, che produce una sorta di tappetino in grado di ricaricare cellulari, MP3 e altri gadget elettronici durante i tragitti in macchina.Il ritrovato, frutto di una sofisticatissima tecnologia wireless, inedita fino a pochi anni fa, quando nacque la Powermat: un’ulteriore start-up israeliana che conquista investitori oltreoceano, dunque. Il tappetino, che porta lo stesso nome dell’azienda, è in grado di ricaricare sino a tre apparecchi alla volta e viene già esportato negli Stati Uniti da un paio d’anni. «Nel 2009 – spiega Ran Poliakine, fondatore e amministratore delegato di Powermat – abbiamo venduto agli americani circa 750mila pezzi. Cifra che si è rapidamente moltiplicata: nel 2010 le vendite hanno raggiunto quota cinque milioni, oggi siamo presenti in 30mila negozi». A partire dal prossimo anno, le vetture prodotte da GM potranno avere Powermat in dotazione; è già stato annunciato che la prima auto ad esserne fornita sarà la Volt, un modello elettrico. Gil Golan, direttore del laboratorio GM in Israele (attivo da due anni), oltre che capo di General Motors Ventures nel Paese, ha commentato così l’affare: «La nostra compagnia è convinta che lo Stato ebraico sia luogo di innovazione tecnologica: non è un caso se ha scelto puntare su Israele, insieme alla Silicon Valley, per i propri investimenti». Una «sostanziale» parte degli introiti che deriveranno dal contratto appena siglato con la Powermat, aggiunge Golan, sarà reinvestita in Israele, in altre industrie tecnologiche locali. «Stiamo esaminando diverse compagnie, e credo che con alcune di esse nei prossimi mesi matureranno accordi», assicura il dirigente. Del resto, l’interesse crescente di GM verso il dinamismo delle imprese israeliane era stato provato già alcuni mesi fa: in giugno, ad Herzliya, piccolo centro poco distante da Tel Aviv, è stata infatti organizzata la prima edizione di una conferenza sull’innovazione nel settore automobilistico; conferenza che, nelle intenzioni degli organizzatori, tra cui figura anche il colosso statunitense, è destinata a diventare un appuntamento fisso, con cadenza annuale. In quell’occasione, il vicedirettore del settore ricerca e sviluppo di GM, Alan Taub, aveva sottolineato nel proprio discorso l’importanza del laboratorio israeliano («Ne siamo orgogliosi»), spiegando anche: «Lo scopo della venuta di General Motors in Israele è quello di sfruttare l’ampio bagaglio di tecnologia, informazioni e conoscenza di questo Paese».


Beersheva - museo beduini

Ahmadinejad rischia di ripetere l’errore di Saddam

Di Douglas Bloomfield http://www.israele.net/
Ricordate come il bullo di quartiere Saddam Hussein lasciava intendere d’avere un arsenale di armi di distruzione di massa, sbatteva la porta in faccia agli ispettori delle Nazioni Unite e alimentava il sospetto che stesse costruendosi armi nucleari da affiancare alle armi chimiche e biologiche già in suo possesso? Persino i suoi generali gli credettero. Peggio, gli credettero George W. Bush e Dick Cheney. Prima si spara e poi si fanno domande, dissero, non aspetteremo di veder alzarsi il fungo atomico. Non avevano nessuna intenzione di scommettere sul fatto che Saddam stesse bluffando, che era invece proprio ciò che stava facendo.Sembra di assistere a un déjà vu. Alcuni falchi di Bush e altri, in particolare della comunità americana pro-Israele, dicono che questa volta sono sicuri e che non si può correre alcun rischio con l’Iran. Una delle voci che si fanno più sentire è quella dell’ex ambasciatore di Bush John Bolton il quale, non essendo riuscito a convincere Bush di bombardare l’Iran nonostante l’appoggio di Cheney, ora ci prova con Barack Obama.Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, megalomane compulsivo, come già Saddam un decennio fa potrebbe finire con lo strafare nel vantare le proprie virtù militari. “Saddam – spiega Keith Weissman, analista di cose iraniane – non aveva armi di distruzione di massa, ma aveva l’assoluta necessità di far credere a tutti di averle, al punto che finì col perdere il suo paese. La sua prima priorità era quella di mettere paura all’Iran, e poi di scoraggiare gli Stati Uniti. Ma vi sono delle differenze. Per Ahmadinejad, il comando non va direttamente dall’alto verso il basso come accadeva nell’Iraq di Saddam. Ahmadinejad non può raggirare i suoi stessi generali come faceva Saddam”. La politica militare iraniana è nelle mani della Guida Suprema Ali Khamenei: è lui che stabilisce la linee della politica strategica, e ha i suoi propri consiglieri in aggiunta ad Ahmadinejad, alcuni dei quali sono rivali del presidente. Il parallelo dunque può non essere preciso, ma Ahmadinejad rischia ugualmente di ripetere l’errore di Saddam: convincere i suoi nemici che è troppo pericoloso per essere ignorato, e che deve essere rimosso.Gli iraniani considerano Israele imprevedibile e pericoloso, ma hanno la sensazione che Obama, come Bush, non voglia la guerra con Tehran e terrà a freno Israele, che loro sbeffeggiano come “troppo debole” e impaurito per attaccare. Un gioco che potrebbe rivelarsi assai rischioso.Hans Blix, l’ex capo svedese degli ispettori Onu in Iraq, ebbe a dire che Saddam era “un uomo assolutamente spietato e brutale” che pensava di poterla fare in barba all’occidente e che “sbagliò completamente nel valutare le cose”. Oggi Ahmadinejad & Co. non fanno che vantare grandi “progressi” in fatto di armamenti, proclamando che sono già pronte le fosse comuni per seppellire gli invasori americani.L’Iran sta sviluppando da tempo il proprio settore militare-industriale (con parecchio aiuto da Corea del Nord e Cina, fra gli altri). Un analista mi ha detto che non sarebbe affatto sorpreso se alcune tecnologie che Israele ha venduto alla Cina fossero state riconfezionate e vendute all’Iran. L’Iran sostiene d’aver sviluppato un drone (aereo telecomandato) bombardiere che Ahmadinejad ha soprannominato “ambasciatore di morte”, un proprio sistema di difesa aerea “altrettanto valido” del sofisticato sistema russo S-300, e missili balistici in grado di colpire Tel Aviv nonché basi americane in varie parti della regione. La marina iraniana si vanta d’avere le imbarcazioni lancia-missili “più veloci del mondo” e undici sottomarini a tecnologia stealthy (radar/sonar invisibili) costruiti dall’industria locale con missili e siluri di produzione propria.Che si tratti dell’accensione dell’impianto nucleare di Bushehr o dell’annuncio di nuovi sistemi d’arma, l’obiettivo dell’Iran è quello di fare vedere che le sanzioni non servono a nulla e che può farcela da solo in fatto di produzione di armamenti moderni ed evoluti, anche se non è vero.Per ora può darsi che la maggiore minaccia dall’Iran sia la sua rete terroristica – Hamas, Hezbollah, Siria e altri – capaci di infliggere pesanti danni a Israele, agli interessi americani e agli stati vicini. In qualche misura si tratta di soggetti indipendenti, ma in ogni caso non si possono permettere di ignorare i voleri dell’Iran che li ha riforniti con decine di migliaia di missili e altre armi, oltre ad addestramento e finanziamento. L’Iran potrebbe anche dare a qualche gruppo terroristico materiali radioattivi per una “bomba sporca” (arma ad esplosivo convenzionale ma con materiali radioattivi), che non potrebbe essere attribuita a Tehran in modo abbastanza inequivocabile da permettere una significativa ritorsione.Il programma nucleare iraniano, a quanto pare, ha subito una seria, seppur temporanea, battuta d’arresto a causa dell’attacco alle sue centrifughe del virus informatico Stuxnet, un fatto che ha aggiunto ulteriori elementi di incertezza circa l’imminenza della sua minaccia nucleare.Le vanterie hanno anche lo scopo di terrorizzare i vicini più deboli e sfruttare i sentimenti anti-israeliani e anti-americani. Non basta. Obiettivo altrettanto importante, Ahmadinejad vuole convincere la stessa popolazione iraniana che il suo governo è troppo forte per essere rovesciato, dall’interno come dall’esterno. I dispacci diffusi da WikiLeaked hanno mostrato quanto i capi arabi vorrebbero che Stati Uniti o Israele facessero fuori il regime iraniano, a patto che venisse completamente distrutto, non limitandosi ad azzoppare i suoi impianti nucleari. L’opposizione iraniana, dal canto suo, vorrebbe cambiare il governo in prima persona, e non attraverso degli estranei che la farebbero apparire collaborazionista anziché patriottica.Quanto c’è di bluff e quanto di vero? Le tanto sbandierate capacità militari iraniane sono un arsenale di cartapesta? Può darsi, e in quanto caso Ahmadinejad potrebbe fare la fine del suo trapassato vicino Saddam, a cui le spacconate costarono il potere e la vita.La conclusione è stata ben sintetizzata da Jon B. Alterman, del Center for Strategic and International Studies: “La vera domanda è: quanto si è disposti a sbagliare, e quali sono le conseguenze di tale disponibilità? Tutto il resto è commento”.(Da: Jerusalem Post, 5.1.11)