sabato 17 maggio 2008


Come fa Israele a essere felice?
La nazione più invidiata ma più in pericolo al mondo ha un segreto lieto

Nessun paese di questo pianeta è più invidiato di Israele, e per buoni motivi: in termini concreti, a sessant’anni dalla sua fondazione, Israele è la nazione più felice della terra. E’ uno degli stati più ricchi, più liberi e meglio istruiti del mondo, e la durata media della vita è più alta di quella della Germania e dell’Olanda. Ma la cosa più significativa è che gli israeliani sembrano amare la vita e detestare la morte più di qualsiasi altra popolazione. Se la storia è fatta non da piani razionali ma dalle esigenze del cuore umano, la serenità mostrata dagli israeliani di fronte ai continui pericoli cui sono esposti è degna di nota e di un attento esame.Può essere davvero una coincidenza che questa antichissima nazione – e la sola convinta di essere stata chiamata sul palcoscenico della storia per realizzare i piani di Dio – sia formata da individui che sembrano amare la vita più di qualsiasi altro essere umano? A conferma di quest’affermazione si può confrontare il tasso di fertilità e quello di suicidi di Israele con quello di altri trentacinque paesi industrializzati: Israele sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita. Coloro che credono nell’elezione divina di Israele vedono nel suo amore per la vita una speciale grazia di Dio.In un mondo dominato dall’ambiguità, lo stato di Israele insegna al mondo l’amore per la vita, non nel senso triviale della “joie de vivre”, ma come solenne celebrazione della vita. Una volta ho scritto che “è facile per gli ebrei parlare del loro amore per la vita. Sono convinti di essere eterni, mentre gli altri popoli tremano di fronte alla prospettiva della loro prossima estinzione. Non è la loro stessa vita individuale che gli ebrei considerano così deliziosa, ma piuttosto l’idea di una vita fondata su un Patto che procede ininterrotta attraverso le generazioni”. Ciononostante, è sorprendente osservare come gli israeliani siano di gran lunga il popolo più felice della terra. Le nazioni si estinguono perché gli individui che le compongono decidono collettivamente di lasciarsi morire. Non appena la libertà prende il posto dei costumi fissi delle società tradizionali, la gente che non ama la propria vita non si dà pena di procreare dei figli. Non è la spada dei conquistatori, ma l’indigeribile sbobba della vita quotidiana che minaccia la vita delle nazioni, che oggi si stanno estinguendo a un ritmo che non ha precedenti nella storia. Lo stato di Israele è circondato da vicini che sono pronti a uccidersi pur di distruggerlo. “Proprio come voi amate la vita, noi amiamo la morte”, insegnano i religiosi musulmani (questa stessa formula è scritta su un manuale di scuola palestinese per gli studenti delle medie). Oltre a essere tra i popoli meno liberi, meno istruiti e (fatta eccezione per i paesi produttori di petrolio) più poveri del mondo, gli arabi sono anche i più infelici. Il contrasto tra la felicità degli israeliani e la tristezza degli arabi è ciò che rende così difficile raggiungere l’obiettivo della pace nella regione. Questa tristezza non può essere attribuita alle condizioni materiali della vita. L’Arabia Saudita, ricchissima di petrolio, si trova al centosettantunesimo posto nella scala internazionale sulla qualità della vita, addirittura dietro al Ruanda. Israele si trova invece allo stesso livello di Singapore, anche se si deve osservare che Israele, nella mia lista sull’amore per la vita, sta al primo posto e Singapore all’ultimo. Ancor meno si può attribuire la causa dell’infelicità alle esperienze storiche, perché nessun popolo ha sofferto più degli ebrei o ha una giustificazione migliore per lamentarsi. Gli arabi non hanno inventato gli attentati suicidi, ma hanno generato una riserva mai vista prima di popolazione pronta a morire pur di arrecare danni al proprio nemico. I religiosi musulmani non esagerano affatto quando esprimono il loro disprezzo per la vita. L’amore di Israele per la vita, inoltre, è qualcosa di ben più profondo di una semplice caratteristica etnica. Chi conosce la vita degli ebrei soltanto attraverso le eccentriche lenti di scrittori ebreo-americani come Saul Bellow e Philip Roth, o attraverso i film di Woody Allen, si immagina gli ebrei come un popolo di angosciati nevrotici. Gli ebrei laici che vivono in America non hanno un tasso di natalità più alto di quello dei loro concittadini gentili, e tutto fa pensare che siano altrettanto depressi. Da un lato, gli israeliani sono molto più religiosi degli ebrei americani. Due terzi degli israeliani credono in Dio, sebbene soltanto un quarto di essi siano strettamente osservanti. Persino gli israeliani che si dichiarano contrari alla religione mostrano un diverso genere di laicità rispetto a quello che caratterizza l’occidente secolarizzato. Parlano il linguaggio della Bibbia e per tutte le elementari e le medie studiano costantemente il loro testo sacro. La fede nell’amore eterno di Dio per un popolo convinto di essere stato liberato dalla schiavitù ed eletto per la realizzazione dei suoi scopi è parte della spiegazione. Gli israeliani più religiosi sono quelli con il più alto tasso di natalità. Le famiglie ultraortodosse hanno in media nove bambini. Ciò non deve sorprendere, perché le persone religiose hanno generalmente più figli di quelle laiche, come ho già dimostrato statisticamente in una ricerca effettuata in diversi paesi. C’è una profonda differenza tra le società tradizionali e quelle moderne: nelle prime le donne non hanno altra scelta che passare quasi tutta la vita incinte. Nel mondo moderno, dove la procreazione è il frutto di una scelta e non di una costrizione, la decisione di fare figli è il segno di un amore per la vita. L’alto tasso di nascita dei paesi arabi ancora legati a una struttura di tipo tradizionale non regge il confronto con quello di Israele, di gran lunga il più alto in tutto il mondo sviluppato. La fede degli israeliani è davvero unica. Gli ebrei si sono recati in Palestina per un atto di fede, per costruire uno stato nonostante enormi difficoltà e la prospettiva di un accerchiamento da parte dei suoi nemici. Come dice una celebre battuta: “Non devi essere pazzo per essere sionista, ma aiuta”. Nel 1903 Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, si assicurò l’appoggio britannico per la fondazione di uno stato ebraico in Uganda, ma fu il suo movimento a farlo tornare indietro, perché soltanto il ritorno alla Sion della profezia biblica poteva soddisfarlo. Anziché ricorrere a una lingua moderna, i coloni ebrei riportarono in vita l’antico ebraico, una lingua soltanto di uso liturgico dopo il IV secolo d.C., con un atto di volizione linguistica senza precedenti. Forse in Israele la fede brucia più forte proprio perché Israele è stata fondata in uno slancio di fede. Due vecchie barzellette ebraiche illustrano perfettamente questo atteggiamento degli israeliani. Due anziane signore ebraiche sono sedute su una panchina nel parco di St. Petersburg, in Florida. “Signora Levy – chiede la prima – che notizie avete del vostro figlio Isacco a Detroit?”. “Oh, è orribile – risponde la signora Levy – sua moglie è morta un anno fa e lo ha lasciato da solo con due bambine. Ora ha perso il lavoro, e la sua assicurazione sanitaria scade fra due settimane. Visto come va il mercato immobiliare, non può nemmeno vendere la casa. E una delle due bambine si è ammalata di leucemia e ha bisogno di cure molto costose. E’ fuori di sé, e non sa che cosa fare. Ma mi ha scritto una bellissima lettera in ebraico, ed è un vero piacere leggerla”. Ci sono vari livelli di significato in questa barzelletta, ma quello più importante in questo contesto è che le cattive notizie vengono ammorbidite se scritte nella lingua della Bibbia, che per gli ebrei contiene sempre un messaggio di speranza. Nella seconda barzelletta il protagonista è un uomo d’affari americano che emigra in Israele poco dopo la fondazione dello stato. Al suo arrivo, richiede l’installazione di una linea telefonica, ma aspetta varie settimane senza ricevere risposta. Decide allora di recarsi alla compagnia telefonica e viene condotto in un ufficio dove due funzionari gli spiegano che il suo nome è inserito in una lista d’attesa di almeno due anni e che non c’è modo di farsi spostare avanti. “Intendi dire che non c’è speranza?”, domanda l’americano. “E’ proibito agli ebrei dire che non c’è speranza! – tuona il funzionario – Al massimo, nessuna chance”. La speranza trascende la probabilità. Se la loro fede rende gli israeliani felici, perché allora gli arabi, la cui osservanza della dottrina islamica sembra ancora più stretta, sono così depressi? L’islam offre ai suoi fedeli non l’amore – perché Allah non si rivela nell’amore come fa Javhé – bensì il successo. Come ho già scritto, “il mondo islamico non può sopravvivere senza la fede nella vittoria, senza la convinzione che ‘andare alla preghiera’ sia la stessa cosa di ‘andare alla vittoria’.
L’umiliazione – ossia la percezione che la umma non possa premiare coloro che si sottomettono a essa – supera la sua capacità di sopportazione”. L’islam, che significa “sottomissione”, non concepisce la fede (ossia la fiducia in Dio anche nel caso che le sue azioni appaiano incomprensibili) nello stesso modo in cui la concepiscono ebrei e cristiani. Poiché il capriccio di Allah controlla tutti gli eventi, dall’orbita degli elettroni fino all’esito delle battaglie, i musulmani conoscono soltanto successo o sconfitta. Le sconfitte militari, economiche e culturali subite dalle società islamiche sono insopportabili agli occhi dei musulmani; il successo degli ebrei è un abominio, perché, a giudizio dei musulmani, è dovere di ogni fedele bramarlo e cercare di sottrarlo agli usurpatori alla prima occasione. Non bisogna fare un passo molto lungo per concludere che è proprio l’amore di Israele per la vita, la sua felicità nella fede, ciò che rende impossibile realizzare una pace regionale. L’usurpazione della felicità che è dovere di ogni musulmano è causa sufficiente per uccidersi allo scopo di sottrarre la felicità al nemico ebreo. Se i nemici di Israele non riusciranno a distruggre la felicità degli israeliani, rimane un barlume di speranza che possano decidere di scegliere la felicità anche per loro stessi. Perché le nazioni cristiane non sono altrettanto felici di Israele? Poche nazioni europee possono essere veramente definite “cristiane”. La Polonia, l’ultimo paese europeo che registri ancora un’elevata partecipazione alla messa (circa il 45 per cento della popolazione), mostra ciononostante un tasso di natalità di appena 1,27, uno dei più bassi d’Europa, e un tasso di suicidi di 16 su 100 mila. La fede europea ha sempre oscillato tra l’adesione al cristianesimo come religione universale e idolatria etnica mascherata dietro una facciata cristiana. Nel IX secolo il nazionalismo europeo ha relegato ai margini il cristianesimo, e le due disastrose guerre mondiali combattute nel Ventesimo secolo hanno lasciato gli europei senza più alcuna fiducia né nel cristianesimo né nel sentimento nazionale. Soltanto in alcune sacche della popolazione americana si registrano tassi di natalità confrontabili con quelli di Israele, per esempio tra i cristiani evangelici. Non c’è alcun modo di confrontare direttamente il grado di felicità dei cristiani americani e degli israeliani, ma il carattere tumultuoso e proteiforme della religione americana non appare particolarmente adatto per garantire la soddisfazione personale. Ho il sospetto che la felicità degli israeliani sia davvero unica. In questi giorni va di moda fare previsione sulla fine di Israele, e la stessa situazione strategica dello stato di Israele non lascia molto spazio all’ottimismo. Il futuro di Israele dipende dagli israeliani. Durante duemila anni di esilio, gli ebrei sono rimasti ebrei nonostante tutti gli sforzi, spesso violenti, profusi per farli assimilare ai cristiani o ai musulmani. Si deve supporre che non abbiano abbandonato l’ebraismo perché gli piaceva essere ebrei. Con la massima sincerità, gli ebrei recitano tre volte al giorno questa preghiera: “E’ nostro dovere lodare il Signore del tutto, acclamare la grandezza dell’Uno che produce tutta la creazione, perché Dio non ci ha fatto come le altre nazioni, né come le altre stirpi della terra. Dio non ci ha posto nella stessa situazione degli altri popoli, e il nostro destino è diverso da quello di tutti gli altri”. Se gli israeliani sono il popolo più felice della terra, come indicano le statistiche, sembra possibile che faranno tutto ciò che è necessario per conservare il proprio paese, nonostante gli ostacoli e le difficoltà. Non so se riusciranno a farcela. Se gli israeliani perdono, però, il resto del mondo perderà un metro davvero straordinario della capacità che hanno gli uomini di essere felici e di avere fede. Non riesco a immaginare un evento più triste. © Asia Times (traduzione di Aldo Piccato) di Spengler
Il Foglio.it 16 maggio 2008

Monte Hermon

ISRAELE CHIEDE INGRESSO IN SISTEMA USA ANTIMISSILI

TEL AVIV - Israele vuole fare il suo ingresso, per ragioni di sicurezza nazionale, nella sofisticata rete satellitare statunitense capace di rilevare in tempo reale lanci di missili in qualsiasi punto del pianeta. Lo ha chiesto il primo ministro Ehud Olmert al presidente americano, George W. Bush, durante la sua visita in Israele conclusasi oggi. Bush, secondo la radio militare israeliana, si è riservato una risposta che potrebbe essere resa nota al premier Ehud Olmert fra due settimane, quando si recherà in visita a Washington. Ma dal tono del discorso pronunciato ieri alla Knesset (parlamento) dal presidente degli Stati Uniti - più persuaso che mai che occorra impedire che 'Masada cada di nuovo', ossia che Israele sia cancellato dalla carta geografica come viene minacciato dall'Iran - sembra probabile che la risposta della Amministrazione sarà positiva. Resta tuttavia da conoscere se Washington chiederà una contropartita: se ritenga opportuno limitare la libertà di manovra israeliana; se intenda impedire determinate vendite all'estero di tecnologie militari israeliane; o se desideri ricevere a sua volta informazioni raccolte dai satelliti spia dello stato ebraico. Il sistema statunitense in questione si chiama 'Defense support program' (Dsp) e si basa su cinque satelliti ad altissima quota (tre continuamente operativi, due di riserva) ciascuno dei quali è capace di seguire eventi su metà dal globo terrestre: in particolare lanci di missili ed esplosioni. Le informazioni vengono inoltrate a terra in tempo reale e subito rilanciate al Pentagono. Israele si trovò esposto per un mese al lancio di missili iracheni nel 1991. Il tragitto richiedeva sette minuti. Una versione precedente del Dsp rilanciava allora le informazioni dagli Stati Uniti alla Germania da dove, per telefono, i comandi israeliani venivano informati di ciascun lancio, della traiettoria e del probabile obiettivo. I satelliti oggi in possesso di Israele completano un'orbita attorno alla terra in 90 minuti, mentre il Dsp garantisce un controllo permanente e generale della situazione. La integrazione di Israele nel sistema renderebbe dunque più efficiente la intercettazione dei missili nemici e migliorerebbe la difesa delle retrovie. A Gerusalemme è notevole la soddisfazione per i colloqui avuti con Bush. "E' stata una visita importante" ha concluso l'ambasciatore di Israele negli Stati Uniti Sallai Meridor. "Le conversazioni strategiche sono state molto approfondite, in particolare quelle sulla questione iraniana". Fonti politiche anonime, citate dalla stampa, hanno aggiunto che in merito gli Stati Uniti ritengono che sarà necessaria una "cura radicale".
ANSA 2008-05-16 di Aldo Baquis

venerdì 16 maggio 2008


Rehovot - Istituto Weizmann
I CANTORI D’ISRAELE

Sono arrivati numerosi da Israele per festeggiare il sessantesimo anniversario della costituzione dello Stato ebraico.
Gli scrittori israeliani hanno accolto l’invito degli organizzatori della Fiera del Libro di Torino testimoniando con la loro presenza la vitalità e la straordinaria ricchezza di una letteratura che può essere autobiografica, collettiva o militante, in ogni caso capace di offrire al lettore una pluralità di voci e chiavi di lettura molto differenti l’una dall’altra.
Scrittori e scrittrici, alcuni sabra cioè nati in Israele spesso da genitori sfuggiti alla Shoah, altri giunti nella Terra promessa dalla Russia, dalla Polonia, dal Marocco, ognuno di loro ha condiviso con un pubblico numeroso accorso ad ascoltarli, la propria esperienza sia di narratore, sia di cittadino di un paese che dopo sessant’anni deve ancora lottare per vedere riconosciuto il proprio diritto ad esistere.
Quanto più l’immagine di Israele ci arriva attraverso i canali dell’informazione canonica, televisione e quotidiani, appiattita su stereotipi, pervasa di pregiudizi, priva di specificità umane, ancor più la conoscenza della sua letteratura assurge ad un ruolo di primaria importanza.
Gli incontri si sono susseguiti senza sosta e le tematiche e i filoni affrontati hanno spaziato dall’identità ebraica, al ruolo della letteratura, dalla ricchezza della lingua al ruolo delle donne nella letteratura ebraica e nella vita, dalla complessa realtà politica e sociale, alla difficoltà di confrontarsi ogni giorno con la minaccia del terrorismo e con la memoria della Shoah.
Gli stili linguistici e le tecniche narrative sono le più disparate: dai romanzi surreali di Etgar Keret e di Orly Castel Bloom a quelli di ambientazione sefardita di Sami Michael, per arrivare alla tragedia del terrorismo narrata nell’ultimo romanzo di Shifra Horn.
Se la guerra domina la narrativa di Ron Leshem nel suo romanzo d’esordio, “Tredici soldati” pubblicato in Italia da Rizzoli, Meir Shalev ci racconta una bellissima storia d’amore nel suo libro “Il ragazzo e la colomba”, un romanzo che commuove profondamente.
Lo stesso Erri De Luca afferma che leggere l’ultimo libro dello scrittore israeliano è stato come “gustare una gioia con l’intelligenza del cuore”. La lingua per Shalev è molto importante: in ebraico si può usare una frase della Bibbia oppure lo slang dei giovani ed essere perfettamente compresi.
Le donne della sua famiglia, forti, basse e muscolose come lui, erano narratrici eccezionali che hanno molto influenzato la sua narrativa e hanno passato il testimone da una generazione all’altra.
Per Orly Castel Bloom autrice di “Parti umane” e di “Dolly City”, pubblicati da e/o, il rapporto con la realtà è mutevole. La scrittura è un modo per evadere dalla realtà complessa che la circonda, anche se recentemente ha scelto di scrivere in modo più realistico, di avere approccio diretto e immediato con la quotidianità.
Quando suo figlio è nato quindici anni fa era sicura che non sarebbe mai andato a fare il militare perché in Israele ci sarebbe stata la pace; ora che mancano solo tre anni a quell’appuntamento non è più sicura di nulla. “Vivere in un paese dai confini incerti, minacciato dall’Iran – dice Orly Castel Bool - ti rende consapevole che Israele è davvero il laboratorio dell’ignoto e uno scrittore spesso scrive per non diventare pazzo”.
La pensa così anche Shifra Horn autrice di romanzi appartenenti al realismo magico e di “Inno alla gioia”, pubblicati da Fazi, un libro nel quale il tema del terrorismo entra in maniera prepotente. Per Shifra è più facile scrivere della realtà che la circonda perché vive per sei mesi all’anno in Nuova Zelanda e da là prendendo un certo distacco dagli accadimenti politici può scrivere più facilmente senza lasciarsi prendere da alcun tipo di propaganda, nonostante il conflitto e la difficile convivenza fra israeliani e palestinesi.
Una delle meraviglie della letteratura israeliana è di essere una patria per tutti, dove non vi sono confini e ognuno si sente a casa. Ne è convinta Savyon Liebrecht, scrittrice israeliana fortemente segnata dal trauma dello sterminio nazista in quanto figlia di sopravissuti.
Appartiene alla generazione successiva, a quella dei figli che ha conosciuto il silenzio dei genitori e che vive il rapporto con la lingua in maniera diversa da come l’hanno vissuta sia gli scrittori degli anni cinquanta - come Smilansky o Agnon, il Dante della letteratura israeliana - sia quelli degli anni sessanta che scoprono il dramma del conflitto arabo israeliano, come Amos Oz. Per Savyon Liebrecht la lingua utilizzata è quella della scuola, della vita quotidiana che non esclude lo slang dei giovani. Grande esperta dei segreti dell’animo umano, è una scrittrice dotata di grande pudore e la sua cifra narrativa è pacata e sofferta al tempo stesso.
Oltre alla Shoah i temi che affronta, non in maniera diretta però, sono quelli legati alla memoria: è attraverso operazioni simboliche che si confronta con il tema della rielaborazione del passato e dell’oblio.
Il problema dell’identità è molto presente nella vita e nell’opera di Sami Michael uno fra i più prestigiosi scrittori israeliani, nato a Bagdad nel 1926 e arrivato in Israele subito dopo la guerra di Indipendenza. I suoi romanzi, “Una tromba nello uadi” e “Victoria”, pubblicati dalla casa editrice Giuntina, riecheggiano le origini arabe e la sua dualità culturale e linguistica. Nei primi anni che ha vissuto in Israele si è occupato di idrologia e ha abitato in un quartiere arabo di Haifa che ha costituito lo sfondo per il suo primo romanzo pubblicato in italiano. L’ebraico che ha imparato arrivando in Israele si è infiltrato poco a poco nella sua pelle attraverso l’ascolto dei figli fino a quando una notte ha preso un pezzo di carta, una penna e ha scritto la sua prima frase in ebraico. Il libro che è scaturito si intitola “Uguali più uguali” e parla delle differenze esistenti nella società israeliana.
La capacità di identificarsi così bene nei personaggi femminili trae origine dalla sua infanzia. Cresciuto in una famiglia allargata si è accorto subito di una divisione netta fra uomini e donne, le quali erano costrette a stare in disparte, considerate una sorta di cittadine di serie B. Il nonno, temendo per la sua virilità, gli impone di non giocare con le bambine e allora Sami si rende conto immediatamente che le bimbe sono non solo più belle e intelligenti, ma anche più furbe e raccontano storie interessanti; così ogni qualvolta gli è possibile contravviene all’ordine del nonno, giocando di nascosto con loro.
Per Sami Michael il razzismo più grande non è fra due popoli bensì fra uomo e donna.
“La scrittura per me è un sogno perché quando scrivo creo un mondo che mi appartiene” dice lo scrittore israeliano – un mondo che gli consente di avvicinarsi all’altro e di affievolire la paura dell’arabo presentandolo come una persona intelligente e colta non meno degli ebrei.
Dopo Sami Michael che ha compiuto 83 anni, è la volta di due giovani scrittori.
Il primo, Ron Leshem, è nato nel 1976 a Ramat Gan ed è autore di un romanzo forte, persino potente edito da Rizzoli, intitolato “Tredici soldati” che narra la storia di un gruppo di ventenni che a Beaufort, antica fortezza crociata ai confini con il Libano, si trovano a fronteggiare i colpi di mortaio di un nemico implacabile quanto invisibile proprio alcune settimane prima del ritiro. E’ quindi la guerra con le sue implicazioni politiche e sociali il tema dominante della sua narrativa.
Leshem ama molto scrivere, soprattutto di persone che non conosce, diverse da sé, di luoghi che non ha mai visitato ma dei quali è curioso. “Quello che cerco di fare – dice Ron Leshem – è distaccarmi da me stesso e svuotarmi completamente da tutto ciò che conosco per riempirmi di memorie diverse, svegliandomi come un'altra persona”.
Nel suo romanzo d’esordio lo scrittore ha cercato di scrivere una storia contro la guerra facendo passare questo messaggio attraverso un personaggio che inizialmente era a favore della guerra e solo alla fine crolla il muro del diniego.
“Ho voluto però anche evidenziare l’aspetto sociale di Israele” – continua Leshem – “e chiedermi, chi stiamo mandando a morire? Oggi il 35% dei giovani non svolge il servizio militare e in prima linea, a differenza degli anni passati, ci sono soprattutto i poveri e i nuovi immigrati che tentano in questo modo di salire i gradini della scala sociale”.
I contrasti fra le classi sociali, il ruolo dell’esercito nell’attuale società israeliana, la guerra del Libano sono le tematiche salienti che il lettore ritrova in un romanzo di forte impatto emotivo dove le voci discordanti e contraddittorie dei protagonisti trovano nel desiderio condiviso di difendere il loro paese una straordinaria armonia.
Di registro diverso è la narrativa di Etgar Keret, autore di racconti brevi e surreali come “Pizzeria Kamikaze” o l’ultimo “Abramkadabram”, pubblicati dalla casa editrice e/o.
I suoi racconti a volte pungenti, a volte ironici raccontano la vita in Israele per chi come lui è cresciuto fra high tech, musica, guerre, Intifade, kamikaze e tanta insicurezza.
Nei suoi racconti non manca il gusto della provocazione, un sarcasmo un po’ amaro, le ansie e la fatica del vivere quotidiano.
Keret scrive le storie che “vorrebbe leggere” e poiché è anche un lettore impaziente i suoi racconti sono brevi e immediati. Scrivo – dice Keret – per perdere il controllo, la scrittura per me è come saltare da una scogliera e le mie storie sono come un’eruzione vulcanica, un’esplosione che, inevitabilmente, non può durare a lungo”.
Ma per Keret la scrittura è anche un tentativo di dialogo, di mettersi in contatto con persone che forse non si conosceranno mai ed è la prova che esiste qualcuno con cui comunicare. Kafka è lo scrittore che più lo ha influenzato: “Per me leggere le storie di Kafka è come ricevere uno schiaffo in viso, però al termine riesco a vedere le cose in modo più autentico e vivido”.
Da alcuni mesi è uscito in Italia il suo film Meduse premiato a Cannes, un film che si situa a metà fra la fiaba urbana e il sogno. Fare cinema per Keret è affascinante perché è un’attività che porta a collaborare con gente diversa, mentre la scrittura è qualcosa di solitario. Se dovesse scegliere comunque non avrebbe dubbi: continuerebbe ad essere uno scrittore!
La letteratura - conclude Keret - non può risolvere i problemi ma può offrire conforto. “Non scrivo per cambiare il mondo, bensì per dare una speranza alle persone e per aiutarli a cambiare la situazione complessa e difficile in cui vivono.”
Con la loro presenza i “cantori d’Israele” hanno mostrato che la letteratura israeliana ha molte voci, a volte discordanti ma mai monotone e, se nel passato lo Stato ebraico aspirava ad essere una società omogenea e uniforme, ora sono le differenze e le culture multiformi ad essere celebrate.

La cultura è il più grande tesoro di ogni società, di ogni popolo. Ma non è soltanto una ricchezza nazionale di valore incalcolabile. È anche una ricchezza che si moltiplica, cresce e si trasforma costantemente grazie alla partecipazione ad essa di tutti. La posizione che un popolo occupa nel consesso mondiale, il ruolo che vi esplica dipendono essenzialmente dal valore della sua cultura e dalla sua capacità di irradiazione, oltre che dal modo in cui viene protetta e tutelata.
Concludiamo questo viaggio nel mondo dei libri con una frase di David Grossman che racchiude in se l’essenza e il ruolo della letteratura:
“Gli scrittori sono oggi i nuovi profeti d’Israele secondo l’accezione autentica del termine: messaggeri, araldi e anche portavoce dell’ebraico della diaspora che costituiva un legame interculturale, un ponte tra il mondo musulmano e quello cristiano. Questa lingua è tornata oggi a diffondere ampiamente il suo messaggio.
La letteratura e l’arte sono strumenti di dialogo e di pace”.
Giorgia Greco
Torino, 9 maggio 2008

Gerusalemme - quartiere di Mea Sherim


Intervista alla scrittrice Sara Shilo

Sara Shilo è arrivata per la prima volta in Italia in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato di Israele, per partecipare alla Fiera del Libro di Torino insieme a molti altri scrittori israeliani.
Ha recentemente pubblicato per la casa editrice Giuntina un romanzo dal titolo “La pazienza della pietra”, già recensito in queste pagine e che ha ricevuto premi prestigiosi in Israele.
Madre di cinque figli, Sara Shilo, di madre siriana e padre iracheno, è una donna di straordinaria ricchezza umana e di una semplicità disarmante.
Nata a Gerusalemme nel 1958, è cresciuta nel quartiere della German Colony, ha vissuto con il marito Avner e i figli presso la cittadina di Ma’alot per molti anni. Attualmente abita con la famiglia a Kfar Vradim.
Ha scritto libri per bambini e organizzato attività ricreative per l’infanzia la cui eco è presente in maniera incisiva nel suo primo romanzo.
Incontriamo la scrittrice a Firenze nella suggestiva cornice della Biblioteca delle Oblate.
Il ruolo dello scrittore nella difficile realtà israeliana, l’identità, la sicurezza del paese, l’utilizzo dell’ebraico sono alcuni dei temi che affrontiamo.
Cosa significa nel profondo essere uno scrittore israeliano? Vivere in un paese di conflitti, quanto influenza il suo modo di scrivere?
“Israele è un paese dove accadono molte cose e anch’io come altri scrittori israeliani ho bisogno di ricostruire la realtà dentro di me sotto forma di racconto e successivamente rielaborarla”.
Si può parlare di responsabilità per uno scrittore, in quanto testimone della realtà che vive?
“ A mio avviso la responsabilità di uno scrittore risiede nella sua capacità di essere preciso e di non lasciare entrare la politica nella storia che racconta. Credo che gli accadimenti politici debbano restare fuori dal racconto”.
Israele è un paese che ha bisogno di sicurezza perché da troppi anni vive sotto l’incubo del terrorismo. Che sicurezza offre ad uno scrittore la lingua, l’ebraico? Grossman dice che si possono usare parole del Talmud insieme allo slang estremo di Tel Aviv. E’ d’accordo con questa affermazione?
“Sì, anche a me piace molto giocare con la lingua nelle sue forme estreme. Del resto i miei genitori provengono dai paesi arabi e per me l’ebraico è visto nel suo legame con le lingue semitiche. Ad esempio sto studiando da quattro anni in un gruppo di arabi israeliani. Impariamo insieme il Corano e la Bibbia e altri testi di psicologia e filosofia. In questo momento stiamo studiando le storie di Giuseppe come vengono presentate sia nel Corano che nella Bibbia. Per me è molto emozionante osservare il legame che esiste fra le varie lingue: in un certo senso sono le mie radici benchè i miei genitori non mi abbiano mai parlato in arabo”
Quali scrittori hanno influenzato la sua scrittura oltre a Grossman, lo scrittore che l’ha incoraggiata a scrivere e del quale ha letto con grande interesse “Che tu sia per me il coltello”?
“Oltre a Ronit Matalon, mi ha influenzato molto la scrittrice Toni Morrison per il suo straordinario coraggio nel descrivere la realtà che la circonda senza inutili orpelli o abbellimenti”
La letteratura può essere una scuola di tolleranza? Amos Oz scrive che quando si entra nei panni dell’altro, si conoscono i suoi segreti, la sua vita privata, allora diventa molto più difficile odiare.
“Condivido questa affermazione in quanto per me è molto importante rispettare la libertà dell’altro. Devi essere in un determinato posto anche dal punto di vista emotivo per poterti aprire all’altro. Scrivendo mi avvicino agli altri, posso pensare a queste persone senza giudicarle, vale a dire entrare in empatia con il loro modo di vivere e di pensare”.
Nel suo lavoro di scrittrice quanta importanza ha la disciplina? Prima di scrivere elabora la struttura del romanzo oppure si lascia trasportare dall’ispirazione?
“Per me l’unica possibilità è quella di dedicarmi completamente al romanzo.
Non sempre mi è possibile, però ci provo anche quando in quel preciso momento non ho l’ispirazione. Di solito mi alzo verso le quattro del mattino e mi metto a scrivere tenendo un caffè in una mano e un tè nell’altra senza riuscire a decidere cosa prendere: una bevanda calmante oppure una che mi svegli?”
Simona Dadon è una bellissima figura di donna. Per delineare questo personaggio si è ispirata a qualche persona appartenente alla sua famiglia?
“Nella figura di Simona sono racchiuse una pluralità di persone, ma in realtà è un personaggio che mi è nato dentro e a poco a poco si è sviluppato”
Da dove è nata l’idea di scrivere un romanzo con questo originale impianto narrativo, facendo narrare la storia da quattro protagonisti?
“Prima di tutto mi hanno influenzato alcuni libri di A.B. Yehoshua, ma mi premeva anche mostrare la realtà attraverso punti di vista differenti; del resto in Israele la realtà non è sempre unica. E’ un paese dove accadono molti fatti e ognuno li vede da una prospettiva diversa. Anche per questo ho lasciato aperta la morte di Massud, il padre e re del falafel. Ad esempio il figlio Koby pensa che l’olio sia una sostanza sporca e che abbia fatto morire il padre; per questo pensa di vincere i terroristi con l’olio. Itzik invece pensa che la morte del padre sia stata causata da un’ ape e per questo alleva il falco Dalila, allo scopo di difendersi”
Nel libro Lei utilizza un ebraico scorretto, a volte di difficile comprensione. Perché?
“ Ho voluto delineare una realtà piuttosto arretrata sia dal punto di vista sociale che culturale. Ad esempio quello era l’ebraico che usavano le maestre nell’asilo dove ho insegnato. Quando avevo diciotto anni e facevo il servizio militare presso l’asilo comunicavo con loro utilizzando questo particolare linguaggio.
Sara Shilo è intenzionata a continuare a scrivere: le dinamiche che agiscono nell’animo femminile la interessano particolarmente come pure le domande che le donne si pongono e che richiedono risposte urgenti per riempire quel vuoto.
Un vuoto che per Sara Shilo si può colmare solo attraverso la scrittura.
Giorgia Greco Firenze, 13 maggio 2008

martedì 13 maggio 2008

Gerusalemme

Chiedo a voi tutti un aiuto per concretizzare quanto proposto da Francesca in questa lettera

Ciao Chicca,
La vicenda della Fiera del Libro è stata veramente dolorosa, ma sono convinta che i detrattori dello Stato d'Israele alla fine abbiano ricevuto l'effetto boomerang. Quella sinistra becera che rinnega lo Stato di diritto di Israele in nome di un diritto sociale palestinese, precludendo agli stessi Palestinesi il diritto ad uno Stato, ha colpito ancora una volta. La cosa che più mi rattrista è quella di vedere intellettuali come Dario Fo o Vattimo farneticare completamente e continuare ad essere, nell'immaginario collettivo, custodi del sapere e della cultura italiana.Ho scritto , tempo fa, al Rettore dell'Unioversità di Torino amareggiata dai comportamenti del docente Vattimo. Non ho ricevuto risposta, naturalmente, ma da allora mi viene sovente in mente di fare qualcosa che metta in evidenza lo sfacelo prodotto da questo sedicente docente. Con livore e rabbia diffonde una cultura antisemita ed antisionista veramente pericolose. Lui insegna all'Università, nel tempio della cultura da cui si dipana la matassa dei contenuti culturali da promuovere in ambito formativo. Non mi sembra che questo personaggio sia degno di convogliare in modo retto e corretto le coscienze dei giovani. Vorrei creare un movimento d'opinione relativo alle sue posizioni, chiedendo una valutazione critica a personaggi molto accreditati del giornalismo e della cultura. Non possiamo subire la nefasta opera di personaggi sinistri come Vattimo che sembra il nuovo Goebbels del nostro tempo. Non può apparire in televisione ed avere come interlocutori personaggi sbiaditi che gli fanno dire tutte le idiozie che vuole su Israele e commentare la storia di quello Stato senza conoscerla neppure. L'unica che gli ha tenuto testa in una trasmiassione è stata la Nirenstein, ma era troppo coinvolta emotivamente per sostenere, senza perdere le staffe, quell'arroganza senza fine.
Cosa ne pensi? Si può fare?
A presto Francesca

lunedì 12 maggio 2008


Partizione della Palestina in due stati

Il 30 novembre le Nazioni Unite decisero (con la Risoluzione 181[18]), con il voto favorevole di 33 nazioni, quello contrario di 13 (tra cui gli Stati arabi) e l'astesione di 10 nazioni (tra cui la stessa Gran Bretagna, che rifiutò apertamente di seguire le raccomandazioni del piano, ritenendo, in base alle sue precedenti esperienze, che si sarebbe rivelato inaccettabile sia per gli ebrei che per gli arabi), la spartizione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico, il controllo dell'ONU su Gerusalemme e chiesero la fine del mandato Britannico il prima possibile e comunque non oltre il 1 agosto 1948.
Le reazioni alla risoluzione dell'ONU furono diversificate: gli ebrei accettarono pur lamentando la non continuità territoriale tra le varie aree assegnate allo stato ebraico.
Tra i gruppi arabi la proposta fu rifiutata. Le nazioni arabe, contrarie alla suddivisione del territorio e alla creazione di uno stato ebraico, fecero ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia, sostenendo la non competenza dell'assemblea delle Nazioni Unite nel decidere la ripartizione di un territorio andando contro la volontà della maggioranza (araba) dei suoi residenti, ma il ricorso fu respinto.
Allo stato ebraico sarebbe toccato dunque circa il 55% di quel 27% (considerando però che oltre la metà era di deserto del Neghev) della terra originariamente affidata al Mandato Britannico (originariamente comprendente anche il territorio della Giordania, ceduta agli arabi nel 1922), con una popolazione mista (55% di origine ebrea e 45% di origine araba), Gerusalemme sarebbe rimasta sotto il controllo internazionale, mentre il restante territorio (quasi del tutto abitato dalla preesistente popolazione araba) sarebbe stato assegnato allo stato arabo.

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Un documento storico: la lettera di Eliyahu Sasson, un alto funzionario diplomatico israeliano, ad Azzam Pasha, segretario generale della Lega Araba, 3 dicembre 1947

La lettera è rimasta senza risposta

3 dicembre 1947

Caro Azzam Pasha,
Da tempo pensavo di scriverti, ma esitavo a farlo prima del pronunciamento delle Nazioni Unite sul futuro della Palestina. Ora che il dado è tratto e che si è voltata pagina non voglio più procrastinare, soprattutto alla luce di quanto è apparso sulla stampa negli ultimi giorni in riferimento alle tue ultime dichiarazioni sulla Palestina e sulla decisione dell’Assemblea Generale.
Caro Azzam Pasha, noi non ci siamo montati la testa né siamo in preda a un delirio di onnipotenza, anche se la maggioranza delle nazioni civilizzate ha riconosciuto la giustezza della nostra causa dopo una delle battaglie politiche più dure mai combattute e un’indagine del nostro problema mai prima così approfondita. Siamo consapevoli che al varco ci aspetta un compito di formidabili proporzioni. Ci troveremo a dover costruire una nazione e questo è un impegno che non ha precedenti nella storia dell’umanità.
Dobbiamo superare ostacoli che nessun altro popolo sulla terra ha mai dovuto affrontare. Ma se non siamo trionfanti, non siamo nemmeno scoraggiati. La fiducia nel trionfo finale della nostra causa non si basa su quelle forze materiali alle quali hai fatto riferimento parlando questa settimana al tuo quartiere generale. Non è stato grazie a forze materiali che il nostro popolo è riuscito a resistere all’oppressione per secoli: dalla potenza di Roma, all’Inquisizione in Spagna, al dispotismo degli zar russi, al pugno di ferro di Hitler. Le forze materiali sono sempre state contro di noi. Siamo sopravvissuti solo grazie alla forza dello spirito. Un popolo che dopo diciotto secoli di esilio e persecuzioni senza fine ha ancora la forza spirituale e il coraggio di costruire una nuova civiltà non è un elemento da sottovalutare. Sicuramente non è un elemento che è possibile spazzare via con la forza bruta, come alcuni dei tuoi amici sembrano inclini a credere.
Questo non significa che noi sottovalutiamo il danno e le sofferenze che la forza bruta può infliggere. Non esiste altro popolo al mondo che ha pagato un prezzo così alto per la sua sopravvivenza. Abbiamo valutato i pro e i contro e sappiamo a cosa stiamo andando incontro. Non stiamo pensando solo in termini di settimane o di mesi. Stiamo pensando in termini di anni, di decenni. Ma sappiamo che per quanto amara e per quanto lunga possa essere la battaglia, alla fine noi prevarremo perché ci sostiene la forza dello spirito. Mai nella storia dell’umanità una forza di questo tipo è stata sconfitta dalla forza bruta. Non abbiamo scelta. La pura necessità ci costringe a proseguire su questa strada, perché questo è l’unico modo cheabbiamo per assicurare la nostra sopravvivenza come popolo.
Ora sta a voi. Sta a voi decidere se intralciare o favorire la nostra reintegrazione nel Medio Oriente. So che in questo momento la maggior parte di voi propende per la prima ipotesi. In questa generazione avete conquistato la libertà e l’indipendenza, ma molti di voi non sono ancora disposti a concedere ad altri il diritto di vivere e di essere liberi. Tuttavia, le medesime forze e le medesime necessità che hanno dato a voi la libertà sono anche dietro agli sforzi che facciamo noi per assicurare la nostra di libertà. E nel prepararvi ad ostacolare i nostri sforzi di liberazione nazionale con la forza bruta finite col prendere il posto di coloro che a suo tempo hanno ostacolato il vostro sforzo di liberazione. Ho troppo rispetto per l’intelligenza politica del popolo arabo, in mezzo al quale sono cresciuto e ho vissuto tutta la vita, per pretendere di offrire suggerimenti politici, ma nessun uomo con un po’ di immaginazione non può non vedere che questi leader vi stanno trascinando in un abisso e stanno mettendo il vostro popolo in una posizione che è all’estremo opposto di tutte le idee dalle quali il vostro movimento di liberazione ha tratto la sua forza e alle quali deve il suo successo. Non stiamo, come ho detto sopra, sottovalutando la vostra forza, ma vi invito umilmente a non sottovalutare nemmeno la nostra. La nostra forza, come ho detto, trova sostentamento nella forza dello spirito e nella forza della necessità, ma queste sono forze che possono mettere in moto anche la forza fisica. Possiamo essere pochi, ma il nostro coraggio è grande e ora abbiamo abbiamo un sostegno ulteriore, e non da poco, dato dalla decisione presa dalla maggioranza delle Nazioni Unite. Possiamo subire dei rovesci, ma il nostro popolo qui e altrove non si sottrarrà allo scontro e se lo scontro dovesse prolungarsi verrebbero inevitabilmente coinvolte forze che possono minacciare non solo la nostra indipendenza, ma anche la vostra. Pace e libertà sono invisibili. Che nessuno creda che sia possible sopprimere la nostra libertà e salvare quella dei nostri vicini. Che nessuno pensi che la Palestina possa inzupparsi di sangue mentre i nostri vicini vivono tranquilli.
Per fortuna possiamo percorrere un sentiero diverso. Alcuni dei vostri leader hanno detto ai popoli arabi che noi rappresentiamo una minaccia alla loro sicurezza, che la Palestina non è per noi altro che una testa di ponte dalla quale conquistare l’intero Medio Oriente. Hanno ripetuto queste affermazioni così spesso che sono sicuro che una buona parte di loro ci crede veramente. Nonostante ciò e per quanto sincera possa essere quella convinzione, rimane comunque una preoccupazione del tutto assurda. Gli ebrei sono tornati in Palestina non per conquistare o soggiogare, ma per trovare una casa nell’unica terra che può offrire loro una casa, nell’unica terra alla quale sono legati da un nodo storico indistrutto e indistruttibile. Vogliono una casa in Palestina e in nessun altro luogo. La Siria, l’Iraq ecc. sono per noi terre straniere tanto quanto l’Africa orientale o il sud America. Riconsiderando tutta la questione dal punto di vista pratico, come si giustificano tutte queste paure? Pensate che la ricostruzione dello Stato ebraico in parte della Palestina sarà un compito facile? Credete che il trasferimento e l’insediamento degli ebrei provenienti dall’Europa orientale o da altri Paesi sulla nostra terra, che al momento non è altro che un deserto, verrà compiuto con poco sforzo? Il numero degli ebrei che si stabiliranno in Palestina non potrà mai essere una minaccia per i 40 milioni di arabi che popolano il Medio Oriente, i cui numeri registrano una crescita costante, i cui territori sono vastissimi e le cui potenzialità non hanno limiti. Bisogna essere prossimi alla pazzia per evocare il fantasma della conquista ebraica del Medio Oriente. Può essere un buon slogan per provocare una folla di fanatici e dovrebbe essere respinto da ogni statista responsabile.
Voi e noi ci troviamo oggi ad un punto di svolta. Dipende da voi decidere se ostacolare il nostro percorso o se accettarci come chiediamo di essere accettati, come i figli dell’est che ritornano – dopo secoli di esilio forzato – nella terra dei loro padri. Non mi permetto di fare profezie, ma non mi dispiace dire a te, che – come credo – hai occhio per le prospettive storiche, che tutti questi figliuoli prodigi d’Israele possono diventare una grande benedizione per tutto il Medio Oriente. Sono stati trascinati fuori contro il loro volere e hanno dato molto ai loro Paesi ospiti. Ora tornano carichi con i tesori di quell’esperienza unica di essere stati un popolo orientale in terre occidentali, per trovare qui quello che nessun altra terra può dare loro: radici, pace, sicurezza, una casa. I loro sforzi saranno concentrati solo su questo compito e solo su questa terra, ma è inevitabile che ciò che riusciranno ad ottenere qui avrà effetti benefici anche sui vicini e aiuterà la ripresa generale di tutto il Medio Oriente su cui la pace, la sicurezza e la prosperità di tutti colori che risiedono qui si basa. Questa, infatti, è la nostra speranza che continuiamo a tener viva nonostantetutto quello che abbiamo subito in questi giorni. Durante la scorsa settimana, mentre si è fatto di tutto per creare problemi gratuiti e provocare la nostra rappresaglia, il nostro popolo ha mantenuto il sangue freddo e i nostri leader hanno continuato offerte di pace e di collaborazione ai nostri vicini arabi. Il nostro lavoro di ricostruzione continuerà con o senza il consenso dei nostri vicini, ma dipende da loro quale parte il nostro Commonwealth avrà nella rinascita del Medio Oriente. Sta a loro. Lasciami concludere con una citazione dalla Sacra Bibbia: “Ho messo di fronte a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: perciò scegli la vita, cosicché sia tu che i tuoi discendenti possiate vivere”.
Sinceramente tuo,
Elias Sasson
Fonte: Stato d’Israele e Organizzazione Sionista Mondiale, Documenti politici e diplomatici, dicembre 1947 – maggio 1948,editi da Gedalia Yogev, Gerusalemme 1979

Gerusalemme - Museo della Shoa (Yad Vashem)

No. 402 - 25.1.08

27 gennaio: Giorno Internazionale della Memoria in onore delle vittime della Shoa
4 luglio 1946 – il pogrom di Kielce: un crimine contro i sopravvissuti

A Kielce furono massacrati più di 40 ebrei. Quei fatti scatenarono la corsa all’esilio di quei membri di una comunità ebraica polacca un tempo fiorente, che erano sopravvissuti all’Olocausto.

A provocare i tragici eventi di Kielce fu la voce senza fondamento che una famiglia di ebrei avesse sequestrato per una notte un bambino cristiano di nove anni. Secondo quella voce, che aveva subito assunto proporzioni grottesche, la comunità ebraica della città, che era stata quasi annientata durante la guerra, avrebbe avuto bisogno di trasfusioni di sangue di bambini cristiani per continuare ad esistere. Alcune persone sostennero di aver visto teschi e scheletri di bambini nella cantina di una famiglia ebrea e diffusero la frottola che quella famiglia avesse compiuto omicidi rituali per ottenere una goccia di sangue cristiano, che secondo loro era un ingrediente essenziale per la preparazione delle matzot, il pane azzimo ebraico. Il padre del ragazzo che si diceva fosse stato tenuto in ostaggio dalla famiglia ebrea per una notte – ma che poi risultò aver trascorso la notte a casa di un amico in campagna – chiese alla polizia di aprire un’inchiesta.
Accompagnato dai vicini si recò con la polizia in via Planty, dove risiedevano molte famiglie ebree. La delegazione divenne una folla quando ad essa si unirono dei soldati e i membri della milizia comunista. Un ufficiale della polizia ordinò agli ebrei di consegnare le armi ed è stato allora che si sono sentiti i primi spari. Nessuno può dire con certezza chi sia stato ad aprire il fuoco e contro chi, ma la battaglia che ne seguì coinvolse soldati, polizia e civili che o spararono agli ebrei o li picchiarono a morte. Alcuni vennero lanciati fuori dalle finestre dei loro appartamenti. Trentasette ebrei e tre cristiani polacchi vennero uccisi dalla violenza di quel giorno; altri attacchi contro gli ebrei della città vennero registrati nei giorni successivi. Secondo alcuni sopravvissuti che ora vivono in Israele, parecchi giorni prima di quei tragici eventi, una delegazione ebraica,
avendo percepito la tensione nell’aria, aveva chiesto udienza al vescovo, il quale aveva risposto che la chiesa non poteva intervenire a favore degli ebrei, “in quanto essi hanno portato in Polonia il comunismo”. Quegli eventi scatenarono un’enorme ondata migratoria, che coinvolse decine di migliaia di ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto nazista. "Dopo il pogrom di Kielce la situazione era inesorabilmente cambiata”, sostiene la storica Bozena Szaynok dell’Università di Wroclaw. "Subito dopo la guerra molti ebrei emigrarono in Palestina perché ai loro occhi la Polonia era diventata un enorme cimitero in cui non si poteva più vivere. "Dopo il pogrom, gli ebrei furono presi dal panico. Non si sentivano più al sicuro in Polonia”, dice. Nei tre mesi che seguirono il pogrom circa 70.000 ebrei lasciarono la Polonia – più dei 50.000 che erano emigrati durante tutto l’anno precedente. Prima della seconda guerra mondiale la Polonia ospitava la comunità europea più grande d’Europa (circa 3.5 milioni di persone). La maggior parte di loro fu spazzata via durante l’Olocausto. Atmosfera matura L’atmosfera post-bellica in Polonia era matura per il pogrom di Kielce. "Il pogrom non sarebbe mai avvenuto se non fosse stato per il clima di antisemitismo che allora pervadeva la Polonia: gli ebrei erano stati disumanizzati, si pensava che fossero stati “puniti” durante la guerra e il mito dell’ebreo comunista che aveva portato al potere gli odiati comunisti veniva propagato liberamente”, dice lo storico Andrzej Paczkowski.
“I polacchi temevano che gli ebrei che erano sopravvissuti alla guerra tornassero e pretendessero la restituzione delle case che avevano abbandonato quando erano sfuggiti ai nazisti”, racconta. Sebbene il pogrom di Kielce rappresenti il maggior massacro di ebrei nella Polonia del secondo dopo guerra, in tutto il Paese si registrarono massacri simili, spesso scatenati da dispute per questioni di proprietà. Secondo gli storici, solo nel dopo guerra, in Polonia vennero uccisi tra i 600 e i 1500 ebrei.

Basato sul materiale pubblicato dall’European Jewish Press, l’unica agenzia di stampa ebraica europea online Articolo originale: www.ejpress.org/article/9420

Gerusalemme

No. 413 - 11.4.08

60 anni dopo l'attentato terroristico contro il convoglio dell'ospedale Hadassah: 13 aprile 1948 –
70 vittime, tra morti e feriti

"LO SCANDALO DEL QUARTIERE SHEIKH JARRAH"
Estratto dal Palestine Post del 15 aprile 1948

La strada, che da Gerusalemme al Monte Scopus porta solo all'ospedale Hadassah e all'Università Ebraica, viene spesso scelta dagli arabi per attaccare i trasporti ebraici. A riferirlo è stato ieri il partavoce dell'Agenzia Ebraica a Gerusalemme, mentre parlava di quello che lui ha definito lo "Scandalo del quartiere Sheikh Jarrah", ovvero dell'assalto ad un certo numero di veicoli ospedalieri chiaramente contassegnati.
"Questi sono gli attentati più vigliacchi", ha detto, perché i veicoli che percorrono quella strada non sono scortati da automezzi con armi pesanti, in quanto trasportano solo personale medico e scientifico e professori universitari: "Probabilmente si tratta dei convogli più disarmati che in questi giorni attraversino la Palestina".
Quello di giovedì è stato il peggiore di questo tipo di incidenti. Gli attacchi c'erano sempre stati, ma l'esercito inglese si era assunto la responsabilità di proteggere i convogli, cosa che aveva fatto fino ad oggi. Questo era stato deciso molto in alto, molto tempo fa.
Il portavoce ha rivelato che sir Leon Simon, presidente del consiglio esecutivo dell'Università, aveva ottenuto dal segretario coloniale, il signor Creech Jones, un'assicurazione scritta che il traffico medico e civile verso il Monte Scopus sarebbe stato protetto. Il dr. J.L. Magnes, rettore dell'Università e presidente del consiglio dell'ospedale Hadassah, aveva ricevuto assicurazioni simili ai livelli più alti dell'amministrazione palestinese.

Convoglio ospedaliero bombardato e bruciato
Il personale dell'ospedale Hadassah e dell'università bersagliato da colpi d'arma da fuoco

Estratto dal Palestine Post del 14 aprile 1948.

Un convoglio dell'ospedale Hadassah, composto da 10 veicoli con a bordo medici, infermieri, pazienti, personale dell'Università Ebraica e viveri destinati al Monte Scopus, è stato pesantemente attaccato per sette ore dagli arabi mentre attraversava il quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme poco prima delle 10 di ieri mattina.
Tra le vittime ebree si contano 35 morti e 20 feriti. Tutti i morti, tra cui il dr. Haim Yassky, direttore dell'organizzazione medica Hadassah, erano sul convoglio, i cui veicoli erano in parte chiaramente contassegnati con il simbolo della Magen David Adom o della Croce Rossa.
Il convoglio era partito dal quartiere Beit Israel dopo aver ricevuto dalla polizia la comunicazione che la strada era libera.
Mentre il veicolo di testa si avvicinava a un punto sul Monte Scopus vicino al Karem el Mufti (la casa del Mufti), solitamente occupato dalla signora George Antonius, ma che ora funge da postazione militare, un impulso elettrico ha fatto esplodere una mina vicino a un cratere causato da un'altra mina che era esplosa sotto a un altro veicolo ospedaliero alcune settimane fa.
Il veicolo di testa è riuscito ad evitare il cratere, ma i due veicoli che lo seguivano sono rimasti bloccati. Altre sei autovetture sono riuscite a tornare in città sane e salve. Uno degli autisti, benché ferito al volto, è riuscito a portare in salvo i suoi passeggeri.
Pneumatici bucati
Subito dopo l'esplosione della mina, gli arabi – che si erano appostati in una trincea nei pressi del Karem el Mufti – hanno aperto un pesante fuoco incrociato contro i veicoli che si erano arenati, due autobus Hamkashar, un'ambulanza e un veicolo di scorta, riuscendo a forare le gomme. Benché in grave inferiorità numerica, la scorta è riuscita ad evitare che gli attentatori sopraffacessero subito il personale medico ed universitario sotto assedio.
Tra le 11 e mezzogiorno è arrivata un'unità militare britannica e il comandante ha cercato di negoziare un cessate il fuoco. Il fuoco ebraico si è fermato, ma le vedette nel quartiere Beit Israel hanno notato che un gran numero di arabi provenienti dalla città vecchia stava convergendo sul posto. La tregua stava per finire; alle 2 del pomeriggio il distaccamento dell'esercito aveva già abbandonato la scena.
Nel frattempo l'esplosione e gli spari avevano attirato un'unità di rinforzo dell'Haganah, che cercava di impegnare gli attentatori (tra i quali c'erano molti iracheni) in uno scontro a fuoco.
Alle tre è tornato l'esercito con le armi pesanti e ha sparato parecchi colpi, uno dei quali è caduto vicino alle linee di difesa ebraiche, che fino a quel momento erano riuscite ad impedire che la folla degli arabi, guidata – si dice – dai capi delle bande della zona di Gerusalemme, si avvicinasse troppo al convoglio intrappolato.
Poi, lanciando bombe molotov e granate, gli arabi si sono avvicinati quanto bastava per incendiare uno degli autobus.
Costretti dalle fiamme e dal fumo ad uscire dal veicolo, i passeggeri venivano colpiti mentre rotolavano fuori. È stato allora che il dr. Yassky, che sedeva vicino all'autista nell'ambulanza dell'ospedale Hadassah, è stato colpito tre volte, l'ultima a morte. Sapendo che stava per morire ha detto "Shalom" alla moglie e ai suoi collaboratori ed è spirato pochi minuti dopo. La signora Yassky, che doveva raggiungere il suo appartamento in ospedale, è rimasta incolume.
Erano le cinque del pomeriggio quando le truppe hanno fatto scendere cortine fumogene. A quel punto uno degli autobus era completamente bruciato e l'altro in fiamme. Un'ora dopo le prime vittime venivano portate via dall'esercito. Solo sette delle 60 persone che erano a bordo di quei veicoli ne sono usciti incolumi. Si sono diretti tutti verso l'ospedale.
Del convoglio facevano parte anche due camion carichi di materiale edile che doveva servire a costruire le cisterne dell'acqua dell'ospedale; due ambulanze con a bordo due malati e il personale medico; due autobus con a bordo il personale dell'ospedale e dell'università e i veicoli di scorta.
Si tratta dell'attacco più pesante registrato fino ad oggi sulla strada che porta al Monte Scopus. Si è verificato lungo un breve tratto di strada che viene colpito da quando sono iniziati i disordini lo scorso dicembre.
Secondo un annuncio del governo della scorsa notte un distaccamento militare è arrivato sulla scena alle 12:30 e i rinforzi due ore dopo. Appena arrivati, i rinforzi hanno sparato colpi di mortaio contro gli arabi che sono stati visti ritirarsi in direzione della porta di Erode.
Le vittime militari sono un soldato ucciso e due gravemente feriti.
Un poliziotto è stato ferito gravemente.
Ufficialmente risulta che un arabo è morto e quattro sono stati feriti gravemente. Sempre ufficialmente la zona era di nuovo tranquilla prima delle 4:30 del pomeriggio.

Gerusalemme

No. 414 - 30.4.08

La testimonianza del partigiano polacco Jan Karski sul ghetto di Varsavia:
"Non c’era più nulla di umano, era una specie di inferno"

Nel gennaio del 1940 Karski (1914 –2000), iniziò ad organizzare staffette tra i partigiani polacchi in clandestinità e il governo polacco in esilio. Per raccogliere prove su quello che stava succedendo agli ebrei polacchi, Karski è entrato per due volte nel ghetto di Varsavia aiutato dai capi della resistenza ebraica. Nel 1942 Karski ha fatto rapporto ai governi polacco, britannico e statunitense sulla situazione in Polonia, in particolare sulla distruzione del ghetto di Varsavia e sull’olocausto degli ebrei. Nel luglio del 1943 Karski ha di nuovo personalmente parlato con il presidente Roosvelt della situazione in Polonia. Nel 1994 in riconoscimento dei suoi sforzi a favore degli ebrei polacchi Karski è stato nominato cittadino onorario d’Israele. Nel 1982 è stato piantato un albero in suo onore nel viale dei Giusti tra le Nazioni a Gerusalemme.
Il racconto di Jan Karski
[Tratto da I Giusti tra le Nazioni, edito da Zofia Lewin e Wladyslaw Bartoszewski, Earlscourt 42 Publications Ltd., Londra 1969]
Poco prima della mia partenza dalla Polonia il delegato del governo polacco a Londra e il comandante dell’esercito clandestino [AK] organizzarono per me un incontro con due uomini che avevano occupato posizioni di rilievo all’interno della comunità, e che ora dirigevano il lavoro della resistenza ebraica. Uno era il capo dell’organizzazione sionista, l’altro aveva guidato l’Alleanza socialista ebraica o Bund. Il secondo aveva anche il difficile e pericoloso compito di dirigere i lavori di uno speciale dipartimento dell’ufficio delegato del governo polacco, che organizzava le operazioni di soccorso per la popolazione.
(…)
La prima cosa che ho capito sedendo a parlare con loro nel silenzio serale di una Varsavia di periferia è stata che la loro situazione era senza speranza. Per loro, per i poveri ebrei polacchi, questa era la fine del mondo. Per loro e per i loro compagni non c’era via d’uscita. Inoltre questa era solo una parte della loro tragedia e solo in parte la causa della loro disperazione e della loro agonia. Non avevano paura di morire e infatti accettavano la morte come se fosse un evento quasi inevitabile. A questa consapevolezza si aggiungeva l’amara realizzazione che in questa guerra, per loro, non c’era alcuna possibilità di vittoria di nessun tipo. Per loro non ci sarebbe stata alcuna delle soddisfazioni che a volte addolciscono la prospettiva della morte. Il capo sionista ha messo subito le carte in tavola.
"Voi altri polacchi siete fortunati", ha esordito. "Anche voi state soffrendo. Molti di voi moriranno, ma quanto meno la vostra nazione sopravviverà. Dopo la guerra la Polonia risorgerà. Le vostre città saranno ricostruite e le vostre ferite lentamente guariranno. Da questo oceano di lacrime, dolore, rabbia e umiliazione il vostro Paese emergerà di nuovo, ma allora gli ebrei polacchi non esisteranno più. Noi saremo morti. Hitler perderà la sua guerra contro contro tutto ciò che è umano, giusto e buono, ma avrà vinto la sua guerra contro gli ebrei polacchi. No, non sarà una vittoria: il popolo ebraico sarà stato assassinato.
(…)
Improvvisamente il capo del Bund ebbe un’idea: "Io conosco l’Occidente. Tu negozierai con gli inglesi e trasmetterai loro a voce il tuo rapporto. Sono sicuro che apparirà più convincente se potrai dire: 'Io l’ho visto'. Possiamo organizzare per te una visita al ghetto. Va bene? Se la risposta è sì, io verrò con te e mi occuperò della tua sicurezza". ...
C’era un tunnel scavato sotto quell’edificio il cui retro faceva parte integrante del muro del ghetto e la cui facciata si aspriva sul lato ariano; siamo passati senza problemi. E improvvisamente sbucammo in un mondo completamente diverso. Il capo del Bund che fino a poco prima era sembrato un nobile polacco improvvisamente si piegò come un ebreo del ghetto, come se fosse stato lì da sempre. Questa era la sua natura, il suo mondo. Camminavamo lungo le strade, lui alla mia sinistra e non parlavamo molto. C’erano cadaveri nudi abbandonati lungo le strade. Gli ho chiesto: "Perché sono rimasti qui?” Mi ha risposto: "Questo è un problema. Quando un ebreo muore e la famiglia vuole seppellirlo, i parenti devono pagare. Non hanno soldi e allora gettano i loro morti sulla strada. Anche il più misero straccio vale qualcosa ed è per questo che li abbandonano nudi. Quando i corpi nudi finiscono sulla strada diventano un problema del Consiglio ebraico".
Donne che allattavano i figli davanti a tutti, senza pudore. Solo che non avevano seni... I loro petti erano completamente piatti. Bambini piccolissimi ci guardavano con occhi da pazzi. Questo non era questo mondo: non c’era più nulla di umano.
Le strade erano affollate, piene di gente, come se tutti vivessero all’aperto. Mettevano in mostra le loro poche povere cose; ognuno cercava di vendere quello che aveva: tre cipolle, due cipolle, un paio di puntine. Tutti vendevano qualcosa, tutti chiedevano la carità. Fame. Bambini terrificanti. Bambini che correvano da soli. Bambini che sedevano accanto alla madre. Non c’era più nulla di umano, era una specie di inferno.
Gli ufficiali tedeschi avevano l’abitudine di passare attraverso questa parte centrale del ghetto. I soldati tedeschi in licenza prendevano una scorciatoia camminando attraverso il ghetto. Così anche allora dei tedeschi in uniforme stavano passando di lì. Piombò il silenzio. Tutti li guardavano passare, congelati e ammutoliti dalla paura. I tedeschi erano sprezzanti: era evedidente che non guardavano a questo sporchi sub-umani come se fossero esseri umani. Improvvisamente ci fu il panico. Gli ebrei scappavano dalle strade lungo cui noi stavamo camminando. Corremmo verso una delle case e il mio compagno sussurrò: “La porta, aprite la porta”. Qualcuno aprì ed entrammo. Siamo corsi verso le finestre che si affacciavano sulla strada. Poi siamo tornati indietro verso la donna che era rimasta accanto alla porta. Il mio compagno disse: "Non avere paura, siamo ebrei". Mi ha spinto verso la finestra: “Guarda”. Due bei ragazzi che indossavano l’uniforme della Hitlerjugend stavano passando in quel momento. Parlavano tra di loro. Ad ogni loro passo gli ebrei si disperdevano in ogni direzione, si dileguavano. Improvvisamente uno ha messo la mano in tasca e senza un attimo di esitazione ha sparato. Il suono di un vetro rotto, il grido di un uomo. L’altro si è congratulato con lui e se ne sono andati per la loro strada.
Ero paralizzato. E allora la donna ebrea che doveva aver capito che io non ero ebreo mi ha abbracciato: "Vattene, non è per te. Vattene".
Abbiamo lasciato la casa e siamo usciti dal ghetto. Il mio compagno mi ha detto: "Non hai visto tutto. Vuoi tornare? Verrò con te. Voglio che tu veda tutto".
Siamo tornati il giorno seguente passando attraverso lo stesso edificio. Questa volta lo shock non è stato troppo grande e sono riuscito a natore altre cose. Puzza, sporco. Un puzzo soffocante. Strade sporche. L’atmosfera eccitata, tesa, frenetica. Questa era piazza Muranowski. In un angolo dei bambini giocavano con degli stracci. Si gettavano gli stracci l’uno contro l’altro. Il mio compagno mi ha detto: "Guarda: I bambini stanno giocando. La vita continua". Ho risposto: "Non stanno giocando. Stanno solo facendo finta". Lì vicino c’erano parecchi alberi malati. Siamo passati oltre senza parlare con nessuno. Abbiamo continuato a camminare così per circa un’ora. Una volta mi ha fermato: "Guarda questo ebreo", un uomo che se ne stava in piedi immobile. Ho chiesto: "È ancora vivo? " -- "Certo, è ancora vivo", ha risposto. "Ricorda, per favore: sta morendo. Sta solo morendo. Guardalo, per favore, e raccontalo. Tu lo hai visto: per favore, ricorda". Abbiamo proseguito. Orrore! Di tanto in tanto mi sussurrava: "Devi ricordare questo e questo e quello. E questa donna". Spesso gli ho chiesto: "Che cosa sta succedendo a queste persone?" Mi ha risposto: "Stanno morendo. Non dimenticare. Per favore, ricorda".
Abbiamo continuato così per circa mezz’ora e poi siamo tornati indietro. Non ce la facevo più. "Per favore, portami fuori di qui".
Non era il mondo quello che avevo visto. Non c’era nulla di umano. Non ero stato là, non appartenevo a quel luogo. Non avevo mai visto niente di simile prima in vita mia.

domenica 11 maggio 2008

museo Turgeman Post - Gerusalemme

Dichiarazione della Fondazione dello Stato d'Israele

In ERETZ ISRAEL è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l'eterno Libro dei Libri.Dopo essere stato forzatamente esiliato dalla sua terra, il popolo le rimase fedele attraverso tutte le dispersioni e non cessò mai di pregare e di sperare nel ritorno alla sua terra e nel ripristino in essa della libertà politica.
Spinti da questo attaccamento storico e tradizionale, gli ebrei aspirarono in ogni successiva generazione a tornare e stabilirsi nella loro antica patria; e nelle ultime generazioni ritornarono in massa. Pionieri, ma'apilim e difensori fecero fiorire i deserti, rivivere la loro lingua ebraica, costruirono villaggi e città e crearono una comunità in crescita, che controllava la propria economia e la propria cultura, amante della pace e in grado di difendersi, portando i vantaggi del progresso a tutti gli abitanti del paese e aspirando all'indipendenza nazionale.
Nell'anno 5657 (1897), alla chiamata del precursore della concezione d'uno Stato ebraico Theodor Herzl, fu indetto il primo congresso sionista che proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale del suo paese. Questo diritto fu riconosciuto nella dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato col Mandato della Società delle Nazioni che, in particolare, dava sanzione internazionale al legame storico tra il popolo ebraico ed Eretz Israel [Terra d'Israele] e al diritto del popolo ebraico di ricostruire il suo focolare nazionale.La Shoà [catastrofe] che si è abbattuta recentemente sul popolo ebraico, in cui milioni di ebrei in Europa sono stati massacrati, ha dimostrato concretamente la necessità di risolvere il problema del popolo ebraico privo di patria e di indipendenza, con la rinascita dello Stato ebraico in Eretz Israel che spalancherà le porte della patria a ogni ebreo e conferirà al popolo ebraico la posizione di membro a diritti uguali nella famiglia delle nazioni.
I sopravvissuti all'Olocausto nazista in Europa, così come gli ebrei di altri paesi, non hanno cessato di emigrare in Eretz Israel, nonostante le difficoltà, gli impedimenti e i pericoli e non hanno smesso di rivendicare il loro diritto a una vita di dignità, libertà e onesto lavoro nella patria del loro popolo.Durante la seconda guerra mondiale, la comunità ebraica di questo paese diede il suo pieno contributo alla lotta dei popoli amanti della libertà e della pace contro le forze della malvagità nazista e, col sangue dei suoi soldati e il suo sforzo bellico, si guadagnò il diritto di essere annoverata fra i popoli che fondarono le Nazioni Unite.
Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che esigeva la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel. L'Assemblea Generale chiedeva che gli abitanti di Eretz Israel compissero loro stessi i passi necessari da parte loro alla messa in atto della risoluzione. Questo riconoscimento delle Nazioni Unite del diritto del popolo ebraico a fondare il proprio Stato è irrevocabile. Questo diritto è il diritto naturale del popolo ebraico a essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio Stato sovrano.
Quindi noi, membri del Consiglio del Popolo, rappresentanti della Comunità Ebraica in Eretz Israel e del Movimento Sionista, siamo qui riuniti nel giorno della fine del Mandato Britannico su Eretz Israel e, in virtù del nostro diritto naturale e storico e della risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dichiariamo la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d'Israele.Decidiamo che, con effetto dal momento della fine del Mandato, stanotte, giorno di sabato 6 di Iyar 5708, 15 maggio 1948, fino a quando saranno regolarmente stabilite le autorità dello Stato elette secondo la Costituzione che sarà adottata dall'Assemblea costituente eletta non più tardi del 1 ottobre 1948, il Consiglio del Popolo opererà come provvisorio Consiglio di Stato, e il suo organo esecutivo, l'Amministrazione del Popolo, sarà il Governo provvisorio dello Stato ebraico che sarà chiamato Israele.
Lo Stato d'Israele sarà aperto per l'immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d'Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Lo Stato d'Israele sarà pronto a collaborare con le agenzie e le rappresentanze delle Nazioni Unite per l'applicazione della risoluzione dell'Assemblea Generale del 29 novembre 1947 e compirà passi per realizzare l'unità economica di tutte le parti di Eretz Israel.
Facciamo appello alle Nazioni Unite affinché assistano il popolo ebraico nella costruzione del suo Stato e accolgano lo Stato ebraico nella famiglia delle nazioni. Facciamo appello - nel mezzo dell'attacco che ci viene sferrato contro da mesi - ai cittadini arabi dello Stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti.Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra. Lo Stato d'Israele è pronto a compiere la sua parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente intero.
Facciamo appello al popolo ebraico dovunque nella Diaspora affinché si raccolga intorno alla comunità ebraica di Eretz Israel e la sostenga nello sforzo dell'immigrazione e della costruzione e la assista nella grande impresa per la realizzazione dell'antica aspirazione: la redenzione di Israele.
Confidando nell'Onnipotente, noi firmiamo questa Dichiarazione in questa sessione del Consiglio di Stato provvisorio, sul suolo della patria, nella città di Tel Aviv, oggi, vigilia di sabato 5 Iyar 5708, 14 maggio 1948.


Grazie, Israele, esempio di tolleranza per l’Oriente, e anche per l’Europa

Lo Stato d’Israele compie 60 anni. E oggi a Torino si apre con la presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il Salone Internazionale del Libro, quest’anno dedicato proprio al sessantennale.E’ una data che emoziona perché carica di significati simbolici. Si tratta dei primi sessant’anni travagliati ed eroici dalla "palingenesi", cioè dal ritorno a nuova vita del popolo ebraico, che per la prima volta nella sua storia ha interrotto, anzi ha invertito la diaspora, e ha ritrovato finalmente la Terra dei Padri. Sono gli anni tumultuosi della nuova storia di Israele-Stato e non più soltanto popolo, quelli che ci separano dal 1948.
Auguri, Israele, e che tu possa vivere almeno altri 6000 anni.
Ma implicitamente la ricorrenza diventa occasione per denunciare all’Italia e al Mondo la vergogna dell’antisemitismo, spesso nascosto e mascherato da "anti-sionismo" o camuffato da apparentemente democratiche "critiche al Governo israeliano". Anche oggi i giornali dell’ultra-sinistra, col pretesto di difendere il diritto alla patria e alla libertà dei Palestinesi, che nessuno al mondo – tantomeno israeliani ed ebrei – contesta, e che anzi tutti appoggiano, si esercitano in penosi e imbarazzanti distinguo tra antisemitismo e antisionismo. Che vergogna.
A parte la patetica interpretazione veteromarxista da bar, secondo cui Israele è per principio colpevole perché è ricco, capitalistico e bene armato, mentre i Palestinesi hanno sempre ragione perché poveri, disorganizzati e addirittura "male armati", come se non ci fossero state le ruberie miliardarie di Arafat e dei corrotti governanti palestinesi, o i carichi di armi dall’Iran e dai Paesi arabi che alimentano scontri militari e attentati continui. Vulgata che oltretutto non tiene conto della verità storica, che cioè è stato proprio il rifiuto dei Paesi arabi ricchi e tradizionalisti dell’accettazione di un eversivo e populistico Stato palestinese alle loro porte l’origine del problema palestinese.
Basta considerare come hanno fatto cronicizzare i campi profughi, ormai più che ventennali.Ma oggi le cose sono cambiate, e in peggio. Fa comodo agli arabi estremisti e ai musulmani fondamentalisti che la "questione palestinese" non venga mai risolta: è una spada di Damocle che sta sopra la testa di Israele e dell’Occidente.Ma anche in Europa e in Italia, i 60 anni di Israele sono una data critica. Le bandiere israeliane bruciate in piazza il I maggio a Torino ci ricordano che la risorgenza dell’odioso pregiudizio nazista – questa volta più all’estrema sinistra che a destra – costituisce un pericolo grave per le Comunità ebraiche in Europa e nel Mondo, per la stessa Israele (attentati, attacchi militari, rischio di distruzione per attacco nucleare), per tutto il mondo libero d’Occidente. Con la sua democrazia liberale, che avrà pure i suoi difetti – come in tutti gli altri paesi liberi – ma vale mille volte il dispotismo medievale e reazionario dei Governi arabi, col suo coraggio eroico, con l’equilibrio del suo grande popolo (immaginiamo che succederebbe a Napoli o Milano se ci fossero attentati sanguinosi e casuali ogni giorno), Israele sta insegnando a tutto il mondo medio-orientale, anzi al Mondo intero, non solo la liberal-democrazia spicciola d'ogni giorno, che è quella su cui cadono parecchi Stati, non solo la virtù civile della dignità, ma anche la psicologia sociale. E sì, perché il popolo israeliano mostra a tutti, a reti tv unificate, come si può convivere in democrazia col dramma quotidiano senza perdere la testa e senza ricorrere a Governi autoritari.
Del resto, la tolleranza e il pacifismo tradizionale del popolo d’Israele sono testimoniati dal buon trattamento della forte minoranza araba israeliana, che oltretutto è cresciuta dal 1948, fino a superare il 30 per cento. Arabi che non vorrebbero mai stare dall’altra parte. E all’opposto, quanti sono gli ebrei felici e contenti in un Paese arabo? Perciò "è giunta l'ora di dire grazie a Israele", riconosce nel suo ultimo numero il settimanale Famiglia Cristiana, più consapevole di altri cattolici delle gravissime colpe della Chiesa di Roma contro gli ebrei: E così argomenta l'editoriale del vicedirettore Fulvio Scaglione: "Mentre sulle piazze ricompare la miseria dei bruciatori di bandiere, noi cittadini dell'Europa e delle democrazie liberali [be’, finalmente un corretto aggettivo, non è la solita solfa antistorica della cosiddetta "Europa cristiana" NdR] riconosciamo il debito con lo Stato di Israele.
La ragione è semplice: Israele, come peraltro il vicino Libano [ahiahi, uno Stato autoritario messo alla pari di uno democratico, solo perché non uccide i cristiani. NdR], è uno Stato multireligioso, multiculturale e multietnico in un Medio Oriente che pratica, al contrario, l'esclusivismo religioso, culturale o etnico, quando non tutti e tre insieme". Israele è insomma "un modello di apertura alla diversità", scrive il settimanale cattolico. "Se un giorno i Paesi arabi sapranno meditare la propria storia e farsi competitivi nella gara della pace, molto del merito andrà a Israele".Grazie, Israele, aggiungiamo noi, perché così cominciò nei Paesi protestanti anche il Liberalismo: con la libertà di credere in ciò che si vuole (o anche di non credere), in tempi in cui – e Famiglia Cristiana diventata "liberale" ha un’improvvisa amnesia – la Chiesa per questa "libertà religiosa" oggi tanto cara a Famiglia Cristiana comminava la pena di morte, in quanto eresia grave da punire col rogo. Insomma, amici cattolici di Destra e Sinistra, un po’ di coerenza, che diamine! Quando riconoscerete che fino a ieri l'altro eravate come l’Islam più fanatico dei nostri giorni, allora forse potrete essere considerati, se non proprio liberali, almeno, che so, "neo-lib".
Nico Valerio
Salon Voltaire, maggio 08, 2008 http://salon-voltaire.blogspot.com/

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