lunedì 12 maggio 2008

Gerusalemme

No. 414 - 30.4.08

La testimonianza del partigiano polacco Jan Karski sul ghetto di Varsavia:
"Non c’era più nulla di umano, era una specie di inferno"

Nel gennaio del 1940 Karski (1914 –2000), iniziò ad organizzare staffette tra i partigiani polacchi in clandestinità e il governo polacco in esilio. Per raccogliere prove su quello che stava succedendo agli ebrei polacchi, Karski è entrato per due volte nel ghetto di Varsavia aiutato dai capi della resistenza ebraica. Nel 1942 Karski ha fatto rapporto ai governi polacco, britannico e statunitense sulla situazione in Polonia, in particolare sulla distruzione del ghetto di Varsavia e sull’olocausto degli ebrei. Nel luglio del 1943 Karski ha di nuovo personalmente parlato con il presidente Roosvelt della situazione in Polonia. Nel 1994 in riconoscimento dei suoi sforzi a favore degli ebrei polacchi Karski è stato nominato cittadino onorario d’Israele. Nel 1982 è stato piantato un albero in suo onore nel viale dei Giusti tra le Nazioni a Gerusalemme.
Il racconto di Jan Karski
[Tratto da I Giusti tra le Nazioni, edito da Zofia Lewin e Wladyslaw Bartoszewski, Earlscourt 42 Publications Ltd., Londra 1969]
Poco prima della mia partenza dalla Polonia il delegato del governo polacco a Londra e il comandante dell’esercito clandestino [AK] organizzarono per me un incontro con due uomini che avevano occupato posizioni di rilievo all’interno della comunità, e che ora dirigevano il lavoro della resistenza ebraica. Uno era il capo dell’organizzazione sionista, l’altro aveva guidato l’Alleanza socialista ebraica o Bund. Il secondo aveva anche il difficile e pericoloso compito di dirigere i lavori di uno speciale dipartimento dell’ufficio delegato del governo polacco, che organizzava le operazioni di soccorso per la popolazione.
(…)
La prima cosa che ho capito sedendo a parlare con loro nel silenzio serale di una Varsavia di periferia è stata che la loro situazione era senza speranza. Per loro, per i poveri ebrei polacchi, questa era la fine del mondo. Per loro e per i loro compagni non c’era via d’uscita. Inoltre questa era solo una parte della loro tragedia e solo in parte la causa della loro disperazione e della loro agonia. Non avevano paura di morire e infatti accettavano la morte come se fosse un evento quasi inevitabile. A questa consapevolezza si aggiungeva l’amara realizzazione che in questa guerra, per loro, non c’era alcuna possibilità di vittoria di nessun tipo. Per loro non ci sarebbe stata alcuna delle soddisfazioni che a volte addolciscono la prospettiva della morte. Il capo sionista ha messo subito le carte in tavola.
"Voi altri polacchi siete fortunati", ha esordito. "Anche voi state soffrendo. Molti di voi moriranno, ma quanto meno la vostra nazione sopravviverà. Dopo la guerra la Polonia risorgerà. Le vostre città saranno ricostruite e le vostre ferite lentamente guariranno. Da questo oceano di lacrime, dolore, rabbia e umiliazione il vostro Paese emergerà di nuovo, ma allora gli ebrei polacchi non esisteranno più. Noi saremo morti. Hitler perderà la sua guerra contro contro tutto ciò che è umano, giusto e buono, ma avrà vinto la sua guerra contro gli ebrei polacchi. No, non sarà una vittoria: il popolo ebraico sarà stato assassinato.
(…)
Improvvisamente il capo del Bund ebbe un’idea: "Io conosco l’Occidente. Tu negozierai con gli inglesi e trasmetterai loro a voce il tuo rapporto. Sono sicuro che apparirà più convincente se potrai dire: 'Io l’ho visto'. Possiamo organizzare per te una visita al ghetto. Va bene? Se la risposta è sì, io verrò con te e mi occuperò della tua sicurezza". ...
C’era un tunnel scavato sotto quell’edificio il cui retro faceva parte integrante del muro del ghetto e la cui facciata si aspriva sul lato ariano; siamo passati senza problemi. E improvvisamente sbucammo in un mondo completamente diverso. Il capo del Bund che fino a poco prima era sembrato un nobile polacco improvvisamente si piegò come un ebreo del ghetto, come se fosse stato lì da sempre. Questa era la sua natura, il suo mondo. Camminavamo lungo le strade, lui alla mia sinistra e non parlavamo molto. C’erano cadaveri nudi abbandonati lungo le strade. Gli ho chiesto: "Perché sono rimasti qui?” Mi ha risposto: "Questo è un problema. Quando un ebreo muore e la famiglia vuole seppellirlo, i parenti devono pagare. Non hanno soldi e allora gettano i loro morti sulla strada. Anche il più misero straccio vale qualcosa ed è per questo che li abbandonano nudi. Quando i corpi nudi finiscono sulla strada diventano un problema del Consiglio ebraico".
Donne che allattavano i figli davanti a tutti, senza pudore. Solo che non avevano seni... I loro petti erano completamente piatti. Bambini piccolissimi ci guardavano con occhi da pazzi. Questo non era questo mondo: non c’era più nulla di umano.
Le strade erano affollate, piene di gente, come se tutti vivessero all’aperto. Mettevano in mostra le loro poche povere cose; ognuno cercava di vendere quello che aveva: tre cipolle, due cipolle, un paio di puntine. Tutti vendevano qualcosa, tutti chiedevano la carità. Fame. Bambini terrificanti. Bambini che correvano da soli. Bambini che sedevano accanto alla madre. Non c’era più nulla di umano, era una specie di inferno.
Gli ufficiali tedeschi avevano l’abitudine di passare attraverso questa parte centrale del ghetto. I soldati tedeschi in licenza prendevano una scorciatoia camminando attraverso il ghetto. Così anche allora dei tedeschi in uniforme stavano passando di lì. Piombò il silenzio. Tutti li guardavano passare, congelati e ammutoliti dalla paura. I tedeschi erano sprezzanti: era evedidente che non guardavano a questo sporchi sub-umani come se fossero esseri umani. Improvvisamente ci fu il panico. Gli ebrei scappavano dalle strade lungo cui noi stavamo camminando. Corremmo verso una delle case e il mio compagno sussurrò: “La porta, aprite la porta”. Qualcuno aprì ed entrammo. Siamo corsi verso le finestre che si affacciavano sulla strada. Poi siamo tornati indietro verso la donna che era rimasta accanto alla porta. Il mio compagno disse: "Non avere paura, siamo ebrei". Mi ha spinto verso la finestra: “Guarda”. Due bei ragazzi che indossavano l’uniforme della Hitlerjugend stavano passando in quel momento. Parlavano tra di loro. Ad ogni loro passo gli ebrei si disperdevano in ogni direzione, si dileguavano. Improvvisamente uno ha messo la mano in tasca e senza un attimo di esitazione ha sparato. Il suono di un vetro rotto, il grido di un uomo. L’altro si è congratulato con lui e se ne sono andati per la loro strada.
Ero paralizzato. E allora la donna ebrea che doveva aver capito che io non ero ebreo mi ha abbracciato: "Vattene, non è per te. Vattene".
Abbiamo lasciato la casa e siamo usciti dal ghetto. Il mio compagno mi ha detto: "Non hai visto tutto. Vuoi tornare? Verrò con te. Voglio che tu veda tutto".
Siamo tornati il giorno seguente passando attraverso lo stesso edificio. Questa volta lo shock non è stato troppo grande e sono riuscito a natore altre cose. Puzza, sporco. Un puzzo soffocante. Strade sporche. L’atmosfera eccitata, tesa, frenetica. Questa era piazza Muranowski. In un angolo dei bambini giocavano con degli stracci. Si gettavano gli stracci l’uno contro l’altro. Il mio compagno mi ha detto: "Guarda: I bambini stanno giocando. La vita continua". Ho risposto: "Non stanno giocando. Stanno solo facendo finta". Lì vicino c’erano parecchi alberi malati. Siamo passati oltre senza parlare con nessuno. Abbiamo continuato a camminare così per circa un’ora. Una volta mi ha fermato: "Guarda questo ebreo", un uomo che se ne stava in piedi immobile. Ho chiesto: "È ancora vivo? " -- "Certo, è ancora vivo", ha risposto. "Ricorda, per favore: sta morendo. Sta solo morendo. Guardalo, per favore, e raccontalo. Tu lo hai visto: per favore, ricorda". Abbiamo proseguito. Orrore! Di tanto in tanto mi sussurrava: "Devi ricordare questo e questo e quello. E questa donna". Spesso gli ho chiesto: "Che cosa sta succedendo a queste persone?" Mi ha risposto: "Stanno morendo. Non dimenticare. Per favore, ricorda".
Abbiamo continuato così per circa mezz’ora e poi siamo tornati indietro. Non ce la facevo più. "Per favore, portami fuori di qui".
Non era il mondo quello che avevo visto. Non c’era nulla di umano. Non ero stato là, non appartenevo a quel luogo. Non avevo mai visto niente di simile prima in vita mia.

Nessun commento: