sabato 2 ottobre 2010


Giordano

Sugli ebrei pesa un’affabulazione mortifera

Che cosa si intende per “delegittimare” Israele? Si ha l’abitudine di tracciare un parallelo tra “legittimità” e “legalità”: “legale” è ciò che è conforme alle leggi, alla lettera dei trattati e dei contratti, mentre “legittimo” indica ciò che è conforme allo spirito delle leggi. Durante la Seconda guerra mondiale, il governo della Francia Libera del generale De Gaulle era illegale, poiché l’instaurazione del regime di Vichy era avvenuta mediante un voto libero del Parlamento. Tuttavia rivendicava la propria legittimità poiché si presentava come l’incarnazione dello spirito della Francia.E’ sulla base di tale legittimità che successivamente il generale De Gaulle fondò un nuovo regime: la Quinta Repubblica. Allora, la legittimità ispirò una nuova legalità. Quando si “delegittima” Israele, si contesta l’essenza stessa della sua esistenza, che viene definita ingiusta e priva di fondamento sul piano morale (e non legale). E’ quello che i post sionisti israeliani hanno definito “il peccato originale di Israele” prendendo a prestito, proprio loro, gli iperlaici, la terminologia dalla teologia paolina. Contestare la giustezza d’Israele nel suo spirito è in realtà una vecchia storia – paolina, per l’appunto – che sta alla base dell’antigiudaismo. Attualmente ci troviamo di fronte a un simile caso emblematico, in cui il “nuovo Israele”, quello “secondo lo spirito”, è incarnato dai palestinesi, mentre il “vecchio Israele”, quello “secondo la carne”, l’Israele condannato, è il reale Israele, il popolo ebraico.Questo giudizio è grave. Apre le porte alla distruzione degli ebrei ed è questo l’aspetto inquietante nell’attuale evoluzione. Delegittimando Israele, si comincia a giustificare un ulteriore passaggio, in cui sarà giusto e buono farlo scomparire. Si bestializza il nemico prima di assestargli il colpo mortale. Oggi il delirio su che cosa sia Israele e sulla condizione dei palestinesi ha raggiunto l’apice, senza che vi sia alcuna corrispondenza con la realtà.L’Europa e il mondo arabo affondano in un’affabulazione mortifera che prepara giorni bui per il popolo ebraico perché contestare l’esistenza stessa dello stato d’Israele equivale a prendersela con tutto il popolo ebraico. Israele incarna infatti di per sé il destino degli ebrei in quanto popolo, collettività. Questa delegittimazione va d’altronde a braccetto con le teorie più fumose sull’inesistenza obiettiva di un popolo ebraico. La Shoah ha costituito la dimostrazione che gli ebrei, che lo vogliano o meno, hanno un destino collettivo. Benché si trattasse di singoli cittadini di diverse nazionalità europee, sono stati distrutti in massa come fossero un popolo straniero in seno all’Europa, privo di qualsiasi base di esistenza possibile nell’Europa democratica illuminata. Lo stesso è accaduto agli ebrei del mondo arabo, espulsi o esclusi in massa dagli stati arabi divenuti indipendenti. Rifiutare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione e quindi a uno stato, delegittimandolo, vale a dire negare loro il diritto di appropriarsi in libertà del loro destino collettivo, rappresenta un’ingiustizia di base e una profonda amoralità.E’ una prima tappa nel processo che si è innescato della sua distruzione e dell’annientamento di altri sei milioni di ebrei, cioè della popolazione israeliana. Il mondo deve sapere che gli ebrei non accetteranno mai questa eventualità e che sono pronti a sconvolgere l’ordine del mondo, se questo avvenisse. Sono stati raggiunti dei limiti, una soglia è stata oltrepassata. L’accusa di peccato originale si basa su una riscrittura menzognera della storia. La creazione d’Israele non è avvenuta a spese di un popolo innocente. Si è prodotto uno scambio di popolazioni tra gli stati arabi che, non appena ottenuta l’indipendenza, hanno cacciato e spogliato dei propri averi 900.000 ebrei e i 600.000 rifugiati palestinesi colpevoli di appartenere alla coalizione che ha dichiarato guerra allo stato nascente d’Israele e di rifiutare qualsiasi spartizione del territorio del Mandato britannico dove, nel frattempo, era stato creato uno stato arabo, la Transgiordania, divenuta Giordania in seguito all’invasione della Giudea e Samaria. Il progetto di delegittimare Israele si ripercuoterà su tutti gli stati democratici, soprattutto gli stati europei. Potrebbe rivelarsi una tappa determinante sulla via della loro stessa delegittimazione, nella prospettiva di un’Europa sotto l’influenza arabo-islamica che qualsiasi persona democratica deve rifiutare.di Shmuel Trigano 1 Ottobre 2010,http://www.loccidentale.it/ Shmuel Trigano è Accademico dell’Università Ouest Nanterre La Défense di Parigi e direttore della rivista Controverses. Ha promosso in Francia l’appello pro Israele “Salviamo la ragione”. Tratto da "Il Foglio"©


Le parole di Ciarrapico arrivano in Israele: “Berlusconi è come Mussolini”
La polemica sulle esternazioni del senatore del Pdl raggiungono la stampa israeliana che riporta le osservazioni antisemite del dibattito parlamentare italiano. Scatenando i commenti dei lettori. Un insulto antisemita, è stato lanciato ieri – scrive Haaretz - a membri dissidenti del Pdl, il partito del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. In vista di un voto di fiducia su una serie di proposte del governo presentate da Berlusconi, il senatore Giuseppe Ciarrapico ha accusato quelli che all’interno del partito sono contro le misure, di essere dei “traditori“. Il gruppo di dissidenti è capeggiato da Gianfranco Fini, un ex neo- fascista che si è allontanato dal punto di vista della destra più tradizionale negli ultimi due decenni. Attualmente è Presidente della Camera dei Deputati, la camera bassa del parlamento d’Italia.BOLLARONO FINI COME TRADITORE - Nel 2003, una visita di Fini in Israele – continua il quotidiano – durante la quale aveva denunciato i crimini nazisti e fascisti nella seconda guerra mondiale, scatenò polemiche. Le immagini dove lo si vedeva indossare una kippah, il tradizionale copricapo ebraico, a Yad Vashem arrivarono a Roma dove lo bollarono come traditore. Il senatore Ciarrapico ha chiesto ieri all’assemblea: “Fini ha già ordinato le kippah?”, aggiungendo: “Chi tradisce una volta tradisce sempre“. Il capo dell’opposizione al Senato del Partito Democratico, Anna Finocchiaro, ha invitato Berlusconi “a dissociarsi in modo ufficiale e chiaro dalle osservazioni inaccettabili antisemite fatte dal senatore Ciarrapico al Senato“.NOVELLI BENITO MUSSOLINI - Inutile dire che i commentatori del quotidiano israeliano si sono scatenati e Colin Wright scrive:Neo-fascisti illuminati stanno spalla a spalla con Israele contro gli antisemiti? Mi sono perso qualcosa?Michael aggiunge:Il problema non è solo Ciarrapico, che è un buon amico da tempo di Berlusconi. C’è un altro senatore che si chiama Dell’ Utri, a lungo socio in affari di Berlusconi, che va in giro a dire che Mussolini era una brava persona, piena di amore. Lui va in giro per l’Italia con alcuni falsi libri di Mussolini a pubblicizzare il fascismo e Mussolini!Equalibriumatic ne fa un problema di razza,Non solo sono anti-semiti non estinti, amico, non sono nemmeno tra le specie in pericolo di estinzione!E ancora, Mark Blumenthal Gary:Sono come dei potenziali Benito Mussolini. Manifestamente inadatti a ricoprire cariche pubbliche.E per non dilungarci oltre, arriva pure il commento speranzoso di David Braham Nigel:Il senatore Ciarrapico è un Kipper (aringa affumicata) e la sua ignoranza è superata solo dalla sua brutta faccia fascista. Sono sicuro che Berlusconi condannerà questo commento idiota.Speriamo solo che qualcuno non vada da David a riferirgli che dopo essersi dissociato dalle dichiarazioni del suo amico Ciarrapico, il premier ha raccontato una barzelletta sugli ebrei.


La pace tra israeliani e palestinesi? Adesso meglio di no

Poco tempo fa, durante una riunione informale di mandarini della politica estera e di mercanti d’opinione, l’ex capo di una nazione alleata ha detto di aver consigliato al presidente Obama di spingere il più possibile per un veloce accordo sul conflitto israelo-palestinese. Gran parte dei partecipanti alla riunione ha assentito col capo. Io mi sono morso la lingua e ho aspettato un momento di pausa per attaccare bottone, nei pressi dei dispenser di tè e caffè, con quell’uomo di stato. Posso farle una domanda? Lui, gentilmente, mi ha risposto di sì.Signore, se lei fosse Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità palestinese, farebbe la pace con gli israeliani? Lei si rende conto che quella pace porterebbe enormi benefici alla sua gente e, allo stesso modo, agli israeliani. D’altro canto, sa anche che mentre voi detenete il potere nella West Bank, Hamas comanda a Gaza. E Hamas – per ragioni di natura teologica e politica – si rifiuta di accettare l’esistenza di una nazione mediorientale che non sia a guida musulmana.Inoltre, Hamas è finanziata e preparata da un regime iraniano che, anch’esso, vorrebbe vedere lo stato d’Israele cancellato dalla cartina geografica. Teheran sta cercando di dotarsi, in tempi brevi, di armi nucleari da utilizzare per il perseguimento di quell’obiettivo.Non crede che se dovesse firmare un trattato di pace con Israele, come ha fatto nel 1979 il presidente egiziano Anwar Sadat, farebbe la stessa fine di Sadat, assassinato nel 1981da jihadisti autoproclamati?(Nota storica: La fatwa che autorizzava l’assassinio di Sadat era stata emessa da Omar Abdel-Rahman, un religioso egiziano che in seguito si sarebbe trasferito negli Stati Uniti, nelle cui moschee avrebbe predicato e lanciato appelli per il “jihad contro gli infedeli”. La sua carriera si è interrotta nel 1996, quando il procuratore federale Andrew C. McCarthy ha dato ad Abdel-Rahman, conosciuto anche come lo “sceicco cieco”, il carcere a vita per il suo ruolo nel primo attacco al World Trade Center).L’uomo di stato ha ammesso che porre fine al conflitto in questo momento, per Abbas, richiederebbe coraggio. Ciò vuol dire che avrà bisogno di un forte sostegno da parte di chi fra di noi si è impegnato per la pace. Ho chiesto: come dovremmo dimostrare questo sostegno? Il suo paese dovrebbe fornire delle guardie del corpo ad Abbas? E Abbas dovrebbe accettare una guardia pretoriana composta da stranieri? Sarebbe situazione scomoda, ha concesso. Ma a problemi del genere possiamo trovare soluzioni.L’ho incalzato: quali concessioni ritiene debba fare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nella consapevolezza che un trattato di pace potrebbe condurre al rovesciamento di Abbas e a un nuovo rimpiazzo che difficilmente si sentirà in obbligo di mantenere una qualunque promessa fatta da Abbas?I ritiri d’Israele dal Libano meridionale e da Gaza non hanno favorito la causa della pace. Al contrario, entrambi i territori sono diventati basi terroristiche dalle quali sono stati lanciati missili verso le città israeliane. Cosa potrebbe impedire che accada la stessa cosa nella West Bank, che è adiacente ai più popolosi centri israeliani?Lui ha detto che ci sarà bisogno di forze di pace internazionali. Io ho osservato che forze di pace internazionali erano state stanziate nel Libano meridionale alla conclusione della guerra iniziata lì da Hezbollah nel 2006. Ciò nonostante, Hezbollah ha importato migliaia di missili che, proprio in questo momento, sono puntati su Israele. Non è ormai evidente che non si può fare affidamento sulle forze internazionali per la difesa degli israeliani? E anzi, non è ovvio che le Nazioni Unite – ora regolarmente manipolate dall’Iran e dagli altri membri dell’Organizzazione della conferenza islamica – sono divenute, de facto, alleate dei nemici d’Israele?E allora, su queste basi, consigliare al presidente Obama di spingere il più possibile per un veloce accordo sul conflitto israelo-palestinese è davvero la condotta più saggia? Non sembra probabile che questo tentativo possa condurre, paradossalmente, a ulteriori spargimenti di sangue? Lui ha ricordato che si tratta di un problema complesso, troppo complesso per essere affrontato durante la pausa di una conferenza. Poi, educatamente, si è congedato. La sua prospettiva, comunque, resta saggezza convenzionale, a maggior ragione da quando all’inizio del mese, dopo un anno e mezzo di stallo, sono ripartiti i negoziati diretti fra palestinesi e israeliani. Quello che - temo - lui e altri stanno mancando di riconoscere è che Israele è in guerra con i palestinesi, con gli arabi, e con gran parte del “mondo musulmano” non a causa di quello che fa, ma a causa di quello che è: l’ultimo, piccolo, pezzo di terra tra il Marocco e il Pakistan non ancora sotto una qualche forma di potere islamico. Se a questo punto i negoziati non possono essere il percorso di pace, cosa può esserlo? La sconfitta, su fronti multipli, di quelli che il presidente Obama preferisce definire “estremisti violenti”. Se si facessero fallire le ambizioni nucleari iraniane, se si riuscisse a indebolire ulteriormente al-Qaeda, se Hamas perdesse forza a Gaza e se Hezbollah non riuscisse a farsi largo con prepotenza fino al potere in Libano, potrebbe finalmente avere inizio un significativo “processo di pace”. Riducete la pressione esercitata dai jihadisti, e i palestinesi e gli israeliani potrebbero trovare il modo di vivere da buoni vicini.L’idea che per israeliani e palestinesi possa esserci una pace separata è affascinante, come lo è la teoria che una tal pace sottrarrebbe l’energia ai regimi, ai gruppi e ai movimenti jihadisti che incitano allo scontro di civiltà con l’Occidente. Ma il concetto è fittizio e la teoria è sbagliata, ho fatto del mio meglio per comunicarlo all’ex capo di stato. Non sono sicuro di esserci riuscito.di Clifford D. May 2 Ottobre 2010, http://www.loccidentale.it/
Clifford D. May è Presidente della Foundation for Defense of Democracy (FDD) di Washington, DC.


«Israele sopravvive se resta piccolo»

Ugo Tramballi, 02 ottobre 2010 http://www.ilsole24ore.com/
La paura più grande per un demografo è di non essere ascoltato quando legge le sue carte e indica il destino di un popolo. Quella di Sergio Della Pergola, demografo israeliano di fama mondiale, è che Israele ignori di essere al suo bivio esistenziale: dal Mediterraneo al Giordano gli arabi crescono più degli ebrei. Più si occupano territori meno si afferma il carattere ebraico di Israele: la ragione per cui è nato lo stato.Terra e demografia sono i pilastri del conflitto. Un sondaggio del giornale Ma'ariv rivela che per gli israeliani il problema demografico è "la minaccia": più del programma nucleare iraniano, del terrorismo e di Hezbollah. Rinunciando a fermare gli insediamenti, la negazione di uno stato palestinese è evidente e l'annessione della Cisgiordania la conseguenza implicita. Della Pergola trae il risultato, precisando di non partire «dalle mie convinzioni politiche ma dall'analisi. Già il 15% della popolazione israeliana è araba», spiega. «Con i palestinesi di Cisgiordania salirebbe al 35% circa. Se diamo loro tutti i diritti civili e si organizzano in un partito, avranno il gruppo parlamentare più grande della Knesset. In un governo di coalizione Abu Mazen potrebbe chiedere gli Esteri, Salam Fayyad il Tesoro. Non riconoscere diritti a una sezione così importante della popolazione è insostenibile, farlo porterebbe a questo risultato».La paura di Della Pergola di non essere ascoltato da Bibi Netanyahu, è evidente. Più di cinque anni fa Ariel Sharon invece lo aveva fatto: tolse le colonie dalla Striscia di Gaza dove novemila ebrei vivevano insieme a un milione e mezzo di arabi. È una calda serata di Sukkot, la festa che celebra l'epoca in cui, lasciato l'Egitto gli ebrei vivevano nel deserto sotto le capanne. Per tradizione, sul balcone, in giardino, nel cortile dei condomini o nella residenza del capo dello Stato, ogni famiglia erige una tenda. Anche Della Pergola accoglie gli ospiti sotto la sua sukkah. Crede fortemente nelle tradizioni e nella necessità di uno stato per gli ebrei. È per questo che emigrò da Milano più di 40 anni fa, decidendo di condividere gli oneri che l'israelianità comporta, guerre comprese. Anche se preferisce non definirsi fuori dai suoi notevoli titoli accademici, è un nazionalista ma non a prescindere da ciò che la demografia gli dice. Tre settimane fa ha pubblicato le ultime statistiche sul popolo ebraico. Sono 13 milioni e mezzo gli ebrei nel mondo; 5,7 in Israele; 5,3 negli Stati Uniti. Della Pergola sottolinea che la popolazione ebraica d'Israele cresce poco ma costantemente: 80mila l'anno. Tuttavia non basta per sostenere la demografia degli arabi.
«La situazione è questa», spiega. «Più di due milioni di palestinesi in Cisgiordania, 270mila a Gerusalemme Est, un milione e mezzo a Gaza; 1,2 milioni gli arabi cittadini d'Israele. Senza Gaza siamo già al 61% di ebrei e 39 di arabi. Ma è illusorio escluderla perché quando i palestinesi partecipano alla trattativa di pace contano anche Gaza. Nell'analisi dei dati dobbiamo includere i 200mila lavoratori stranieri in Israele e i 300mila del milione d'immigrati dalla Russia che non sono ebrei. Se contiamo tutto questo, dal Mediterraneo al fiume Giordano siamo già al 50% di ebrei e 50% non ebrei».Non potendo sostituire l'ideologia alla matematica, il movimento dei coloni sostenuto da una parte della destra di governo e da alcuni milionari americani, ha tentato di confutare la demografia ufficiale con altri dati: in Cisgiordania vivono un milione e mezzo di palestinesi, meno di quanto dica Della Pergola. «La questione fondamentale non è la demografia, ma la natura dello stato», ribatte. «Anche se avessero ragione, fra circa un ventennio saremmo 54 a 46. Può il 54% pretendere che un inno e una bandiera siano l'inno e la bandiera di quello stato?».In questo vuoto d'ingegneria nazionale democratica, l'illusione della formula di uno stato per due popoli guadagna sempre più terreno sull'obiettivo del processo di pace: due stati per due popoli. Finora la prima era sostenuta dall'estrema sinistra israeliana e dai molti palestinesi convinti di vincere con la demografia il conflitto politico. Ora ci crede anche la destra di governo, il sionismo revisionista. «Con le sue incertezze riguardo alla moratoria sulle colonie, Bibi Netanyahu è diventato la sinistra del suo governo», dice Della Pergola. «Rinunciando alla Cisgiordania ha l'occasione storica di essere un grande leader. Viene da una famiglia nazionalista, ha combattuto, ha girato il mondo. Ha tutti gli elementi per prendere la decisione». Sergio Della Pergola non è un intellettuale di sinistra: crede che il processo di pace debba concludersi col riconoscimento della natura ebraica di Israele. «Uno stato ebraico nazionale, non religioso: è un concetto civile. La Norvegia si definisce luterana e protestante».È ancora la demografia che secondo Della Pergola offre una soluzione politica. Rinunciare alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est come si è fatto con Gaza; annettere i blocchi di colonie concedendo alla Palestina quell'area in Galilea, il Triangolo, dove vivono 250mila arabi israeliani. «Trasferendo i confini, non la popolazione». È un'ipotesi illiberale se quella popolazione vuole restare in Israele: ma potrebbe essere un male minore per un bene superiore. Rifacendo i calcoli demografici su queste premesse, gli ebrei d'Israele sarebbero il 90%. «E questo definirebbe i caratteri dello stato nazionale», conclude Della Pergola.

Sergio Della Pergola è nato a Trieste nel 1942 e si è trasferito in Israele nel 1966. È professore all' Avraham Harman Institute of Contemporary Jewry, dell'Università ebraica di GersusalemmeAutorità mondialeDella Pergola è riconosciuto in tutto il mondo come un'autorità indiscussa nello studio della demografia e della statistica applicate alla popolazione ebraica. Ha introdotto il tema della demografia nell'analisi del conflitto israelo-palestinese È autore, tra l'altro, di «Israele e Palestina, la forza dei numeri» (nella foto qui sopra), edito da Il Mulino



piazzetta di un kibbutz

Israele pronta a un compromesso

"Pronti a raggiungere un'intesa sull'estensione del congelamento dei nuovi insediamenti in Cisgiordania"
Israele è pronto ad arrivare ad un 'compromesso concordato' sull'estensione della moratoria sui nuovi insediamenti in Cisgiordania. Un funzionario ha spiegato che Israele è pronto ad arrivare ad un compromesso accettato da tutte le parti sul congelamento degli insediamenti, che non potrà essere totale. Il premier Netanyahu è impegnato ad arrivare ad una intesa prima della fine della moratoria, che scade il 26 settembre. La questione delle colonie è uno dei nodi principali dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi, ripresi all'inizio del mese con la mediazione Usa.Già in varie sedi il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva detto che Israele stava facendo "grandi sforzi per raggiungere questo compromesso prima della scadenza della moratoria". 24/9/2010 http://www.voceditalia.it/


bombardamento egiziano su Tel Aviv, 1948

Di Avi Beker, già direttore generale del World Jewish Congress

Considerazioni di carattere demografico hanno fatto pendere la bilancia del governo israeliano a favore della decisione di appoggiare il piano di disimpegno unilaterale di Ariel Sharon. Analoghe considerazioni demografiche hanno spinto il governo a inserire nella decisione una clausola che dice: “Il governo vede con favore i continui sforzi di organizzazioni umanitarie ed altre agenzie che si occupano dello sviluppo regionale e che aiutano la popolazione palestinese”.I ministri, e probabilmente anche la maggior parte dell’opinione pubblica israeliana, sono giunti alla conclusione che, se è impossibile mantenere sotto controllo 1,2 milioni di palestinesi risentiti e pigiati nella striscia di Gaza, dunque vanno incoraggiate le organizzazioni di volontariato affinché si assumano la responsabilità di fare sforzi umanitari nella striscia di Gaza. Un lavoro di volontariatio, suggerisce il governo israeliano, che deve continuare fino a quando non verrà creato un apparato ufficiale internazionale che si occupi dello sviluppo economico palestinese.Ai primi di giugno si sono conclusi a Ginevra i lavori di una conferenza internazionale sull’assistenza ai profughi palestinesi sponsorizzata dall’ UNRWA (Relief and Works Agency), l’agenzia Onu per i profughi palestinesi. Vi hanno preso parte delegati di 67 paesi e 56 enti internazionali. I partecipanti hanno discusso progetti per organizzare le risorse necessarie per assistere milioni di profughi palestinesi. Sebbene molti dei delegati avevano probabilmente davanti agli occhi le immagini delle operazioni delle Forze di Difesa israeliane a Rafah, gli sponsor dell’agenzia Onu hanno fatto uno sforzo comune perché la discussione non venisse deviata su diatribe politiche. L’agenzia ha dichiarato che si è trattato della più grande conferenza di questo tipo organizzata in decenni di attività. I delegati si sono divisi in gruppi di lavoro e hanno affrontato vari temi professionali su sviluppo, gestione delle risorse, attività di assistenza sociale.Il budget dell’UNRWA nel 2003 è stato di 350 milioni di dollari, un quarto dei quali finanziati dagli Stati Uniti. Il sostegno all’agenzia dall’Europa è diminuito. Gli stati arabi non hanno dato praticamente nulla. Nel frattempo, stando ai dati dell’Onu, dal settembre 2000 si è registrata una drammatica crescita del numero di persone che chiedono assistenza nei territori dell’Autorità Palestinese: la cifra è passata da 130.000 a un milione e 100.000 persone. Anche la proporzione dei profughi che vivono sotto la linea di povertà è aumentata dal 20 al 60%. L’UNRWA oggi definisce i campi profughi come “ghetti urbani sovraffollati” affetti da gravi problemi sanitari, igienici e di povertà.L’UNRWA è diventata parte integrante della storia palestinese. La sua creazione rispondeva alla strategia araba di usare i campi profughi come un’arma sempre eternamente puntata contro lo stato di Israele. Le stesse dichiarazioni dei capi di stato arabi all’epoca in cui l’agenzia venne istituita confermano questa lettura. E infatti i leader arabi hanno poi approfittato dell’agenzia per impedire qualunque tentativo di costruire una nuova vita per i profughi al di fuori dei campi.I palestinesi sono gli unici profughi in tutto il mondo per i quali è stata creata un’agenzia Onu speciale, separata dall’Alto Commissariato per in Rifugiati. Su 150 milioni di profughi definiti come tali dalla fine della seconda guerra mondiale, quelli palestinesi sono fra i pochissimi che, dalla creazione di Israele nel 1948 a oggi, hanno mantenuto lo status di profughi.Dall’inizio nel contenzioso arabo-israeliano, fondamentalmente nella regione si è avuto un grande trasferimento di popolazione: parallelamente ai 650.000 profughi palestinesi, 900.000 ebrei vennero costretti a lasciare le loro case nei paesi arabi per trasferirsi in altri paesi, 650.000 di loro nelle tendopoli in Israele. La grande maggioranza di questi ebrei era stata espulsa a forza con una deliberata politica di “pulizia etnica”. Molti fuggirono in condizioni miserabili, a causa di nuove ondate di antisemitismo e violenza.L’approccio di Israele è stato tradizionalmente quello di rimandare la questione dei profughi, insieme al problema di Gerusalemme, alla fine del processo di pace. L’idea era che, dopo aver risolto le questioni territoriali e di sicurezza, la questione dei profughi avrebbe trovato una soluzione. Ma questo approccio venne demolito al vertice di Camp David dell’estate 2000: i partecipanti israeliani restarono spiazzati nello scoprire che il cosiddetto diritto dei profughi palestinesi (e dei loro discendenti) al ritorno all’interno di Israele era una delle prime e più importanti rivendicazioni dei palestinesi.Anche la sinistra israeliana restò sbalordita dall’intransigenza della posizione dei palestinesi su questo punto, tale da mettere potenzialmente a repentaglio l’esistenza stessa dello stato ebraico in un accordo finale. Divenne anche chiaro che i campi dell’UNRWA si erano trasformati in trampolini di lancio del terrorismo, sotto il controllo di estremisti che predicavano che il “diritto al ritorno” dovesse essere perseguito con ogni mezzo disponibile.La politica di ritiro unilaterale non offre una via plausibile per condurre negoziati sulla questione dei profughi palestinesi. Solo poche settimane fa, parlando in occasione dell’anniversario della “nakba” (catastrofe, cioè la nascita di Israele), Yasser Arafat ha ribadito che l’argomento profughi è cruciale e che i palestinesi non intendono fare compromessi su questo tema. E’ un tema che non è destinato a scomparire nemmeno se Arafat venisse sostituito, destinato a giocare un ruolo centrale in qualunque negoziato futuro.Dai dibattiti alla conferenza dell’agenzia Onu a Ginevra è emerso che le accuse all’amministrazione dei campi profughi e in particolare alla corruzione dell’Autorità Palestinese comportano la necessità di nuovi sistemi di monitoraggio e di gestione. Questo punto di vista è stato adottato oggi anche dagli Stati Uniti, dall’Europa e persino da alcuni ambienti arabi.L’esperienza del vertice di Camp David dimostra che quando si arriva alla questione dei profughi, Israele deve impegnarsi con uno sforzo creativo. Le mosse unilaterali, in questo caso, non bastano.(Da Ha’aretz, ) 29 settembre 2010 http://liberaliperisraele.ilcannocchiale.it/

Il primo conflitto arabo-israeliano: la guerra di indipendenza

Passarono solo poche ore dalla sua indipendenza, il 14 maggio 1948, perché Israele si ritrovasse in guerra. Cinque eserciti arabi, incluse anche le truppe dell’Iraq, attaccarono contemporaneamente lo Stato ebraico attraverso tutti i suoi confini; aerei da guerra egiziani bombardarono la città di Tel Aviv.Non fu solo Gerusalemme dunque ad essere assediata, ma anche molte altre città furono di fatto tagliate fuori dal resto del paese. Da Naharia per esempio, città fondata prima della seconda guerra Mondiale, per un periodo era possibile raggiungere Tel Aviv solo via mare. Sulla terraferma le due città erano scollegate e le forze arabe provenienti da est si avvicinarono a soli 10 km da Tel Aviv.Un’altra minaccia per la sopravvivenza di Israele arrivò dal nord, dove le truppe e i carri armati siriani attaccarono dalle alture del Golan diversi villaggi ebraici nei pressi del fiume Giordano, distruggendoli: riuscirono a raggiungere l’entrata del Kibbutz Deganya, dove il 20 maggio l’avanzata fu arginata. Ancora oggi uno dei carri armati siriani è all’ingresso del Kibbutz per ricordare quella battaglia.L’Israel Defence Force era in inferiorità numerica e di armamenti: tuttavia era meglio organizzata sul territorio (che non era vasto e quindi facilmente gestibile) ed era ben addestrata (anche perché la possibilità di un attacco arabo su vasta scala era stata già considerata dai più previdenti). In aggiunta a ciò, giunsero trenta aerei militari dalla Cecoslovacchia. La loro prima azione, eseguita dai primi quattro velivoli che giunsero in Israele, avvenne il 29 maggio contro le forze egiziane stanziate a meno di 32 km a sud di Tel Aviv, che si stavano preparando all’attacco. Aerei B17 giunsero dagli Stati Uniti guidati da piloti volontari appena in tempo per bombardare le truppe arabe stanziate nei pressi di Amman e Damasco. Cinquemila volontari, molti dei quali veterani degli Stati Alleati nella seconda guerra Mondiale, giunsero a combattere dalla parte di Israele: questi formarono il Mahal, acronimo di mitnavdei hutz laharetz (“volontari dall’estero”). Inoltre, una nave precedentemente destinata al trasporto degli immigrati illegali fu trasformata in nave da guerra e attaccò le truppe egiziane a Gaza. A nord della Striscia gli egiziani conquistarono Yad Mordechai, fondata nel 1943 da immigrati polacchi.Ma ben presto l’attenzione del governo israeliano, presieduto da Ben-Gurion, fu costretta ad incentrarsi, oltre che sui nemici arabi, anche sullo scontro interno tra l’Agenzia Ebraica e l’Irgun. Il leader del braccio armato, Menachem Begin, per armare il suo movimento tentò di far entrare illegalmente nel nuovo Stato delle armi sulla nave Altalena. Il 21 giugno Ben-Gurion, che vedeva con sospetto la creazione di un movimento militare indipendente in Israele, aprì il fuoco contro le truppe stanziate sulla costa per prevenire l’arrivo della Altalena, con il suo carico di armamenti (oltre che di immigrati). Le truppe dell’Irgun risposero al fuoco e gli ebrei si ritrovarono di fatto a combattere anche tra di loro nel bel mezzo della guerra per la sopravvivenza del loro Stato. Dalla nave comunque i nuovi arrivati nella regione combatterono valorosamente nel campo di battaglia, perdendo in molti casi la vita.Il lavoro diplomatico dell’ONU continuò anche dopo la Risoluzione del 1947: fu inviato nella regione come mediatore il conte Folke Bernadotte, che lavorò per nuovi accordi tra le parti, riuscendo ad ottenere diverse tregue momentanee. Una proposta da lui presentata prevedeva, tra le altre cose, l’istituzione di Haifa come porto libero, l’assegnazione della Galilea agli ebrei e del deserto del Negev e delle città di Lydda e Ramle (strategicamente importanti per il collegamento dello Stato ebraico con Gerusalemme) agli arabi. Inoltre, Bernadotte spinse per il ritorno degli arabi esuli dalle zone sotto il controllo ebraico o, in alternativa, per un risarcimento da parte dello Stato di Israele. Il conte definì “incidenti” gli attacchi perpetrati dagli arabi, cosa che fece indispettire la dirigenza ebraica, ma soprattutto i gruppi illegali. Accusato di essere filo-arabo, nel settembre del 1948 il conte fu assassinato dal gruppo Lehi in un attentato.Gli eserciti arabi continuarono la loro avanzata su tutti i fronti. All’inizio di luglio, gli egiziani conquistarono Kfar Darom, l’unico villaggio ebraico nella Striscia di Gaza. Nella valle del Giordano alcuni contadini ebrei furono cacciati dalla Legione Araba e i loro villaggi furono distrutti. Le truppe siriane e irachene tolsero ogni collegamento tra la zona ebraica di Gerusalemme e la costa, fino a quando non fu la brigata comandata da Yitzhak Rabin a liberarla e a ristabilire il controllo sul corridoio di Gerusalemme. Rabin aveva anche un piano per conquistare la zona est della città, ma non fu approvato dai suoi superiori e non poté procedere.A sud la guerra tra le truppe israeliane e quelle egiziane fu feroce e prolungata. Un ufficiale dell’esercito egiziano che combatté in guerra fu Gamal Abdel Nasser, futuro rais del paese. Solo nel febbraio del 1949 fu firmato un armistizio con la mediazione delle Nazioni Unite. Stando all’accordo, l’esercito israeliano dovette abbandonare le zone del deserto del Sinai che aveva conquistato e all’Egitto fu dato il controllo della Striscia di Gaza.L’11 marzo le truppe israeliane raggiunsero Umm Rash-rash, sulla punta nord del Golfo dell’Aqaba, issando la bandiera con la Stella di David nei pressi di quella che in passato era una stazione di polizia inglese: in circa un decennio Umm Rash-rash sarebbe diventata il porto, nonchè meta turistica, di Eilat.La guerra terminò con lo Stato di Israele che controllava un territorio decisamente più vasto di quello assegnatogli dall’ONU nel 1947, inclusi la zona ovest e il Corridoio di Gerusalemme; ma perse anche il controllo di molte zone importanti, come il quartiere ebraico, la città vecchia di Gerusalemme, la Galilea, le zone dell’Università Ebraica, dell’Hassadah Hospital e i vari villaggi ebraici nella zona della Valle del Giordano. Il costo della guerra, in termini di vite umane, fu elevato: su una popolazione totale di 650 mila persone morirono circa 4 mila soldati e 2 mila civili.Il 3 aprile del 1949, i negoziatori israeliani, tra cui Yitzhak Rabin, raggiunsero l’isola greca di Rodi per firmare un armistizio con la Giordania (nome che aveva assunto la Transgiordania dopo il 1948), che avrebbe avuto il controllo del West Bank e della zona orientale di Gerusalemme. Gli ebrei che vi abitavano dovettero abbandonare l’area e tornare in Israele.http://storiadisraele.blogspot.com/


L'Intifada e la realtà distorta dai media

http://www.agenziaradicale.com/mercoledì 29 settembre 2010 di ELENA LATTES
Il 28 settembre di 10 anni fa cominciava la cosiddetta seconda intifada che ha causato complessivamente oltre cinquemila morti. Due giorni dopo l'inizio, il 30 settembre, il New York Times pubblicò una fotografia di un giovane sanguinante davanti ad un soldato israeliano con la seguente didascalia: "Un poliziotto israeliano e un palestinese sul Monte del Tempio", dando l'impressione, quindi che fosse un povero ragazzo picchiato dai perfidi militari. In realtà il giovane era uno studente ebreo americano quasi linciato da una folla di palestinesi e salvato da un soldato israeliano druso. Tuvia Grossman, la vittima, non ricorda molto di cosa successe dopo il suo svenimento tra le braccia del poliziotto. Aveva molte ferite alla testa e riprese i sensi soltanto nell'ambulanza, mentre lo portavano in ospedale. "Ero stato picchiato dalla folla, ma ero riuscito ad urlare e per un momento essi indietreggiarono, così io riuscii a scappare. Corsi su per la collina e vidi un poliziotto che veniva verso di me... Avevo perso così tanto sangue quando lo raggiunsi, che caddi a terra svenuto." Racconta ora Tuvia in un'intervista al Jerusalem Post. Mentre il poliziotto, Gidon Tzfadi del villaggio di Kfar Sumei, riuscì a portare Grossman nell'ambulanza, salvandogli la vita, un fotografo dell'Associated Press riprese la scena, interpretandola in maniera del tutto differente. Il giorno dopo uscì quello scatto in diversi giornali e in particolare sul New York Times con la descrizione di cui sopra. Il padre di Tuvia vide suo figlio in prima pagina scambiato per un palestinese e telefonò alla redazione del noto quotidiano. La foto venne immediatamente ritirata, ma il danno era ormai fatto: l'icona della (presunta) brutalità israeliana aveva già fatto il giro del mondo. "Ero appena uscito da un terribile attacco, ero un ebreo che viveva in Israele e la foto sembrava mostrare l'esatto contrario di quello in cui io credo. - ricorda il ragazzo di 10 anni fa che nel frattempo è diventato un avvocato e ora lavora in uno studio a Tel Aviv - Arrabbiato e sconvolto non sono gli aggettivi più adatti a descrivere il mio stato d'animo. Piuttosto mi sono sentito frustrato perché non potevo cambiare le cose nonostante fossi stato ripreso in una foto di cui tutti parlavano, ma della cui veridicità nessuno si curava. Quell'immagine si trova ancora in alcuni siti egiziani difensori della "causa palestinese", insieme ad altre falsificazioni, come le foto taroccate che furono pubblicate dalla Reuters durante la guerra del Libano nel 2006 e quelle del conflitto di Gaza del 2008/09. Il direttore di Honest Reporting, Simon Plosker, ha segnalato una lunga lista di casi in cui i media internazionali hanno pubblicato fotografie che in qualche modo distorcevano fatti riguardanti il conflitto arabo-israeliano. Il Daily Telegraph, per esempio, ha usato recentemente le foto di Gaza del 2008-09 per mostrare l'attuale vita nella Striscia, mentre la Reuters ha tagliato ad arte immagini che ritraevano gli avvenimenti della Mavi Marmara "censurando" i soldati israeliani feriti. Gli errori sono stati ammessi, ma, come in altri casi, il danno diventa ormai irrimediabile. "Diverse possono essere le cause alla base di queste distorsioni - spiega Plosker - a volte dipende dal fotografo, altre dalla redazione o da un solo redattore. Il nostro scopo in Honest Reporting è quello di far sapere ai lettori che ciò che vedono non rappresenta sempre la realtà. Ammetto che noi siamo a favore di Israele, ma questo non entra in conflitto con la richiesta di parametri più professionali".
Tutto questo succede anche in altri contesti ma, per esempio in confronto alle guerre in Iraq e Afghanistan, ci sono molte più immagini false provenienti dal conflitto israelo-palestinese.
"È ben noto che quest'ultimo ha una copertura mediatica sproporzionata rispetto a simili situazioni in altre aree del mondo" commenta Miri Eisen, già consulente del ministero delle telecomunicazioni. Il ruolo delle organizzazioni come HR è oggi ben più importante che in passato, poiché la diffusione di immagini e notizie distorte è più larga e veloce con i nuovi mezzi tecnologici e sfugge facilmente al controllo. "Grazie al lavoro come il nostro - prosegue Plosker - la gente ora sa che non può credere a tutto quello che legge, vede e sente nei media. Ovviamente resta il fatto che una foto vale più di mille parole e non c'è dubbio che queste potenti immagini vengono ricordate senza grandi difficoltà." Tuvia Grossman concorda in pieno: "Sebbene il Times stampò una correzione, alcuni miei cugini in Brasile hanno assistito a manifestazioni in cui venivano esposti poster con il mio ritratto per dimostrare la brutalità israeliana. In ogni caso quel che lascia più perplessi è il fatto che nonostante l'ammissione, i media sembrano non imparare dai propri errori e continuano a commetterne".

venerdì 1 ottobre 2010


Gerusalemme: soldati in visita allo Yad Vashem
Hamas: Arafat ci ordinò di compiere stragi in Israele

Da un articolo di Khaled Abu Toameh
L’allora presidente dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat (1929-2004) ordinò a Hamas di lanciare attacchi terroristici contro Israele non appena si rese conto che i colloqui di pace con Israele non andavano nella direzione che lui voleva. È quanto ha rivelato martedì Mahmoud Zahar, uno dei principali capi di Hamas nella striscia di Gaza.“Il presidente Arafat diede istruzione a Hamas di compiere un certo numero di operazioni militari nel cuore dello stato ebraico dopo che aveva realizzato che i suoi negoziati con il governo israeliano di allora erano falliti”, ha detto Zahar parlando a studenti e docenti dell’Università Islamica di Gaza. Zahar non ha specificato quando e come Arafat diede a Hamas l’incarico di lanciare le “operazioni militari”, per lo più attentati suicidi che facevano strage di civili israeliani. Si ritiene tuttavia che il riferimento sia alla reazione di Arafat dopo il fallimento del summit di Camp David del luglio 2000.Questa è la prima volta che un alto esponente di Hamas rivela pubblicamente che perlomeno una parte degli attentati esplosivi suicidi commessi da Hamas durante la “seconda intifada”, scoppiata esattamente dieci anni fa, furono compiuti su diretto ordine di Arafat. Finora l’opinione più diffusa era che Arafat avesse ordinato di compiere attentati terroristici contro Israele soltanto ai miliziani del suo movimento, il Fatah. Secondo varie testimonianze, Arafat ordinò al braccio armato di Fatah, le Brigate Martiri di al-Aqsa, di lanciare attacchi terroristici contro Israele dopo essersi reso conto che il governo dell’allora primo ministro israeliano Ehid Barak non si sarebbe piegato a tutte le sue richieste. (L’ondata di attentati stragisti degli islamisti di Hamas a partire dagli anni ’90 veniva invece letta dalla quasi totalità degli osservatori come una strategia volta a mettere in difficoltà lo stesso Arafat.)Nel suo discorso dell’altro giorno all’università, Zahar ha sostenuto che la decisione di Arafat di negoziare con Israele fu uno dei fattori che portarono al suo “assassinio” (sic). Zahar ha definito quella decisione un grave sbaglio e un errore tattico da parte di Arafat. Zahar ha poi esortato l’attuale presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a ritirarsi immediatamente dai colloqui con Israele, aggiungendo che oggi Hamas ha migliorato molto le proprie capacità di introdurre clandestinamente nella striscia di Gaza armi e altre forniture militari, in preparazione del prossimo scontro armato con Israele. L’esponente di Hamas ha concluso affermando che un numero sempre crescente di palestinesi sono convinti che la “lotta armata” è l’unico modo per trattare con lo stato ebraico.(Da: Jerusalem Post, 29.9.10) http://www.israele.net/


Economia: Israele si lancia nel mercato delle energie alternative

Israele ha deciso di diventare un punto di riferimento commerciale per le compagnie che sviluppano progetti legati all’energie non dipendenti dal petrolio. Un comitato interministeriale è stato incaricato di sviluppare la strategia che trasformerà lo stato ebraico in un “hub” internazionale per quelle tecnologie che promuovono la riduzione del consumo di combustibili idrocarburi.Il governo prevede di investire 2 miliardi di NIS (400 milioni di euro) in un programma decennale, dal 2011 al 2010, insieme ad altri 1.8 miliardi, che dovrebbero arrivare dal settore privato. Il piano presuppone anche la creazione di un manager, su nomina del Primo Ministro, che sostenga le iniziative private, di un budget per la ricerca e lo sviluppo, oltre che di un fondo per la cooperazione internazionale. Il comitato è presieduto da Eugene Kandel, capo del Consiglio Economico Nazionale e ha recentemente sottoposto il suo rapporto al primo ministro Benjamin Netanyahu.A febbraio il consiglio dei ministri ha stabilito che la riduzione del consumo di petrolio è un obiettivo nazionale perché serve gli interessi strategici e ecologici di Israele. Senza dimenticare, ovviamente, il potenziale commerciale che si cela dietro questa decisione. Se è vero che Israele è un piccolo giocatore nello scacchiere del mercato dei beni, i ministri hanno l’obbiettivo di trasformarlo in un centro globale per la tecnologia, nella fattispecie nel campo dei trasporti, grazie allo sviluppo di energie alternative.Sono state individuate 60 compagnie israeliane che tentano di sviluppare alternative al petrolio, la maggior parte delle quali sono start-up nelle prime fasi del loro sviluppo. Attraverso contatti con 35 di queste aziende, il comitato ha concluso che «già oggi Israele ha una base industriale e di conoscenze che lo mette all’avanguardia dei paesi che sviluppano alternative al petrolio». Malgrado ciò, molte di queste compagnie trovano molte difficoltà, una volta superato lo stadio dello sviluppo. La mancanza di investitori impedisce infatti l’implementazione commerciale delle tecnologie elaborate in laboratorio. Inoltre, la realizzazione dei prodotti richiede spesso significativi investimenti in infrastrutture perché i prodotti siano commerciabili. Secondo una media realistica, la spesa per ogni compagnia in questa fase si aggira intorno ai 20 milioni di dollari.Nei prossimi tre anni, secondo il comitato, queste compagnie avranno bisogno di un investimento di circa 270 milioni di dollari. E’ prevista anche la creazione di infrastrutture amministrative che seguano il programma, le quali includeranno un comitato interministeriale di controllo guidato da Kandel. Il direttore del programma, coadiuvato da un pannello di esperti, avrà il compito di determinare quali compagnie meritano il sostegno economico del governo.29 settembre 2010, http://www.blitzquotidiano.it/


Israele: Gerusalemme non e' Teheran, protesta contro separazione sessi

Gerusalemme, 29 set. (Adnkronos) - Decine di donne e uomini hanno marciato oggi attraverso il quartiere ebraico ultraortodosso di Mea Sharim a Gerusalemme, per protestare contro la separazione dei sessi al grido di "Gerusalemme non e' Teheran" e "anche le donne sono state create a immagine e somiglianza di Dio". La manifestazione, che si e' svolta sotto la protezione della polizia, e' stata organizzata dopo che in una delle strade del quartiere e' stato innalzato un lungo schermo per separare il passaggio delle donne da quello degli uomini durante la festivita' di Sukkot. La separazione e' stata vietata ieri da una sentenza dell'Alta corte israeliana su istanza di due consigliere comunali di Gerusalemme e di un gruppo femminista. La stessa corte ha autorizzato la manifestazione di oggi, ordinando che fosse protetta dalle forze dell'ordine. Durante la marcia molti degli abitanti ultraortodossi del quartiere erano in sinagoga per le celebrazioni di Sukkot, scrive il sito Ynet news. E fra chi ha osservato la manifestazione dal ciglio della strada e dai balconi di casa i commenti non erano favorevoli. "E' una provocazione per il gusto di provocare", ha commentato un uomo. "Facessero quel che vogliono a casa loro- ha aggiunto una donna - perche' vengono qui? E' come se venissero nella mia cucina a dirmi cosa devo cucinare".

Compounding in Israele

La joint-venture tra Megides Holding e Ravago Group avvia impianto da 50mila tonnellate.
Tosaf, produttore israeliano di compound e masterbatches, ha avviato nei giorni scorsi un nuovo stabilimento a Afula, che porta la capacità produttiva da 90.000 a oltre 140.000 tonnellate annue. Una decisione presa per adeguare l'offerta alla crescente domanda di compound tailor-made ad alte prestazioni, come ha spiegato il direttore delle attività internazionali, Joseph Halberstam.Fondato nel 1985, il gruppo Tosaf è una joint-venture tra Megides Holding e Ravago Group con un giro d'affari stimato quest'anno in oltre 200 milioni di euro. La produzione è articolata in nove stabilimenti produttivi presenti in Israele, Turchia, Germania, Regno Unito, Olanda e Ucraina, dove lavorano un totale di 720 addetti.Il catalogo prodotti comprende compound caricati minerale per l'industria del bianco, automotive e applicazioni industriali, masterbatches additivi con stabilizzanti UV, ritardanti di fiamma e prodotti specifici per film BOPP, film agricoli e industriali, imballaggi, lastre di policarbonato, tubi e materiali espansi. Nel portafogiio dell'azienda anche masterbatches colore per diversi settori applicativi.30 settembre 2010, http://www.polimerica.it/


Nablus

Ragazzo gay palestinese chiede residenza in Israele

Un ragazzo gay palestinese, Majed Koka 26enne, ha chiesto una specie di ‘asilo politico’ ad Israele, ma per motivi umanitari: “Se dovessi tornare a Nablus, sarebbe come gettare della carta nel fuoco. Mi troverei in grossi guai, un lungo incubo”. Sicuramente il suo orientamento sessuale non lo agevola affatto presso la sua nazione, così ha legittimamente richiesto di poter essere residente nello stato ebraico.September 29th, 2010, http://www.mondoraro.org/


Lieberman con il segretario di Stato Clinton

Netanyahu sconfessa Lieberman e insiste: pace in un anno

Allo studio formule tecniche per estendere la moratoria degli insediamenti senza dichiararlo ufficialmente
Roma, 29 set (Il Velino) - “Israele non ha una politica estera, solo un sistema politico interno”. Si può riassumere con la celebre frase di Henry Kissinger la paradossale situazione del governo israeliano, dove il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dovuto prendere le distanze dal discorso pronunciato alle Nazioni Unite dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Oggi Netanyahu ha incontrato l’inviato Usa nella regione, George Mitchell, e ha confermato la propria volontà di raggiungere un accordo pieno e duraturo con i palestinesi entro un anno, smentendo esplicitamente la versione di Lieberman (“Non rappresenta la visione del governo”, ha assicurato il primo ministro) secondo cui le trattative potrebbero durare decenni. Gli osservatori più accreditati sono convinti che il leader di Israel Beitenu abbia voluto assestare un tiro mancino al suo premier, che lo ha di fatto escluso dai negoziati e dai rapporti con i principali alleati, Stati Uniti in primis. Così, oltre ad allungare a dismisura la durata del negoziato di pace, Lieberman ha anche affermato che i palestinesi dovranno concedere agli israeliani la sovranità sui principali insediamenti della Cisgiordania, una prospettiva inaccettabile per il mondo arabo. “Ha piazzato una bomba sulla strada del primo ministro”, ha commentato Benjamin Ben-Eliezer, ministro del Commercio ed ex titolare della Difesa, che in quota laburista costituisce la sinistra dell’eterogeneo governo di Netanyahu. La stampa israeliana interpreta come debolezza il mancato richiamo di Lieberman da parte del primo ministro. “In ogni paese rispettabile il premier avrebbe licenziato subito il nostro infervorato ministro degli Esteri – commenta il quotidiano Maariv -, ma non c’è pericolo che ciò possa accadere qui”. Haaretz, invece, ricorda come Lieberman si sia rivolto soprattutto agli israeliani in patria, ben sapendo che non è dalla platea internazionale dell’Onu che otterrà consensi. Il suo elettorato pesca alla grande tra i coloni, che premono affinché la fine della moratoria sia implementata e si possa procedere con la costruzione di migliaia di nuove abitazioni. Proprio l’estensione della moratoria è al centro dello scontro diplomatico. Sabato il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas incontrerà i vertici di al Fatah e dell’Olp per stabilire la linea da portare al meeting della Lega araba di lunedì. Hanna Amireh, un membro dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ha affermato che senza lo stop agli insediamenti Abbas sarà costretto ad abbandonare il negoziato. “C’è consenso sul fatto che tutto il mondo è favorevole alla creazione di uno stato palestinese ed è contrario agli insediamenti”, ha osservato Amireh. Secondo il quale di conseguenza “è bene porre il problema davanti alla comunità internazionale e vedere cosa si riesce a ottenere”. Per Abbas proseguire le trattative senza aver ottenuto nulla sugli insediamenti potrebbe implicare un’ulteriore perdita di credibilità, e offrirebbe il fianco alla propaganda di Hamas. Problemi simili deve affrontare Netanyahu, che estendendo d’imperio la moratoria verrebbe con ogni probabilità disarcionato dal governo dalla destra di Lieberman. Per questo, rivela la stampa dello Stato ebraico, sono allo studio alcune formule di compromesso. Un’ipotesi che circola insistentemente è che il ministero della Difesa (occupato dal laburista Ehud Barak, favorevole al negoziato) stabilisca clausole burocratiche particolari per le nuove costruzioni estendendo di fatto – seppur senza dichiararlo ufficialmente - la moratoria.


INVOLTINI DI VERZA

Al termine della festa di Sukkòt, troviamo la festa di Simchàt Torà che segna la fine e l'inizio del ciclo annuale della lettura dela Torà.Questo piatto, che simboleggia come evidente i rotoli della Torà, ha origine ashkenazita in parte ed in parte italiana, forse ferrarese. Ho unito le due ricette, apportando qualche modifica, come la sostituzione del pane bagnato con la farina e la patata che rendono più compatta la polpetta.
Tempo di preparazione: 30 minuti - Tempo di cottura: 70 minuti.PREPARAZIONE:Scottare in acqua salata per 4-5 minuti le foglie di cavolo, avendo cura di scegliere le più grandi e ben conservate. Togliere le foglie dall’acqua con delicatezza usando una schiumarola e porle su uno strofinaccio pulito per eliminare più acqua possibile.A parte preparare l’impasto delle polpette: tritare le patate, unirle alla carne, amalgamare bene aggiungendo le uova crude ed il prezzemolo. Salare l’impasto, fare delle polpettine ovali e passarle nella farina. Mettere ogni polpettina in una foglia di verza e legare con lo spago per fare gli involtini. Aggiungere il pepe a piacere.Cuocere in padella antiaderente con olio a fuoco basso aggiungendo il brodo ogni 10 minuti. Il brodo deve ritirarsi in modo da lasciare comunque che gli involtini non siano troppo asciutti.Si può servire questo piatto con un contorno oppure su un letto di riso cotto nel brodo e fatto poi ritirare.http://www.morasha.it/


MEZZE PENNE TRICOLORE

Ingredienti: 350 g di mezze penne rigate,250 g di mozzarella,400 g di pomodorini ciliegia,100 g di olive nere,4 cucchiai di olio extravergine,1 cipolla,1 mazzetto di basilic,osale e pepe. Procedimento: sbucciate la cipolla e affettatela. lavate i pomodori, asciugateli e tagliateli a pezzetti. tagliate a dadini la mozzarella e snocciolate le olive. raccogliete in una terrina la cipolla, i pomodori, le mozzarelle, le olive e l'olio. mescolate con cura e insaporite con sale e pepe.portate a ebollizione una pentola con abbondante acqua, salatela e fatevi cuocere la pasta. scolatela al dente e mescolatela subito al condimento preparato. trasferite in un piatto da portata, cospargete con basilico, lavato, asciugato e sminuzzato e servite.http://youloseforum.forumfree.it/


kibbutz Ruhama

Una tregua sulle colonie per sperare l'impossibile

Nel Medio Oriente, dove tutto è paradossale e dove talvolta ci si affida all’empirismo più estremo, la decisione più importante è che israeliani e palestinesi hanno deciso di non decidere, regalando un’altra settimana di tempo alla diplomazia, e così scongiurando una possibile catastrofe. In realtà qualche decisione era stata presa, ma entrambe le parti hanno per ora fatto finta che non fosse stata presa. Potremmo definirla ipocrisia della sopravvivenza politica. Israele si è rifiutata di prolungare la moratoria sugli insediamenti, e i coloni già si preparano ad attivare le ruspe per riprendere le costruzioni di case in terra araba. Ma se da una parte il governo ha accontentato i suoi estremisti, dall’altra il premier Benjamin Netaniahu non ha lanciato proclami e ha risposto con sussurri imbarazzati, lasciando intendere di avere gravi difficoltà interne ma non volendo irritare oltremisura gli americani (già infastiditi, per la verità) e non volendo umiliare il «mio partner», cioè il presidente dell’Anp Abu Mazen. Sul fronte palestinese l’atteggiamento è quasi simmetrico. Abu Mazen aveva detto che se non vi fosse stato il prolungamento della moratoria, scaduta alla mezzanotte di domenica, avrebbe abbandonato subito i colloqui diretti con la controparte, voluti fortemente dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Ma ieri, quando il rischio di veder crollare tutto è diventato reale, ha deciso di prendere e concedere tempo, sostenendo che la reazione ufficiale verrà presa il 4 ottobre, dopo un vertice della Lega araba e dopo la riunione del comitato esecutivo palestinese. In sostanza, il risultato è che le parti non hanno voluto smantellare la paziente tessitura dell’Amministrazione americana. I colloqui sono ovviamente sospesi ma non tutto è perduto. Una settimana è poco più del tempo di qualche sospiro, tuttavia si sa che nella tribolata regione mediorientale i problemi non si risolvono, ma qualche sorpresa per far rinascere la speranza è possibile, anche all’ultimo momento. Almeno si è capito che sia Netaniahu sia Abu Mazen hanno ben presenti i rischi di un collasso e cercano, come possono, di scongiurarlo. Abu Mazen ha almeno un vantaggio su Netaniahu. Non voleva andare ai colloqui perché non si fidava della controparte, ed è stato convinto a cambiare idea non soltanto dalla volontà del presidente Obama ma dall’incoraggiamento di due leader arabi moderati come l’egiziano Hosni Mubarak e il re giordano Abdallah, e della stessa Lega araba. Alla quale, appunto, potrebbe essere riservata la responsabilità dell’ultima parola. C’è di più. L’Egitto, che teme non soltanto il fallimento dei negoziati, ma anche la radicalizzazione dell’estremismo islamico a Gaza, che i più moderati di Hamas non riescono a controllare, sta tentando una vera rappacificazione tre i laici del Fatah e i fondamentalisti. La visita alla Mecca, dopo il Ramadan, del potente capo dell’intelligence del Cairo Omar Suleyman, e l’incontro con il falco di Hamas Khaled Meshal, che vive a Damasco, è il primo passo di una convinta strategia egiziana: aiutare Abu Mazen, riavvicinare le due anime palestinesi, scongiurare il collasso di Gaza e impedire gravi turbative alle sue frontiere ormai a ridosso dalle elezioni presidenziali, nelle quali Mubarak potrebbe passare il testimone al figlio Gamal. Netaniahu, cui non fanno certo difetto doti di equilibrista, stavolta corre il rischio di venir travolto dai suoi stessi (e imbarazzanti) alleati: sia l’estrema destra di Lieberman sia i religiosi. Per rendersi credibile, soprattutto con l’irrinunciabile alleato americano, deve compiere passi e accettare compromessi, anche contro la sua stessa coalizione. Ecco perché in questa partita tripla o quadrupla entrano tutti, anche la Siria. Ed ecco perché accanto a chi ha deciso di non decidere, la diplomazia si muove a tutto campo. In Medio oriente. Negli Stati Uniti. E in Europa. Nella speranza di dilatare la settimana, e di evitare che la parola torni alle armi. CORRIERE della SERA,28/09/2010


Nirenstein, Pdl: Ciarrapico, intollerabile posizione nel parlamento

Prendendo la parola in Aula, l'On. Fiamma Nirenstein (Pdl), Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, ha dichiarato:"Voglio esprimere tutta la mia disapprovazione per le dichiarazioni del Senatore Ciarrapico. Tutti noi dobbiamo opporci a qualsiasi forma di antisemitismo, e oggi in particolare, dal momento che questo fenomeno è in ascesa esponenziale nel mondo, e in primis in Europa.E' intollerabile che nel nostro parlamento si possa presentare un atteggiamento di questo genere. Tutti, e penso che i deputati del mio gruppo condividano la mia posizione, condanniamo le affermazioni di Ciarrapico.La guerra contro l'antisemitismo è una questione di civiltà. Per questo appoggio in pieno l'intevento del collega del PD Emanuele Fiano". Roma, 30 settembre 2010


Fini? Ha già ordinato le kippah

Bufera al Senato su Ciarrapico Affondo in aula dell'editore ciociaro contro i futuristi: «Chi ha tradito una volta, tradisce sempre»
ROMA - «I 35 parlamentari finiani non sarebbero mai stati eletti se non li avesse fatti eleggere lei signor presidente» e «torneranno nell'ombra. Come nell'ombra tornerà la terza carica dello Stato che Ella, molto generosamente, gli aveva affidato». Così il senatore del Pdl, Giuseppe Ciarrapico, nel suo intervento al Senato dopo il discorso del presidente del Consiglio. «Fini ha fatto sapere che presto fonderà un nuovo partito. Spero che abbia già ordinato le kippah- ha aggiunto Ciarrapico, riferendosi al copricapo maschile usato dagli Ebrei osservanti- perché è di questo che si tratta. Chi ha tradito una volta, tradisce sempre. Può darsi pure che Fini svolga una missione ma è una missione tutta sua personale. Se la tenga. Quando andremo a votare vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini».LE REAZIONI - Le parole del senatore rimbalzano immediatamente da palazzo Madama alla Camera dove il deputato del Pd, Emanuele Fiano, chiede la parola in aula e attacca: «Era da qualche decina d'anni che non sentivamo risuonare in un'aula del Parlamento cose del genere. Si parla del copricapo degli ebrei come di un disvalore». Si associa Fini al «tradimento perché forse è sceso a patti con qualche ebreo. Forse - si rivolge sarcastico a Ciarrapico- perché c'è un complotto demo-pluto-giudaico». È, conclude Fiano, «una vergogna» e quel Ciarrapico «fascista e antisemita si deve vergognare». Anche dai banchi del Pdl si alza Fiamma Nirenstein per appoggiare il collega democratico: quelle di Ciarrapico sono «parole intollerabili, noi dobbiamo opporci a qualunque tipo di antisemitismo, è intollerabile questo atteggiamento, è una questione di civiltà». Solidale anche Luca Barbareschi di Fli: «È scandaloso quanto sta accadendo, parole di tale imbecillità sono una offesa per il nostro Paese».
Corriere della Sera, 30 settembre 2010


E’ il presidente o uno sceicco hezbollah?

Il presidente del Libano, Michel Suleiman, ha sferrato un attacco violento contro il corpo di spedizione Unifil usando la stessa terminologia di Hezbollah. “Le forze dell’Unifil non costituiscono un deterrente sufficiente alle violazioni israeliane – ha detto Suleiman – Si limitano a soddisfare i dettami della risoluzione Onu 1.701 soltanto dalla parte libanese del confine, mentre Israele continua a occupare le fattorie di Shebaa e la nostra parte del villaggio di Ghajar, viola quotidianamente la sovranità libanese e crea reti di spionaggio. Unifil gestisce l’arroganza israeliana nei confronti dell’esercito libanese in modo del tutto criticabile”. Suleiman, già capo dell’esercito, ha contestato anche il Tribunale speciale dell’Onu che deve trovare gli assassini dell’ex premier Rafik Hariri, sostenendo, come fa anche Hezbollah, che “ha perso credibilità e deve evitare ogni politicizzazione”. Da un lato, questi attacchi alle organizzazioni dell’Onu segnalano che Hezbollah ha il controllo delle Forze armate e delle istituzioni politiche libanesi, allineate ormai alle posizioni più oltranziste di Iran e Siria. Dall’altro, confermano il fallimento delle aperture di Stati Uniti, Francia e Unione europea nei confronti di Damasco. Le dichiarazioni di Suleiman fanno presagire nuovi, probabili aggressioni contro Israele se le trattative in corso con l’Autorità nazionale palestinese riprenderanno quota – o nel caso in cui il Tribunale dell’Onu arresti i dirigenti di Hezbollah implicati nell’assassinio di Hariri. Tutto avviene mentre Suleiman – che è stato capo delle Forze armate – disattende la risoluzione 1.701 dell’Onu, quella che impone il disarmo di Hezbollah. Saggiamente, Unifil non ha risposto alle parole del presidente libanese. Non è saggio, al contrario, il silenzio dell’Onu e dei governi europei, in primis quelli di Italia e Francia: i duemila militari di Unifil sono stati indicati da Suleiman come complici di Israele e questo in Libano significa il via libera a provocazioni e attacchi. Il FOGLIO, 30/09/2010


Al Qaeda voleva gettare gli ostaggi dalla Tour Eiffel

L’attacco di Al Qaeda contro l’Europa è stato sventato grazie alla cattura di un jihadista tedesco in Afghanistan e per pianificare l’offensiva contro le menti del piano terroristico il capo della Cia Leon Panetta è sbarcato in Pakistan. Il progetto di Al Qaeda era di ripetere in grande stile l’assalto contro Mumbai avvenuto alla fine del 2008: più gruppi di commando sarebbero entrati in azione prima in Gran Bretagna, poi in Francia e quindi in Germania catturando nell’arco di poche ore centinaia di ostaggi in luoghi molto noti per far precipitare l’intera Europa nel terrore. L’obiettivo più importante doveva essere, secondo indiscrezioni trapelate da più servizi di sicurezza, Parigi e in particolare la Torre Eiffel che Al Qaeda aveva immaginato di conquistare gettando gli ostaggi nel vuoto. Era stato proprio il capo della polizia francese Frédéric Pechenard a ipotizzare il rischio di attacchi a seguito del rapimento di cinque connazionali in Maghreb da parte di cellule islamiche.Se il sanguinoso piano è stato sventato, hanno fatto sapere fonti americane, è a seguito della cattura di un jihadista con passaporto tedesco in Afghanistan il cui interrogatorio ha consentito di arrivare a ricostruire come Al Qaeda aveva addestrato in campi paramilitari in Pakistan un imprecisato numero di islamici cittadini di Paesi occidentali al fine di facilitarne l’invio in Europa. Uno dei sospetti è Mohamed Omar Debhi, algerino in possesso di passaporto americano, arrestato ieri in Spagna. Sebbene fonti britanniche e tedesche tengano a precisare che «il piano era ancora allo stato embrionale» e «non vi sono minacce immediate» il direttore nazionale dell’intelligence americana James Clapper vi ha visto la conferma del «desiderio di Al Qaeda di attaccare l’Europa e gli Stati Uniti» rinnovando l’impegno «a lavorare con gli alleati contro le minacce del terrorismo internazionale». È in tale quadro che si spiega l’urgente partenza di Leon Panetta alla volta di Islamabad, con in programma un incontro con il presidente pachistano Asif Ali Zardari per discutere la situazione in Nord Waziristan e in particolare dell’area di Datta Khel. Sarebbe proprio da qui che i leader militari di Al Qaeda avrebbero le basi meglio organizzate, addestrando un imprecisato numero di jihadisti con due caratteristiche: l’origine algerina e la cittadinanza occidentale. Ciò lascia supporre l’esistenza di uno stretto collegamento fra le cellule di «Al Qaeda in Maghreb», frutto della fusione dei gruppi salafiti algerini e marocchini, e le centrali in Pakistan. Si tratta di un riequilibrio interno ad Al Qaeda, che nell’ultimo anno aveva registrato una maggiore attività nello Yemen - epicentro logistico per i jihadisti che operano nella Penisola Arabica e nel Corno d’Africa - grazie all’imam originario del New Mexico Anwar Al Awlaki, del quale Barack Obama ha ordinato l’eliminazione fisica. Se il Nord Waziristan ha consentito ai leader di Al Qaeda di riprendere l’iniziativa è grazie alla protezione accordatagli da Hafiz Gul Bandahar, il comandante locale dei taleban garante di una tregua di fatto con le truppe di Islamabad. A conferma che questa è l’area più a rischio c’è il fatto che proprio a Datta Kehl sono stati eliminati numerosi capi militari e finanziari di Al Qaeda, da Abdullad Said al Libi e Mustafa Abu Yaziz fino Fateh al Masri, pochi giorni fa, a seguito degli attacchi lanciati dai droni della Cia. Da qui l’ipotesi che Panetta chieda a Zardari di far entrare le truppe nel Nord Waziristan, puntando a smantellare le infrastrutture dalle quali sarebbe potuto partire il più sanguinoso degli assalti all’Europa.La STAMPA, 30/09/2010, Maurizio Molinari

giovedì 30 settembre 2010


Tutti i presidenti Usa hanno difeso Israele con il veto. Che farà Obama?

Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato ieri la risoluzione che condanna Israele per il blitz ai danni dei militanti della Freedom Flotilla diretta a Gaza. Nel raid del 31 maggio scorso nove attivisti turchi rimasero uccisi. La risoluzione, presentata a nome dell'Organizzazione della Conferenza islamica, è stata approvata con 30 voti a favore, uno contrario e 15 astenuti. Vi proponiamo in due puntate un lungo articolo della rivista Commentary che rievoca la storia dei tentativi di isolare Israele alle Nazioni Unite e il modo in cui lo stato ebraico è stato difeso dagli Usa, almeno fino a questo momento.
Poco prima dell'alba del 31 maggio 2010, un commando israeliano ha abbordato una nave turca che intendeva forzare il blocco contro l'organizzazione terroristica di Hamas a Gaza. Quando salirono a bordo gli israeliani sono stati aggrediti da una fazione violenta di militanti islamici. All'abbordaggio è seguita una mischia in cui molti dei membri del commando sono stati gravemente feriti e nove dei militanti turchi sono rimasti uccisi. Lo scontro è finito prima del sorgere del sole. Era ancora giorno quando, a distanza di 5.600 miglia, la delegazione israeliana alle Nazioni Unite veniva chiamata davanti a una sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza per essere punita riguardo alle azioni dei suoi commandos. Convocata poche ore dopo le violenze, il Consiglio ha trascorso la notte del 31 maggio, fino alle prime ore del mattino, immerso in "una sessione di emergenza dominata da una forte emotività... [per esprimere] la rabbia della comunità internazionale rispetto all'attacco condotto da Israele", come ha scritto il Washington Post.Era una scena già nota. Nel 1983, l'ambasciatore di Ronald Reagan alle Nazioni Unite, Jeane Kirkpatrick, l'aveva descritta con queste parole: "Ciò che avviene in seno al Consiglio di Sicurezza somiglia più a una rapina piuttosto che a un dibattito politico o a uno sforzo per risolvere problemi.... Israele fa la parte del cattivo... in [un] melodramma... che rappresenta... molti aggressori e una grande quantità di violenza verbale... L'obiettivo è l'isolamento e l'umiliazione della vittima... Gli aggressori, non incontrando ostacoli, diventano più audaci, mentre altre nazioni appaiono sempre più riluttanti a dare sostegno all'imputato, per paura che essi stessi diventino un bersaglio ostile di quel blocco".La rievocazione di questo dramma familiare, il 31 maggio scorso, si è aperta con una presentazione di Oscar Fernandez-Taranco, l'assistente del segretario generale delle Nazioni Unite per gli affari politici. Il suo compito era di parlare a nome della istituzione nel suo complesso e d'inquadrare il problema oggettivo per il dibattito, a nome del suo capo, Ban Ki-moon. Fernandez-Taranco ha spiegato che lo spargimento di sangue era avvenuto perché Israele ha rifiutato di porre fine "al blocco inaccetabile e controproducente di Gaza", che stava esacerbando "i bisogni insoddisfatti della popolazione civile della Striscia". Per equità, Fernandez-Taranco ha preso atto delle rivendicazioni di Israele sul fatto che i manifestanti a bordo della nave Marmara avevano usato coltelli e mazze contro il personale della marina israeliana.Il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, lo ha seguito a passo di marcia. Questo è stato, ha detto, "un omicidio condotto da uno stato" con "nessuna giustificazione" contro una flottiglia il cui "unico scopo era quello di fornire soccorso ai bisognosi". La teoria della legittima difesa "non può in alcun modo giustificare le azioni intraprese dalle forze israeliane". È stato un "agguato illecito... un atto di barbarie... un’aggressione in alto mare". Un oratore dopo l'altro hanno ripetuto gli argomenti sul blocco, ingiustificato, di Gaza, mantenuto attraverso l'uso eccessivo della forza senza alcuna base giuridica. Nessuno ha fatto alcuna distinzione tra un blocco che serve a prevenire l'introduzione di armi nella striscia e uno che invece colpisce esclusivamente i beni dei civili. Ognuno dei rappresentanti ha semplicemente chiesto la fine del blocco, senza spiegare come Israele dovrebbe proteggersi dal contrabbando dei terroristi.
Infine il rappresentante israeliano, Daniel Carmon, ha ottenuto la possibilità di rispondere. È stato l’unico speaker a sottolineare che esiste uno stato di conflitto armato tra Israele e Hamas; che Gaza è dominata da terroristi che l’hanno sequestrata con un violento colpo di stato; e che le armi venivano contrabbandate nel territorio, anche via mare. Ha sottolineato che un blocco marittimo, anche in acque internazionali, è un provvedimento legittimo e riconosciuto in un conflitto armato. Qualsiasi governo responsabile dovrebbe agire di conseguenza in circostanze simili per proteggere i suoi civili. Israele ha deplorato la perdita di vite innocenti, ma non può compromettere la sua sicurezza. I soldati che hanno abbordato una delle navi sono stati violentemente aggrediti e minacciati di rapimento e linciaggio. Hanno agito per legittima difesa.
Ho lasciato la risposta della delegazione americana per ultima, perché è quella che voglio approfondire. Questa sessione di emergenza del Consiglio di Sicurezza è stato il momento della verità per l'amministrazione Obama, il tipo di decisione dolorosa che rivela carattere, intenti e priorità. Se George W. Bush fosse stato ancora alla Casa Bianca, l'azione della delegazione degli Stati Uniti si sarebbe potuta prevedere con una certa fiducia. Nel luglio 2002, l'amministrazione Bush annunciò una politica sulle risoluzioni contro Israele, nota come la "Dottrina Negroponte". La dottrina, pubblicata integralmente sul sito web della missione Usa alle Nazioni Unite nel 2003, recita:“Noi non sosterremo alcuna risoluzione che eviti la minaccia esplicita alla pace in Medio Oriente posta da Hamas e altri gruppi terroristici... Qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza... deve contenere un’esplicita condanna di Hamas [e delle altre] organizzazioni responsabili di atti di terrorismo e... invitare a smantellare le infrastrutture che supportano queste operazioni di terrore”.L'amministrazione Obama non ha ancora rivelato se gli Stati Uniti resteranno fedeli ai principi di Negroponte. Come candidato in corsa contro Hillary Clinton, Barack Obama lasciò intendere che si sarebbe uniformato. Il 22 gennaio 2008, alla vigilia delle primarie presidenziali democratiche, scrisse a Zalmay Khalilzad, l'allora ambasciatore di Bush alle Nazioni Unite, con parole che potrebbero essere state scritte come risposta alla riunione post-flottiglia:“La esorto a garantire che il Consiglio di Sicurezza non emetta alcuna dichiarazione e non faccia passare alcuna risoluzione sulla situazione di Gaza che non condanni fermamente l'aggressione con i razzi che Hamas sta conducendo contro i civili nel sud di Israele... Tutti noi siamo preoccupati per l'impatto della chiusura dei valichi di frontiera sulle famiglie palestinesi. Tuttavia, dobbiamo capire perché Israele è costretto a comportarsi in questo modo. Gaza è governata da Hamas, un’organizzazione terroristica... votata alla distruzione di Israele, e i civili israeliani sono stati bombardati... Israele ha il diritto di rispondere cercando nel contempo di ridurre al minimo l'eventuale impatto sui civili. Il Consiglio di Sicurezza deve... mettere in chiaro che Israele ha il diritto di difendersi contro tali azioni. Se non può portare ad affrontare questi punti comuni al buon senso, esorto a garantire che non se ne parli affatto”. In altre parole, stava sollecitando un diritto di veto americano.Il 14 luglio, l'ambasciatore di Obama alle Nazioni Unite, Susan Rice, ha dichiarato: "Dobbiamo... combattere tutti i tentativi internazionali per contestare la legittimità di Israele... presso le Nazioni Unite”. Ma molti degli ammiratori di Obama non vogliono o non si aspettano che si prendano tali impegni. Il Comitato che gli ha dato il premio Nobel per la pace ha detto che l’ha fatto per i suoi "sforzi straordinari per rafforzare la diplomazia internazionale... ponendo l’accento sul ruolo che le Nazioni Unite... possono giocare... sulla base di valori e atteggiamenti che sono condivisi dalla maggioranza della popolazione mondiale".I 6 milioni di ebrei di Israele, che hanno un solo voto in sede ONU, sfidano un miliardo e mezzo di musulmani, che hanno 50 voti. È il veto americano nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu che fornisce una potenziale linea di difesa per loro. Ma la dichiarazione di fatto del portavoce di Obama a quella sessione di emergenza sull'incidente della flottiglia di Gaza del maggio 2010 è scesa ben al di sotto del linguaggio utilizzato nella lettera del 2008 a Khalilzad. Alejandro Wolff, il rappresentante permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, non ha minacciato il veto. Non ha messo l'accento sulla minaccia di Hamas. Non ha menzionato il pericolo di infiltrazioni di armi. E ha taciuto sulla legittimità del blocco israeliano.Ha detto invece che meccanismi alternativi erano disponibili per la consegna degli aiuti umanitari a Gaza e che la consegna diretta dal mare non era appropriata. Ha detto che l'interferenza di Hamas aveva complicato gli sforzi umanitari a Gaza minando la sicurezza e la prosperità per tutti i palestinesi. Ma Wolff ha bilanciato queste parole aggiungendo che Israele deve fare di più per concedere beni umanitari, compresi i materiali da costruzione, dentro Gaza, pur riconoscendo a Israele legittime preoccupazioni di sicurezza. Alla fine della sessione di 90 minuti pubblici destinati a queste affermazioni, il Consiglio si è riunito in una sessione privata esecutiva per un’intensa contrattazione dietro le quinte per formulare la dichiarazione rilasciata dal Presidente del Consiglio.La Turchia ha chiesto che la Dichiarazione Presidenziale condannasse "nei termini più forti", "l'atto di aggressione israeliana" come una "chiara violazione del diritto internazionale"; che chiedesse al segretario generale Ban Ki-Moon di "effettuare un'indagine internazionale indipendente dalle Nazioni Unite"; che includesse "la punizione di tutte le autorità responsabili "; e che invocasse la revoca immediata del blocco su Gaza. L'adozione di una tale Dichiarazione Presidenziale richiede un consenso. I voti non vengono registrati. Qui c'era la possibilità di difendere Israele senza necessariamente percorrere la via principale del veto formale. Obama avrebbe potuto garantire, come aveva detto nel 2008, "che il Consiglio di Sicurezza non faccia passare alcuna dichiarazione e trasmetta alcuna risoluzione sulla situazione di Gaza che non... metta in chiaro che Israele ha il diritto di difendersi... [e] perché Israele è costretto a farlo". Avrebbe potuto insistere, come un tempo ha esortato a insistere Khalilzad, che se il Consiglio di Sicurezza "non può portare se stesso ad approvare questi punti comuni al buon senso... e non [deve] parlare affatto ".Ma non è questo quello che è successo. I negoziati hanno prodotto una dichiarazione presidenziale più debole di quella richiesta dalla Turchia, ma ancora molto ostile a Israele. La dichiarazione ha condannato solo "gli atti" che hanno causato morti senza citare Israele per nome - una elisione per cui l'amministrazione merita credito. Ma non conteneva nessuno degli elementi che Obama aveva definito indispensabili e che dovevano essere la conditio sine qua non per gli Stati Uniti ad accettare una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza. Non è stato fatto alcun riferimento alla minaccia che ha dato origine al blocco; alcuna menzione di Hamas o il suo impegno a distruggere uno stato membro delle Nazioni Unite; nessun riscontro che lo scopo di Israele è quello di impedire il contrabbando di armi; nessuna affermazione del diritto di Israele alla legittima difesa ai sensi dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite; non una sillaba sul terrorismo; e in generale, non una parola per riflettere il punto di vista israeliano.Poi c'era questa frase: "Il Consiglio di Sicurezza prende atto della dichiarazione del Segretario generale dell'ONU sulla necessità di avere un'indagine completa della questione... conforme agli standard internazionali". Questo è stato inteso nel senso di un'indagine condotta da una commissione internazionale nominata dal segretario generale. Tutto ciò appena qualche mese dopo il rapporto Goldstone, un rapporto dell'Onu sulla situazione a Gaza, su cui l'amministrazione Obama ha dichiarato di avere "gravi preoccupazioni" perché la relazione riportava un "focus sbilanciato su Israele" e una "equivalenza morale tra Israele... e il gruppo terroristico Hamas". I diplomatici americani hanno impedito che la dichiarazione del Consiglio autorizzasse una tale inchiesta delle Nazioni Unite a titolo definitivo. Gli Stati Uniti hanno detto che Israele, un paese con un sistema giudiziario fieramente indipendente e dalle forti istituzioni democratiche, dovrebbe essere autorizzata a condurre la propria indagine, con la partecipazione di osservatori internazionali.Il risultato della riluttanza di Obama di affermare inequivocabilmente che egli è contrario a una indagine delle Nazioni Unite è stato riassunto da un titolo del giornale Politico: "L’inchiesta del Segretario Generale su Gaza raccoglie entusiasmi, mentre gli Stati Uniti restano neutrali". Come ha detto l'ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite John Bolton, "il presidente Obama non si è mosso con decisione per disperdere quella idea, e la sua inerzia è stata presa alle Nazioni Unite come un implicito consenso alla iniziativa illegittima di Mr. Ban".La presa di posizione di Obama in occasione della sessione di emergenza del 31 maggio sulla vicenda di Gaza segna la seconda volta in una settimana in cui l'amministrazione mette i suoi obiettivi multilateralisti davanti alla difesa di Israele. In una conferenza delle Nazioni Unite sulla non proliferazione nucleare, che si era conclusa tre giorni prima della crisi della flottiglia, la delegazione Obama ha approvato l'adozione all'unanimità di una dichiarazione finale. Lo ha fatto, anche se l'amministrazione ha reso noto di avere "serie riserve" sulla sua sezione in Medio Oriente, che individua Israele come un trasgressore degli sforzi di non proliferazione e di fatto non parla di Iran.Dopo il voto, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti James Jones ha detto che "Gli Stati Uniti deplorano la decisione di isolare Israele nella sezione Medio Oriente... [nonché] la mancanza della risoluzione di menzionare l'Iran". Gli Stati Uniti la fanno passare comunque, perciò la conferenza potrebbe essere considerata un successo. Dopo l'accaduto, l'amministrazione ha cercato di riparare il danno che aveva causato. "Gli Stati Uniti non permetteranno una conferenza o azioni che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale di Israele", ha detto Jones. "Non accetteremo un approccio che isoli Israele o che imposti delle aspettative non realistiche". Ma solo poche ore prima, gli Stati Uniti avevano fatto proprio questo. Le questioni sollevate dalla risposta degli Stati Uniti per l'agguato alla flottiglia e il problema di proliferazione sono puntuali e pregnanti. Siamo pronti per un flusso di dichiarazioni presidenziali del Consiglio di sicurezza e di risoluzioni che si pronunciano in merito alla minaccia terroristica, che delegittimano e condannano Israele, convocando prima tribunali ostili, limitando la sua libertà di azione per difendere i propri cittadini, accusando i suoi leader, e forse alla fine mettendola sotto sanzioni? (Fine della prima puntata. Continua...)Tratto da Commentary,di Steven J. Rosen 30 Settembre 2010, http://www.loccidentale.it/