sabato 1 ottobre 2011

The Impossible Brief stringe un patto di sangue tra Palesina e Israele

Nel giugno 2010, a Cannes Saatchi&Saatchi lancia l’iniziativa ‘The Impossible Brief’, aperta a tutta la comunità creativa
el giugno 2010, a Cannes Saatchi&Saatchi lancia l’iniziativa ‘The Impossible Brief’, aperta a tutta la comunità creativa: al centro del progetto c’è il desiderio di trovare un dialogo, una chiave diversa per riconciliare i due popoli, quello palestinese e l’israeliano, che si fronteggiano in un conflitto senza soluzione da sessant’anni. A vincire il premio per questo ambizioso progetto la proposta che più di tutte aveva catalizzato l’attenzione dei giurati è ‘Mutual Blood’ di Royer Jean-Christophe di BETC Parigi, con un’illustrazione di Nimrod Reshef. Il progetto si è concretizzato a Tel Aviv presso il quartier generale della Banca del Sangue israeliana, la Magen David Adom. Tramite il sito www.bloodrelations.org è stato lanciato un appello per permettere alle persone di donare il loro sangue a sostegno del progetto. Bar Rafaeli è stato il primo a tweettare il suo sostegno e ha esortato 60.000 seguaci su Twitter a diffondere il messaggio sui social media. All'inizio della settimana, Saatchi & Saatchi ha partecipato a un evento al Shimon Peres Center di Tel Aviv per celebrare la Giornata della Pace delle Nazioni Unite. Le donazioni di sangue proseguiranno per tutta la settimana e saranno condivise da ospedali israeliani grazie alla Banca del sangue israeliano Magen David Adom e da Al-Makassed Hospital Islamic Society di beneficenza per i palestinesi di Gerusalemme est. Yossi Lubaton, ceo di Saatchi & Saatchi BBR Israele ha dichiarato: "Sono molto lieto che il progetto The Impossible Brief sta entrando nel suo secondo anno di attività. E' emozionante vedere come un'idea concepita in un'agenzia pubblicitaria dai creativi, prenda forma, e possa influenzare la gente nel modo più profondo. "Il mondo della comunicazione e della politica stanno cambiando a velocità vertiginosa, siamo testimoni di una rivoluzione in cui il potere è passato al consumatore, al cittadino comune. Cose che erano impossibili da immaginare meno di un anno fa, sono in pieno svolgimento oggi”. 29.9.11
http://www.pubblicitaitalia.it/

Nelle foto, dall’alto: 1948 - bambina ebrea in fuga dal quartiere ebraico di Gerusalemme est appena caduto nelle mani della Legione Araba di Transgiordania; arabi palestinesi si apprestano ad abbandonare il loro villaggio durante la guerra del '48; soldati britannici di guardia a un quartiere di Haifa abbandonato dagli abitanti ancor prima dell’inizio dei combattimenti.

“Hanno dato ascolto a capi impostori” Di Alexander Joffe e Asaf Romirowsky

Mentre prosegue alle Nazioni Unite la campagna palestinese per la dichiarazione d’indipendenza unilaterale (cioè, senza un accordo negoziato con Israele), vale la pena domandarsi ancora una volta di chi siano stati vittime, in origine, i palestinesi. Oggi naturalmente, fra i palestinesi, gli arabi e nel mondo musulmano la generale convinzione è che sia stato Israele, nel 1948, ad aggredire e cacciare la popolazione palestinese. Ma nel 1949, a chi attribuivano i palestinesi stessi la responsabilità per la propria sorte?Le due più importanti comunità di arabi palestinesi negli Stati Uniti si trovano a Dearborn, nel Michigan, e a Jacksonville, in Florida. Il 15 dicembre 1949 il quotidiano arabo del Michigan, As Sabah, pubblicava un editoriale sulla questione dei profughi arabo-palestinesi: “Qual è il crimine di cui si sono macchiati i profughi agli occhi dei signori d’Arabia che se ne stanno a guardare la loro miseria e che succhiano il sangue dei poveri e dei bisognosi, senza vergogna davanti a Dio e al mondo? Sì, i poveri profughi hanno commesso il crimine di dare ascolto a quegli imbroglioni, hanno creduto ai bugiardi e si sono spinti fino all’estrema follia di abbandonare le proprie case contando sul fatto che quegli impostori dei loro capi li avrebbero riportati indietro! A causa di ciò che sta accadendo ai profughi di Palestina, l’opinione pubblica araba si sta a poco a poco spostando a favore degli ebrei in Israele, dove non un singolo arabo muore di fame o di freddo! E se ci sarà un’altra guerra, dovrà essere contro i capi arabi, i principi e i re che hanno provocato questa catastrofe alla povera gente di Palestina”.L’analisi di quell’editoriale circa i cambiamenti dell’opinione pubblica araba a favore di Israele era a dir poco erronea. Ma circa l’affermazione che i palestinesi erano fuggiti dalle loro case in risposta ai capi arabi, che pure è stata contestata sin da quando si produssero quei fatti, evidentemente era così che la vedevano i palestinesi del Michigan nel 1949.Nell’ottobre 1949, l’intellettuale palestinese Musa Alami scriveva: “Quello che più stava a cuore [agli stati arabi], e che ha guidato la loro politica, non era vincere la guerra e salvare la Palestina dal nemico, bensì ciò che sarebbe accaduto dopo i combattimenti: chi avrebbe predominato in Palestina o chi se la sarebbe annessa”.Oltre all’usurpazione della causa palestinese che faceva arrabbiare gli editorialisti di As Sabah, v’era anche un altro aspetto. Gli ufficiali britannici, tutt'altro che filo-sionisti, operativi all'epoca sul campo erano più che convinti che i capi palestinesi stessero sistematicamente abbandonando la loro gente. Nel dicembre 1947 l’Alto Commissario, sir Alan Cunningham, riferiva che “il panico perdura nella classe media, e si registra un esodo costante di coloro che possono permettersi di abbandonare il paese”. Pochi mesi dopo, nell’aprile 1948, aggiungeva: “In tutte le parti del paese la classe degli effendi [notabili] sta sfollando in gran numero, su un considerevole arco di tempo e a ritmo crescente”. Nel giugno 1949 sir John Troutbeck, capo del Middle East Office britannico al Cairo, riferiva che i profughi “non esprimono rancore verso gli ebrei (né, se è per questo, verso gli americani o noi britannici), ma parlano con estrema amarezza degli egiziani e degli altri stati arabi. ‘Sappiamo chi sono i nostri nemici’, dicono, e si riferiscono ai loro fratelli arabi che, affermano, li hanno convinti ad abbandonare senza motivo le loro case … Ho persino sentito dire che molti profughi accoglierebbero volentieri gli israeliani, se dovessero arrivare e prendere il controllo della zona [dove ora si trovano i profughi]”.Sin dall’inizio i rappresentanti israeliani hanno sempre sostenuto che la maggioranza dei palestinesi era stata incoraggiata a fuggire dai suoi stessi capi e da quegli stati arabi che poi abbandonarono i palestinesi nel mezzo della guerra da loro scatenata contro Israele: una versione che è sempre stata respinta dai palestinesi e dai loro sostenitori come pura propaganda sionista. Ma gli ufficiali britannici all’epoca sul campo contrari al sionismo e a Israele, e gli arabo-palestinesi in America non avrebbero mai ripetuto a pappagallo il giudizio dei loro nemici se non ne fossero stati convinti.Ciò che implica quell’editoriale per tanto tempo dimenticato, e tutte le altre analoghe dichiarazioni, è che non si può attribuire a Israele la totale ed esclusiva responsabilità per la sorte dei profughi palestinesi: ne sono responsabili anche gli stati arabi e la classe dirigente palestinese.Il che mette sotto una luce tutt’affatto diversa anche la loro campagna per la “Dichiarazione di indipendenza unilaterale”. In effetti, quello che i dirigenti palestinesi hanno chiesto alle Nazioni Unite è di poter riportare indietro ancora una volta l’orologio per avere un’altra possibilità di raggiungere la sovranità statale che avrebbero potuto ottenere nel 1948 o addirittura nel 1938 [spartizione proposta dalla Commissione Peel]. Nel frattempo alcuni esponenti palestinesi hanno iniziato a far balenare l’idea di tornare al piano di spartizione del 1947, lo stesso piano che in quel 1947 i loro predecessori rifiutarono senza mezzi termini. Ma quando scadono tutte queste occasioni rifiutate?Intanto i palestinesi, come fecero i loro predecessori nel 1949, danno la colpa a tutti tranne che a se stessi per non aver conseguito finora i loro obiettivi. Una cultura politica senza alcun senso di responsabilità rispetto alle proprie scelte, che considera eternamente riciclabili le occasioni rifiutate e perdute, che incolpa gli altri per le proprie decisioni e le relative conseguenze e allo stesso tempo pretende in eterno che la responsabilità per il proprio sostentamento ricada su qualcun altro, è assai improbabile che possa dare vita ad uno stato-nazione stabile e funzionate. In queste condizioni, un nuovo stato palestinese sarebbe all’istante un bisognoso completamente dipendente dagli aiuti dei contribuenti americani e occidentali. Nessuna meraviglia, dunque, se perlomeno alcuni esponenti palestinesi cercano di smarcarsi rispetto alla Dichiarazione di indipendenza unilaterale. Gli “impostori” contro cui si scagliavano i palestinesi americani nel 1949 sono, in definitiva, i loro stessi dirigenti e quelli degli altri stati arabi. Finché non si troveranno nuovi leader per questi e quelli e non si insedierà una nuova cultura fondata sulla responsabilità e sulla fiducia in se stessi, sarà possibile fare ben pochi progressi. (Da: YnetNews, 27.9.11) http://www.israele.net/

Israele: computer troppo cari

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Giovedì 29 Settembre 2011 http://www.focusmo.it/
Potrebbe sembrare un paradosso nel Paese considerato internazionalmente la “nuova Silicon Valley”, ma il vice presidente di Intel, Mooly Eden, non ha dubbi in proposito. «Non c’è alcuna ragione per cui i computer debbano costare così tanto. Il pc non è un lusso», ha affermato il dirigente del gigante mondiale dei semiconduttori, che in questo modo ha dichiarato il proprio supporto alle proteste della classe media israeliana contro il carovita.«Non ci sono dazi doganali sui computer in Israele, ma l’Iva è pesante. I pc costano troppo, e gli israeliani li dovrebbero acquistare altrove». Eden, che ha parlato durante una conferenza stampa di presentazione di Intel Ultraboook (un nuovo modello di computer sottilissimo), ha sottolineato gli aspetti sociali del suo discorso. «Il nostro obiettivo deve essere quello di dare un pc a ogni bambino. Ho visitato Paesi del Terzo Mondo i cui governi hanno colto l’importanza di questa sfida».

MedNautilus partecipa alla gara d'appalto della Israel Corporation

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Giovedì 29 Settembre 2011 http://www.focusmo.it/
La sussidiaria di Telecom Italia, MedNautilus sta progettando di partecipare alla gara d’appalto indetta da Israel Electric Corporation (Iec) per la realizzazione d’infrastrutture di telecomunicazione. Un alto funzionario dell’azienda di telecomunicazioni italiana ha visitato di recente Israele per preparare il terreno all’offerta di MedNautilus, la quale attualmente fa funzionare il cavo di telecomunicazioni sottomarino che collega lo Stato ebraico con il resto del mondo.L’azienda avrebbe già chiesto al ministero delle Comunicazioni di Gerusalemme l’ok per poter partecipare alla gara. Telecom Italia deve riuscire a superare alcuni ostacoli burocratici: il bando sarebbe infatti rivolto solo a nuovi attori nel settore delle telecomunicazioni. La società italiana sta ora aspettando ulteriori informazioni dal ministero. Anche il potenziale rivale di MedNautilus nella gara, Tamares Telecom, si trova nella stessa situazione. Analisti affermano che le richieste di Telecom Italia e Tamares Telecom potrebbero essere facilmente approvate dal ministero, che ha già fatto capire di non considerare queste due aziende come potenziali rivali del mercato delle infrastrutture nazionale e che, dunque, potrebbe permettere che partecipino al bando, pur se a certe condizioni.


Israele sempre più isolata. Perché Obama continua a difenderla? - L’ANALISI

Da un lato le critiche di Europa e Stati Uniti alle colonie, dall’altro il sostegno delle potenze economiche emergenti Cina, India e Brasile allo Stato Palestinese. Sono giorni molto difficili per Israele, sempre più isolata dal punto di vista internazionale, che ormai sembra preparata a subire uno schiaffo morale alle Nazioni Unite. Infatti venerdì mattina (verso le 10, ora americana) il Consiglio di Sicurezza si riunisce per una prima discussione sulla domanda presentata dai Palestinesi, che chiedono di essere riconosciuti come Paese membro dell’Onu e, dunque, come nazione indipendente.Per ottenere questo status, la Palestina deve ottenere due cose: una maggioranza di nove seggi su 15, ed evitare che uno dei membri permanenti ponga il veto. Il ministro degli Esteri palestinese Ryad al-Maliki ha dichiarato di avere ottenuto garanzia che otto membri sosterranno la causa palestinese: Cina, Russia, India, Brasile, Sud Africa (ovvero i cosiddetti Paesi BRICS), oltre a Libano, Nigeria e Gabon. Il che significa che serve un solo altro voto per ottenere la maggioranza assoluta.Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, l’Autorità palestinese starebbe cercando di ottenere il sostegno della Bosnia o della Colombia ed è più probabile che sia il Paese europeo ad accogliere la richiesta, perché la Colombia è politicamente molto legata agli Stati Uniti. Che, con ogni probabilità, utilizzeranno il loro diritto di veto.Tecnicamente potrebbero porre il veto anche le due nazioni europee che ricoprono i seggi permanenti, Francia e Gran Bretagna, ma è difficile che decidano di farlo: più probabilmente si limiteranno ad astenersi. Il ministro degli Esteri francese Alain Juppé aveva dichiarato la scorsa settimana, durante la riunione dell’Assemblea generale Onu, di opporsi alla creazione immediata e unilaterale di uno Stato palestinese ma aveva anche criticato un possibile veto presso il Consiglio di Sicurezza.Dunque gli Stati Uniti sono l’unica speranza di Israele per evitare la creazione unilaterale di uno Stato Palestinese. Fortunatamente per Israele, Obama ha tutta l’intenzione di esercitare il suo diritto di veto, come ha detto chiaramente in un incontro con il presidente dell’Anp Abu Mazen: la posizione degli Stati Uniti è che l’Onu “non è la sede appropriata” e che uno Stato Palestinese dovrebbe essere creato attraverso il negoziato con Israele.Il problema è che di negoziati nel prossimo futuro non se ne vedono. A infiammare la situazione, già tesa di per sé, è stato il recente annuncio da parte del governo israeliano della costruzione di 1.100 nuovi appartamenti a Gilo: si tratta di un quartiere che Israele considera parte integrante di Gerusalemme Est ma che si trova al di là dei confini del 1967 e che dunque è una colonia secondo la comunità internazionale. Critiche arrivano dall’Europa, dagli Stati Uniti e, naturalmente, dalla Turchia, grande ex alleato in Medio Oriente che negli ultimi anni però si è trasformato nella guida dei Paesi arabi contro Israele.L’Unione Europea e la Gran Bretagna hanno chiesto al primo ministro Benjamin Netanyahu di “rivedere la decisione”, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha definito la costruzione di nuovi insediamenti “controproduttiva” e il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha detto che “solleva dubbi sulla reale disponibilità da parte di Israele di riprendere i negoziati”.Il governo di Netanyahu insomma sembra riuscito a irritare tutti. Resta da chiedersi allora perché Stati Uniti e, in misura minore, l’Europa siano determinati a schierarsi dalla parte di Israele durante la riunione del Consiglio di Sicurezza. Infatti, con ogni probabilità, fermare la creazione di uno Stato Palestinese porterà a un’ondata di malcontento nei Paesi arabi.Ma la creazione di uno Stato Palestinese fantoccio, una nazione proclamata indipendente mentre ancora è divisa in due – da un lato la Cisgiordania governata da Abu Mazen, dall’altro Gaza in mano ad Hamas – e di fatto occupata militarmente da Israele: tutto questo provocherebbe, nel medio termine, reazioni ancora più devastanti. Nella migliore delle ipotesi, una Terza Intifada.Come ha scritto di recente un giornalista americano: “La richiesta dei palestinesi è comprensibile, ma poco saggia. Obama può porre il veto e dormire bene la notte”.
(Anna Momigliano è una redattrice di Studio, bimestrale di attualità culturale. Ha scritto reportage da Israele, Libano e altri Paesi mediorientali. Per Marsilio ha pubblicato Karma Kosher, giovani israeliani tra guerra, pace, politica e rock ‘n roll) di annamomigliano Giovedì 29 Settembre 2011 http://blog.panorama.it/

venerdì 30 settembre 2011

Eilat

Voci a confronto

La visita del primo ministro turco Erdogan in Egitto, prima tappa di un viaggio che lo porterà anche a Tunisi ed a Tripoli, è sicuramente l’argomento principale per i quotidiani di oggi. Acuta l’osservazione di Lucia Annunziata che, su La Stampa, scrive che Erdogan ha saputo cogliere il momento difficile degli USA nel mondo arabo per sostituire l’influenza americana con quella turca. Aggiunge poi Annunziata che comunque la Turchia rimane tra i paesi più “curati” da Hillary Clinton. Sono sicuramente osservazioni molto interessanti; l’unico dubbio per il sottoscritto sta nella considerazione della Turchia come “paese fidato” per gli USA. La regia di questa visita è stata estremamente attenta, ed ha visto Erdogan atterrare al Cairo in piena notte, accompagnato da 6 ministri e da 170 industriali pronti a firmare grandi progetti di cooperazione. Va subito detto che la visita a Gaza, prevista in un primo momento, è stata poi cancellata. Ma intanto, dopo la crisi diplomatica che ha visto l’allontanamento dell’ambasciatore israeliano da Ankara, e la successiva forzata partenza di quello del Cairo, va registrata sia la partenza dai porti turchi di alcune navi da guerra che incroceranno nel Mediterraneo orientale, che il nuovo software dei radar turchi che d’ora in avanti identificheranno gli aerei israeliani come “nemici”. Sono tutte realtà che non fanno presagire nulla di buono. Stupisce poi non leggere nei grandi commenti nessun paragone a quanto noi italiani vivemmo durante il ventennio. Eppure tanti elementi sono davvero identici in modo impressionante. Marta Ottaviani su Avvenire firma un articolo che sarebbe anche interessante se poi non cadesse nel grave errore di scrivere che la Mavi Marmara venne assalita mentre portava viveri sulla Striscia di Gaza; evidente inganno per i lettori del quotidiano. Certo importanti le parole dell’editoriale, sullo stesso quotidiano, a firma di Riccardo Redaelli; sembra appunto di vedere un novello Mussolini che parla di difesa dell’onore turco, che viene acclamato come nuovo leader arabo (lui che arabo non è), pronto a “superare insieme tutte le difficoltà”, con le mamme di Ankara alle quali si spezza il cuore a sentire piangere i bambini di Gaza mentre poi, tra tante altre affermazioni roboanti, dimostra che verso Assad preferisce limitarsi ad inconcludenti parole di principio, e verso l’occidente sembra riproporre le attenzioni che aveva già l’impero ottomano. Analoghe sono le osservazioni di Roberto Tottoli e di Battistini che sul Corriere scrivono che questo viaggio evoca appunto ricordi imperiali, mentre Erdogan vuole frenare le analoghe mire iraniane (e anche del wahhabismo saudita); questo è proprio l’unico aspetto che sembra dare un certo sollievo per il futuro dell’Occidente, visto che queste rivalità interne al mondo islamico sono destinate ad esplodere. Per fortuna che Boutros Boutros Ghali sostiene che Turchia ed Egitto avrebbero tutto l’interesse a mantenere la pace con Israele verso il quale egli non vede ostilità. Su Repubblica Fahmi Huwaidi intervista Erdogan stesso ed allora troviamo parole come: “il rapporto Palmer dell’ONU non ha valore alcuno, ed è una vergogna per chi lo ha redatto. ”Sul Foglio, oltre ad un editoriale che fa osservare il tentativo di creare un Egitto ”secolare” come la attuale Turchia, si trova un nuovo articolo di Meotti da leggere con la massima attenzione perché davvero fa capire la realtà di oggi; Meotti infatti ha parlato con lo storico turco Rifat Bali, insegnante alla Sorbonne di Parigi, che ricorda una vecchia pièce teatrale attribuita a Erdogan dal titolo (acronimo) MASKOMYA, che riunisce massoni, comunisti ed ebrei. Già nel ‘96 Erdogan, all’epoca sindaco di Istanbul, parlava di complotto mondiale ebraico e della cospirazione giudaica che aveva fatto cadere l’impero ottomano, mentre Ataturk sarebbe stato un cripto giudeo. Anche Erdogan veniva considerato un cripto giudeo quando faceva accordi con Israele, come scrive Carlo Panella su Libero, ma ora si oppone allo sfruttamento del gas nel Mediterraneo da parte di Israele, rivendicando interessi della Cipro turca (turca per via della occupazione militare, non dimentichiamolo mai). Interessante anche l’intervista di Lorenzo Biondi al professore dell’Università di Tel Aviv Mark Heller; peccato tuttavia che Biondi riparla di governo di Tel Aviv e scrive di uno stupido errore di inviare l’esercito israeliano nel Sinai… Sul Giornale intanto Fabbri teme anche un accordo tra Turchia ed Irak per nuove stragi dei curdi. Solite poi le parole di Michele Giorgiosul Manifesto che non perde questa occasione per parlare del terrorismo di Israele e dei suoi crimini di guerra per via delle colonie, e pure quelle di De Giovannangeli sull’Unità che fa dire a Erdogan che l’equidistanza da tutte le religioni è un principio dell’Islam….
Nella stampa estera ancora da sottolineare la solita attitudine negativa verso Israele del Financial Times dove si leggono le parole di Erdogan: Israele deve pagare per le sue aggressioni e per i suoi crimini”, mentre eccita gli egiziani ad agire dopo la delusione provocata dai loro attuali governanti, pavidi dopo l’uccisione da parte di Tsahal di 6 militari egiziani. Sull’International Herald Tribune Jimmy Carter, in una una lunga analisi, considera inaccettabile la futura presenza di Tsahal sul Giordano e la richiesta di Israele di essere riconosciuto come stato ebraico a causa del 25% della sua popolazione non di religione israelita. Tra le altre osservazioni a questo articolo va osservato che l’ex presidente (e marito di Hillary) considererebbe accettabili trattative tra Israele e Palestinesi “indirette”, la ridiscussione del problema Golan e anche che parla dei “confini del ‘67” ai quali bisognerebbe fare solo piccole modifiche. Ovvio, al contrario, che Clinton speri di rivedere gli USA agire come leader nella regione.Infine, senza ricordare le parole lasciate scritte dai terroristi palestinesi sui muri della Basilica di Betlemme da loro occupata, l’Osservatore Romano pubblica un lungo articolo con l’invito a tutelare i cristiani da ogni discriminazione; ma sui muri stava scritto: prima quelli del sabato, poi quelli della domenica, e queste parole non sono mai state sufficientemente analizzate; le preoccupazioni odierne del Vaticano ne sono la diretta conseguenza, a parere del sottoscritto.Emanuel Segre Amar http://www.moked.it/



Israele: online i manoscritti
più antichi del mondo

Grazie ad un progetto del Museo israeliano di Gerusalemme, realizzato con la tecnologia di Google i rotoli del Mar Morto sono ora online ."Con l'alta risoluzione c'è la possibilità di guardare i manoscritti comodamente - spiega James S. Snyder direttore dell'Israel Museum - si possono ingrandire, leggere la traduzione dall'ebraico all'inglese, cercare parole o versi particolari".




Wishful thinking

Credo, in tutta franchezza, che sia umanamente difficile trovare nella storia della diplomazia internazionale (ma anche della politica, delle relazioni sociali e umane di ogni tipo) un caso di malafede più lampante di questa storia infinita del riconoscimento dello Stato di Palestina. Un risoluzione di questo tipo già c’è stata, nel lontano 1947, ed è stata accolta da parte araba e palestinese nel modo che sappiamo. Il 14 maggio del 1948, che avrebbe dovuto sancire la nascita dei due Stati, è diventato, per i palestinesi, la Naqba, la catastrofe. E ora, - come abbiamo già scritto, sulla newsletter dello scorso 27 aprile - fremono per avere la Naqba bis. Probabilmente, quella del 1947-1948 fu una catastrofe perché, accanto allo Stato di Palestina, avrebbe dovuto nascere, come nacque, uno Stato ebraico. Cosa che non si voleva e, con tutta evidenza, si continua a non volere, come attestano, al di là di qualsiasi possibilità di equivoco, i reiterati rifiuti a qualsiasi concessione sul riconoscimento di Israele come Stato ebraico. Questa è la realtà. Nella richiesta palestinese non c’è un solo granello di spirito conciliante, neanche l’ombra di una sia pur timida, minima apertura a un possibile, ipotetico, immaginario futuro di pacifica coesistenza e collaborazione. Solo un muro di ostilità.Il fatto che la maggioranza dei Paesi del mondo siano d’accordo su questo riconoscimento “a prescindere” dà la misura, in modo drammatico, di quali siano i sentimenti prevalenti nella comunità delle nazioni nei confronti di Israele. Alcuni pensano che la responsabilità di ciò, almeno in parte, sia della stessa politica israeliana. Dico solo, al riguardo, che mi piacerebbe molto se fosse così, perché basterebbe un cambio di politica per ottenere un miglioramento della situazione. Ma, purtroppo, non credo che sia così. Ed è una constatazione molto amara. E credo che sia proprio l’insopportabile durezza di questa idea a indurre non pochi israeliani e sostenitori di Israele a dirsi favorevoli alla risoluzione, come mezzo per raggiungere la pace. Uno Stato di Palestina accanto a uno Stato di Israele, la famosa formula dei “due popoli, due Stati”, l’agognata pace. Sarebbe bello, certo. Ma non è così. E il “wishful thinking” è pericoloso, non ha mai aiutato nessuno lo scambiare i propri desideri per la realtà.Una menzione particolare merita la posizione degli Stati Uniti, che rappresenta un motivo insieme di consolazione e di preoccupazione. La consolazione deriva dal fatto che l’America ha confermato il sostegno a Israele, spendendo in tal senso, ancora una volta, la sua influenza e il suo potere di veto nel Consiglio di Sicurezza. Ed è bene ricordare che l’amicizia degli USA nei confronti di Israele e, più in generale, la solidarietà verso il popolo ebraico e la simpatia per il sionismo non sono degli irreversibili “doni di natura”, sempre esistiti e dati per sempre. Sono noti i sentimenti antisemiti di alcuni fra i grandi protagonisti della storia americana del ‘900 (come Ford o Lindbergh), il Presidente Roosevelt non fece nulla per impedire la Shoah, Eisenhower non amava Israele. Ma l’opzione filo-israeliana, nata, nella guerra fredda, con Kennedy, e poi consolidatasi con Nixon, è stata confermata dal presidente Obama, nonostante la sua provenienza da una comunità, quella afroamericana, nella quale si sono spesso registrati umori non amichevoli (talvolta apertamene ostili) nei confronti degli ebrei. E nonostante anche nelle file delle comunità ebraiche statunitensi siano andati sensibilmente montando, negli ultimi anni, sentimenti di distacco o freddezza nei confronti di Israele. La famosa “lobby ebraica” non è mai esistita (e, se esistesse, non sarebbe comunque composta solo da amici di Israele), ma il sostegno a Israele continua a essere fortemente sentito come un valore dalla maggioranza dell’opinione pubblica statunitense. È questa la consolazione.Quanto alla preoccupazione, scaturisce dal fatto che la protezione americana brilla, per la sua unicità, come una candela nella notte. E la sola idea che possa, un domani, spegnersi, è certamente inquietante.Francesco Lucrezi, storico. http://www.moked.it/




Rimango molto perplesso quando si parla di democrazia nel mondo arabo come naturale sbocco delle rivolte di questi mesi. Mi viene in mente Gorge W. Bush, che si diceva avesse sul comodino un libro di un noto analista russo che descriveva l’effetto domino che ha portato alla caduta dei regimi comunisti, con l’idea di applicare la stessa logica al mondo islamico. Gli eventi di questi mesi ci hanno mostrato come le cose siano assai più complicate, fino a rivedere la convinzione tutta occidentale, per cui, se non ostacolato da fattori esterni quali le dittature, l’uomo tende naturalmente verso la libertà. E, se non bastasse, l’attuale crisi economica ci ha spinto a ripensare i fondamenti del nostro modello politico e sociale: quale democrazia immaginiamo per il mondo arabo? Quella strutturata sul debito con conseguenti bolle speculative cicliche? Oppure una di tipo egualitario in salsa socialista di cui è già stato decretato il fallimento? Penso che la storia davanti a noi sia molto più impervia di schemini dal vago sapore hegeliano (oppure cristiano) che individuano un punto finale a cui tutti dovrebbero adeguarsi. http://www.moked.it/
,Davide Assael ricercatore



Qual è la colpa di Israele?

Editoriale del Jerusalem Post da: http://www.israele.net/
Esiste la tendenza, anche all’interno di Israele, di addossare al governo Netanyahu tutta la colpa per le difficoltà diplomatiche in cui Israele si trova, in particolare sulla questione della richiesta di riconoscimento unilaterale palestinese. Se solo gli artefici della politica estera israeliana avessero avanzato una qualche iniziativa di pace, dicono i critici, i palestinesi avrebbero lasciato cadere la loro campagna per essere riconosciuti come stato alle Nazioni Unite sulle linee del 1967.In contrasto con questa tendenza, il presidente degli Stati Uniti, nei suoi venti minuti di discorso all’Assemblea Generale dell’Onu, è stato molto attento a non attribuire a nessuna delle due parti la responsabilità per la rottura dei negoziati. Barack Obama ha invece sollecitato sia gli israeliani che i palestinesi ad avviare negoziati diretti senza accennare a nessuna precondizione. Evidentemente il presidente Obama capisce meglio di tanta parte della stessa opposizione israeliana (per non dire di quella all’estero) che non è possibile incolpare sempre e solo il governo Netanyahu per l’assenza di pace.Dopotutto, cosa avrebbe potuto plausibilmente offrire Netanyahu ai palestinesi per far ripartire i colloqui? Netanyahu ha già accettato, nel 2010, sotto pressioni americane e occidentali, una moratoria senza precedenti di dieci mesi di tutte le attività edilizie ebraiche in Giudea e Samaria (Cisgiordania), compresi i grossi insediamenti di Ma’aleh Adumim, Efrat ed Ariel che tutti in Israele considerano destinati a restare parte di Israele in qualunque accordo finale. Ma i palestinesi hanno sprecato nove di quei dieci mesi rifiutandosi di negoziare a meno che il congelamento non venisse esteso fino ad includere i quartieri di Gerusalemme che la stragrande maggioranza in Israele considera definitivamente israeliani, come French Hill, Ramat Eshkol e Ghilo.È vero, come ha detto l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert, che “i parametri del futuro accordo di pace sono ben noti a tutti e sono già stati messi sul tappeto”. Senza dimenticare il fatto, però, che quegli stessi parametri – che prevedono la creazione di uno stato palestinese su un territorio quantitativamente equivalente alle aree per-‘67 e la divisione/condivisione di Gerusalemme come capitale di entrambi gli stati, israeliano e palestinese – vennero già offerte nel 2000 e nel 2008, rispettivamente dai primi ministri Ehud Barak e Olmert. [“Per ragioni che ancora oggi, dopo tutti questi anni, non conosco per certo, Arafat rifiutò l’accordo che avevo messo insieme e che Barak aveva accettato – ha detto Bill Clinton la sattimana scorsa, ad una tavola rotonda della Clinton Global Initiative – E allora avevano di fronte un governo israeliano che era disposto a cedere anche Gerusalemme est come capitale del nuovo stato di Palestina”.]Ma i dirigenti palestinesi respinsero entrambe quelle offerte perché si rifiutano di cedere sul cosiddetto diritto al ritorno” che, se applicato, comprometterebbe la maggioranza ebraica determinando l'invasione d'Israele con milioni di “profughi” palestinesi (veri e presunti), anziché reinsediarli nel loro futuro stato palestinese.In realtà la dirigenza palestinese, che rifiuta di riconoscere Israele come stato nazionale del popolo ebraico, non ha fatto assolutamente nulla per preparare la propria gente alla pace con Israele. Al contrario, i mass-media e i politici palestinesi continuano imperterriti a glorificare i terroristi stragisti e ad alimentare la rovinosa illusione che il popolo palestinese possa un giorno reinsediarsi a Giaffa, a Haifa e in tutto il resto di Israele.Alla vigilia delle festività ebraiche di Rosh Hashana e Yom Kippur, è naturale tendere all’autocritica e all’esame di coscienza: fa parte integrante della cultura ebraica l’assunzione di responsabilità personale da parte di ciascuno e la necessità di rincrescersi per i propri errori onde non ripeterli. Ma nel caso dei negoziati israelo-palestinesi, c’è veramente poco spazio per le autorecriminazioni da parte di Israele. La verità e che, se dipendesse soltanto da Israele, la pace sarebbe stata già raggiunta da un pezzo.(Da: Jerusalem Post, 22.9.11)

giovedì 29 settembre 2011


Dall'Ufficio culturale dell' Ambasciata d'Israele
"Cinematov" Settimana del Cinema israeliano a cura di Marta Teitelbau

Sponsorizzato dalla Regione Puglia e dall'Apulia film Commission la rassegna presenta 8 lungomettraggi e tre "corti". Tutti i film (dei nuovi e dei meno nuovi) girano intorno al tema "Tra identità nazionale e multuculturalismo". La rassegna, curata da Marta teitelbaum - giornalista e docente di ebraico all'università di Amiens - è alla terza edizione.Sarà presente il regista Dover Kosashvili il cui film "Inflitration" – basato su un romanzo di Yehoshua Kenaz che sarà pubblicato a breve dalla Giuntina di Firenze - aprirà il festival. Il Festival, Il film è candidto agli European Film Awards 2011. 24-29 ottobre Bari, Cinema ABC, Via Marconi 41





lL suono dei nostri passi Ronit Matalon

Traduzione di Elena Loewenthal Atmosphere Euro 18,50

Ospite del Festival internazionale di letteratura ebraica, la scrittrice israeliana Ronit Matalon presenta lunedì 19 settembre a Roma il suo primo romanzo tradotto in Italia, “Il suono dei nostri passi” che la casa editrice Atmosphere manda in libreria in questi giorni.E’ la storia di una di quelle famiglie ebree cacciate dall’Egitto, quasi da un giorno all’altro, dall’allora presidente Gamal Abdel Nasser dopo la nazionalizzazione del canale di Suez nel 1956: fu un momento drammatico per molti ebrei che sancì la fine di una presenza millenaria e continuativa, fin dai tempi delle Piramidi. Dopo l’avvento al potere di Nasser le condizioni politiche, sociale e culturali che si determinarono resero impossibile per le famiglie ebree che vivevano in Egitto lo svolgimento di regolari attività economiche, mettendo anche in pericolo la sopravvivenza stessa della comunità ebraica. Fu così che una collettività di circa 80.000 ebrei dovette trovare una nuova destinazione: Alcuni si trasferirono in America, in Francia, in Belgio e anche in Italia; e fra questi ultimi vi fu Carolina Delburgo autrice dello struggente memoir, Come ladri nella notte edito da Clueb e recensito in queste pagine nella sezione Letti & Commentati.Altri, come la famiglia di Ronit Matalon, presero la decisione di fare alyah lasciando al Cairo un mondo di affetti e amicizie oltre che un’esistenza consolidata, ma una volta giunti in Erez Israel si trovarono a vivere una quotidianità tutt’altro che facile.Nata nel 1959 a Ganei Tikva, l’autrice de “Il suono dei nostri passi” ha studiato letteratura e filosofia all’Università di Tel Aviv, lavorando poi come giornalista per il quotidiano Haaretz e occupandosi di Gaza e della West Bank negli anni della prima Intifada. Impegnata in ambito sociale ha partecipato a dimostrazioni organizzate dall’Associazione per i diritti civili in Israele e attualmente è docente di letterature comparate all’Università di Haifa e alla Sam Spiegel Film School dove insegna scrittura creativa.Scrittrice anche di libri per bambini, in Italia è stata apprezzata per un bellissimo racconto dal titolo “Fratello piccolo” contenuto nell’antologia “Israeliane” edita da Stampa alternativa: una raccolta di voci nuove accanto ad autrici ormai parte della tradizione letteraria d’Israele che offre uno straordinario spaccato della società israeliana ritratta dallo sguardo attento di un variegato universo femminile.Nel romanzo “Il suono dei nostri passi” l’autrice sceglie una bambina, Toni, come voce narrante e fin dalla prime pagine ci offre una visione triste e complessa di una realtà disagiata, una quotidianità che si dispiega fra sacrifici e duro lavoro.La madre, Levanah in ebraico, è il fulcro attorno al quale ruotano i personaggi: una donna instancabile, dallo spirito indomito e dalle mani, con il dorso bruciato dal sole, perennemente in movimento. (“…metteva sempre ovunque le mani: nella terra friabile o secca, nell’argilla, nel gabinetto del bagno otturato, nell’impasto, nella montagnola di cous cous, nel fertilizzante…”).Attorno alla madre si muovono gli altri figli che arricchiscono con storie e immagini suggestive il quadro di questa famiglia originale proveniente dal Cairo e alle prese con un mondo tutto nuovo: Corinne dal viso magnifico di una finezza evasiva che lavora come parrucchiera, Sami che si adatta a qualsiasi lavoro, ma trova anche il tempo di dedicarsi alla “bambina” leggendole libri di animali, Maurice, il padre, un uomo poco incline ad assumersi le sue responsabilità, una persona strana, cresciuta per le vie del Cairo con una madre mezza pazza e una casa nel totale disastro. Maurice, guida politica all’interno della Sokhbah, l’organizzazione che si occupa delle questioni relative alle comunità orientali e alla loro situazione, trascorre la vita sovrastato da un profondo senso di emarginazione, sia come individuo, sia come parte di quella comunità sefardita che per molto tempo è stata esclusa dalla dirigenza del paese.In questa esistenza difficile e precaria fanno capolino i ricordi dei momenti piacevoli trascorsi al Cairo, piccole pennellate di colore che ripercorrono i fasti di una vita diversa.Il romanzo di Ronit Matalon non si declina in una trama strutturata e il ritmo narrativo è pacato, a volte enigmatico: una particolarità che può rendere impegnativo per il lettore seguire il filo del racconto. L’autrice racconta la storia di questa famiglia “per bozzetti” fissando in immagini magistralmente ritratte, sullo sfondo dell’Israele degli anni cinquanta e sessanta, la difficile realtà sociale, politica e culturale di quell’epoca con uno sguardo acuto e sensibile alla psicologia dei personaggi, agli oggetti accuratamente descritti che li circondano e alla casa dove vivono “…il prefabbricato che avevano depositato, semplicemente depositato sulla sabbia…”, dimora e unico rifugio per chi è stato cacciato via dal proprio paese, dai propri affetti e con le proprie forze deve ricostruirsi una vita dignitosa per se e i propri figli.E’ un libro sofisticato, enigmatico e contemporaneamente uno dei più umani della nuova letteratura israeliana, supera la barriera dell’intelligenza analitica per colpire direttamente quella emotiva.Giorgia Greco


La grande casa Nicole Krauss

Traduzione di Federica Oddera Guanda Euro 18

Sono quattro le voci narranti che compongono il mosaico dai colori intensi del nuovo romanzo di Nicole Krauss, La grande casa.Quattro voci unite in modo mirabile dal fil rouge della memoria e da un punto di riferimento comune: una scrivania con 19 cassetti di cui uno chiuso a chiave. Un mobile misterioso e ingombrante “…che risucchia tutta l’aria della stanza, un colosso foriero di cattivi presagi che opprimeva gli occupanti della camera in cui si trovava”, sul quale i protagonisti della storia scrivono racconti o romanzi e che diventa il simbolo di esistenze che si intrecciano, dei ricordi e delle sofferenze di chi l’ha perduta o ricevuta in dono.L’autrice che abbiamo apprezzato ne “La storia dell’amore” condivide con il marito, il famoso scrittore Nathan Safran Foer, la maestria nel dare vita a situazioni e personaggi insoliti; segnalata dal The New Yorker, fra i venti scrittori americani under 40, Nicole Krauss si conferma con quest’ultima opera una scrittrice matura perl’ abilità narrativa e la capacità di sondare i risvolti più riposti dell’animo umano.Le sue origini ebraiche che si riverberano nelle storie che narra, lasciano una forte traccia soprattutto nell’ultimo romanzo. Il titolo stesso “La grande casa” è un evidente richiamo alla storia ebraica, a come gli ebrei sopravvissero alla diaspora. Dopo la distruzione del secondo tempio di Gerusalemme il rabbino Ben Zakkai trasforma “Gerusalemme in un’idea” fondando una scuola talmudica che viene ricordata con il nome di “Grande casa, una formula tratta dal libro dei Re. “…sono passati 2000 anni e ormai l’anima di ogni ebreo è costruita intorno all’edificio ridotto in cenere da quell’incendio, un edifico così ampio che ciascuno di noi può ricordare solo pochi dettagli ma se le memorie di tutti gli ebrei si ricongiungessero, la Casa risorgerebbe di nuovo…”E’ un romanzo complesso e coinvolgente l’ultimo libro di Nicole Krauss che non si legge d’un fiato ma invita il lettore ad una rilettura più attenta per riassaporare le emozioni che suscita e le sensazioni di mistero che aleggiano nel racconto.I quattro personaggi che si alternano nella narrazione sono uomini e donne soli, insicuri, inquieti pervasi da un senso di perdita e di morte, alcuni di essi scrittori in crisi creativa, che si muovono nel tempo e nello spazio attorno all’enorme scrivania di cui entrano in possesso e che poi perdono: un oggetto ingombrante che racchiude ricordi e intreccia memorie.Nadia, la prima voce narrante, è una scrittrice che vive a New York e ha ricevuto in custodia dal poeta cileno Daniel Varsky prima del suo ritorno in Cile proprio quella scrivania sulla quale ha composto i primi romanzi e che per ventisette anni ha fatto parte dell’arredamento della sua modesta abitazione. Mentre Varsky trova la morte nelle prigioni del Cile una giovane donna di nome Leah Weisz, che afferma di essere la figlia del poeta, chiede di rientrare in possesso della scrivania per evidenti ragioni affettive. Nadia, figura inquieta ed enigmatica, privilegia la solitudine e percepisce come “un’invasione della sua sfera privata” persino la condivisione con altri di un brano musicale.Per Nadia che ha finito per rinunciare a veri rapporti umani (l’ex marito la definisce “egoista, concentrata su di sé, immersa nel silenzio a difendere il proprio piccolo regno”), la scrittura assurge a punto focale nella sua esistenza mentre spiega ad un misterioso interlocutore cui si rivolge con l’appellativo “Vostro Onore” che “il potere della letteratura risiede nel grado di determinazione con cui la si produce”. Inoltre riflettendo sul ruolo dello scrittore ribadisce “la libertà di chi scrive, libertà di creare, alterare e correggere” perché “lo scrittore adempie a una più alta missione, a quella che solo in ambito religioso e artistico si definisce vocazione, e non può preoccuparsi troppo dei sentimenti di coloro da cui prende in prestito la vita”.Ogni storia racchiusa in questo libro è una piccola chiave che apre un nuovo “cassetto” del romanzo, ma quella di Lotte Berg un’ ebrea arrivata a Londra dalla Germania nazista come accompagnatrice di un kindertransport - uno di quei treni che all’epoca cercavano di sottrarre i bambini ebrei alla furia dei nazisti e darli in adozioni a famiglie disposte ad accoglierli - racchiude in sé qualcosa di particolarmente struggente.E’ il marito Arthur Bender, professore universitario a Oxford, a raccontarci con parole tenere e dolcissime di un rapporto difficile e sofferto con una donna molto amata che nasconde un inquietante segreto del passato di cui il marito verrà a conoscenza solo al termine della sua vita.Anche Lotte è una scrittrice e su quella scrivania che un giorno decide di donare a Daniel Varsky, suscitando la gelosia del coniuge, crea storie bizzarre e originali trasformando “l’urlo soffocato in cupi e drammatici racconti”.Nel dolcissimo legame che unisce Lotte e Arthur si ode l’eco dell’amore che ha segnato la lunga vita dello scrittore Harry Bernstein, recentemente scomparso all’età di 101 anni, con l’adorata moglie Ruby: un sentimento assai raro per intensità e forza che lo scrittore ci ha raccontato con grande delicatezza nel suo ultimo romanzo “Il giardino dorato”.La famiglia e i difficili rapporti che si instaurano fra genitori e figli è il filo conduttore di un altro filone narrativo con al centro la figura di Aaron, un padre israeliano autoritario che ha sempre ostacolato le aspirazioni letterarie del figlio Dovik.Giudice in pensione da alcuni anni Aaron, che è rimasto solo dopo la morte della moglie, ripercorre la sua vita ricostruendo il complesso rapporto con il figlio, un ragazzo introverso e infelice, senza nascondersi gli errori commessi ma con l’amara consapevolezza di non avere più tempo per rimediare. E’ un racconto duro nel quale emerge in modo drammatico tutta la sofferenza di un giovane israeliano che si confronta con la realtà terribile della guerra che spesso non uccide solo fisicamente, ma disgrega anche l’anima di chi viene messo dinanzi ad una scelta troppo ardua per qualsiasi essere umano: salvarsi lasciando morire il proprio compagno o perire entrambi?L’ultimo spezzone narrativo della prima parte del romanzo (la seconda completa e interseca la prima), è la voce di Izzy, una giovane americana, studentessa a Oxford che si innamora di Yoav Weisz, rampollo di un padre potente e ingombrante della cui autorità è vittima insieme alla sorella Leah. I fratelli che abitano insieme nella prestigiosa dimora di Belsize Park condividono un rapporto solo in apparenza controverso e nel quale si inserisce la giovane studentessa che si è specializzata in letteratura inglese perché ama profondamente i libri.Come per gli altri protagonisti, catturati dalla magia letteraria, anche per Izzy i libri occupano un posto importante e “la lettura è l’attività al centro della mia vita da quando riuscivo a ricordare, quella che in passato costituiva un baluardo contro la disperazione”….Solo in apparenza sullo sfondo è George Weisz, padre di Leah e Yoav, un mercante d’arte che vive fra Gerusalemme e altre città europee recuperando mobili e oggetti di valore affettivo per restituirli ai sopravvissuti di famiglie colpite dai nazisti; in tal modo possono ritrovare i ricordi e le suggestioni di un tempo perduto ricomponendo le loro amate stanze della gioventù. E fra questi cimeli c’è naturalmente l’imponente scrivania con 19 cassetti che arredava lo studio del padre nella Budapest del 1944.E’ un romanzo sofisticato e dall’intreccio misterioso quello di Nicole Krauss, un puzzle dove le storie principali celano racconti secondari, ricchi di spunti, di riflessioni letterarie, di metafore e suggestioni, come se aprendo un nuovo cassetto della scrivania spuntasse un’altra vicenda che si interseca mirabilmente con quella principale.Filo conduttore de “La casa grande” è la memoria, “un mezzo primario per creare un sé coerente”: un’opera che richiede impegno e attenzione nel lettore, che si consiglia di centellinare e assaporare lentamente per cogliere in profondità le diverse sfumatura della psicologia dei personaggi e individuare la chiave di interpretazione che apre uno squarcio sul mistero dell’esistenza. Giorgia Greco


Una corona in testa Yaakov Shabtai

Traduzione di Anna Linda Callow, Sara Ferrari, Genya Nahmany.Salomone Belforte & C. Euro 14

Keter Ba-Rosh è il titolo ebraico dell’ultima opera di Yaacov Shabtai, una commedia rappresentata al Teatro Cameri di Tel Aviv negli anni 1969-1970 con la regia di Shmuel Bonin e che arriva in Italia per la prima volta pubblicata dalla prestigiosa casa editrice Belforte di Livorno, nella magistrale traduzione di Sara Ferrari, Anna Linda Callow e Genya Nahmany.Una corona in testa, questo il titolo in italiano, è stata presentata lo scorso mese di ottobre a Milano nell’ambito di un convegno dedicato al tema “La Bibbia in scena” cui è seguita la proiezione della commedia messa in scena dal Teatro Habima di Tel Aviv per la regia di Ilan Ronen.Nato a Tel Aviv nel 1934 Shabtai è scomparso preaturamente nel 1987 lasciandoci alcune significative opere fra le quali alcuni racconti, “Lo zio Perez spicca il volo” e i romanzi “In fine” e “Inventario” nel catalogo Feltrinelli, ambientati prevalentemente a Tel Aviv e negli anni che precedono la seconda guerra mondiale, oltre che nel periodo post-bellico. Straordinario cantore di un mondo laico, Shabtai narra nei suoi libri la storia di una generazione inquieta che cerca la sua strada, popolata di antieroi che si muovono all’ombra delle grandi imprese sioniste. Filo conduttore della sua narrativa è la rievocazione di personaggi del mondo infantile, un mondo colto nel momento del suo allontanamento dalle tradizioni dell’ebraismo diasporico.Dalla collaborazione dello scrittore israeliano con il Teatro Cameri - per il quale tradusse opere dallo yiddish e dall’inglese - nasce l’opera teatrale “Una corona in testa” nella quale l’autore pone l’accento sul momento della vecchiaia di re Davide e analizza con straordinaria maestria gli ultimi momenti del suo regno e gli avvenimenti che hanno condotto alla successione al trono.Il re rappresentato da Shabtai è un uomo ormai vecchio e stanco, dal carattere iracondo e dal temperamento fanciullesco, a tratti capriccioso. Vorrebbe eludere gli impegni di corte, vivere tranquillamente e godersi la compagnia della giovane Abisag, la fanciulla che gli è accanto nella vecchiaia. Ma si rende conto che la designazione del successore al trono non può essere procrastinata in eterno e del resto nella decisione di rimandare tale scelta si ravvisa tutta “l’angoscia di un uomo la cui esistenza ha coinciso, nel bene e nel male, con quella del regno”.Ora che il vigore e la potenza della gioventù lo hanno abbandonato re Davide è un uomo solo, non più eroe, che si confronta con la morte e con il peso del passato senza poter intravedere alcuno scenario futuro. Uno stato d’animo che appartiene anche ad altri protagonisti dei romanzi di Yaacov Shabtai: uomini solitari, scettici, disincantati che si confrontano con qualcosa di ineluttabile e combattono nella loro desolante quotidianità fra il desiderio di vivere e quello di morire come se il senso della vita avesse subito un cortocircuito.Da un punto di vista narrativo – scrive Sara Ferrari nella prefazione – Una corona in testa riporta in maniera fedele gli eventi narrati nella Bibbia, eccezion fatta per pochi diversivi comici, costituiti da una bizzarra disputa tra due altrettanto bislacchi individui e da alcuni elementi anacronistici. I personaggi principali sono i medesimi del racconto biblico: il re Davide, Betsabea, il profeta Natan, Sraya, Cusai, Ioab, Abiatar, Adonia, Abisag, Salomone. Tuttavia la profonda analisi psicologica della vicenda, in particolare del suo protagonista, e la freschezza della lingua, un ebraico parlato arricchito da citazioni bibliche, rivelano la grande opera di riscrittura e d’interpretazione realizzata da un autore notevole….”Non sveliamo oltre di questa suggestiva commedia per la quale Shabtai ha scritto due diversi finali che evidenziano con grande incisività le diverse sfaccettature dello stato d’animo di Davide per non compromettere il piacere della lettura.Ci preme però sottolineare l’immenso valore letterario e storico di quest’ultima opera di Shabtai, uno scrittore morto prematuramente che si iscrive a pieno titolo fra i più importanti cantori della letteratura israeliana, “maestro della descrizione molecolare e grande narratore del divario tra i sogni e le realtà di Israele”.Giorgia Greco


EDMUND DE WAAL UN’EREDITA’ DI AVORIO E AMBRA

Traduzione di Carlo Prosperi, Bollati Boringhieri editore, Collana Varianti, Torino, Agosto 2011, pp. 397, €. 18,00

“A Vienna non esiste più un Palais Ephrussi e non esiste più una Banca Ephrussi. La città è stata mondata della famiglia Ephrussi…La famiglia non è stata cancellata, è stata corretta”.Dopo la pubblicazione in Gran Bretagna nel giugno 2010 (200.000 copie vendute) e negli USA a inizio 2011 (7 edizioni in 8 mesi), esce nel nostro Paese, con Bollati Boringhieri, Un’eredità di avorio e ambra, che può essere definito senza alcuna enfasi il caso letterario dell’anno. L’Autore, Edmund de Waal -olandese per parte di padre, nato a Nottingham nel 1964, residente nella capitale britannica, dove vive e lavora- critico, storico dell’arte e docente di ceramica presso l’Università di Westminster, è uno dei più famosi ceramisti inglesi. Inoltre è curatore del Victoria & Albert Museum di Londra. Egli stesso ci racconta che, nel 1991, a ventisette anni, in occasione di un soggiorno di studio a Tokio finanziato da una fondazione giapponese, ritrovò il prozio Ignace, per tutti Iggie, Ephrussi, (fratello della nonna paterna Elisabeth), colà residente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella quale aveva combattuto partecipando allo sbarco alleato in Normandia. Abile uomo d’affari, in grado pure di apprezzare il bello della vita, Iggie è persona elegante, raffinata, piena di umanità: il custode delle memorie di famiglia, pur immune da qualsivoglia nostalgia fuor di luogo. Nella confortevole casa dello zio il giovane Edmund ammira la splendida collezione di 264 netsuke che Iggie aveva ricevuto tanti anni prima dalla sorella maggiore Elisabeth. I netsuke (da ne -legno- e suke -bottone-) sono minuscole sculture giapponesi, la cui origine viene fatta risalire per lo più al XV° secolo, delle dimensioni di una scatola di fiammiferi, in avorio o legno talora decorate con ambra, raffiguranti animali, piante, figure umane, divinità. Esse sono forate da due buchi attraverso per i quali passava un cordoncino in seta ed erano destinate a fissare alla cintura del kimono (veste priva di tasche) la scatoletta delle medicine o per il tabacco. La storia di questi piccoli oggetti è strettamente legata a quella della famiglia d’origine dell’Autore: gli Ephrussi, Ebrei originari di Odessa; in origine commercianti di cereali, poi ricchi banchieri conosciuti in tutta Europa, proprietari di palazzi e ville sparsi per il Continente. In occasione degl’incontri con Iggie Edmund entra in un universo fino ad allora a lui poco conosciuto. La vita nella Vienna fin du siècle e primi decenni del Novecento nel fastoso Palazzo di famiglia sulla Ringstraße -ora sede di Casinos Austria, la società che riunisce i casinò austriaci-, non lontano da Bergasse, dove risiedevano Sigmund Freud e Theodor Herzl. La Parigi degli artisti nel medesimo periodo, dove figura di spicco è Charles Ephrussi, mecenate, critico d’arte e amico, nonché ispiratore e committente (più o meno diretto) di illustri pittori, quali Renoir, Degas, o di scrittori come Proust, al quale ispirerà il personaggio di Swann. Sarà proprio Charles, il primo proprietario della collezione di 264 netsuke, a donarla nel 1899 al cugino “viennese” Viktor in occasione delle nozze di quest’ultimo con l’affascinante Emmy Schey von Koromla (i bisnonni di Edmund). Le tragiche vicende della prima metà del Novecento, come il trionfale ingresso a Vienna di Adolf Hitler nel marzo 1938, le persecuzioni, i saccheggi e i furti nelle case degli Ebrei. Complici sia una certa fortuna, sia, in primo luogo, una coraggiosa persona non imparentata con la famiglia, che Edmund si rammarica di non aver potuto incontrare, le statuette sfuggono alle mani rapaci dei razziatori. Sopravvissute alle vicende belliche, esse ritornano al loro Paese di origine grazie a Iggie. La narrazione suggestiva di questi fa assumere alle vicende familiari un sapore nuovo. “…Forse”, riflette de Waal “avrei dovuto sedermi accanto a Iggie con un taccuino e registrare quello che mi diceva della Vienna prima della Grande Guerra. Ma non lo feci mai. Mi sarebbe sembrato un atteggiamento formale e scortese, oltre che opportunista…..il bello della ripetizione è che leviga le cose, e i racconti di Iggie somigliavano ai sassi di fiume”. Lo zio muore nel 1994, dopo aver lasciato in eredità la sua preziosa collezione al nostro Autore. Le statuette esercitano su Edmund un irresistibile fascino: con calma prende in mano queste “piccole, spietate esplosioni di esattezza”, com’egli le chiama, le soppesa, una per una, ne rivive la storia, i misteriosi percorsi. Nasce quindi in lui l’esigenza di scoprire nel profondo “quale rapporto ha legato [ad esempio] questo oggetto in legno ai luoghi che ha attraversato…Voglio entrare in ogni stanza in cui questo oggetto ha vissuto, scoprire quali quadri erano appesi alle pareti…Voglio sapere di quali vicende è stato testimone”. Il titolo originale dell’opera è, non a caso, La lepre con gli occhi d’ambra. Un’eredità nascosta; assai più esatto e suggestivo di quello adottato nell’edizione italiana. L’A. compie un affascinante viaggio attraverso il tempo e lo spazio che lo porterà, autentico flaneur, a Parigi, Vienna, Kövecses (Cecoslovacchia), Tokio (dove si reca più volte anche dopo la morte del prozio). Infine Odessa. Qui iniziò l’avventura della famiglia -originaria di Berdychiv, uno shtetl dell’Ucraina del nord-: in una città, certo legata alla persecuzione contro gli Ebrei, ma pure piena di artisti e scrittori, intraprendente, ironica e poliglotta. Luogo ideale dal quale partire, non prima di aver mutato il proprio nome, per dar libero sfogo a “quello spirito di avventura che ti spinge a vagabondare sulle tracce di Dürer o di un libro antico [Charles Ephrussi], ad inseguire un’amante [Stefan] o l’ennesimo buon affare [il “patriarca Haim, -da Berdychiv, nato nel 1793-, divenuto Joachim, indi Charles Joachim; o i suoi congiunti e discendenti, dediti alle attività di famiglia]. E’ qui che gli Efrussi divennero gli Ephrussi di Odessa”. De Waal ripercorre dunque non solo la storia dei netsuke, passati di mano in mano, da una città all’altra, ma anche quella della sua eccezionale famiglia d’origine. Visita luoghi, incontra persone, fa rivivere istanti lontani, compulsa cataloghi, interpella studiosi di diverse discipline, entra in contatto costante, puntuale, ma anche affettuoso, con oggetti e ricordi di casa. Un Diario di Viaggio che è pure, come capita quando lo si vive con autenticità, un Viaggio dentro Se Stessi, il proprio Passato e Presente. E Futuro se pensi ai tuoi figli. Ne è nato un racconto avvincente, un’opera incantevole che ha catturato un pubblico sempre più numeroso, non a caso insignita di due prestigiosi Premi letterari, il Costa Biography e il New Writer of the Year al Galaxi Book Award. Specie nei ritratti, a cominciare da quelli degli antenati, la prosa di Edmund è incisiva, ma lieve, quasi tattile, come si addice ad un eccellente ceramista, attento all’estetica, all’ambientazione degli oggetti, visti come creature vive. Fornisco qui alcuni flash rimandando chi legge all’affascinante testo, per individuare legami e cesure, il perdersi e il ritrovarsi. Tappa imprescindibile della ”spedizione” è Parigi. Qui, in Rue de Monceau n. 8, c’è 1’Hotel EPHRUSSI (ora sede di un istituto di previdenza privato). Costruito nel 1871 non solo come residenza privata, ma anche come sede parigina di una famiglia illustre, era il corrispettivo nella capitale francese del palazzo viennese sul Ring: entrambi costruiti nel 1871, entrambi in zone nuove della città, di recente urbanizzazione. Qui stavano tre fratelli: Jules; Ignace; Charles. C’era anche una sorella, morta ventenne di parto, Betty. Tutti erano nati a Odessa, figli di Léon Ephrussi e di Mina Landau (ramo “parigino”). Léon era figlio del “capostipite” Charles Joachim e della prima moglie Bella. Nel 1826 era nato Léon; nel 1829 il fratello germano Ignace, che darà vita al ramo “viennese”. Il capostipite si era risposato a 70 anni a Odessa e aveva avuto altri figli. Per non scoraggiare i lettori in apertura del libro c’è l’albero genealogico della famiglia ad evitare inutili sforzi mnemonici. A Parigi Charles Ephrussi è un personaggio pubblico, brilla nei “salotti”; suscita ovviamente invidie, acuite dal fatto che è ebreo: l’antisemitismo, più o meno strisciante, talora emerge con forza. C’è chi stigmatizza come gli ambienti della buona società siano “ormai infestati di ebrei e ebree”. Si prepara il terreno al tristemente famoso “caso Dreyfus” (1894/1902). Antisemitismo che toccherà in pieno il più giovane cugino di Charles, Viktor (il donatario delle statuette; è il padre della coraggiosa Elisabeth, poeta e avvocata), appassionato bibliofilo per vocazione, uomo d’affari per dovere. La notte stessa dell’entrata in Vienna dei nazisti, nel marzo 1938, Palazzo Ephrussi riceve la prima “visita” dei nuovi padroni. La prosa di Edmund si fa asciutta mentre scandisce ciò che accade in un arco di tempo incredibilmente breve: i pugni alla porta, il suono insistente del campanello, l’incursione di una decina di uomini con indosso un’uniforme, la fascia con la svastica….le risate volgari di chi rovista nell’armadio di Emmy, moglie di Viktor, tra abiti ed oggetti personali di lei….Gli Ephrussi strattonati e spinti contro il muro, mentre quegli energumeni mandano in pezzi le porcellane, sollevano lo scrittoio di Viktor e lo gettano oltre la ringhiera del balcone, mandandolo a sfracellarsi nel cortile….. Il tutto nell’odio antisemita più sfrenato, congiunto alla volontà di violare l’intimo delle persone, di cancellarle, non prima di averne stravolto l’intimità più profonda. Se ci si pensa bene, al di là dei numeri (pure ingenti), è questo il nocciolo della Shoah: distruggere la tua umanità, il tuo essere, la tua essenza, il tuo Nome, al quale la cultura ebraica -in primo luogo- annette tanta importanza. E torneranno i barbari, i nuovi padroni…torneranno per completare l’opera. In breve l’Austria, in primo luogo quella ebraica, è irrimediabilmente sfregiata. Il suicidio di Emmy nella tenuta di campagna, l’emigrazione all’estero. Il dramma del dopoguerra. L’incontro, in una Vienna triste, tra Elisabeth e il misterioso “salvatore delle statuette” col passaggio delle stesse da una mano all’altra. L’incanto del tempo nel susseguirsi delle generazioni, il ritornare all’origine seguendo un moto ellittico, a spirale.Oggi, come sappiamo, i netsuke si trovano a casa de Waal, in uno stabile di epoca edoardiana, affacciato sui platani di una amena via di Londra. E i tre giovanissimi figli di Edmund e Susan (Sue), ai quali l’opera è dedicata, possono scoprire e toccare la loro magia, come fecero, cento anni prima, i ragazzi Ephrussi.Un paio di riflessioni finali. Forse la figura più intrigante dell’opera è proprio…l’Autore. In lui ti colpiscono non solo la piena identificazione con la Tragedia, sempre problematica per chi non è ebreo di nascita, ma pure la gioia artigiana per il lavoro ben fatto, l’intelligente precisione, il suo incantarsi per il “particolare” che non perde certo di vista il “tutto”. Comprendi ciò quando lo vedi accarezzare quei piccoli oggetti con viva partecipazione. Scrive: “Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio?” Talora egli si sofferma su certi silenzi dei familiari, su zone recondite il cui accesso è perfino a lui interdetto, su quel “non avvicinatevi. Sono cose personali”. Questi congiunti, che avevano vissuto esperienze tremende e che desiderano raccontare a chi amano, a volte tacciono. E annota: “Ricordo le esitazioni nel parlare di Iggie ormai vecchio….esitazioni che si trasformavano in silenzi….che segnavano i luoghi della perdita”. Ciò significa che non si deve abusare della memoria, questa parola ormai trita, divenuta in breve un automatico lasciapassare per celebrare riti vuoti e dar vita a mistificazioni o peggio; per farla divenire Memoria è necessario rispettare le zone buie di ciò che “non può essere rivelato”. Condivido peraltro il pensiero di de Waal secondo il quale apparteniamo alla generazione cui è proibito lasciar perdere o “bruciare le cose”, come il nostro Autore scrive. Un nodo difficile da sciogliere, ma possiamo -con umiltà- provarci.E infine LA DOMANDA: Edmund, figlio di un sacerdote della Chiesa anglicana, (già cappellano dell’Università di Nottingham, dove pure sono nati lo stesso Edmund e il fratello minore Thomas) e nipote, per parte di madre, di un parroco, come vive le proprie radici ebraiche, in apparenza -solo in apparenza!-lontane? Questo libro ne è l’eloquente risposta.Mara Marantonio da www.angolodimara.com, dov’è leggibile la versione più ampia con alcune illustrazioni

martedì 27 settembre 2011


Dip your apple! Happy New Year!

La hit di Shakira di qualche anno fa, “Waka Waka”, è stata trasformata in una canzone per Rosh Hashana. Realizzato dai Fountainheads della Ein Prat Academy for Leadership – The Israeli Academy for Leadership, sta riscuotendo grande successo fra gli utenti di You Tube. (Il video è allegrissimo)

http://www.mosaico-cem.it/media/dip-your-apple-happy-new-year


A casa vittoriosi ma senza speranza

Cari Amici, pubblico sul mio blog l’analisi che ho scritto per l’Occidentale sul duello Netanyahu – Abu Mazen all’Assemblea Generale dell’Onu:

Missione compiuta. Il presidente dell’Autorità’ Palestinese Mahmoud Abbas, Abu Mazen, a Ramallah a dispetto della giornata insolitamente uggiosa ha annunciato che la “primavera palestinese” e’ nata, davanti ad una folla festante che per chi ha memoria storica ricordava tragicamente quella che accolse Yasser Arafat di ritorno da Camp David. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme ha convocato il “Consiglio dei sette”, la cui stessa esistenza getta un’ombra sulla sua capacità di leadership, per condividere con i più importanti membri della sua coalizione la soddisfazione per aver trasformato Barak Hussein Obana in Theodor Herzl e di aver piegato il Quartetto alle sue posizioni, negoziati senza pre-condizioni Entrambi soddisfatti, i due leader, dei rispettivi discorsi davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Peccato che le loro parole suonino come una orazione funebre per la morte del bene più prezioso: la speranza.Ripercorriamoli questi “storici” discorsi. Abu Mazen, ha rispolverato tutto l’armamentario retorico palestinese contro Israele: potenza occupante, pulizia etnica, apartheid. Ha condannato il terrorismo, è vero, ma enfatizzando quello “di Stato” dei coloni. Ha parlato di radici musulmane e cristiane della terra che rivendica, tacendo su quelle ancora più antiche e profonde dell’ebraismo. Haterminato con un gesto che ricorda quello del più fallimentare leader rivoluzionario della storia, Yasser Arafat, brandendo la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese come fosse un ramoscello d’ulivo.“Bibi” Netanyahu ha speso un terzo del suo lungo discorso per spiegare quanto disprezzasse la platea davanti alla quale parlava, “un teatro dell’assurdo” che condanna Israele e chiude gli occhi sulla Siria. Ha descritto il Medio Oriente come una minacciosa foresta popolata di coccodrilli islamisti, pronti a occupare ogni lembo da cui Israele si ritiri, dimenticando che grazie all’azione della leadership palestinese a Ramallah nessun attacco anti israeliano è stato lanciato negli ultimi anni dalla Cisgiordania. Ha chiarito, se ce ne fosse bisogno, che nei suoi sogni la sovranità del futuro Stato della Palestina non è molto diversa dall’autonomia di cui i palestinesi già godono nei Territori. Un doppio amen. Invece di tentare di costruire un ponte, i due leader hanno approfondito il solco che separa i loro popoli Aiutati in questo dall’amministrazione Obama, che in due anni e mezzo e’ spregiudicatamente passata dal sostenere le richieste degli uni e sposare la posizione degli altri, la ricetta migliore per perdere la fiducia di entrambi.I palestinesi hanno compiuto un azzardo diplomatico che potrebbe condurli in un vicolo cieco. L’Onu non darà loro lo Stato cui aspirano. E’ dubbio persino che la risoluzione presentata riesca ad avere i novi voti necessari in Consiglio di Sicurezza per costringere gli Stati Uniti a porre un imbarazzante veto. Abu Mazen dovrà accontentarsi del simbolico sì dell’Assemblea Generale. E poi? I toni populisti usati dal leader palestinese all’Onu mirano ad erodere il consenso di cui gode Hamas nella speranza che scenda a patti. Vero è che il movimento islamico e’ in difficoltà. Il protettorato di cui gode a Damasco è sempre più traballante. Dalla sua, però, ha i Fratelli Musulmani, che nell’Egitto del dopo Mubarak, sono destinati a contare. Il calcolo di Abu Mazen potrebbe rivelarsi sbagliato. Senza negoziato con Israele, nel medio periodo ad essere fagocitato dal coccodrillo islamista potrebbe essere proprio lui, il presidente palestinese e la leadership di Fatah che lo ha spinto ad imboccare la strada del riconoscimento all’Onu.Poteva Benjamin Netanyahu fare diversamente? La risposta positiva è nello storico, quello sì, discorso di Ariel Sharon all’Assemblea dell’Onu del 15 settembre del 2005. “Vengo da Gerusalemme, la capitale del popolo ebraico per 3.000 anni – aveva esordito -. La terra di Israele e’ preziosa per me, per il popolo ebraico, più di ogni altra cosa (…). Lo dico per enfatizzare l’immenso dolore che sento in profondità nel mio cuore, riconoscendo che dobbiamo fare concessioni per raggiungere la pace tra noi e i palestinesi”. Parole pronunciato il giorno dopo la fine dell’amministrazione militare nella Striscia di Gaza. Il Medio Oriente di Ariel Sahron non era popolato da coccodrilli meno feroci di quelli odierni. Nelle strade di Israele era possibile ancora sentire l’eco delle esplosioni dei terroristi palestinesi che si facevano saltare in aria sugli autobus e nei ristoranti tra gli applausi dei loro leader e del loro popolo. Eppure, l’ex premier era giunto alla conclusione, al termine di una vita combattuta in trincea, che lo Stato palestinese e’ prima di tutto nell’interesse supremo di Israele. Quando l’ictus l’ha costretto al silenzio, era intento a costruire il consenso attorno ad uno storico compromesso. Netanyahu avrebbe potuto fin dall’inizio seguire i passi del suo acerrimo nemico: prendere l’iniziativa, non subirla, con gesti concreti e non solo parole.L’esistenza di Israele è sempre stata minacciata. Lo Stato ebraico ha vinto contro ogni pronostico sfide esistenziali anche grazie alla parola magica del suo inno nazionale: tiqwa, speranza. Rimuoverla dall’orizzonte politico in un Medio Oriente che cambia velocemente e’ un grave rischio.http://www.claudiopagliara.it/ 26 settembre 2011