giovedì 29 settembre 2011


EDMUND DE WAAL UN’EREDITA’ DI AVORIO E AMBRA

Traduzione di Carlo Prosperi, Bollati Boringhieri editore, Collana Varianti, Torino, Agosto 2011, pp. 397, €. 18,00

“A Vienna non esiste più un Palais Ephrussi e non esiste più una Banca Ephrussi. La città è stata mondata della famiglia Ephrussi…La famiglia non è stata cancellata, è stata corretta”.Dopo la pubblicazione in Gran Bretagna nel giugno 2010 (200.000 copie vendute) e negli USA a inizio 2011 (7 edizioni in 8 mesi), esce nel nostro Paese, con Bollati Boringhieri, Un’eredità di avorio e ambra, che può essere definito senza alcuna enfasi il caso letterario dell’anno. L’Autore, Edmund de Waal -olandese per parte di padre, nato a Nottingham nel 1964, residente nella capitale britannica, dove vive e lavora- critico, storico dell’arte e docente di ceramica presso l’Università di Westminster, è uno dei più famosi ceramisti inglesi. Inoltre è curatore del Victoria & Albert Museum di Londra. Egli stesso ci racconta che, nel 1991, a ventisette anni, in occasione di un soggiorno di studio a Tokio finanziato da una fondazione giapponese, ritrovò il prozio Ignace, per tutti Iggie, Ephrussi, (fratello della nonna paterna Elisabeth), colà residente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella quale aveva combattuto partecipando allo sbarco alleato in Normandia. Abile uomo d’affari, in grado pure di apprezzare il bello della vita, Iggie è persona elegante, raffinata, piena di umanità: il custode delle memorie di famiglia, pur immune da qualsivoglia nostalgia fuor di luogo. Nella confortevole casa dello zio il giovane Edmund ammira la splendida collezione di 264 netsuke che Iggie aveva ricevuto tanti anni prima dalla sorella maggiore Elisabeth. I netsuke (da ne -legno- e suke -bottone-) sono minuscole sculture giapponesi, la cui origine viene fatta risalire per lo più al XV° secolo, delle dimensioni di una scatola di fiammiferi, in avorio o legno talora decorate con ambra, raffiguranti animali, piante, figure umane, divinità. Esse sono forate da due buchi attraverso per i quali passava un cordoncino in seta ed erano destinate a fissare alla cintura del kimono (veste priva di tasche) la scatoletta delle medicine o per il tabacco. La storia di questi piccoli oggetti è strettamente legata a quella della famiglia d’origine dell’Autore: gli Ephrussi, Ebrei originari di Odessa; in origine commercianti di cereali, poi ricchi banchieri conosciuti in tutta Europa, proprietari di palazzi e ville sparsi per il Continente. In occasione degl’incontri con Iggie Edmund entra in un universo fino ad allora a lui poco conosciuto. La vita nella Vienna fin du siècle e primi decenni del Novecento nel fastoso Palazzo di famiglia sulla Ringstraße -ora sede di Casinos Austria, la società che riunisce i casinò austriaci-, non lontano da Bergasse, dove risiedevano Sigmund Freud e Theodor Herzl. La Parigi degli artisti nel medesimo periodo, dove figura di spicco è Charles Ephrussi, mecenate, critico d’arte e amico, nonché ispiratore e committente (più o meno diretto) di illustri pittori, quali Renoir, Degas, o di scrittori come Proust, al quale ispirerà il personaggio di Swann. Sarà proprio Charles, il primo proprietario della collezione di 264 netsuke, a donarla nel 1899 al cugino “viennese” Viktor in occasione delle nozze di quest’ultimo con l’affascinante Emmy Schey von Koromla (i bisnonni di Edmund). Le tragiche vicende della prima metà del Novecento, come il trionfale ingresso a Vienna di Adolf Hitler nel marzo 1938, le persecuzioni, i saccheggi e i furti nelle case degli Ebrei. Complici sia una certa fortuna, sia, in primo luogo, una coraggiosa persona non imparentata con la famiglia, che Edmund si rammarica di non aver potuto incontrare, le statuette sfuggono alle mani rapaci dei razziatori. Sopravvissute alle vicende belliche, esse ritornano al loro Paese di origine grazie a Iggie. La narrazione suggestiva di questi fa assumere alle vicende familiari un sapore nuovo. “…Forse”, riflette de Waal “avrei dovuto sedermi accanto a Iggie con un taccuino e registrare quello che mi diceva della Vienna prima della Grande Guerra. Ma non lo feci mai. Mi sarebbe sembrato un atteggiamento formale e scortese, oltre che opportunista…..il bello della ripetizione è che leviga le cose, e i racconti di Iggie somigliavano ai sassi di fiume”. Lo zio muore nel 1994, dopo aver lasciato in eredità la sua preziosa collezione al nostro Autore. Le statuette esercitano su Edmund un irresistibile fascino: con calma prende in mano queste “piccole, spietate esplosioni di esattezza”, com’egli le chiama, le soppesa, una per una, ne rivive la storia, i misteriosi percorsi. Nasce quindi in lui l’esigenza di scoprire nel profondo “quale rapporto ha legato [ad esempio] questo oggetto in legno ai luoghi che ha attraversato…Voglio entrare in ogni stanza in cui questo oggetto ha vissuto, scoprire quali quadri erano appesi alle pareti…Voglio sapere di quali vicende è stato testimone”. Il titolo originale dell’opera è, non a caso, La lepre con gli occhi d’ambra. Un’eredità nascosta; assai più esatto e suggestivo di quello adottato nell’edizione italiana. L’A. compie un affascinante viaggio attraverso il tempo e lo spazio che lo porterà, autentico flaneur, a Parigi, Vienna, Kövecses (Cecoslovacchia), Tokio (dove si reca più volte anche dopo la morte del prozio). Infine Odessa. Qui iniziò l’avventura della famiglia -originaria di Berdychiv, uno shtetl dell’Ucraina del nord-: in una città, certo legata alla persecuzione contro gli Ebrei, ma pure piena di artisti e scrittori, intraprendente, ironica e poliglotta. Luogo ideale dal quale partire, non prima di aver mutato il proprio nome, per dar libero sfogo a “quello spirito di avventura che ti spinge a vagabondare sulle tracce di Dürer o di un libro antico [Charles Ephrussi], ad inseguire un’amante [Stefan] o l’ennesimo buon affare [il “patriarca Haim, -da Berdychiv, nato nel 1793-, divenuto Joachim, indi Charles Joachim; o i suoi congiunti e discendenti, dediti alle attività di famiglia]. E’ qui che gli Efrussi divennero gli Ephrussi di Odessa”. De Waal ripercorre dunque non solo la storia dei netsuke, passati di mano in mano, da una città all’altra, ma anche quella della sua eccezionale famiglia d’origine. Visita luoghi, incontra persone, fa rivivere istanti lontani, compulsa cataloghi, interpella studiosi di diverse discipline, entra in contatto costante, puntuale, ma anche affettuoso, con oggetti e ricordi di casa. Un Diario di Viaggio che è pure, come capita quando lo si vive con autenticità, un Viaggio dentro Se Stessi, il proprio Passato e Presente. E Futuro se pensi ai tuoi figli. Ne è nato un racconto avvincente, un’opera incantevole che ha catturato un pubblico sempre più numeroso, non a caso insignita di due prestigiosi Premi letterari, il Costa Biography e il New Writer of the Year al Galaxi Book Award. Specie nei ritratti, a cominciare da quelli degli antenati, la prosa di Edmund è incisiva, ma lieve, quasi tattile, come si addice ad un eccellente ceramista, attento all’estetica, all’ambientazione degli oggetti, visti come creature vive. Fornisco qui alcuni flash rimandando chi legge all’affascinante testo, per individuare legami e cesure, il perdersi e il ritrovarsi. Tappa imprescindibile della ”spedizione” è Parigi. Qui, in Rue de Monceau n. 8, c’è 1’Hotel EPHRUSSI (ora sede di un istituto di previdenza privato). Costruito nel 1871 non solo come residenza privata, ma anche come sede parigina di una famiglia illustre, era il corrispettivo nella capitale francese del palazzo viennese sul Ring: entrambi costruiti nel 1871, entrambi in zone nuove della città, di recente urbanizzazione. Qui stavano tre fratelli: Jules; Ignace; Charles. C’era anche una sorella, morta ventenne di parto, Betty. Tutti erano nati a Odessa, figli di Léon Ephrussi e di Mina Landau (ramo “parigino”). Léon era figlio del “capostipite” Charles Joachim e della prima moglie Bella. Nel 1826 era nato Léon; nel 1829 il fratello germano Ignace, che darà vita al ramo “viennese”. Il capostipite si era risposato a 70 anni a Odessa e aveva avuto altri figli. Per non scoraggiare i lettori in apertura del libro c’è l’albero genealogico della famiglia ad evitare inutili sforzi mnemonici. A Parigi Charles Ephrussi è un personaggio pubblico, brilla nei “salotti”; suscita ovviamente invidie, acuite dal fatto che è ebreo: l’antisemitismo, più o meno strisciante, talora emerge con forza. C’è chi stigmatizza come gli ambienti della buona società siano “ormai infestati di ebrei e ebree”. Si prepara il terreno al tristemente famoso “caso Dreyfus” (1894/1902). Antisemitismo che toccherà in pieno il più giovane cugino di Charles, Viktor (il donatario delle statuette; è il padre della coraggiosa Elisabeth, poeta e avvocata), appassionato bibliofilo per vocazione, uomo d’affari per dovere. La notte stessa dell’entrata in Vienna dei nazisti, nel marzo 1938, Palazzo Ephrussi riceve la prima “visita” dei nuovi padroni. La prosa di Edmund si fa asciutta mentre scandisce ciò che accade in un arco di tempo incredibilmente breve: i pugni alla porta, il suono insistente del campanello, l’incursione di una decina di uomini con indosso un’uniforme, la fascia con la svastica….le risate volgari di chi rovista nell’armadio di Emmy, moglie di Viktor, tra abiti ed oggetti personali di lei….Gli Ephrussi strattonati e spinti contro il muro, mentre quegli energumeni mandano in pezzi le porcellane, sollevano lo scrittoio di Viktor e lo gettano oltre la ringhiera del balcone, mandandolo a sfracellarsi nel cortile….. Il tutto nell’odio antisemita più sfrenato, congiunto alla volontà di violare l’intimo delle persone, di cancellarle, non prima di averne stravolto l’intimità più profonda. Se ci si pensa bene, al di là dei numeri (pure ingenti), è questo il nocciolo della Shoah: distruggere la tua umanità, il tuo essere, la tua essenza, il tuo Nome, al quale la cultura ebraica -in primo luogo- annette tanta importanza. E torneranno i barbari, i nuovi padroni…torneranno per completare l’opera. In breve l’Austria, in primo luogo quella ebraica, è irrimediabilmente sfregiata. Il suicidio di Emmy nella tenuta di campagna, l’emigrazione all’estero. Il dramma del dopoguerra. L’incontro, in una Vienna triste, tra Elisabeth e il misterioso “salvatore delle statuette” col passaggio delle stesse da una mano all’altra. L’incanto del tempo nel susseguirsi delle generazioni, il ritornare all’origine seguendo un moto ellittico, a spirale.Oggi, come sappiamo, i netsuke si trovano a casa de Waal, in uno stabile di epoca edoardiana, affacciato sui platani di una amena via di Londra. E i tre giovanissimi figli di Edmund e Susan (Sue), ai quali l’opera è dedicata, possono scoprire e toccare la loro magia, come fecero, cento anni prima, i ragazzi Ephrussi.Un paio di riflessioni finali. Forse la figura più intrigante dell’opera è proprio…l’Autore. In lui ti colpiscono non solo la piena identificazione con la Tragedia, sempre problematica per chi non è ebreo di nascita, ma pure la gioia artigiana per il lavoro ben fatto, l’intelligente precisione, il suo incantarsi per il “particolare” che non perde certo di vista il “tutto”. Comprendi ciò quando lo vedi accarezzare quei piccoli oggetti con viva partecipazione. Scrive: “Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio?” Talora egli si sofferma su certi silenzi dei familiari, su zone recondite il cui accesso è perfino a lui interdetto, su quel “non avvicinatevi. Sono cose personali”. Questi congiunti, che avevano vissuto esperienze tremende e che desiderano raccontare a chi amano, a volte tacciono. E annota: “Ricordo le esitazioni nel parlare di Iggie ormai vecchio….esitazioni che si trasformavano in silenzi….che segnavano i luoghi della perdita”. Ciò significa che non si deve abusare della memoria, questa parola ormai trita, divenuta in breve un automatico lasciapassare per celebrare riti vuoti e dar vita a mistificazioni o peggio; per farla divenire Memoria è necessario rispettare le zone buie di ciò che “non può essere rivelato”. Condivido peraltro il pensiero di de Waal secondo il quale apparteniamo alla generazione cui è proibito lasciar perdere o “bruciare le cose”, come il nostro Autore scrive. Un nodo difficile da sciogliere, ma possiamo -con umiltà- provarci.E infine LA DOMANDA: Edmund, figlio di un sacerdote della Chiesa anglicana, (già cappellano dell’Università di Nottingham, dove pure sono nati lo stesso Edmund e il fratello minore Thomas) e nipote, per parte di madre, di un parroco, come vive le proprie radici ebraiche, in apparenza -solo in apparenza!-lontane? Questo libro ne è l’eloquente risposta.Mara Marantonio da www.angolodimara.com, dov’è leggibile la versione più ampia con alcune illustrazioni

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