sabato 28 marzo 2009

La rete cinese sta impazzendo per le soldatesse d’Israele.

Lo conferma danwei.org, ma lo confermano i numerosi post presenti su ifeng.com, dove stanno continuando ad aumentare le pagine dedicate alle belle militaresse. Il fascino di queste ragazze non è passato inosservato a Phonix Tv dove sul forum ufficiale le loro foto sono introdotte con “Non avevo mai pensato che le soldatesse israeliane potessero essere così belle”. Ma i commenti dal puro e semplice apprezzamento arrivano anche alle critiche. Infatti le ragazze sono accusate di essere noiose perché nessuna è senza reggiseno o nuda. D’altronde nell’arte cinese contemporanea vi sono opere che ritraggono le donne militare anche in pose provocanti.
http://www.cinaoggi.it/, 18 gennaio 2009

Le cover-girl di Tsahal-Israele in guerra di look

Le soldatessa si fanno testimonial sulle riviste patinate
Immaginate una ragazza bellissima, occhi neri intensi, fisico da modella, bikini essenziale. Il prototipo della sensualità femminile, morbidezza e vita. Una dea? No, un militare, un militare di Tsahal, il temibile esercito israeliano. «Durante il servizio di leva adoravo sparare con la mitraglietta M-16 ed ero bravissima a colpire il bersaglio», racconta Yarden Harel, ex tenente dell’intelligence israeliana, conoscitrice esperta del confine libanese, ma soprattutto ragazza copertina. Una delle dodici selezionate per l’ultimo numero della rivista maschile Maxim dedicato alle soldatesse israeliane, «le divise più sexy del pianeta». Basta leggere le loro biografie per capire che non c’è trucco. Nivit Bash viene davvero dalla security («Il mio lavoro è top secret, posso solo dire che ho studiato l’arabo»), Natalie Niv si è formata nelle telecomunicazioni navali dove ha incontrato il generale diventato poi suo marito, Gal Gadot ha insegnato a lungo educazione fisica ai colleghi uomini prima d’essere incoronata miss Israele, «I soldati mi amano perchè li faccio stare in forma». Belle, toste e patriottiche. Perché Yarden e le altre sono in realtà le testimonial di una campagna promossa dal ministero degli Esteri israeliano per cancellare l’icona radicata del Paese con l’elmetto, sinonimo di guerra permanente, armi sofisticate, servizio militare obbligatorio per tutti, uomini e donne, tre anni di vita consegnati allo Stato. Che ultimamente Israele necessiti un’operazione di «re-branding», un cambio di look, è opinione diffusa. Il pubblicitario Simon Anhol, padre del Nation Brand Index, l’indice dei migliori Paesi in cui vivere, lo colloca all’ultimo posto della classifica dominata dalla Gran Bretagna, perché «troppo identificato con il brand del conflitto». Alcuni mesi fa il ministro degli Esteri Tzipi Livni ha convocato i diplomatici e i migliori specialisti di PR sul mercato per pianificare una strategia mediatica a tappeto che sganciasse l’idea che si ha del Paese dalla questione palestinese, ammettendo che «c’è un problema d’immagine enorme». Come spiegare che dietro la rigorosa divisa verde di Tsahal si nasconde un’anima? L’idea delle modelle-soldato è venuta alcuni mesi fa al Consolato israeliano di New York, dopo l’ennesimo rapporto negativo sulla percezione d’Israele nel mondo, una nazione che oggi neppure gli amici americani si sentono di definire «rilassante». Finchè la critica arriva dall’amata-odiata Europa d’accordo, si può replicare per esempio che il sondaggio secondo cui Israele sarebbe più minaccioso dell’Iran e della Corea del Nord pubblicato nel 2003 a Bruxelles è il prodotto d’un astio antico, addirittura antisemita. Finchè a puntare l’indice è una coscienza inquieta come quella dell’ex presidente della Knesset Avraham Burg, che un paio di settimane fa ha accusato il suo Paese d’essere «militarista e morto dentro», c’è la possibilità d’invocare il lavaggio dei panni sporchi in famiglia, perché sempre di famiglia si tratta. Ma se gli Stati Uniti cominciano a vedere Israele come «una terra di conflitti insolubili, gente testarda e belle ragazze», il discorso cambia. «Dovevamo immaginare una campagna che comunicasse l’altra faccia d’Israele», ha detto il console generale di New York Ariyeh Mekel. E si è rivolto a Maxim. Funzionerà? Mohammad Abu Awwad, producer palestinese di Ramallah che lavora da anni con i media stranieri, è scettico: «Non convinceranno nessuno che sono diventati anime belle come i corpi delle ragazze». Ma sul piano comunicativo, ammette, «hanno segnato un punto». Perché anche nella terra del fuoco incrociato il vero fascino della divisa militare è simbolico, protagonista epico di storie e leggende come questa, raccontata da Mohammad: «Quando Gaza non era la prigione che ora è diventata, molte prostitute di Ashkelon andavano a lavorare lì. Un giorno i clienti palestinesi dissero loro che se avessero indossato l’uniforme dell'esercito israeliano le avrebbero pagate il doppio pur di aver la soddisfazione... E quelle, finchè fu possibile, guadagnarono un mucchio di soldi». 23/6/2007, http://www.lastampa.it/

Donne D’Israele - Angela Polacco. Guida per mestiere e vocazione


Da anni ormai il suo nome affiora qua e là dai reportage in terra d’Israele. Angela Polacco, guida turistica per mestiere e vocazione, si è infatti specializzata in un settore delicatissimo e d’alto impatto mediatico. Quest’energica signora di origine romana da tempo è divenuta la guida preferita di giornalisti, troupe televisive, politici e operatori culturali stranieri. Li accompagna nelle interviste e nelle visite, li sostiene sul fronte organizzativo, funge da interprete, intermediaria, amica e spalla. E soprattutto li aiuta a decifrare l’enigma appassionante del paese in cui ha scelto di vivere. Angela, 54 anni e due figli adolescenti, ha lavorato al tempo dell’intifada, della guerra del Libano e di Gaza senza mai incappare in una polemica o in contraddittorio pubblici. Il quarto d’ora di celebrità l’ha conquistato, suo malgrado, a settembre, quando si è ritrovata a guidare la visita a Yad Vashem di monsignor Fisichella e di un gruppo di parlamentari e amministratori italiani. Nella sala che espone il ritratto di papa Pacelli ha spiegato il silenzio intorno allo sterminio di sei milioni di ebrei definendo Pio XII “un Papa controverso”, di cui si sa che “fece scappare molti nazisti”. Ed è poi passata con il gruppo alla sala successiva.Fisichella al momento non era presente. Qualcuno gli ha però riferito quelle frasi e la bagarre, inevitabile nei mesi delle grandi manovre per la beatificazione di Pio XII, è esplosa su tutti i giornali investendo anche la targa che a Yad Vashem illustra la figura di quel Papa. “E’ ora di smetterla con questa storia – ha tuonato il rettore della Pontifica università lateranense - consultino gli archivi. Ci sono nuovi studi, come quello della commissione americana Pave, che dimostrano quanti ebrei abbia salvato il Pontefice. Altro che chiudere gli occhi. in fondo lo sanno anche loro, tanto che sono stati costretti a togliere la lunga descrizione che avevano appeso contro il Sommo Padre”.Angela, come ti sei sentita al momento delle polemiche?Stupita, molto. A Yad Vashem ho semplicemente raccontato la storia, il motivo per cui è esposto il ritratto di Pio XII. Qualcuno nella delegazione ha fatto notare che la Chiesa di ebrei ne ha salvati tanti. Ho risposto che per ora è provata l’indifferenza di quel Papa, non il suo contrario, senza perciò nulla togliere all’operato di tanti sacerdoti. Si trattava di una visita ufficiale, dai tempi brevi. E’ stata questione di poche frasi e ci siamo spostati nel padiglione successivo. La polemica è stata montata molto dalla stampa, che ha calcato la mano.Sei rimasta male?Assolutamente no. Il problema sta nella percezione di chi arriva a Yad Vashem. Nelle sue motivazioni personali, famigliari, negli eventuali sensi di colpa.Com’è maturata la tua decisione di vivere in Israele?Non è stata una scelta di quelle classiche, che dai movimenti giovanili ebraici porta all’università o al lavoro in Israele. La mia alyah è maturata sulla spinta di una forte crisi di valori. Sono arrivata nell’85, dopo la vicenda dell’Achille Lauro e dopo l’attentato che a Roma uccise il piccolo Stefano Tachè. Sentivo che l’Italia governata da Craxi e Andreotti non tutelava a sufficienza le sue minoranze religiose. Così ho deciso di andarmene.Una scelta difficile?Il distacco è sempre doloroso. Ero molto radicata nella mia città dove per 12 anni avevo insegnato storia e cultura ebraica nella scuola comunitaria. Lasciavo alle spalle una famiglia, gli amici. Avevo però la sensazione di una straordinaria opportunità che mi si apriva davanti.E il mestiere di guida turistica? E’ stata una passione immediata?Ho iniziato subito il corso all’Università di Gerusalemme. Dovevo cominciare tutto da zero, così ho pensato di restare nel mio campo. Devo dire che all’inizio vedevo questo lavoro soprattutto come un’opportunità d’insegnamento. Poi è scattata la passione.Con quali criteri guidi i tuoi visitatori alla scoperta del paese?Sono un po’ atipica rispetto altre guide. Non mi limito a spiegare l’architettura o i monumenti. Cerco invece di raccontare il paese, la gente, la società. Le persone arrivano di solito con un’idea preconfezionata d’Israele. Cerco di spiazzare le loro aspettative, di accendere dei dubbi.Molte delle domande riguarderanno la politica. Come ti comporti in questi casi?Con grande attenzione, senza esprimere mai le mie posizioni. Non sono lì per fare propaganda.In questi anni l’interesse rispetto Israele è cambiato?Oggi la gente si vergogna meno a porre domande ed è più preparata del passato.Quale aspetto del paese preferisci raccontare?Mi piace parlare della storia e della società attraverso le testimonianze di persone di culture e religioni diverse. Qui poi non è difficile riandare agli anni Trenta attraverso la viva voce di chi ha vissuto quegli eventi e appena possibile cerco di farlo.Un posto da visitare assolutamente?Vado matta per gli scavi archeologici del periodo di Erode, una figura straordinaria. Ma mi piacciono tantissimo anche Gerusalemme, Tel Aviv e i kibbutzim, ciascuno con il suo carattere.Torni spesso in Italia, che sensazione provi nel confronto tra i due paesi?Sono molto soddisfatta della scelta che ho fatto. Israele è un luogo in cui sei nella storia, la vivi ogni giorno e ogni giorno sei partecipe di una costruzione comune. L’Italia oggi mi appare statica, un po’ depressa.Eppure si parla spesso di una crisi di valori in atto in Israele.Non sono d’accordo. Israele è un paese in cui valori sono ancora forti.Che ruolo può avere l’ebraismo italiano rispetto la realtà israeliana?La relazione tra i due paesi va mantenuta e fortificata. Tutti noi dovremmo cercare di essere un ponte e un punto di riferimento tra il nostro paese d’origine e Israele valorizzando in modo particolare le prospettive identitarie e culturali.
Daniela Gross, http://www.moked.it/
nr: Angela Polacco è sempre la preziosa guida dei viaggi da me organizzati Chicca

Kinnereth (lago di Tiberiade)

Qui Torino – La figura del rav Dario Disegni Un rabbino italiano protagonista del '900

Ha suscitato grande interesse e successo, la mostra “Una storia del Novecento: il rabbino Dario Disegni” allestita nei locali della Comunità Ebraica di Torino e conclusasi da pochi giorni. L’appassionante impresa di ricostruire la vicenda biografica di questo personaggio centrale dell’ebraismo italiano (nell'immagine mentre conduce la Teffilà dinanzi al Tempio di Torino distrutto dai bombardamenti), condotta da Alberto Cavaglion, Lucetta Levi Momigliano e Isabella Massabò Ricci, unisce molti interessanti percorsi.L'iniziativa ha ripercorso il periodo storico dei conflitti che hanno funestato il ventesimo secolo dalla prospettiva di un rabbino che ha sempre vissuto in prima linea, noncurante delle difficoltà e dei pericoli della missione che si era prefissato.Negli anni della Grande Guerra rav Disegni esercitò il suo magistero ai confini dell’Impero austroungarico, nella Comunità Ebraica di Verona. Rivivere quell’esperienza significa anche approfondire l’approccio del mondo ebraico italiano, da poco emancipato, ai fenomeni di massificazione della società e all’emergere di sentimenti nazionalisti e irredentisti che tanto sconvolsero e dilaniarono il popolo italiano. E' stato così riproposto lo stimolante tema dello scontro tra identità ebraica e sentimento patriottico attraverso il difficile compito del rabbino di guidare tutti i membri della sua comunità sulla strada della coniugazione di queste due istanze.Seguendo gli spostamenti di rav Disegni nel primo trentennio del secolo abbiamo uno scorcio di diverse realtà ebraiche, da Firenze a Bucarest, da Tripoli a Torino.L’avvenimento che segnò più dolorosamente la sua vita è senza dubbio la Seconda Guerra Mondiale, che lo aggredì nei suoi affetti più cari. Ad Auschwitz trovarono la morte sua figlia Annetta e la sua nipotina di otto anni, Sissel.Dalle testimonianze sulla sua attività durante la guerra ci si fa l’idea che il suo grande coraggio sfiorasse i limiti dell’imprudenza, dell’incoscienza. Rimase stoicamente al suo posto e attese con determinazione ai suoi compiti fino all’ultimo. Solo verso la fine del 1943 fu costretto a rifugiarsi nell’Astigiano da una famiglia contadina con cui mantenne sempre un forte legame dettato dal sentimento di riconoscenza.Ma la mostra è stata anche un'occasione per comprendere la rifondazione dell’ebraismo nel dopoguerra, di cui il rabbino Disegni fu un assoluto protagonista. In particolare egli dedicò tutte le sue energie, fino alla fine della sua vita, a due grandi imprese: la costruzione della scuola rabbinica da lui diretta e intitolata al suo maestro Shemuel Margulies e la monumentale opera di traduzione in italiano, tuttora in uso in diverse comunità, dei siddurim per i giorni feriali, lo Shabbat, le festività, e dell’intero codice biblico (Tanach).La scuola rabbinica Margulies - Disegni rappresenta un vivaio di maestri dell’ebraismo italiano. Ed è stato uno di quei casi in cui non sono gli allievi ad andare a scuola, ma la scuola va dagli allievi. Rav Disegni ha portato avanti un’instancabile ricerca lungo tutto il bacino Mediterraneo di giovani promettenti cui far intraprendere studi ebraici. Era determinato a formare un’adeguata classe rabbinica per le generazioni avvenire.Ma l’impegno costante dei suoi ultimi anni fu dedicato tutto, con inarrestabile caparbia anche in età avanzata, a donare agli ebrei italiani la possibilità di seguire e comprendere le tefillot e la lettura della Torà. Qui esercitò massimamente le sue indubbie doti di organizzatore, radunò schiere di rabbini, traduttori e collaboratori, finanziatori, editori…Quest’impresa senza precedenti fu possibile solo grazie alla presenza, in una sola grande personalità, di una vastissima cultura ebraica e umanistica, rare capacità pratico-organizzative, attivismo incrollabile, comprensione umana delle esigenze di una comunità, quella italiana, decimata dalla guerra e sempre più distante, e forse anche quel pizzico d’incoscienza con cui sdegnava le obiettive difficoltà (economiche, di salute) cui andava incontro.La mostra è stata utile anche a raccontare l’affascinante vicenda umana, il ritratto di una personalità unica, del suo pensiero, della sua concezione dell’ebraismo. La sua fu una vita per l’ebraismo e per la sua gente, dominata, come racconta il rav Giuseppe Laras, uno dei suoi allievi, dall’”imperativo morale e l’impegno costante di diffondere la Torà e avvicinare alle fonti dell’ebraismo i fratelli più lontani”.La sua immagine austera (rimangono impressi i suoi modi burberi e sbrigativi, la sua statura, il suo abito scuro, che vestiva con un immancabile cappello a tesa larga) nascondeva in realtà sentimenti di affetto molto profondo e di vicinanza umana nei confronti dei suoi allievi e di tutte le famiglie della sua comunità, che si studiava di conoscere e seguire personalmente.Erano qualità, le sue, non facili da trovare anche nella maggiori figure del rabbinato, non solo per le conoscenze che possedeva, ma anche per l'apertura verso le frange più distanti del mondo ebraico e verso l’esterno. Fu lui, per esempio, a caldeggiare l’apertura della scuola ebraica di Torino ai non ebrei, caratteristica che rende l'istituto torinese un esempio raro in Europa, perché aveva ben compreso il valore del dialogo e della collaborazione interreligiosa nella costruzione di una mentalità collettiva della tolleranza, perché considerava nefasto l’isolamento anche quando non è coatto.“È importante lo studio che conduce all’azione pratica” fu la massima su cui impostò la sua vita e il suo magistero. La sapienza e le idee che lo caratterizzavano avevano valore solo in quanto base teorica di un’applicazione concreta del suo senso etico. Dice di lui un altro suo ben noto allievo, il rav Luciano Caro: “La coscienza profonda che nasceva dalla sua vocazione di maestro lo guidò nella sua azione di organizzatore, di suscitatore di sempre nuove imprese”.Questo incessante dinamismo, insieme ad una fede genuina e profonda, e a una ferrea moralità, forse fu il rifugio dalla disperazione e l’annichilimento in cui avrebbe potuto gettarlo la tragedia della perdita della figlia e della nipote.La mostra è servita a comprendere quanto l’ebraismo italiano sia debitore nei confronti di questo personaggio, la cui attività, condotta al di fuori di gesti eclatanti, ha lasciato una traccia profonda in chi l’ha conosciuto e indirettamente nelle generazioni successive.
Manuel Disegni , http://www.moked.it/

venerdì 27 marzo 2009


“CROCIATI E PARCHI NATURALI: Israele con gli occhi della storia e il cuore della natura ” 28 dicembre 2006 – 6 gennaio 2007

28 dicembre domenica: partenza da Roma e Milano con volo diretto ELAL. Visita di Jaffa in pulman. Cena e pernottamento al City Hotel di Tel Aviv
29 dic. lunedì: Independence Hall, Museo Haaretz.Visita di Tel Aviv e dintorni in compagnia dell'arch. Arieh Sonnino. Incontro con Amishav. Cena e pernottamento al City Hotel.
30 dic martedì: Cesarea e Acco .Incontro ufficiale esercito per aggiornamento sul Libano.
Cena e pernottamento kibbutz Alta Galilea
31 dic mercoledì: Galilea : Castello Kalaat Nimrod, Parco Banias, Montfort. Pranzo al villaggio Circasso Kama. Visita a Ha’ Moshava Kinneret dove lavorano in vari modi la frutta. Capodanno in Kibbutz Alta Galilea
1° gennaio giovedì: Luoghi Santi (Monte Beatitudini e Cafarnao), Valle del Giordano Belvoire, Parco Sachne, Gerusalemme. Cena e pernottamento Prima Kings. Incontro con il Prof Sergio Della Pergola in albergo.
2 genn. venerdì: tunnel lungo Muro Occidentale, Ofel, Monte Ulivi. Ore 15 visita al quartiere armeno. Cena presso famiglie della comunità italiana. Pernottamento al Prima Kings
3 genn. sabato: città vecchia con sosta al Santo Sepolcro e quartiere ebraico.Torre di Davide.
Pomeriggio libero. Cena e pernottamento al Prima Kings.
4 genn. domenica: h 9.00 visita a Yad Vashem (museo della Shoa), Parco Ein Faska, e Mar Morto. Cena e pernottamento al Prima Oasis Hotel (Mar Morto)
5 genn. lunedì: Spa e Mar Morto,Masada, Qumran e rientro a Tel Aviv.Cena al porto di Tel Aviv.Pernottamento al City Hotel.
6 genn. rientro in Italia**Prolungamento: per chi vuole, dal 5 al 7 gennaio, estensione al mar Morto per fanghi, SPA e relax, oppure, sempre dal 5 all’7 gennaio, estensione a Gerusalemme. L’8 si rientra in Italia*IL pomeriggio libero a Gerusalemme e' dovuto alla festività dello shabat (sabato). Saranno comunque forniti suggerimenti per un impiego alternativo del tempo

Allarme - salute


Da giorni, una lunga fila di camion carichi di pasticche per l’emicrania fa la spola tra i magazzini di medicinali della capitale e le redazioni di Repubblica e Unità. Centinaia di editorialisti, e migliaia di grandi esperti del M.O. sono oggetto di un malditesta percussivo. Origine del malessere, l’improvvisa presenza laburista nel governo di Netanyahu, che provoca anche attacchi di panico e scariche di diarrea. Se ci sarà la pace con un governo simile, vivere non avrà più senso. Il Tizio della Sera http://www.moked.it/

Un ottimo sito sulla storia del ghetto di Varsavia e non solo:




Heinz Jost fotografa il ghetto di Varsavia:

SS durante la Rivolta del ghetto di Varsavia

USA: RIEMERGE L'ARCHIVIO PERDUTO DEL GHETTO DI VARSAVIA

(AGI) - New York, 26 mar. - Venti scatole di latta, chiuse con lo spago, piene di foto e documenti: la voce degli erbei del Ghetto di Varsavia che torna dal passato. Disperso per decenni tra Europa, Usa e Israele, l'archivio perduto di quegli uomini e di quelle donne, vittime di una delle pagine piu' orrende dell'Olocausto, e' stato riassemblato da uno storico del Trinity College del Connecticut, Samuel Kassow. Ma il merito di aver permesso a quelle voci di tornare a farsi sentire, ancor prima di Kassow, spetta ad un altro storico, Emanuel Ringelblum. Fu questo studioso ed attivista politito, ebreo polacco, ad ideare e organizzare l'archivio. La sua e' una storia straordinaria. Come spesso capita ai dotti, Ringelblum credeva che la storia fosse dotata di una natura intrinsecamente positiva. Si sbagliava. Cosi', nel 1939, non condivise il parere dei suoi correligionari piu' avveduti dopo primo cannoneggiamento di Danzica, e resto' a Varsavia invece di cercare di fuggire all'estero. Quando pero' la Storia gli piombo' addosso con tutta la sua crudelta' reagi', e decise di fare la sua Resistenza. C'era chi inizio' fin dal 1940 a mettere da parte qualche fucile, in previsione della rivolta che sarebbe scioppiata piu' tardi. Anche Ringelblum fondo' un'organizzazione segreta. Si riuniva il sabato per non destar sospetti e di conseguenza si chiamava "Oyneg Shabes" (Gioia del Sabbath). Oltre alla resistenza armata aveva un altro scopo sociale: dar vita ad un archivio della vita quotidiana del Ghetto di Varsavia ai tempi di Adolf Hitler. Lasciare che quell'orrore venisse persino dimenticato, dopo essere stato perpetrato, sarebbe stata l'ultima e definitiva cittoria della Svastica.(AGI)

La strada giusta per la pace? È la Palestina moderata


di Daniel Pipes Liberal 26 marzo 2009
http://it.danielpipes.org/6246/la-strada-giusta-per-la-pace-e-la-palestina
I palestinesi hanno rifiutato il sionismo con una tale veemenza e per così tanto tempo (quasi un secolo) che il mufti Amin al-Husseini, Yasser Arafat e Hamas sembrerebbero aver goduto di un unanime appoggio palestinese.Ma non è così: un'indagine elettorale rileva che una sostanziale minoranza di palestinesi, circa il 20 per cento, è disposta a vivere fianco a fianco con uno Stato ebraico sovrano. Benché questa minoranza non sia mai stata al potere e la sua voce sia stata sempre sepolta sotto la furia negazionista, Hillel Cohen della Hebrew University di Gerusalemme ha messo a nudo il ruolo sorprendentemente cruciale assunto da questa minoranza nella storia.
Cohen esamina questa tematica nel periodo antecedente alla creazione dello Stato d'Israele nel volume Army of Shadows: Palestinian Collaboration with Zionism, 1917-1948 (tradotto da Haim Watzman, edito da University of California Press); inoltre, lo stesso autore, traduttore e casa editrice stanno preparando un seguito dal titolo Good Arabs: The Israeli Security Agencies and the Israeli Arabs, 1948-1967, che verrà pubblicato nel 2010.
In Army of Shadows, Cohen mostra gli innumerevoli ruoli che gli accomodanti palestinesi hanno rivestito per l'Yishuv, la comunità ebraica presente in Terra Santa antecedentemente alla nascita dello Stato d'Israele. Essi hanno dato lavoro, si sono lanciati nel commercio, hanno venduto terre e armi, hanno ceduto risorse statali, hanno fornito notizie di intelligence riguardo alle forze nemiche, hanno diffuso dicerie e disseminato discordia, hanno convinto gli altri palestinesi ad arrendersi, hanno combattuto i nemici dell'Yishuv e hanno persino operato dietro le linee nemiche. Il loro aiuto cumulativo è stato talmente ingente che ci si chiede se lo Stato d'Israele avesse mai potuto vedere la luce senza il loro contributo.L'incondizionata negazione del sionismo da parte del mufti era volta a rafforzare la popolazione palestinese, ma sortì l'effetto opposto. L'egoismo, l'estremismo e la brutalità della cricca di Husseini minarono la solidarietà: utilizzando un linguaggio velenoso e delle tattiche omicide, dichiarando il jihad contro chiunque disobbedisse al mufti e ritenendo che più della metà della popolazione palestinese fosse costituita da "traditori", questa consorteria spinse parecchi indecisi ed intere comunità (principalmente i drusi) a passare dalla parte sionista.Di conseguenza, Cohen scrive: «Col passare del tempo, un numero crescente di arabi era disposto a girare le proprie spalle [ai negazionisti] e ad offrire un diretto aiuto agli inglesi e ai sionisti». Egli definisce la collaborazione con il sionismo «non soltanto un tratto comune, ma anche centrale della società e della politica palestinese». Nessuno prima di Cohen ha compreso questo aspetto del passato storico.Cohen scorge una vasta gamma di moventi da parte degli alleati dell'Yishuv: profitti economici, interessi di classe o tribali, ambizioni nazionaliste, paura o odio della fazione di Husseini, etica personale, buon vicinato, o amicizie individuali. Contro coloro che definirebbero questi individui "collaboratori" o perfino "traditori", Cohen argomenta che essi in realtà hanno capito la situazione più astutamente di quanto fecero Husseini e i negazionisti: gli accomodazionisti con prescienza capirono che il progetto sionista era troppo forte per opporgli resistenza e che tentare di farlo li avrebbe portati alla distruzione e all'esilio, pertanto essi fecero pace con tale progetto.Entro il 1941, la macchina dell'intelligence aveva sviluppato sofisticati metodi che cercarono di utilizzare ogni contatto con i palestinesi allo scopo di raccogliere informazioni. Army of Shadows evidenzia quell'avanzato sviluppo sociale dell'Yishuv; ciò che Cohen definisce «la profonda penetrazione con i mezzi dell'intelligence della società araba palestinese» è stato un processo a senso unico: i palestinesi erano privi dei mezzi necessari per eguagliare e penetrare la vita ebraica.Insieme allo sviluppo di una forza militare (l'Haganah), di una moderna infrastruttura economica e di uno Stato democratico, questa infiltrazione della vita palestinese è considerata uno degli eclatanti successi del sionismo. Ciò stava a significare che, mentre i sionisti avrebbero potuto unificarsi e passare all'offensiva, «la società palestinese era preoccupata per le battaglie interne e non era in grado di mobilitarsi e unificarsi dietro una leadership».Cohen è modesto in merito alle implicazioni della sua ricerca, argomentando esplicitamente che l'aiuto palestinese non è stata "la causa principale" della sconfitta araba del 1948-49. Sì, d'accordo, ma la prova che egli produce rivela il ruolo cruciale che quest'aiuto ha avuto nel successo dell'impresa sionista nel periodo oggetto di trattazione del suo primo volume. È interessante notare che mentre quell'aiuto oggi continua ad essere importante per le Forze di difesa israeliane (come altrimenti l'esercito israeliano potrebbe vanificare i così innumerevoli tentativi terroristici in Cisgiordania?), lo Stato d'Israele utilizza delle risorse assai più ingenti di quelle impiegate dall'Yishuv, rendendo oggi l'aiuto palestinese molto meno precipuo.Cohen conferma inoltre un fattore fondamentale: non tutti i palestinesi sono nemici di Israele. Qualcosa che ho documentato per tempi più recenti. Questo offre motivo di speranza; in effetti, se i palestinesi che accettano Israele aumentassero dal 20 al 60 per cento il conflitto arabo-israeliano terminerebbe. Un simile ripensamento – e non più delle "dolorose concessioni" da parte di Israele – dovrebbe essere l'obiettivo di ogni sedicente mediatore di pace.

La casa di vetro


di Simon Mawer Traduzione di Massimo Ortelio, Neri Pozza Euro 18,00
“E il Glasraum le circonda, luogo di equilibrio e ragione, spazio senza età racchiuso in una cornice rettilinea capace di trasformare la luce in sostanza, il volume in materia tangibile, capace di negare l’esistenza stessa del tempo”.Punto di partenza e di arrivo di questo strabiliante romanzo di Simon Mawer è la Landauer Haus ovvero “La casa di vetro”.Il nuovo libro dello scrittore inglese si ispira a un celebre edificio dell’architetto tedesco Ludwing Mies van der Rohe che Mawer visitò a Brno, nella Repubblica Ceca: una stupenda residenza costruita alla fine degli anni venti per una ricca famiglia di industriali tessili.Posta sulla vetta di un pendio consente allo sguardo di cogliere ogni minima sfumatura dello spazio circostante attraverso le vetrate immense che la avvolgono, mentre una preziosa parete d’onice all’interno cattura i raggi del sole al tramonto offrendo uno spettacolo magico.Le vicende che hanno caratterizzato la vita dei Tugendhat, i veri proprietari, si avvicinano solo in parte a quelle dei protagonisti del romanzo di Mawer, i Landauer.Viktor è un ricco industriale ebreo che costruisce automobili, Liesel è una giovane e affascinante donna tedesca.La narrazione prende avvio nel 1929 quando i giovani Landauer, in viaggio di nozze a Venezia, incontrano lo stravagante e geniale architetto Von Abt al quale affidano il progetto per la loro nuova abitazione nella città di Město in Cecoslovacchia. Von Abt, che concepisce per i Landauer una “casa del futuro” costruita con vetro e acciaio, si definisce “un poeta della luce, dello spazio e della forma”. Sedotti da questo artista visionario Liesel e Viktor cresceranno i loro figli Ottilie e Martin in una casa stupefacente e costosissima destinata a suscitare perplessità, ammirazione e critiche.In questo scenario magico si muove un caleidoscopio di personaggi tratteggiati con grande maestria dall’autore e destinati a restare scolpiti nella mente del lettore. Frequentano casa Landauer intellettuali, artisti, musicisti, attrici e molti amici della giovane coppia fra i quali spicca Hana Hanáková, donna di forte sensualità e inquietante bellezza sposata a Oskar, un ricco e anziano ebreo che non si fa scrupolo di tradire con altri uomini e donne ogni qual volta se ne presenta l’occasione; la lega a Liesel Landauer una profonda amicizia e solidarietà femminili nella quale si insinua, in maniera velata, un sentimento proibito.Le vicende della famiglia si intrecciano con quelle della Storia e nel sanguinoso evolversi degli eventi (l’avvento dei nazisti, la disgregazione della Cecoslovacchia) i Landauer devono fare i conti con le proprie origini ebraiche e sono costretti a fuggire nonostante Liesel sia tedesca purosangue.Insieme a loro partono la giovane Kata e la figlia Marika in fuga da Vienna accolte in casa Landauer grazie alla generosità di Liesel che, ignara del legame che unisce Kata al marito, le propone di diventare bambinaia per i loro figli.E’ proprio alla stazione Nordbahnhof di Vienna che Viktor incontra Kata, una donna “dallo sguardo sveglio, intelligente…con occhi azzurri limpidi come un cristallo dietro il quale si vede il cielo” che arrotonda il misero stipendio di modista offrendo i suoi servigi agli uomini. Nonostante sia un marito integerrimo e un padre affettuoso, Viktor se ne innamora e organizza anche per lei e la figlia il trasferimento in Svizzera.
Nella quiete di Zurigo i Landauer trascorrono mesi di relativa serenità “portando i bambini a fare gite in vaporetto sul lago o bagnandosi nelle sue acque” mentre Liesel tiene viva con lettere malinconiche, piene di nostalgia, la sua amicizia con Hana.Tuttavia prevedendo il precipitare degli eventi Viktor, con grande saggezza, decide di emigrare negli Stati Uniti ma il viaggio si presenta subito complicato e, arrivati nella Francia occupata dai tedeschi, un nuovo evento drammatico metterà a repentaglio i già difficili equilibri nella famiglia Landauer.Nel frattempo anche la magnifica residenza progettata da Von Abt segue le vicissitudini della Storia diventando un laboratorio dove un gruppo di scienziati nazisti studiano i criteri distintivi delle razze per avere la conferma della superiorità della razza ariana.Dirige questo centro di studi l’Hauptsturmführer Stahl, un ufficiale privo di umanità che nasconde un segreto atroce e che intreccia una relazione amorosa con Hana, l’amica del cuore di Liesel.All’arrivo dei sovietici la Landauer Haus diventerà la palestra di un ospedale pediatrico dove Tomáš incontrerà l’affascinante Zdenka, esile e minuta ma capace di ammaliarlo con la sensualità della sua danza. Zdenka, che non ha potuto diventare ballerina a causa di una brutta caduta, si dedica al recupero dei bambini affetti da poliomielite. Per uno strano scherzo del destino la giovane donna incontra Hana che dopo essere stata deportata a Ravensbrück, nel nuovo ordine sovietico è diventata una funzionaria dei Beni Culturali con il compito di trasformare la prestigiosa residenza Landauer in Museo.L’epilogo di questo romanzo, struggente e commovente anche per la capacità dell’autore di scrutare con delicatezza nell’animo dei protagonisti, riserverà al lettore una nuova sconvolgente sorpresa come se il destino avesse voluto riannodare i fili di molte vite distrutte dagli eventi.Nel libro di Simon Mawer il virtuosismo consiste nella varietà dei toni, nello stile narrativo ipnotico, in una scrittura sobria, nitida, estranea a qualsiasi pretesa letteraria eppure capace di far lievitare il grumo dei sentimenti che si agitano nel cuore dei personaggi imprimendogli una intensità epica quale raramente s’incontra in un romanzo. Giorgia Greco

giovedì 26 marzo 2009


Pagine d'Israele – Haartez Il mostro sacro con il debole della provocazione


Sul più noto, il più antico, il più controverso e secondo molti nonostante tutto il più autorevole quotidiano israeliano si è detto di tutto. Ma la definizione di Haaretz che probabilmente è destinata a passare alla storia l'ha coniata il padre del Likud Menahem Begin. Interrogato su quale sia la linea politica del giornale di riferimento della classe dirigente, l'allora primo ministro liquidò la questione con poche parole: “L’ultimo governo appoggiato da Haaretz è stato il Mandato britannico sulla Palestina”.Primo quotidiano a essere pubblicato in Israele, Haaretz è generalmente, ma non da tutti, riconosciuto per la sua indipendenza e per il suo prestigio, e annovera fra i suoi lettori molta parte degli intellettuali israeliani e l'élite economica e politica. Il giornale è molto letto anche all’estero, soprattutto nella sua edizione in lingua inglese realizzata in collaborazione con il gruppo New York Times e distribuita assieme all'International Herald Tribune, nella versione settimanale dedicata agli abbonati in tutto il mondo e grazie al suo noto sito Internet.Nonostante la tiratura sia ampiamente inferiore ai due maggiori concorrenti, Yedihot Aharonot e Ma’ariv, il quotidiano esercita un’indiscussa influenza sull’opinione pubblica e i suoi editoriali vengono letti con attenzione dalle classi dirigenti, dai politici e dagli ambienti più colti.D’altra parte è innegabile che Haartez sia un giornale di nicchia, è sì una voce forte nel panorama informativo israeliano, ma non rappresenta l'orientamento dell'opinione pubblica, rema controcorrente e lo dimostrano i risultati delle ultime elezioni, non certo favorevoli allo schieramento progressista.Già dal nome, “Il Paese” (nel senso di Terra di Israele), si comprende l’inscindibile e complesso legame che intercorre fra la storia dello Stato ebraico e quella del quotidiano, sin dalla sua origine, nel 1919, Haaretz criticò il conservatorismo dei partiti e dei maggiori esponenti politici, costituendo, peraltro, un’autorevole voce per la risoluzione pacifica della questione mediorientale. Christoph Schult, giornalista del celebre settimanale tedesco Der Spiegel, racconta lo stupore di scoprire all’ingresso del quartier generale del quotidiano israeliano, un’istallazione raffigurante la carcassa di un animale riprodotto con elementi rossi per i muscoli e gialli per l’interno. Mentre il giornalista contemplava la scultura, gli si è avvicinato l’usciere spiegando: “è come la terra di d’Israele, bella fuori, martoriata dentro”. Durante i suoi novant’anni di vita, Haaretz ha cercato di portare in superficie le ferite d’Israele, di mettere in risalto le difficoltà e le contraddizioni del proprio Paese, a volte in modo talmente radicale da essere considerato sovversivo e sleale dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Per fare un esempio recente, basti pensare alla posizione presa di alcuni giornalisti che hanno accusato il governo israeliano di perpetrare ai danni della popolazione palestinese una segregazione simile a quella che caratterizzò il Sud Africa. Nonostante l’impopolarità per alcune prese di posizione, il giornale non ha mai cambiato la sua linea, improntata sui principi di un'estrema libertà d'espressione e di attenzione nei confronti dei diritti civili. Uno spirito critico, talvolta anche ipercritico, ereditato dai padri fondatori, un gruppo di sionisti di origine russa. Ma è con l’arrivo della famiglia Schocken, alla fine degli anni Trenta, durante il Mandato britannico in Palestina, che prende avvio un’era nuova. Il giornale acquista un riconoscimento internazionale per il valore e l’autorevolezza dei suoi collaboratori, dei suoi articoli e reportage.L’importanza della famiglia Schocken non deriva solo dalla creazione di un impero editoriale conosciuto in tutto il mondo: Salman, capostipite della famiglia, è stato uno dei maggiori promotori della cultura ebraica, in particolare negli Stati Uniti. Divoratore di libri sin da ragazzino, Salman ha una sorta di rivelazione leggendo La civiltà del Rinascimento in Italia di Burckhardt e decide di dare origine ad un “Rinascimento Ebraico”, diventare una sorta di Lorenzo De Medici della cultura ebraica.Primo passo verso la realizzazione del progetto è la creazione della catena di librerie Schocken in Germania, ma l’avvento del nazismo sconvolge i piani del giovane Salman, che decide di spostarsi nel 1934 in Palestina, portando con sé la famiglia e una collezione di 30 mila volumi di inestimabile valore, fra cui un documento sulla Teoria della Relatività scritto a mano dallo stesso Einstein. Haaretz nel frattempo inizia ad affermarsi nei circoli benestanti ed intellettuali del Paese, contando sulla collaborazione di illustri personaggi come Ze’ev Jabotinsky, padre del Revisionismo sionista, e Ahad Ha'am (Asher Hirsch Ginsberg), promotore dell’idea della creazione di uno Stato ebraico come centro culturale per l’ebraismo mondiale; un Paese basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini. Il giornale si rivela un ottimo veicolo per la diffusione delle idee umaniste di Schocken che lo acquista nel 1937, ponendovi come redattore il figlio, Gershom. La realtà è però ben diversa dalle visioni utopistiche di Schocken, che deve confrontarsi con il pragmatismo del sionismo nazionalista. Per trovare nuovo slancio, Salman decide di trasferirsi in America, rinunciando a parte dei suoi ideali giovanili. Uomo altero e testardo, il mecenate tedesco continua nella sua battaglia personale per la diffusione dei grandi classici della letteratura, avendo il merito di pubblicare per la prima volta negli Stati Uniti gli scritti di Kafka e di finanziare il futuro premio nobel Samuel Yosef Agnon. D’altra parte cassa senza tanti complimenti il lavoro di Eliot, entrando in conflitto con una sua collaboratrice, Hannah Arendt che lo definisce un dittatore “insopportabilmente inetto”.Come il padre, Gershom Schocken, diventato a soli ventiquattro anni direttore del giornale, dimostra ben presto una spiccata capacità imprenditoriale ma, a differenza del genitore, non è condizionato da una visione idealistica della realtà ed è meno radicato al passato. Nei cinquant’anni in cui ha tenuto le redini del giornale, Gershom si è distino per le sue battaglie per la liberalizzazione dell’economia israeliana, contro la censura e per la creazione di una Costituzione per il Paese. (In effetti con l'Indipendenza di Israele, nel 1948, sono state stabilite una serie di leggi fondamentali, ma non una Costituzione). Un uomo di grande dedizione, professionalità e cultura, così lo ha descritto Amos Elon, uno dei principali cronisti nella storia di Israele e autore del libro Israeliani, padri fondatori e figli, dopo la scomparsa dell’editore nel 1990.Sotto la direzione di Gershom Schocken, lo stesso Elon è diventato un giornalista di fama internazionale grazie alla sua abilità nel dipingere la realtà israeliana: grande successo hanno avuto i suoi articoli sulla realtà dei kibbutzim, sulla vita degli immigrati e sulla “seconda Israele”, riferimento ai settori più emarginati della società israeliana. Considerato uno dei più grandi giornalisti di Israele, Elon è ora lontano dalla redazione, avendo deciso di vivere gli anni della pensione in un pacifico paesino della Toscana. Intervistato da Ari Shavit, giornalista di Haaretz , Elon racconta di aver lasciato il giornale e Israele per una sorta di frustrazione. Negli ultimi quarant’anni, secondo lui, non vi sono stati cambiamenti significativi. I problemi si ripetono, le soluzioni si fanno attendere. Così il giornalista comincia a sentirsi ripetitivo, ad annoiare persino se stesso, non vi è più dialogo o quantomeno non è fatto in modo produttivo. La soluzione di Elon è stata quella di lasciarsi tutto alle spalle. Qualche buona parola Elon la spende per il suo vecchio giornale, a suo dire uno dei pochi quotidiani nel panorama internazionale a non essere stato risucchiato nell’industria dell’intrattenimento con i suoi titoli sensazionalisti e gli articoli incentrati sulla cronaca nera e il gossip. Elon si complimenta in particolare con Hanoch Marmari (direttore fino al 2004) per aver reso Haartez più interessante e cosmopolita. Altro giornalista e saggista che ha reso Haaretz la voce più autorevole del Paese, è Ze’ev Schiff, definito in un articolo apparso dopo la sua scomparsa nel 2007, come la quintessenza del corrispondente militare israeliano. Le sua analisi obbiettive e acute venivano lette e prese in grande considerazione dai più alti livelli dell'esercito israeliano. “Era un’istituzione in quanto tale, è stato uno dei fondatori del pensiero strategico in Israele” così lo definisce Zvi Stauber, direttore dell’Institute for National Security Studies. Corrispondente militare in Vietnam, Unione Sovietica, Cipro ed Etiopia, “Wolfy” (traduzione inglese del suo nome) era difficile da ricondurre ad un determinato schieramento politico. Dopo la guerra del Libano del 2006 criticò aspramente la dirigenza politica e militare, accusandola di incompetenza, di prendere decisioni affrettate e di aver permesso che la lotta al terrorismo finisse per screditare un esercito che prima eccelleva per competenza e preparazioneQueste e molte altre importanti figure del giornalismo israeliano hanno permesso a Haaretz di ottenere un livello qualitativo d’eccellenza, caratterizzato da uno stile diretto e tagliente simile al britannico Times, al tedesco Der Spiegel o all’americano New York Times, giornali che da sempre costituiscono un esempio internazionale di professionalità e indipendenza.. Influenzata dall’umanesimo paterno, l’idea di Gershom Schocken era creare un giornale in grado di garantire al proprio lettore tutte le informazioni necessarie, in modo da farne un membro attivo di una moderna democrazia come il giovane Stato di Israele. Il giornale non deve limitarsi a dare notizie, deve permettere alle persone di confrontarsi consapevolmente con la realtà. Prende così corpo un giornale che analizza i problemi da posizioni diverse, spesso scomode, in modo da dare al lettore una visione che vorrebbe essere ricca e ampia.Ma come può un giornale avere successo se non riflette nemmeno l’opinione di gran parte dei suoi lettori e abbonati? Vi è un limite da porre all’informazione per evitare di offendere la sensibilità comune? Nell’ultimo periodo hanno creato particolare scalpore e malessere fra i lettori , gli articoli di Gideon Ley e Amira Hass che raccontano la sofferenza dei palestinesi dei territori occupati. Molti contestano ai due giornalisti di parteggiare per la causa palestinese e di dimostrare una sostanziale indifferenza rispetto ai problemi della popolazione israeliana, accusando il giornale stesso di essere sleale. Il concorrente Jerusalem Post sostiene che i giornalisti di Haartez tendono a demonizzare Israele e fanno un vera e propria propaganda a favore dei palestinesi. Per uscire dalla situazione, oramai imbarazzante, Amos Schocken (nell'immagine in alto), diventato proprietario del giornale dopo la morte del padre Gershom, ha cercato la via del dialogo con i propri lettori, rispondendo via lettera e mail alle loro perplessità. Dal momento che Haartez stava perdendo lettori e soldi, ci si sarebbe aspettati un’imposizione dall’alto per fermare le polemiche e ammorbidire le voci scomode, mentre Amos si è trovato, come racconta in un’intervista, nella situazione paradossale di dover rassicurare il proprio redattore, troppo preoccupato per l’accesa reazione dei lettori. Quest’ultimo ha replicato stupefatto “ho un fanatico suicida come editore” . La scelta di rimanere coerenti alla direzione presa, spiega Amos, nasce dall’idea originaria degli Schocken che il giornale abbia una missione: raccontare la verità, o quantomeno tentare di farlo, senza rincorrere i sentimenti dei lettori. Sulla questione palestinese, l’editore sostiene che “la condizione in cui vivono milioni di palestinesi intorno a noi israeliani è qualcosa che dobbiamo conoscere”, inoltre “la capacità degli israeliani di prendere decisioni sul proprio destino migliorerebbe sicuramente se avessero una maggiore conoscenza, e forse una maggiore comprensione, per la vita, i pensieri e le percezioni dei nostri più stretti vicini, i palestinesi”. Nonostante il periodo burrascoso e in controtendenza al declino generale della stampa in Israele, Haaretz è cresciuto del 20% nelle vendite negli ultimi tre anni, in particolare con i direttori David Landau prima e Dov Alfon poi. Il giornale è passato da 62,000 a 74,000 copie vendute durante la settimana e intorno alle 100,000 al venerdì, con la ricca edizione del fine settimana, quando il giornale esce con inserti riguardanti scienze, cultura, arte, finanza e sport. Grande successo sta ottenendo il sito in inglese, con quasi un milione di visitatori al mese e un ampio e dinamico spazio per i commenti dei lettori.Per incrementare ulteriormente le vendite nella primavera del 2008 è stato nominato alla direzione Dov Alfon, ritornato al giornale dopo un brillante periodo al comando della casa editrice Kinneret Zmura-Beitan Dvir, che sotto la sua direzione ha duplicato il numero delle pubblicazioni vendute. Secondo Alfon uno degli ostacoli maggiori a una maggiore diffusione del quotidiano è la dimensione del formato, troppo grande e ingombrante. Preferirebbe vedere Haartez in una forma più snella, simile a quella dei tabloid inglesi. Ma i contenuti, assicura il nuovo direttore, non cambieranno. Alfon ha più volte sottolineato come in Israele, a differenza che in Europa o negli Stati Uniti, la politica continui a far vendere e che gli israeliani esprimano un grande desiderio d’informazione. Un dato che contribuisce a tutelare la salute di molte testate diverse e ne garantisce l'indipendenza anche quando scelgano la strada della critica e talvolta della provocazione.
Daniel Reichel http://www.moked.it/

Israele: al ristorante
La 13° Avenue a Brooklyn è il cuore commerciale del moderno shtetl di Boro Park. E' uno dei pochi luoghi dove i hassidim dei diversi gruppi si mischiano fra loro, per acquistare libri o mangiare alle tavole calde. Una di queste, molto gettonata per lo schwarma, alcuni giorni fa ha servito hot dog non kosher. Erano identici in tutto a quelli kosher tranne il fatto di essere un po' più lunghi. L'errore nell'acquisto era stato fatto da un inserviente asiatico, ma né il mashgiach né il titolare del negozio né decine di avventori se ne erano accorti. Poi è entrato un hassid molto anziano, che mangia in quel posto da qualche anno solo perché gli hot dog in vendita entrano perfettamente in un tipo di pane particolare. Si è accorto subito della differenza. Ed è scoppiato il putiferio. Il proprietario ha evitato a stento di essere travolto. Si è parlato di scomunica per la tavola calda. Al momento il locale è chiuso a tempo indeterminato. L'unico punto di incontro fra avventori infuriati e titolare danneggiato è stato nel rendere omaggio alla memoria visiva dell'anziano hassid. MaurizioMolinari,giornalista http://www.moked.it/

Sinagoga di Milano

Qui Milano – Vita ebraica e cibo kasher in ospedale Comunità e Regione Lombardia aprono un orizzonte

I pasti kasher. La visita del rabbino. Il parere di un medico amico, il conforto dei volontari e, se il caso, l’assistenza sociale della propria comunità. D’ora in poi i malati ebrei lombardi non dovranno più abdicare alle regole della kasherut o alle tefilloth quando si trovano ricoverati in ospedale. In questo momento di fragilità potranno anzi contare su un forte sostegno da parte dei correligionari e delle istituzioni comunitarie. A garantire la possibilità di una piena osservanza e l’intervento degli enti ebraici è la convenzione, siglata da pochi giorni, tra la Regione Lombardia e la Comunità Ebraica di Milano che accanto all’assistenza religiosa e ai pasti kasher prevede che le strutture sanitarie mettano a disposizione, ove gli spazi e la disponibilità di personale lo consentono, una sala per i decessi e la veglia.Il recente accordo, che colma una carenza molto sentita dai degenti ebrei, è frutto di un lavoro certosino che da oltre otto anni vede in campo l’Associazione medica ebraica (Ame). “La prima iniziativa – spiega Giorgio Mortara, medico chirurgo e presidente dell’Ame - risale al 2000 quando, nell’ambito di un progetto di umanizzazione delle cure, insieme al rav Laras abbiamo posto il tema della kasherut, dell’assistenza religiosa e dei decessi nell’ospedale milanese San Carlo Borromeo in cui lavoro”.La questione si definisce allora con una convenzione tra il nosocomio e la Comunità Ebraica di Milano, che si assume l’onere anche economico dei pasti. Sul fronte pratico si coinvolge invece la casa di riposo. In quanto struttura accreditata dalla Regione risulta infatti essere il soggetto più indicato a fornire i pasti kasher nel rispetto delle norme Haccp sull’igiene degli alimenti.L’impegno dell’Ame non si esaurisce però qui. Ma prosegue, ricorda il dottor Mortara, con un convegno all’università statale sull’umanizzazione sanitaria per poi espandersi ancora nel tentativo d’impostare un progetto di respiro regionale. Obiettivo, armonizzare in un'unica cornice le intese a tutela dei malati ebrei che negli anni si sono susseguite a macchia di leopardo tramite accordi con le direzioni sanitarie delle singole strutture. La recente delibera regionale sortisce proprio questo risultato. “La Regione – dice il dottor Mortara – si farà ora carico di comunicare le nuove disposizioni a tutti gli ospedali della Lombardia. Sarà invece nostro compito stipulare dei protocolli con le direzioni sanitarie sulla gestione pratica dei pasti”. I cibi saranno preparati dalla casa di riposo secondo le indicazioni dietetiche delle caposala ospedaliere e un importante apporto verrà dai volontari dell’associazione Sharon Biazzi.Accanto ai pasti kasher i malati avranno la possibilità di richiedere l’assistenza religiosa e il parere di un medico amico. E questo contatto ravvicinato renderà possibile l’attivazione dei servizi sociali della Comunità Ebraica, preziosi in caso di una convalescenza delicata o di perdita dell’autosufficienza. In caso di decesso l’accordo prevede infine che sia disponibile, sempre che gli spazi lo consentono, una sala priva di simbologia per il rito funebre e la veglia. Per richiedere questi servizi ci si può rivolgere al centralino della casa di riposo, allo 02 91981, tutti i giorni dalle 8 alle 20.I malati ebrei interessati a queste opportunità sono parecchi. Almeno 200 l’anno su scala regionale, secondo le stime degli ideatori dell’iniziativa. “In un momento di vulnerabilità quale la malattia e il ricovero – dice Giorgio Mortara – è molto importante avere la possibilità di trovare risposta a bisogni essenziali: la religione, i cibi abituali, l’assistenza di chi ci conosce ed è in grado di capire le nostre necessità”. In questo frangente la relazione umana e la capacità di dialogo si rivelano infatti uno strumento potente di cura. E non solo per il malato ebreo.Non a caso nel passato è accaduto molte volte che i medici dell’Ame o i volontari venissero coinvolti dagli operatori sanitari per capire meglio le problematiche dei degenti di altre fedi o nazionalità. E da tempo negli ospedali lombardi i musulmani, possono richiedere il pasto parve (né carne né latte). Ancora una volta - dopo la decisione assunta a metà ottobre dalla Comunità Ebraica di Roma di collaborare alle attività di sostegno alla popolazione rom con progetti di assistenza, educazione e prevenzione sanitaria e dopo l’avvio, a Milano, del progetto per il centro interculturale Merkhav – pare dunque affermarsi un ruolo specificamente ebraico nel campo del dialogo tra le culture.La speranza dell’Ame è ora di riuscire ad allargare l’esperienza anche alle regioni dove l’assistenza religiosa ebraica non è ancora divenuta realtà. E ad accompagnare il progetto si sta ora predisponendo un manuale rivolto al personale socio sanitario che illustra il modo di migliore di relazionarsi con le abitudini alimentari e rituali delle principali religioni: non solo di quella ebraica.
Daniela Gross, http://www.moked.it/

I muri di una città sono palinsesti urbani. Caminando per un centro storico, si può capire la storia leggendo l'architettura, e specialmente leggendo i cambiamenti eseguiti, strato sopra strato, attraverso i secoli. Gli archi di un portico che sono stati chiusi con dei mattoni, per esempio. O vecchie porte bloccate e nuove finestre aperte in muri antichi… A Vilnius si trova un esempio che colpisce in un modo diverso e anche emozionante. Segni pallidi, in polacco e yiddish, che risalgono al periodo fra le due guerre mondiali. Come fantasmi di un passato sia vicino che remoto, parlano di una rivendita (che era forse nel cortile) dove si comprava cherosene e sale, di qualità superiore.Ruth Ellen Gruber, http://www.moked.it/

mercoledì 25 marzo 2009

Sanaa

YEMEN: CORTE LO ACCUSA DI ESSERE SPIA DI ISRAELE, CONDANNATO A MORTE

(ASCA-AFP) - Sanaa, 23 mar - Un tribunale yemenita ha condannato a morte un islamista accusato di spionaggio a favore del Premier israeliano Ehud Olmert e dello Stato ebraico.Bassam al-Haidari, 26 anni, e' stato riconosciuto colpevole di aver scritto direttamente al Premier israeliano via mail, offrendosi di lavorare come agente del Mossad.Cinque e tre anni ad altri due imputati (Imad al-Rimi, 23 anni e Ali al-Mahfal, 24 anni) accusati nell'ambito dello stesso processo.Israele, che non ha rapporti diplomatici con lo Yemen, ha smentito le accuse dichiarando di non aver avuto alcun contatto con l'uomo condannato alla pena capitale.''E' ingiusto'', ha urlato Mahfal al termine della sentenza. ''Mi avete condannato senza prove'', ha ribadito.Il processo dei tre uomini, accusati di aver agito sotto il nome dell'Organizzazione Jihad Islamica, e' iniziato lo scorso gennaio.Secondo l'accusa, Haidari avrebbe scritto in una mail indirizzata ad Olmert che l'organizzazione di cui faceva parte si chiamava ''Organizzazione della Jihad Islamica'' e che, nonostante, il Premier fosse ''ebreo'' e' anche una ''persona onesta e per questo siamo pronti a tutto''.Sempre per la Corte yemenita, Olmert avrebbe accettato la collaborazione degli imputati, nonostante il portavoce del Premier israeliano, Mark Regev, abbia definito le accuse ''completamente forzate''.''Non abbiamo avuto nessun contatto con questa persona'', ha spiegato Regev sottolineando pero' che ''ogni giorno riceviamo numerosi messaggi dal mondo arabo e musulmano e noi plaudiamo coloro che vogliono un dialogo con Israele''.

The Magen David Adom (il corrispettivo israeliano della Croce Rossa)

SANITA': BRESCIANI (LOMBARDIA) IN ISRAELE PER DIPLOMA A 24 ESPERTI IN EMERGENZA

Milano, 24 mar. - (Adnkronos/Adnkronos Salute) - Si conclude oggi, con la cerimonia di consegna dei diplomi, il corso di formazione sulla gestione delle maxi-emergenze che 24 tra medici e operatori sanitari lombardi stanno frequentando dal 10 marzo a Tel Aviv, in Israele. "Ho voluto essere presente all'importante traguardo di questi nostri professionisti - ha affermato l'assessore alla Sanita' della Regione Lombardia, Luciano Bresciani - che hanno avuto la generosita' di andare ad acquisire la teoria e la pratica per affrontare eventi di emergenze di massa, che speriamo non capitino mai, per garantire la sicurezza dei cittadini", spiega in una nota regionale.
"Dopo aver frequentato questo corso - aggiunge l'assessore - i nostri operatori saranno chiamati a formare gli altri nostri professionisti del sistema di emergenza e urgenza, cosi' da garantire su tutto il territorio regionale uniformita' di qualita' ed eccellenza nella gestione di eventuali emergenze". L'iniziativa e' frutto dell'accordo di cooperazione sanitaria per il triennio 2008-2010, firmato dal presidente lombardo Roberto Formigoni, affiancato da Bresciani, con il ministro della Sanita' di Israele, Yaakov Ben Yizri, il 17 marzo 2008 in occasione della missione lombarda nel Paese. Oggetto dell'intesa lo scambio di informazioni, conoscenze e documentazioni su medicina di emergenza e del trauma, telemedicina e tecnologie mediche.
Il corso sulla gestione delle emergenze e' stato preceduto da un workshop strategico tenutosi dal 27 al 30 ottobre 2008 a Milano, con la partecipazione, oltre che dei responsabili delle aziende socio-sanitarie lombarde, anche dei vertici della sanita' israeliana. L'incontro ha permesso di confrontare i due sistemi, per approfondire i punti di interazione e di cooperazione. Tra questi il tema della gestione delle emergenze. Il sistema di Israele e' considerato infatti tra i piu' innovativi e tecnologicamente avanzati al mondo. Da qui il corso di Tel Aviv, organizzato dal Comitato scientifico israeliano guidato da Moshe Revach (presidente dell'Authority del trauma e delle maxiemergenze dello Stato di Israele). Domani, annuncia inoltre la Regione, l'assessore Bresciani incontrera' i massimi rappresentanti della sanita' israeliana per un aggiornamento e uno scambio di informazioni tecniche, utili a studiare e perfezionare ulteriori sviluppi operativi dell''alleanza' con Israele.

Io, soldato di Israele col virus dei giornali

La fonte di Hussub come fosse il Grand Canyon cercando di cogliere le radici dell'ebraismo
di ARRIGO LEVI, 25/3/2009, http://www.lastampa.it/
Arriverà domani in libreria, edito dal Mulino, il nuovo libro di Arrigo Levi Un paese non basta (pp. 296, euro 16), di cui pubblichiamo uno stralcio. Nato dal desiderio di raccontare «come diventai giornalista», il libro si è trasformato inevitabilmente in un saggio di formazione. Scorrono così i ricordi della giovinezza a Modena, l’impatto col fascismo e con le leggi razziali, l’emigrazione in Argentina, la partecipazione alla nascita di Israele, il decennio nell’Inghilterra di Churchill. Ne deriva una riflessione sulla fede, sui totalitarismi, sulla Shoah. Giornalista, ex direttore della Stampa, consigliere dei presidenti Ciampi e Napolitano, Levi ha pubblicato, fra gli altri, i saggi Russia del ‘900 (Corbaccio), America latina: memorie e ritorni (Il Mulino).Scrivo a casa:Il fatto è che continuo a sentirmi come uno spettatore. Che anche se partecipa vivamente, e capisce o si sforza di capire che cosa succede sulla scena, e arriva a condividere i sentimenti degli attori, rimane però sempre spettatore. Il problema se diventare attore non è per me immediato, debbo aspettare che la guerra finisca. Mi chiedo che cosa farò poi, se chiedere una borsa di studio per l’Università di Gerusalemme, per poi tornare in Italia a finire l’Università a Bologna, o viceversa, o chissà che fare. Intanto ho ricevuto un documento di identità israeliana, che mi darà anche il diritto di votare. Per ora sono, per lo Stato d’Israele, «Arrigo Levi, di cittadinanza italiana, di religione ebraica e di nazione ebraica». Una definizione un po’ complicata, ma forse dice bene, quello complicato sono io.E intanto sento che mi circola in corpo il virus del giornalismo, ho l’ansia perenne di scrivere, ai giornali, alle riviste, e quando ho notizia di un articolo pubblicato su Critica Sociale o su Relazioni Internazionali mi sento realizzato (Mi vergogno a dirlo, ma più di mezzo secolo dopo provo ancora gli stessi sentimenti quando leggo un mio articolo sulla Stampa).Subito dopo il ritorno da Haifa a Bersceva, altra novità: la mia unità, la compagnia di genio numero 2, viene trasferita a Ein Hussub, la «fonte di Hussub», chissà chi era Hussub. Mi appare quello che all’epoca giudico il posto più bello del mondo (non ho ancora visto il Grand Canyon del Colorado, a cui un poco somiglia). Stiamo ad Ein Hussub, un luogo benedetto per le sorgenti abbondanti di acque calde e salate, per tutti i primi venti giorni di dicembre. Facciamo reticolati, campi minati su colline scoscese, e la sera, acceso il fuoco, ascoltiamo, tutti infagottati, mal vestiti, mal lavati con le barbe lunghe, dischi di musica classica da un vecchio grammofono. Oppure balliamo la hora, cantando canzoni ebraiche che alle mie orecchie sembrano molto russe, con le braccia intrecciate, in cerchio, attorno al fuoco. [...] ***Queste tre o quattro settimane ai confini del mondo lasciano tuttavia un’impronta profonda nella mente, inducono a strani pensieri, mentre guardiamo, oltre l’immensità del Wadi Araba, le lontane montagne della Giordania. Restiamo sempre nella terra di Abramo, e io ne sento la presenza in modo inatteso. Pagine della Genesi, che avevo letto come favole, diventano concrete, racconti fantastici ma di qualcosa che è realmente esistito.Da Ein Hussub, percorrendo lunghi canyon che fanno tanto film western, siamo arrivati fino al luogo dove sorgeva Sdom, là dove si esaurisce e finisce il Mar Morto. Sodoma, che il Signore Iddio distrusse, ma soltanto dopo una bella lite con Abramo, che gli parla faccia a faccia, in una specie di contrattazione da suk: come potrebbe Lui, il Dio di giustizia, distruggere Sdom se ci fossero cinquanta giusti? E vada per cinquanta. E se ce ne fossero solo quaranta? Vada per quaranta, il Signore Iddio si sente in difficoltà, Abramo gli strappa concessioni sempre più generose, fino a chiudere la trattativa su dieci giusti. Ma alla fine si scopre che c’è in tutta la città un solo giusto, Lot, nipote di Abramo, ed è l’unico che, avvertito dagli angeli del Signore, fa in tempo ad andarsene insieme con la moglie e le figlie. Ma la moglie si voltò indietro e divenne una statua di sale. In diversi luoghi ti dicono che questa o quella piramide di sale è la moglie troppo curiosa di Lot. Il sale è dappertutto. A Sdom gli strati delle pareti di roccia sono perfettamente verticali, qui c’è stato davvero un evento catastrofico immenso, chiunque l’abbia deciso. A nord c’è il Mar Morto, a sud c’è, oltre i canyon rosati, un’immensa spaccatura della terra, che prosegue fino al Mar Rosso e al di là in una faglia che fende il grande continente africano, chissà fin dove. La vastità dello scenario dà un’idea dell’immensità dei tempi. Gli studiosi dicono, non senza ragione, che non è possibile che sia arrivata fino ad Abramo, questo pastore di greggi che già appartiene alla storia della specie umana che è anche la nostra, la memoria di eventi geologici remotissimi, quando i continenti ancora si stavano formando, staccandosi l’uno dall’altro, e quando sulla faccia della Terra non c’erano sicuramente esseri viventi in alcun modo somiglianti agli uomini; e ipotizzano che ad Abramo sia giunta memoria di un’altra catastrofe molto più recente, la caduta di un asteroide che, in base ad antiche tavolette ritrovate al British Museum, viene datata con gran precisione al gennaio del 3123 avanti Cristo, né un anno di più né uno di meno. Di questo evento sarebbe stata tramandata memoria fino ad Abramo. [...]Non so se qualche altra mitologia abbia saputo collegare la natura, con i suoi misteri che soltanto l’uomo contemporaneo sta decifrando, all’uomo e alla società umana attraverso l’idea di un cosiffatto Iddio. Credo di no, non in questa maniera, non collegando l’idea del sovrannaturale all’idea della legge morale. Comunque, è accaduto, proprio in questi luoghi. Mi guardo attorno e penso che la storia degli ebrei, che dico, la storia dell’Occidente e dell’umanità è incominciata qui, o meglio nell’idea che di tutto questo si fece il padre Abramo, guardiano di greggi, guardando questo stesso meraviglioso, incomprensibile, sconfinato scenario e ricordando qualche antica leggenda. Poi l’idea di Dio, di questo straordinario, unico Dio maestro di giustizia, anche se talvolta un po’ troppo irascibile e bizzarro, continuò a camminare con Abramo e i suoi discendenti, per la verità cambiando per via in molti modi, e possiamo seguirne la storia, una lunghissima storia fino ai tempi nostri. La storia di Dio. Qui, a rimirare quest’immensità di rocce e di sprofondi, sembra di essere i testimoni di come tutto ebbe inizio.Ma è ora di tornare a fare la guerra, ancora uno sforzo e forse ce la faremo, ormai non ho dubbi che vinceremo noi, e poi sarà la pace e torneremo alle nostre case. È quello che pensano tutti i miei compagni della machleket sadé.

Soldati israeliani in musica

Mentre si leggono commenti sulla notizia di ''auto-denuncia dei soldati israeliani'', non trova altrettanto spazio la precisazione - doverosa - di Maariv, tradotta ieri dall'ANSA. Ve la giro, per completezza di informazione, Patrizia

Gaza: Israele, denunce di soldati in parte infondate
(ansa) - tel aviv, 22 mar - Sono infondate, almeno per quanto riguarda gli episodi piu' gravi, le denunce dei soldati del 'Seminario militare Rabin' riguardo l'operazione 'piombo fuso' a Gaza. lo afferma il quotidiano Maariv basandosi sui primi risultati di una indagine interna condotta dall'esercito. Nei giorni scorsi la stampa locale aveva riferito con grande rilievo delle testimonianze di quei militari che descrivevano, fra l'altro, una scarsa considerazione verso la vita dei civili palestinesi e atti gratuiti di vandalismo nelle case occupate in alcune zone di gaza per motivi operativi. Il quotidiano Maariv ha adesso appreso da fonti militari che le uccisioni descritte dai militari - quella di una donna con i suoi due figli, e quella di un anziana donna avvistata con un binocolo - non sono avvenute. secondo maariv i militari che hanno lanciato le loro denunce - durante un dibattito avvenuto il mese scorso nel 'Seminario militare Rabin', vicino al movimento dei kibbutz - si basavano su "voci", risultate adesso infondate. Un ufficiale che ha combattuto a gaza ha detto oggi a Maariv: "durante l'operazione piombo fuso c'era certamente il 'grilletto facile'. Indubbiamente sono rimasti uccisi civili palestinesi non coinvolti nei combattimenti. Ma non c'e' mai stato alcuno sparo intenzionale verso civili innocenti".

Sinagoga di Roma

I Tesori del Museo ebraico di Roma

Roma vanta la comunità ebraica più antica d’Europa la cui esistenza è attestata sin dal II secolo a. e. v. nell’attuale zona di Trastevere (al di là del Tevere), comunità che crebbe notevolmente con l’arrivo dei prigionieri portati nella capitale in seguito alla colonizzazione romana della Giudea da parte dell’imperatore Tito terminata nel 70 p. e. v.Le numerose testimonianze di tale importante presenza millenaria sono custodite nel Museo Ebraico cittadino, sito nel Complesso Monumentale del Tempio Maggiore, inaugurato nel 1960 e riaperto nel 2005 dopo importanti lavori di rinnovamento. Il Museo è articolato in 6 sale in cui sono esposti ben 1.500 beni di vario tipo (dai tessuti ai marmi, ad oggetti di culto a pergamene, argenti e monete) la maggior parte riferibili alla comunità romana come,ad esempio, gli interessanti reperti marmorei della“Galleria dei Marmi Antichi” (dal XVI al XIX sec.)che decoravano le Cinque Scole, i preziosi oggetti di culto custoditi nella sala dedicata proprio ai “Tesori delle Cinque Scole”, nella sala “Feste dell’anno, feste della vita” in cui è delineato un esauriente spaccato di cultura ebraica e nello spazio dedicato alla vita nel ghetto. Molti degli oggetti facenti parte le raccolte sono frutto di donazioni di famiglie e collezionisti italiani e stranieri per i quali l’anno prossimo, in occasione delle celebrazioni per i 50 anni di vita del Museo, verrà organizzata una speciale cerimonia di ringraziamento. Da segnalare anche le rilevanti iniziative didattiche per le scuole e le attività e i laboratori domenicali per adulti e bambini. Per info: http://www.museoebraico.roma.it/ da Sullam n.27
Esposta nel Museo Ebraico di Roma anche l'interessante collezione numismatica donata nel 2007 dal noto collezionista Gianfranco Moscati composta da venti monete in bronzo, argento e oro coniate perlopiù a Gerusalemme e Roma e datate variamente dal II secolo a. e. v. al II secolo p. e. v. Notevoli i sesterzi e i denari risalenti agli anni della conquista della Giudea con le rappresentazioni allegoriche nel recto della "IUDAEA CAPTA".

martedì 24 marzo 2009

Un’opera del veronese Gerolamo Navarra

Pittori ebrei in Italia. 1800-1938

Finalmente riscattato il valore degli artisti ebrei UN APPROFONDITO STUDIO DI ELENA CASOTTO.Ugo Ojetti negava che potessero fare arte ma la produzione dimostra il contrario.
Nel 1942 Ugo Ojetti scriveva: «Da Duccio di Boninsegna a Giovanni Segantini, da Giotto a Fattori, illustri e oscuri, maestri o praticanti, artisti o artigiani, nell'arte italiana tutti, che io sappia, sono stati cristiani battezzati. Il fatto è tanto palese che se ne può dedurre un'incapacità ereditaria degli ebrei a fare arte, almeno come si intende in Italia». Un'altra delle frottole ingiuriose contro gli ebrei?Bisogna distinguere. E una serie di distinzioni sagge ed equilibrate le troviamo a questo proposito nel libro nuovissimo, come impostazione e argomento, di Elena Casotto, Pittori ebrei in Italia. 1800-1938. (Verona, Colpo di Fulmine, 2008), con due prefazioni, una di Gadi Luzzatto Voghera, l'altra di Sergio Marinelli. L'autrice, specializzata in storia dell'arte, è autrice di vari studi sulla pittura veneta.Chi si prende la briga di scorrere le vicende dell'arte italiana fra l'inizio del XIX e la metà del XX secolo si accorge in realtà che i pittori ebrei sono un numero proporzionalmente piuttosto alto in rapporto alla popolazione israelitica in Italia e spesso sono artisti famosi e acclamati; basti pensare ad Amedeo Modigliani. Ma è un fatto che nell'età moderna, susseguente all'emancipazione, le tracce della identità culturale ebraica vanno attenuandosi, sicché si potranno individuare molti artisti ebrei , ma non una vera arte ebraica. Così afferma Paolo D'Ancona. Eppure anche questa affermazione moderata può essere parziale. Ribatte, idealmente, Marc Chagall: «Se un pittore è ebreo e dipinge la vita come potrebbe rifiutarsi di accogliere elementi ebraici? Ma se è un buon pittore, il quadro si arricchisce. L'elemento ebraico è ovviamente presente, ma la sua arte vuole raggiungere una risonanza universale». Insomma una questione complessa, in cui la Casotto si muove con equilibrio e senza preconcetti, dando il giusto peso al contesto storico e culturale in cui l'artista ebreo si trova ad operare e alla tradizione religiosa così sentita e praticata negli ambienti dell'ebraismo, nonché a quell'interdetto visivo, per cui l'ebreo non può rappresentare il divino e le creature viventi in immagini. L'autrice osserva che nei secoli l'inevitabile contaminazione con altre culture e il bisogno di espressione spinsero i pittori a trovare varie strade per aggirare il divieto, per esempio raffigurare il divino come ali senza corpo, come fosse l'allusione a un angelo. Il divieto veniva ignorato anche nei numerosi ritratti commissionati da ebrei, spesso askenaziti; ne abbiamo uno splendido esempio in alcuni quadri di Rembrandt. Ma dalla metà dell'ottocento i pittori ebrei si applicarono ad ogni tipo di raffigurazione e il divieto si spostò sui modi della rappresentazione. In particolare essi tendono a una rappresentazione delle due categorie del tempo e dello spazio come categorie sfuggenti, problematiche, in cui si specchia una profonda angoscia. Coloro che in modo più evidente espressero questa angoscia esistenziale, furono gli artisti dell'École de Paris tra cui Chagall e Modigliani. Infatti per alcuni critici l'unica corrente artistica appropriata all'anima ebraica sarebbe l'espressionismo, con il suo spirito demolitore e visionario. Il libro della Casotto svolge poi un' articolata e acuta indagine dei pittori ebrei italiani, dall'emancipazione napoleonica alle leggi razziali fasciste, esaminando la presenza e l'importanza di artisti ebrei in vari luoghi della penisola. Nell'indagine si giova di quanto i critici letterari hanno scritto e indagato a proposito degli scrittori ebrei italiani e mette acutamente in sintonia varie osservazioni in un campo diverso come codice espressivo, ma immerso nello stesso clima storico. In Toscana spicca Vittorio Matteo Corcos, ritrattista dei maggiori personaggi del tempo: Carducci, Lina Cavaglieri, Puccini, Mascagni e infine lo stesso Benito Mussolini. A Trieste è proprio il ceto intellettuale ebraico a introdurre i primi interessanti segnali della modernità interessandosi alla teoria della psicanalisi. Uno dei pittori ebrei più noti Raffaele Nathan, si curò nel 1919 da una crisi di depressione dovuta alla guerra, presso il dottor Edoardo Weiss, allievo di Freud e fu Weiss a spingerlo a dipingere. A Venezia, dove viene istituito il primo ghetto, o quartiere chiuso, riservato agli ebrei e sorvegliato di notte perché gli ebrei non uscissero in città, le progressive difficoltà della Serenissima rendevano essenziale la presenza dei commerci e delle tasse, molto alte, pagate dagli ebrei per poter risiedere nel territorio della Repubblica. Soprattutto nel Seicento a Venezia gli ebrei non sono solo commercianti e banchieri; si sviluppano nel ghetto molti circoli intellettuali.Nel Veneto, a Verona e a Padova, gli ebrei erano molto numerosi fra gli artisti, mentre alcune facoltose famiglie ebraiche iniziarono importanti collezioni di arte antica e moderna. Nel XIX secolo, tra gli artisti veronesi immeritatamente poco noti va ricordato Gerolamo Navarra; nella prima metà del 1900 si intrecciano influenze veriste e simboliste e spicca la personalità di Ise Lebrecht, grande ritrattista. Tra gli artisti ebrei veneti ci sono parecchie valorose personalità femminili. Tra le più originali sono Gabriella Orefice e Alis Levi, presenti a Cà Pesaro. http://www.larena.it/

dal film Vasermil

Qui Milano - Il cinema di Israele presentato dagli ospiti in sala

“Quest’anno il Festival ha ottenuto un grandissimo successo, con una partecipazione decisamente superiore alle aspettative. Il pubblico ha mostrato di gradire in particolare la formula che ha visto una serie di esponenti del mondo culturale e politico introdurre varie pellicole e discuterne con la gente in sala”. Così Paola Mortara, curatrice del progetto del Festival del cinema israeliano a Milano per il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) insieme a Nanette Hayon Zippel.“Il Cdec – spiega - possiede da sempre un ricco archivio di materiale audiovisivo d’argomento ebraico a scopo conservativo. Col passare degli anni questi film e documentari sono stati sempre più richiesti da enti, scuole, studiosi e anche semplici privati. Da qui l’idea di realizzare questa rassegna, che contribuisce senz’altro a mostrare aspetti poco conosciuti di quello che è veramente Israele. Il cinema è un mezzo di comunicazione efficace e diretto. Una selezione di film così diversi tra loro racconta più delle tante parole che si cercano di spendere a tale proposito”.La seconda edizione del Festival promossa dal Cdec e dalla Fondazione Cineteca italiana sotto la direzione artistica di Dan Muggia e Ariela Piattelli, con la collaborazione del Pitigliani Kolno’a Festival di Roma, si è conclusa con la proiezione della pellicola Vasermil. Introdotto dal direttore del Cdec Michele Sarfatti e dal pittore e saggista Stefano Levi Della Torre, il film del 2007 è un emblema di ciò che la rassegna si proponeva di rappresentare, le diverse sfaccettature della realtà israeliana, attraverso l’opera di registi emergenti poco conosciuti al grande pubblico rispetto a quelli, come Amos Gitai, che hanno reso il cinema israeliano famoso nel mondo. Vasermil, opera prima del regista Mushon Salmona, racconta la storia di ragazzi provenienti da culture distanti, un etiope, un russo e un israeliano da generazioni, che si scontrano per poi riuscire a incontrarsi, in una multietnicità difficile da immaginare per chi non conosce bene Israele.Rossella Tercatin, http://www.moked.it/