giovedì 27 marzo 2008

Kibbutz Neot Semadar - Deserto del Neghev


Israele: permesso di residenza a gay palestinese minacciato di morte


25 Marzo 2008


Un palestinese della Cisgiordania riceve minacce di morte perché gay e Israele gli fa ottenere uno speciale permesso di residenza.
Ad annunciarlo è il ministero della Difesa israeliano. Al 33 enne di Jenin, il cui nome non è stato reso noto, verrà rilasciato un permesso temporaneo per vivere con il suo compagno in Israele.
E’ raro che il ministero dell’Interno israeliano rilasci permessi per i palestinesi del West Bank che vogliono ricongiungersi con i propri partner. Un’eccezione però è stata fatta, trattandosi di un caso di discriminazione sessuale.
Il giornale israeliano Yedioth Ahronoth sul suo web site ha riferito di un palestinese che ha richiesto al governo di Gerusalemme di poter vivere nello Stato ebraico con il suo compagno, un ingegnere con cui ha una relazione da otto anni.
L'Occidentale Giovedì, 27 marzo 2008



No. 404 - 8.2.08

Dall'Etiopia alla NASA

Dal sito dell'Agenzia Ebraica per Israele
Fondendo le sue origini etiopi con la sua infanzia israeliana, Shaun Wovnach è eccelso nelle scienze e, con l'aiuto del programma Scintille di Scienza dell'Agenzia Ebraica, è ora parte della nuova generazione israeliana di promettenti studenti di ingegneria e scienze esatte.
Quando Shaun Wovnach ha fatto l'aliyah dall'Etiopia aveva tre anni e non avrebbe mai potuto immaginare il futuro luminoso che lo attendeva in Israele. Shaun è il più giovane di sei fratelli e sorelle e con il resto della famiglia è stato accolto dal centro di accoglienza Beit Canada dell'Agenzia Ebraica di Ashkelon, dove hanno vissuto tutti per 5 anni prima di stabilirsi a Rehovot. “È stato molto facile per me integrarmi perché ero così giovane”, dice Shaun, che oggi ha 19 anni. “Mi sono sempre sentito israeliano, anche se a casa parlavamo amharico”.
Una delle esperienze più significative fatte da Shaun durante le superiori è stata la sua partecipazione al programma dell'Agenzia Ebraica Scintille di Scienza, grazie al quale ha potuto frequentare classi speciali di matematica, scienze, tecnologia e inglese presso il prestigioso Istituto delle Scienze Weizmann. “Il programma mi ha attratto subito per il suo legame con le scienze e per l'opportunità di studiare al Weizmann”, racconta.
Poiché era uno dei migliori studenti del programma, Shaun è stato scelto per partecipare ad uno speciale campo estivo organizzato dalla NASA in Turchia. “Ci hanno insegnato tutto quello che c'è da sapere sulla stazione spaziale internazionale, abbiamo partecipato a simulazioni e abbiamo parlato con gli astronauti. Tutto ruotava attorno alla scienza e alla filosofia”, ricorda.
Scintille di Scienza è reso possible dalla generosità della federazione dell'Unità delle Comunità Ebraiche Americane di New York e dell'Unità delle Comunità Ebraiche, oltre che delle comunità del Keren Hayesod e dei donatori israeliani. “Il programma Scintille di Scienza dell'Agenzia Ebraica ha avuto un impatto veramente positivo su di me. Non solo mi sono fatto un sacco di amici, ma mi ha anche spinto a studiare in modo diverso e a pensare fuori dagli schemi”, ricorda Shaun con riconoscenza. Il programma punta ad accrescere in modo significativo la percentuale di immigrati etiopi che all'università studiano scienze e tecnologia. Dopo aver conseguito la maturità, Shaun ha posticipato il servizio militare per studiare economia e logistica presso l'università Bar Ilan. È entrato nel programma Atidim, un programma finanziato dall'Agenzia Ebraica, ed è stato accettato nello speciale programma accademico che dà a giovani brillanti provenienti dalla periferia geografica e socio-economica d'Israele la possibilità di conseguire una laurea in ingegneria e scienze esatte prima di entrare nell'esercito. Il programma offre a studenti come Shaun una borsa di studio, uno stipendio mensile, sostegno sociale ed accademico, un mentore e un computer portatile.


Quando nel giugno del 2008 avrà completato gli studi, Shaun inizierà i suoi cinque anni di servizio militare nelle Forze di Difesa Israeliane. “Il mio sogno è quello di diventare un uomo d'affari e un imprenditore”, dice.

Aqaba vista da Eilat

No. 407 - 29.2.08

Il primo kibbutz etiope – a Ghedera!

Adattato da Tamar Rotem, Haaretz
www.haaretz.com

Basta guardare Asanka Darba chinarsi per prendersi gentilmente cura delle piante di sedano e basilico che crescono nel suo orto a Ghedera per capire che nel profondo del cuore lui è ancora un contadino. Darba, un immigrato etiope di circa cinquant'anni, può anche aver lasciato in Etiopia il suo appezzamento ed essersi trasferito in Israele, ma il suo legame con la terra non si è sciolto. “Chi altri può raccogliere un pugno di terra, annusarla e sapere che cosa può piantare nel suo orto?” esclama Yovi Tashome, uno dei membri del kibbutz urbano di Ghedera che sta aiutando Darba a coltivare il suo fazzoletto di terra. Appena arrivato in Israele dall'Etiopia Darba era stato assunto dal commune di Ghedera prima come bidello e poi come giardiniere dei parchi cittadini. Ora che è disoccupato, per la prima volta ha un terreno tutto suo dove coltivare erbe aromatiche e verdure ed è evidente che ne va molto orgoglioso.
L'idea dei giardini comunitari è solo uno dei progetti creati dai membri del kibbutz urbano, un gruppo di giovani, per lo più etiopi. Due anni fa hanno dato vita al “kibbutz urbano” nel quartiere Shapira, dove la maggior parte degli abitanti etiopi di Ghedera (circa 1.700 famiglie) risiede. Oggi fanno parte del kibbutz 11 famiglie, quasi tuttte etiopi. Oltre ad occuparsi di agricoltura, i membri del gruppo sono impegnati in attività socio-educative.
Yovi Tashome, 31 anni, è arrivata in Israele quando aveva 6 anni. Come molti altri figli di immigrati, ha frequentato una scuola religiosa a tempo pieno e ha trascorso gli anni delle superiori in un kibbutz religioso. Yovi descrive come uno shock culturale il passaggio dal rassicurante ambiente esclusivamente etiope della sua infanzia a quello misto e con una forte coscienza di classe del kibbutz. “Quel periodo buio, quando ero una cittadina di terza classe a paragone con i membri del kibbutz e con gli israeliani in generale, ha provocato in me una crisi d'identità”, racconta. Dopo aver completato il servizio militare, Yovi ha lavorato come istruttrice per il Club Escursionisti della Società per la Protezione della Natura Israeliana (SPNI). È stato in quel periodo che ha capito l'importanza di lavorare in quartieri come questi, “per mettere gli abitanti in relazione reciproca e dare loro la senzazione di appartanere a una comunità con l'obiettivo di cambiare veramente le cose”. Così Yovi Tashome ha contattato Nir Katz, la persona responsabile dei club escursionisti etiopi della SPNI , e insieme hanno fondato a Ghedera un primo nucleo, che si è poi sviluppato nel kibbutz urbano. Secondo quanto dice Katz, il kibbutz urbano non è un'associazione economica, ma unisce persone legate da un progetto e da un'idea comuni. “In un mondo alienato noi cerchiamo di creare la nostra società personale”, dice. “L'obiettivo di questa associazione è di promuovere un cambiamento sociate per noi stessi e per l'ambiente in cui viviamo”.
Le famiglie dei membri del kibbutz vivono in appartamenti in affitto che si trovano tutti a pochi passi l'uno dall'altro. Hanno anche deciso di stabilirsi nelle vicinanze del quartiere, e non al suo interno. “Siamo così coinvolti nella vita del quartiere che abbiamo deciso di mantenere una certa distanza dalle sue dinamiche interne”, spiega Tashome. Di solito i membri del kibbutz celebrano insieme le festività ebraiche e insieme organizzano gite nei fine settimana.
Inoltre, sembra proprio che stiano confermando l'antica propensione dei kibbutz a discutere e dibattere questioni concettuali che riguardano innanzi tutto l'identità del gruppo e la sua natura specifica. Proprio in questo periodo, dopo che numerose famiglie hanno chiesto di poter entrar a far parte del gruppo, è in atto un acceso dibattito su questioni come il diritto di voto, l'età minima dei nuovi membri, l'entità del contributo richiesto a ciascuno a favore della comunità, l'accettazione di coppie religiose, ecc. Queste discussioni vengono condotte formalmente in un forum denominato “Beit Hamidrash”, che si riuniche ogni mercoledì.
Oggi sono circa 400 i giovani che traggono beneficio da queste attività. Queste iniziative sono inivitabilmente entrate anche nel campo dell'educazione formale. Tzachi Azaria e Ilana Malek, due membri del kibbutz urbano di Ghedera, trascorrono le loro giornate nel locale liceo per promuovere un programma volto a prevenire l'abbandono scolastico. Un altro programma prevede l'offerta di lezioni aggiuntive che gli insegnanti, alcuni dei quali sono etiopi, danno direttamente a casa dei bambini.
I membri del gruppo sono coinvolti nelle attività socio-educative, o come volontari o come dipendenti stipendiati. Un appartamento è stato trasformato in un club giovanile dove le attività sono modellate su quelle di un gruppo escursionisti. Sono stati creati molti altri gruppi, tra cui uno in cui i genitori possono discutere problemi di famiglia in amharico e un altro per emancipare le ragazzine.

La sola casa ad Eilat nel 1948

No. 410 - 21.3.08

Lo Tsahal presenta: Corsi di israelianità

Adattato dal Ha'aretz - Yuval Azulai
www.haaretz.com

Sono immigrati in Israele nel corso degli ultimi due anni senza capire una parola di ebraico. In una base delle Forze di Difesa Israeliane (Tsahal) nel nord del Paese imparano a far funzionare armi e strumenti radio, ma anche studiano i fondamementi del sionismo e della lingua ebraica. L'obiettivo è quello di facilitare la loro integrazione nella società israeliana. Tre minuti e …via!
Soldati della compagnia Dror, che si sono arruolati nello Tsahal solo sei settimane fa, siedono con le sedie disposte a ferro di cavallo in una piccola classe in una base nel nord del Paese. In sottofondo si sentono le note di una popolare canzone del gruppo “Hadag-Nachash” e il sottufficiale Maya racconta ai presenti che questa canzone è stata scritta da David Grossman. Per i nuovi immigrati, per lo più provenienti dai Paesi del Commonwealth degli Stati Indipendenti (CIS o ex-Unione Sovietica), tanto il nome del famoso scrittore quanto quello del gruppo hip-hop israeliano non significano nulla. “Voglio che in tre minuti tutti voi prepariate un adesivo con il vostro mantra, lo slogan della vostra vita, in ebraico”, ordina Maya ai suoi soldati, distribuendo carta e pennarelli colorati. “Preparate l'adesivo più bello che abbiate mai fatto. Cominciate subito, adesso. Avete tre minuti. Via!” Un soldato sincronizza l'orologio e controlla il tempo.
Il giovane caporale cerca di spiegare le istruzioni a un soldato che non ha capito la parola “adesivo”. “Ne vedi molti sulle macchine”, spiega. “Sapete tutti chi era Rabin, vero? Ci sono molti adesivi che dicono: ‘Shalom, amico’ e ‘Amico, ci manchi’. Altri dicono: ‘Non possiamo contare su nessun altro se non su Nostro Padre nella Riserva’”. I soldati, che sono lungi dal parlare l'ebraico correttamente, cercano di concentrarsi e di creare un adesivo elegante ed efficace nel frastuono della musica in sottofondo. Scaduti i tre minuti, devono appoggiare i pennarelli sul tavolo e presentare i loro adesivi agli altri. Uno ha scritto: ‘Attenzione: bambino a bordo’, mentre un altro ha stancamente scritto e illustrato un adesivo che dice: ‘Attenzione: Donna al volante’.
Contemporaneamente altri soldati in un'altra classe studiano l'ebraico attraverso la pubblicità. Il loro sottufficiale, il caporale Nohar, li interroga sui rischi del fumo e ciascuno di loro deve parlarne in ebraico. Nohar racconta loro in ebraico che le ricerche hanno dimostrato che i fumatori sono maggiormente soggetti a depressione, aggiungendo subito la parola inglese ‘depression’. “L'idea è di usare la parola ebraica insieme alla sua traduzione in una lingua universale capita da tutti”, spiega il sottotenente Hadas Ben-Gigi, uno dei comandanti del corso per immigrati nella base. Nel frattempo la lezione continua e l'insegnante ora parla dei rischi di una dieta troppo ricca di zucchero. “Le persone che mangiano troppi zuccheri ingrassano”, dice uno dei soldati in ebraico.
Disciplina ferrea
Come i loro amici nella compagnia Nir, i soldati della compagnia Dror presso la base dei corpi didattici Allon vicino al villaggio di Maghar in Galilea, sono immigrati in Israele nel corso degli ultimi due anni. Sapevano l'ebraico molto poco, o non lo parlavano affatto e il programma dello Tsahal di cui fanno parte è stato pensato per offrire loro il vocabolario necessario a condurre una conversazione in ebraico elementare.
Questo speciale percorso per immigrati dura tre mesi. Il primo mese è dedicato all'addestramento militare di base: allenamento fisico, disciplina e studio del funzionamento delle armi e degli strumenti radio. Quindi i soldati partecipano a laboratori intensivi per imparare l'ebraico e i fondamenti della dottrina sionista. Il sottotenente Ben-Gigi è convinta che oltre ad essere un mezzo per imparare l'ebraico e per entrare in contatto con il sionismo, questo particolare programma non sia niente di meno che una scuola di ‘israelianità’.
Il corso viene gestito con “disciplina ferrea,” - spiega l'ufficiale - “con orari molto precisi e inflessibili”. Si alzano alle 5:30 del mattino e il loro orario giornaliero include esercizi, colazione, marcia mattutina, un incontro con il comandante della compagnia e sette ore di studio della lingua ebraica, con varie pause di pochi minuti tra una classe e l'altra. L'ultima ora è dedicata all'auto-apprendimento e a lezioni di sostegno per coloro che ne hanno bisogno. Oltre a imparare idiomi, collegare le frasi, espandere il vocabolario e costruire l'autostima necessaria ad adottare ed iniziare ad usare una lingua straniera, i soldati frequentano anche laboratori di dottrina sionista e storia ebraica, che includono seminari sull'antisemitismo, sull'Olocausto e sulle guerre israeliane.
Il compleanno della mamma
In passato il comandante della base, il tenente colonnello Itai, ha prestato servizio come pilota di caccia in squadroni di Phantom e F-16. È stato nominato comandante della base Allon sei mesi fa ed è fiero dei risultati del programma. “Ogni anno mettiamo a disposizione dello Tsahal molti soldati che prima parlavano a mala pena l'ebraico, o non lo parlavano affatto, mentre ora possono farlo. Quando arrivano qui, li ricevo con un discorso di benvenuto in ebraico e molti non mi capiscono”, racconta e aggiunge: “Del mio discorso di congedo capiscono quasi ogni parola”.
I quadri della base sono particolarmente fieri di tre soldati che hanno fatto i primi passi nell'esercito attraverso questo programma. Sono tra i soldati che hanno ricevuto una citazione dopo aver partecipato all'ultima guerra in Libano. “Non è facile”, ammette il comandante della base. “Oltre alle difficoltà con la lingua, hanno anche altri problemi legati all'integrazione, ai divari tra livelli di disciplina e non sempre accettano l'autorità dei loro comandanti. Inoltre, alcuni hanno problemi anche a casa e per altri è difficile gestire i sentimenti che provano quando si avvicina il compleanno della madre. Questo è vero in particolare per i russi, che a questo riguardo sono così sensibili che se un membro dello staff non lo capisce rischia di fare errori che possono portare alla fine del servizio di quel dato soldato nelle Forze di Difesa Israeliane”.
I soldati semplici Dennis Kim di Bat Yam e Igor Rachles di Hod Hasharon sono immigrati in Israele circa 18 mesi fa. Sono molto motivati ad imparare l'ebraico e ad assorbire il sionismo. Igor dice che a casa la sua famiglia non parla ebraico. “Mio padre non conosce una parola di ebraico, a parte ‘shalom’, ‘lehitraot’ (arrivederci) e ‘Che cosa vuoi da me?’ All'inizio l'ebraico mi sembrava molto difficile. La lingua mi irritava perché contiene molte variabili, che non riuscivo a ricordare. Ora capisco di più”, aggiunge Igor. Dennis vuole completare il corso e arruolarsi nella 101° compagnia paracadutisti, sulle orme del fratello maggiore. Nel frattempo affina la sua nuova lingua. “È difficile per me, ma non ho alternative. Dobbiamo imparare l'ebraico”, spiega. “Ho appena finito i compiti per casa: la traduzione di una poesia dal russo all'ebraico. È stato interessante. L'ebraico non è poi così difficile. Il russo è più complicato perché ci sono più variabili. Ma in ebraico i verbi sono più difficili”.



No. 406 - 22.2.08

"Gli ebrei hanno giocato giocano un ruolo chiave nel processo di riconciliazione tra governo australiano e comunità aborigena"

Mark Leibler AC, il co-presidente di "Reconciliation Australia" e Presidente del Consiglio d'Amministrazione Mondiale del Keren Hayesod – AUI: "Perché ho deciso di agire"
"Sono convinto che ogni essere umano sia stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, e che quando siamo testimoni di una situazione di grande sofferenza, degrado e discriminazione abbiamo l'obbiligo morale di fare tutto il possibile per aiutare. In quanto ebrei, questo è il nostro retaggio morale, ciò che i nostri valori umani ed ebraici ci insegnano. La nostra esperienza di ebrei, attraverso secoli di persecuzioni culminate nella Shoà, ci rende particolarmente sensibili alle altrui sofferenze. Sentiamo che è nostro dovere aiutare.
Gli indigeni australiani non solo sono stati vittime di svantaggi e pregiudizi immensi, ma anche delle leggi e delle politiche discriminatorie votate e applicate da vari parlamenti e governi che si sono succeduti nel passato. Abbiamo sentito che era nostro dovere morale fare tutto il possible per restituire loro diritti e dignità. Gli indigeni sono stati i primi ad occupare il territorio australiano, decine di migliaia di anni prima che arrivassimo noi. Il nostro obiettivo e di promuovere una vera riappacificazione. E. una riconciliazione, per essere tale, deve avere obiettivi pratici concreti, tra cui – in primis – la chiusura del vergognoso divario di 17 anni tra la speranza di vita degli indigeni e quella dei bianchi.Già da molti anni il mio studio, l'Arnold Bloch Leibler, offre assistenza legale gratuita agli indigeni. Uno dei loro principali portavoce, Noel Pearson, ha lavorato con me in questo campo per alcuni anni. Ho imparato moltissimo da lui. Nel 2000 sono entrato a far parte del consiglio d'amministrazione di un'associazione no-profit fondata per promuovere la riappacificazione tra australiani indigeni e australiani non-indigeni. Da allora faccio parte del Consiglio della Reconciliation Australia e negli ultimi tre anni ho co-presieduto questa associazione insieme al prof. Mick Dodson, lui stesso un indigeno australiano".
"Gli ebrei giocano un ruolo chiave nel processo di riconciliazione tra governo australiano e comunità aborigena"
di Dan Goldbergdal JTA
13 febbraio 2008 www.jta.org
Le inedite scuse fatte dal primo ministo australiano alla comunità aborigena, scuse che hanno segnato una specie di Yom Kippur nazionale, rappresentano l'apice di un processo di riconciliazione che è iniziato dieci anni fa e che è stato promosso in gran parte da ebrei.
SYDNEY, Australia (JTA) – Mercoledì scorso, durante quello che può essere descritto come lo Yom Kippurt australiano, il primo ministro Kevin Rudd ha espresso l'unica parola che i suoi predecessori hanno sempre rifiutato di dire agli indigeni australiani: Scusa.
Lo scorso novembre il partito laburista di Rudd ha strappato il potere ai liberali di John Howard con un programma che includeva le scuse alla "Generazione Perduta" – circa 100.000 bambini aborigeni di sangue misto che tra il 1910 e il 1970 sono stati forzatamente tolti alle loro famiglie.
Il testo della mozione sulla "Generazione Perduta", che è stata votata anche dalla minoranza, riconosce il "profondo dolore, la sofferenza e la perdita" inflitti agli aborigeni.
Gli ebrei australiani, alcuni dei quali sono sempre stati in prima linea durante i dieci anni dello sforzo di riappacificazione, hanno applaudito la mozione di scuse.
“Alle madri e ai padri, ai fratelli e alle sorelle, per aver distrutto famiglie e comunità, chiediamo scusa”, ha detto Rudd. “E per il trattamento indegno e il degrado che abbiamo così inflitto a un popolo e a una cultura orgogliosi della propria identità, noi chiediamo scusa”.
Con uno storico discorso che ha strappato lacrime e applausi, Rudd ha espresso la speranza che le scuse riescano a cancellare “questa grande macchia dall'anima della nazione".
Mark Leibler, il co-presidente di
"Reconciliation Australia", un'organizzazione nazionale che promuove la riconciliazione, ha detto che le scuse di Rudd rappresentano uno spartiacque nella storia australiana, ma anche che questo dovrebbe essere solo l'inizio del processo di riappacificazione.
“La vergogna non sarà cancellata finché non si riuscirà a colmare il divario di 17 anni che separa la speranza di vita degli indigeni da quella dei non-indigeni australiani”, ha ribadito Leibler, che mercoledì scorso ha partecipato a Camberra alla cerimonia di scuse.
Leibler è anche il presidente del consiglio d'amministrazione mondiale del Keren Hayesod – Appello Unificato per Israele e il presidente nazionale del Consiglio per gli Affari Israelo-Australiani ed Ebraici.
“Noi siamo stati perseguitati per 2.000 anni e comprendiamo che cosa significa essere svantaggiati e perdenti in partenza”, ha detto.
Gli ebrei sono sempre stati in prima linea nel promuovere i diritti civili in Australia.
Nel 1965, l'attuale presidente della Corte Suprema del Nuovo Galles del Sud Jim Spiegelman, cugino del fumettista e vincitore del premio Pulitzer Art Spiegelman, guidò 30 studenti durante la prima Corsa Australiana per la Libertà – un viaggio nell'Australia ancora selvaggia – per condannare la discriminazione razziale contro gli aborigeni, che allora non godevano del diritto di voto e non potevano entrare in piscine, pub e altri locali pubblici.
Nel paesino di Moree, una folla razzista attaccò gli studenti e, stando ai giornali del tempo, Spiegelman venne colpito duramente.
L'uomo che la maggior parte degli ebrei e degli aborigeni riconosce come colui che ha dato il contributo maggiore alla causa aborigena è Ron Castan, un ebreo australiano che i capi aborigeni hanno soprannominato “il grande guerriero bianco”.
Castan, che è morto nel 1999, era l'avvocato principale nel famoso "Caso Mabo" – dal nome del querelante Eddi Mabo – che arrivò alla Corte Suprema australiana nel 1992. In quell'occasione Castan confutò la finzione giuridica secondo cui l'Australia era “terra nullius,” ovvero un terriotorio disabitato, quando i coloni bianchi vi misero piede per la prima volta nel 1788. Gli aborigeni ora possiedono più del 10% per territorio australiano.
In un discorso del 1998 Castan implorò il governo di chiedere scusa, citando la negazione dell'Olocausto nella sua argomentazione.
“Il non voler chiedere scusa per le requisizioni, per i massacri e per il furto dei bambini è l'equivalente australiano della negazione dell'Olocausto, di coloro che dicono che non è mai veramente accaduto", ha accusato Castan.
Nel 1999 Howard aveva proposto una mozione che esprimeva “porofondo e sincero rincrescimento" per le ingiustizie patite dagli aborigeni, ma l'allora primo ministro aveva aggiunto che agli australiani "non dovrebbe essere richiesto di assumersi la colpa e la responsabilità" delle politiche di governi precedenti.
Gli aborigeni sono 450.000 contro una popolazione australiana di 21 milioni di abitanti. Sono il gruppo etnico e sociale più svantaggiato del Paese, con i più alti tassi di mortalità infantile, disoccupazione, alcolismo e violenza domestica.
Più di 100 rappresentanti della "Generazione Perduta" erano presenti alla cerimonia di mercoledì, che è stata trasmessa in diretta dalla televisione nazionale e su schermi giganti in tutto il Paese.
“La nostra fede insegna e sottolinea i principi universali della coesistenza e del rispetto per i diritti e per la dignità umani”, ha dichiarato il rabbino Mordechai Gutnick, presidente dell'Organizzazione dei rabbini australiani. “Insegna il bisogno di riconoscere e rimediare ad ogni ingiustizia che possiamo compiere interagendo con altri esseri umani. Chiedere scusa sinceramente è il modo migliore e più efficace per far sì che gli errori e le discriminazioni del passato non si ripetano”.
Ma gli ebrei non hanno giocato un ruolo chiave solo a favore della causa aborigena: hanno anche guidato la crociata contro la White Australia Policy, una serie di leggi che dal 1901 al 1973 hanno limitato l'immigrazione di persone di colore in Australia.
Il presidente del consiglio esecutivo della comunità ebraica australiana, Robert Goot, ha detto di essere orgoglioso del continuo impegno degli ebrei a favore della riconciliazione.

Parco di Timna

Da Gerusalemme a Roma

di Ehud Gol
Mondadori € 17,50

Ehud Gol è stato ambasciatore d’Israele in Italia dall’ottobre del 2001 all’agosto del 2006: un incarico al quale è arrivato dopo una carriera diplomatica iniziata nel 1972 come viceconsole a New York e proseguita con diversi incarichi negli Stati Uniti.
Nel 1988 Gol è console generale a Rio de Janeiro, nel 1995 è nominato ambasciatore in Spagna mentre nel 1999 assume l’incarico diplomatico più importante per le questioni europee: diventa infatti Direttore generale per l’Europa occidentale.
E proprio grazie a questo suo incarico si definisce, in un articolo apparso su La Repubblica del 23 ottobre 2001, “nuovo arrivato sì, ma non un profano della politica italiana e delle relazioni comunitarie”.

Nel corso degli anni trascorsi in qualità di ambasciatore in Italia Ehud Gol ha pubblicato sulla stampa italiana quasi cento articoli riguardanti la situazione politica in Israele, gli eventi che hanno caratterizzato il conflitto mediorientale, nonché le relazioni fra Israele e Italia.
“Da Gerusalemme a Roma” è la summa di questi articoli, frutto della sua intensa attività giornalistica oltre che “testimonianza del lavoro di un grande diplomatico, che ha rappresentato il suo paese con passione e autorevolezza”.
Le sue analisi restituendoci in una visione globale tutti i problemi che assillano una fra le zone più calde del mondo, ci raccontano attraverso le parole di un diretto protagonista la lotta quotidiana del popolo d’Israele per la sopravvivenza e il continuo anelito dell’unica democrazia in Medio Oriente a pervenire ad una pace equa e duratura.
L’arrivo di Ehud Gol in Italia ha coinciso con uno dei periodi più tragici della storia d’Israele che ha visto questo paese impegnato, insieme alle democrazie occidentali, a fronteggiare la minaccia del terrorismo e del fondamentalismo islamico.

La tragedia degli attentati kamikaze, l’inaffidabilità di Arafat, l’intifada palestinese, il fallimento degli accordi di Oslo, il dolore personale per la morte dell’amico David Diego Ladowski assassinato nell’agosto 2002 all’Università ebraica di Gerusalemme “da un atroce attentato terroristico”, la lettera a Oriana Fallaci per ringraziarla, all’indomani della manifestazione dell’Israel Day, per le sue parole che “hanno svegliato le coscienze degli italiani”, la gratitudine nei confronti dell’Italia durante il periodo di presidenza dell’Unione europea per “una linea di politica estera equidistante e proporzionata”, il monito a non abbassare la guardia dinanzi alle dimostrazioni d’odio contro lo stato ebraico perché “la nostra deve essere una missione senza fine contro l’antisemitismo, il razzismo, l’odio e l’intolleranza”, l’invito rivolto all’Occidente ad agire dopo la vittoria elettorale di Hamas, lo straordinario numero di scienziati e ingegneri presenti nel paese e la sua capacità di destinare risorse importanti alla ricerca, un’economia stabile e resistente, la cui solidità è assicurata dal forte supporto degli investimenti capitali: questi i temi salienti di una cronaca accurata che, sviluppatasi nell’arco di cinque anni, ci restituisce i frutti del lavoro di un uomo che con il suo impegno di ambasciatore ha saputo testimoniare non solo la lotta del suo popolo per vivere in pace e sicurezza con i vicini arabi ma anche il suo amore per l’Italia e gli italiani.

Giorgia Greco

Parco di Timna

Shimon Peres – La biografia

di Michael Bar-Zohar

Traduzione di Daniela Bachi, Maurizio Piperno Beer
Utet € 22,50

“Questo è Shimon. Possono abbatterlo quante volte vogliono, ma lui si rialzerà e continuerà a provarci. Forse la prossima volta ce la farà”. Un parente commenta così, con grande lungimiranza, il carattere e la tempra di Shimon Peres osservandolo durante una giornata di giochi insieme ad alcuni compagni.
Michael Bar-Zohar, storico israeliano, romanziere e biografo di David Ben Gurion (ha partecipato alla vita politica a fianco di Shimon Peres distanziandosene successivamente per divergenze di natura strategica), dedica al grande statista nonché attuale presidente della Repubblica una straordinaria biografia, documentata e avvincente che partendo dalla sua infanzia a Vishneva ci restituisce l’immagine di una personalità determinata, caparbia, un uomo che non rinuncia a sperare e continua a lottare per gli ideali in cui crede.
L’infanzia a Vishneva, “un villaggio dimenticato al confine tra la Polonia e la Bielorussia”, trascorre per Shimon sotto una specie di campana ebraica protetto dal mondo esterno e guidato nella sua formazione religiosa dal nonno materno, Zvi Meltzer, che “ogni giorno gli insegnava qualche riga del Talmud”.
Se il padre Getzel Persky, “un uomo bello e elegante con una vena avventurosa e pieno di gioia di vivere” non lascia una particolare impronta nella personalità di Shimon, la madre Sarah “una donna piccola con i capelli neri” gli trasmette la passione per i libri instillandogli un amore per la lettura “che non lo avrebbe mai abbandonato”.
All’età di dodici anni Shimon arriva in Terra d’Israele dove tutto si rivela stupefacente e gli infonde un senso di libertà; nonostante la sua timidezza si inserisce ben presto in un gruppo giovanile ma sarà la scelta di vivere e studiare a Ben Shemen, un villaggio il cui nome si ispira a un verso di Isaia, a trasformarlo in un vero israeliano. Due anni e mezzo dopo il futuro presidente della repubblica sarà un vero kibbutznik, attivo nella gioventù lavoratrice, in grado di lavorare la terra e nel contempo radicato nel movimento laburista.
Avvalendosi di diari, lettere e documenti personali Michael Bar-Zohar ci narra con grande maestria l’ascesa politica di Shimon che sceglierà il suo cognome ebraico osservando, durante un viaggio nel deserto del Negev, un avvoltoio barbuto, più pericoloso dell’aquila chiamato appunto peres.

Fin dalla gioventù a fianco di Ben Gurion per il quale proverà sempre una profonda ammirazione e devozione Shimon Peres intellettuale e filosofo, amico e confidente di leader mondiali come il ministro della Difesa Maurice Bourgès-Manoury o il cancelliere tedesco Adenauer, ricoprirà ruoli importanti nei governi di Golda Meir e di Rabin.
Appoggiato nelle scelte strategiche e politiche da Ben Gurion e Moshe Dayan dovrà combattere sempre contro l’ostracismo di Golda Meir che lo detestava e confrontarsi con la figura di Rabin che non cesserà mai di contrastarlo.
Pronto a sfidare ogni ostacolo Peres ha avuto un ruolo determinante in molte vittorie di Israele: ha progettato la campagna di Suez, ha guidato l’operazione di Entebbe e ha garantito al suo paese la disponibilità del nucleare.
Amato e detestato nel contempo, Peres ha suscitato nel corso della sua lunga carriera grande ammirazione e innumerevoli critiche; pur perdendo molte competizioni elettorali è rimasto saldo nella volontà di conseguire il suo obiettivo prioritario: la pace con i palestinesi.
Si legge nella Mishnà che “su tre cose si regge il mondo: sul diritto, la verità e la pace”.
Dall’equilibrio di questi elementi scaturisce il senso profondo dell’impegno che Shimon Peres ha dedicato e continua a dedicare al suo paese, oltre che il suo grande valore di uomo e di statista.

Giorgia Greco

mercoledì 26 marzo 2008

Parco di Timna


POLITICA E ANTISEMITISMO

“E’ possibile criticare le scelte del governo d’Israele senza per questo essere automaticamente tacciati di antisemitismo?”.
Questa domanda retorica appare molto di frequente, di questi tempi, come premessa ai commenti dedicati alla drammatica situazione del Medio Oriente, quasi una sorta di necessario incipit discorsivo, una excusatio non petita atta a ‘liberare le mani’ del commentatore, permettendogli di esprimere con libertà i propri giudizi critici sul conflitto in corso, dai quali si vuole fugare qualsiasi ombra di un generale pregiudizio antiebraico.
Il quesito, come detto, è chiaramente retorico, e la risposta sembra decisamente ovvia: sarebbe ben grave volere impedire a qualcuno il diritto, per esempio, di criticare il governo Berlusconi, con l’argomento secondo cui ciò sarebbe prova di comportamento ‘anti-italiano’. Lasciamo l’antisemitismo ai razzisti alla Le Pen, e lasciamo liberi i commentatori democratici di fare il loro mestiere secondo coscienza, esprimendo valutazioni politiche, ed esclusivamente politiche.
La questione, però, è un pochino più complessa, e la domanda retorica, al di là della sua ovvia risposta, merita qualche riflessione.
Il commentatore democratico che voglia esprimere liberamente la propria riprovazione o condanna verso le scelte del governo di Gerusalemme rivendica il diritto di formulare le proprie opinioni sul piano della politica, evidentemente applicando a tale governo gli stessi parametri di giudizio che sarebbero riservati a qualsiasi altro soggetto. La violenza contro i palestinesi va condannata appunto in quanto violenza, non certo in quanto esercitata da israeliani o - tanto meno – da ebrei. Dando per scontata la piena legittimità di un tale tipo di giudizio, e l’improponibilità di qualsiasi automatico collegamento con l’antisemitismo, va però ricordato – non si può non ricordare – che le critiche – solo politiche, e quindi legittime – contro il governo israeliano, sono sempre, oggettivamente, accanto, se non dentro, ad un altro tipo di ostilità, dal quale, per quanto esse pretendano di essere completamente indipendenti, non possono comunque, in nessun caso, prescindere.
Abbiamo detto un altro tipo di ostilità. Ma, a volere essere precisi, si tratta di due ostilità distinte (anche se spesso, spessissimo, tanto strettamente intrecciate, o fuse, da apparire praticamente indiscernibili l’una dall’altra).
La prima ostilità è quella, integrale e monolitica, non già contro questa o quella scelta del governo di Gerusalemme, né contro tale governo nel suo insieme, bensì contro lo stato ebraico nel suo complesso. E’ il sentimento di chi questo stato vorrebbe, semplicemente, che non esistesse, auspicandone la totale distruzione. E’ un atteggiamento che può restare confinato a livello meramente propagandistico e declamatorio, esprimendosi in violenza soltanto verbale, o può invece – come tante volte è accaduto e accade – tradursi in atti conseguenti: muovendo eserciti per eliminare, una volta per tutte, l’‘entità sionista’ nella sua totalità oppure – nell’impossibilità di realizzare, nell’immediato, tale obiettivo – accontentandosi di ammazzare, non attraverso campagne militari, ma per mezzo di reiterati attacchi terroristici, quanti più cittadini israeliani possibile, cercando così di annientare Israele ‘pezzo dopo pezzo’.
Il secondo tipo di ostilità è quella, ancora più integrale e monolitica, contro il popolo ebraico nella sua totalità (l’unico atteggiamento che, generalmente, si ritiene degno della definizione negativa di ‘antisemitismo’, come se il desiderare la distruzione totale della patria degli ebrei sia un disegno magari violento, ma comunque ‘meramente politico’). Si tratta di un fenomeno che la vecchia Europa, dopo secoli di persecuzioni religiose e dopo l’Olocausto, dovrebbe conoscere bene, e che la cronaca recente ha posto nuovamente, drammaticamente al centro dell’attenzione: centinaia di sinagoghe colpite o bruciate in Francia, in Ucraina, in Tunisia, in Lituania, in Belgio, cimiteri profanati, cittadini israeliti e rabbini picchiati a sangue, forze politiche dichiaratamente antisemite alla ribalta in Paesi di antica tradizione democratica, vignette umoristiche su quotidiani popolari richiamanti gli stereotipi degli ebrei usurai, sanguisughe, assassini di Cristo.
E con questo? obietterà il commentatore ‘non antisemita’ dei fatti di Israele. Non solo la critica al governo israeliano non ha nulla a che vedere con questi episodi, ma ci si può – anzi, ci si deve – schierare, con la stessa energia e con lo stesso rigore morale, su entrambi i fronti: a fianco dei palestinesi diseredati e contro i loro oppressori, in Palestina; a favore degli ebrei e contro i loro persecutori, nel ‘resto del mondo’.
Ma il problema, di nuovo, non è così semplice.
Chiunque voglia pronunciarsi sul conflitto mediorientale, infatti, deve innazitutto partire dal dato di fatto che un conflittto, appunto, esiste. E, se tale conflitto si vuole analizzare e interpretare, si deve necessariamente prendere atto della natura, delle posizioni e dei progetti dei contendenti. Ora, è un dato di fatto assolutamente inconfutabile che la totalità del mondo arabo, fino ad anni recenti, esprimeva sistematicamente l’ostilità del primo tipo, quella coincidente puramente e semplicemente col desiderio della distruzione di Israele. E’ con questo intento che cinque eserciti arabi invasero, nel 1948, il minucolo, fragilissimo stato (appena 650.000 anime, fra cui molti scampati all’Olocausto), lo stesso giorno della sua riacquistata indipendenza; è con questo intento che gli stessi eserciti si mossero, di nuovo, nel 1967 e nel 1973, venendo, fortunatamente, sempre respinti. Dopo la guerra del Kippur e gli accordi di pace con l’Egitto alcuni interlocutori dicono di essere cambiati. Ma, senza andare a discutere della buona fede e della credibilità di questi convertiti alla causa della pace e della convivenza (su cui ci sarebbe pure tanto da dire), resta il dato di fatto, anch’esso incontestatbile, che numerosissime e potentissime forze, in campo islamico, continuano a essere indirizzate, con la massima determinazione, verso il vecchio, attualissimo piano di distruzione, la cui realizzazione costituisce una imprescindibile e irrinunciabile ragion d’essere. Molti stati islamici (come l’Iran, l’Irak, la Siria, il Libano…), così come quasi tutte le sigle terroristiche dagli stessi stati armate e sovvenzionate (Jihad, Hamas, Hezbollah…) colpiscono Israele (in modo diretto o mediato) o si preparano a colpirlo (recentemente l’ex Presidente iraniano Rafsanjani, elogiando il progetto in corso della “bomba atomica islamica”, ha ricordato che a essa sarà affidato il sacro compito di annientare Israele) non certo per questioni di confini o per qualche contenzioso politico, ma semplicemente perché ne rifiutano radicalmente l’esistenza. L’idea stessa di un Medio Oriente pacificato e di un Israele in pace con un confinante stato palestinese e con tutti gli altri vicini è rigettata, da tali forze, senza alcuna possibilità di mediazione, e ogni qualvolta si registra qualche timido passo di pace si levano sempre alte denunce di ‘tradimento’, molte piazze arabe si riempiono di folle sdegnate, gli attentati terroristici si moltiplicano.
Ma un altro dato di fatto, altrettanto incontestabile e altrettanto importante, è che, in tutto il mondo islamico, anche nei Paesi cosiddetti ‘moderati’, è larghissimamente presente - in modo martellante, sistematico, organizzato – l’ostilità antiebraica ‘del secondo tipo’, ossia quella tradizionalmente antisemita. La propaganda anti-israeliana diffusa sui giornali arabi raramente distingue tra ‘israeliani’ ed ‘ebrei’, ma indirizza genericamente contro questi ultimi i suoi quotidiani, incessanti, violentissimi strali. Basta scorrere le pagine di qualsiasi testata egiziana, giordana, palestinese – si trovano anche su internet – per trovarle inondate di vignette antisemite – spesso ritagliate direttamente da Der Stürmer e altri fogli nazisti -, raffiguranti ebrei torvi, col naso adunco, pronti a ghermire fanciulli indifesi, a tramare contro l’umanità. I Protocolli dei Savi di Sion vengono stampati in centinaia di migliaia, forse milioni di copie, distribuiti nelle scuole, offerti in omaggio agli ospiti occidentali, e sono stati anche adattati per un gettonatissimo sceneggiato in onda sulla televisione egiziana. Nelle scuole siriane si insegna la matematica ai bambini spiegando loro che se, di dieci ebrei, se ne ammazzano quattro, ne restano ancora sei da uccidere, il Presidente Assad ha spiegato davanti al Papa che gli ebrei di oggi torturano i palestinesi come quelli di ieri torturarono Gesù, molti giornali ripetono le leggende medioevali sui giudei che avvelenano i pozzi, o che fabbricano le azzime col sangue dei bambini musulmani e cristiani. E’ un luogo comune, nell’opinione pubblica araba, la convinzione che le Twin Towers siano state distrutte dagli israeliani, e che tutti gli ebrei del mondo sarebbero stati avvertiti in anticipo, così da non farsi trovare negli edifici al momento fatale. E gli esempi potrebbero ancora moltiplicarsi, a lungo.
Ora, c’è un elemento, di grande importanza, che non viene mai preso in considerazione. Tutta questa propaganda, quest’odio anti-israeliano, o antiebraico, assume anche una veste pseudo-politica, si traduce anche – e sarebbe ben strano il contrario - in critiche costanti contro i comportamenti del governo di Gerusalemme, le cui presunte malefatte vengono denunciate, giorno dopo giorno, in tutte le sedi possibili, su tutti i giornali, in tutte le cancellerie, in tutte le piazze, in tutti i comizi. L’odio antiebraico fornisce inesauribile benzina non solo al conflitto mediorientale, ma anche alla sua immagine, alla sua rappresentazione.
“Ma – obietterà ancora il commentatore democratico – sarò pur libero di esprimere serenamente le mie valutazioni politiche, scevre di alcun pregiudizio, nonostante tale ‘cattiva compagnia’!”. Certo, ma il punto non è questo, bensì il seguente: non ritiene tale commentatore – i cui giudizi, piaccia o non piaccia, si trovano accanto a questa ostilità esteriormente politica, ma sostanzialmente antisemita, e proprio tale ostilità sono chiamati a spiegare e interpretare - necessario interrogarsi su tale ruolo essenziale svolto dall’antisemitismo nel problema ‘politico’ mediorientale? E non ritiene necessario interrogarsi sull’impalpabile, evanescente discrimine tra il conflitto ‘solo politico’ e quello razziale? Riuscirebbe a spiegare tale differenza, per esempio, alla vedova del giornalista Daniel Pearl, costretto, davanti alla telecamera, a confessare “sono ebreo”, prima di essere sgozzato? O ai figli di Leon Klinghofer, l’ebreo paralitico scelto ed ucciso dai sequestratori palestinesi dell’Achille Lauro, proprio perché ebreo e perché invalido? E’ proprio sicuro che i ventuno adolescenti, fatti a brandelli in una discoteca di Tel Aviv, o i loro coetanei dilaniati, a Gerusalemme, in una scuola rabbinica, o siano stati colpiti da una falce qualitativamente e intrinsecamente diversa da quella che cercò di mietere le vite dei loro nonni?
Di fronte a tale invito, al commentatore democratico potrebbe restare un’estrema possibilità, che infatti a volte viene tentata: quella di spiegare ‘politicamente’ l’antisemitismo islamico, presentandolo come il frutto degenerato di un’esasperazione prodotta da un conflitto politico. Ma è un tentativo di assoluta inanità: ritenere che un fenomeno gigantesco, dalle radici millenarie e dall’estensione planetaria, che coinvolge centinaia di milioni di persone, sia prodotto da una circoscritta contesa locale, riguardante qualche chilometro quadrato di territorio! E come mai nessuno riflette, a questo riguardo, che Israele viene sistematicamente colpito, di questi tempi, esclusivamente da territori (come Gaza o Libano) dove non c’è alcuna sua presenza militare, mentre non accade nulla proprio lì dove (Cisgiordania) una resistenza armata sarebbe, teoricamente, giustificabile? Come mai questa gigantesca solidarietà filo islamica, coinvolgente Paesi collocati dalla parte opposta del globo rispetto alla Palestina, è completamente – completamente – inesistente in tutte le altre occasioni (e ce ne sarebbero migliaia: solo in Darfur si parla di almeno 300.000 vittime!) in cui dei musulmani potrebbero essere presentati come vittime di torti o ingiustizie? E’ evidentissimo, invece, il contrario: l’antisemitismo non è l’effetto del conflitto mediorientale, ma ne è la prima, la fondamentale causa. Esso è un fenomeno che non colpisce gli ebrei per ciò che fanno, ma per ciò che sono, e per capirlo non vanno studiati gli ebrei e i loro atti, ma i loro nemici, la loro cultura e le loro prospettive. Senza l’odio antiebraico, il conflitto arabo israeliano non sarebbe mai sorto (sarebbe bastato, per esempio, che gli arabi avessero accettato il piano del ’47 di spartizione della Palestina…), o troverebbe comunque la sua soluzione con estrema facilità. E, senza voler capire quest’odio, le ragioni di tale conflitto resteranno sempre inesplicabili, oscure.
In realtà, i nostri commentatori raramente mostrano alcuna seria intenzione di comprendere l’antisemitismo, di valutarne l’insidioso veleno. E, soprattutto, preferiscono combatterlo solo nelle sue manifestazioni del passato, nelle forme obsolete sbandierate da dittatori già sconfitti e condannati dalla storia, fingendo di non vedere i suoi nuovi, popolarissimi ‘travestimenti’.
La domanda retorica, posta all’inizio di queste note, quindi, non ha senso, e andrebbe sostituita con un altro quesito, certo molto più scomodo, ma non insensato: “E’ possibile analizzare un conflitto, che nell’antisemitismo ha una sua essenziale radice, come se l’antisemitismo non esistesse?”.


Francesco Lucrezi

Colloqui" on line dell'Associazione culturale "Oltre il Chiostro"

Parco di Timna

Breve storia dello stato di Israele, 1948-2008


Claudio Vercelli, Editore Carocci, euro 14,30


La comprensione delle dinamiche politiche, sociali, economiche e culturali che sono parte attiva nell'evoluzione del Medio Oriente contemporaneo richiede lo studio della storia di quanti ne sono protagonisti. Lo Stato d'Israele ha costituito, fin dalle sua nascita, un soggetto di primaria rilevanza nella definizione dei mutevoli equilibri del quadro regionale. Tuttavia, scarsa è la conoscenza che si ha delle vicende che sono alla sua origine, nel 1948, e dei successivi sviluppi, fino ai giorni nostri. La fisionomia culturale propria del paese, la sua mutevole composizione sociale, la storia politica ma anche l'evoluzione dell'economia nazionale sono frequentemente omesse nella formulazione di un giudizio sul suo ruolo, soprattutto in rapporto al perdurante confronto con i palestinesi. Intenzione di queste pagine è quindi quella di focalizzare l'attenzione dei lettori sulle peculiarità dello Stato e sulle specificità della società israeliana, offrendo alcune sintetiche chiavi di lettura a beneficio di quanti vogliano meglio coglierne il suo ruolo partendo dalla definizione della sua natura storica.
Claudio Vercelli è ricercatore di storia contemporanea presso l'Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino, dove coordina il progetto Usi della storia, usi della memoria. E' inoltre redattore di Shalom. Mensile ebraico di informazione e cultura. Da molti anni svolge attività di studio, di ricerca e di didattica sul Medioriente e sullo Stato d'Israele. Autore di numerosi saggi, comparsi in opere collettanee e riviste scientifiche, concentra in particolar modo la sua attenzione sulla storia degli ebrei nell'età contemporanea. Sul conflitto israelo-palestinese ha recentemente pubblicato il volume Israele e Palestina: una terra per due (Torino 2005) e Il conflitto israelo palestinese tra passato e presente (Vercelli 2006). Con la Giuntina ha già pubblicato Tanti Olocausti. La deportazione e l'internamento nei campi nazisti.


Fondazione Giorgio Perlasca

Gerusalemme


Yael Naim, Apple lancia la "nuova anima" d'Israele

NEW YORK La cantante franco-israeliana Yael Naim ha trovato il successo dopo che la sua canzone "New Soul" è stata usata per la pubblicità del computer MacBook Air di Apple, che l'ha spinta al settimo posto della classifica Billboard dei 100 più venduti. Naim, 29 anni, il cui nuovo album è appena uscito negli Usa con due mesi d'anticipo rispetto al previsto in seguito al successo dello spot, ha detto di non essere preoccupata di apparire come troppo commerciale. "Si è aperta una grande finestra per noi, per la gente che ha la possibilità di ascoltare la nostra musica", ha detto. "Avevamo diverse proposte, ma pensavamo che Apple e Macintosh avessero un certo legame perché oggi lavoriamo col computer per fare la nostra musica". La cantautrice, che è nata a Pargi ma che ha trascorso molta parte della sua infanzia in Israele, ha registrato il suo nuovo album nel suo appartamento parigino insieme al suo partner musicale, il percussionista David Donatien. "Non avevamo un'etichetta", spiega. "Non avevamo molti soldi così avevamo solo un computer". Naim, che ha trascorso due anni nell'orchestra dell'aviazione israeliana, ha detto di essere stata sorpresa dal pubblico francese, che ha abbracciato il suo album, realizzato in varie lingue. "Pensavo che nessuno volesse ascoltare delle ballate in ebraico. Non è considerata una lingua sexy".


NEWS La Stampa.it
24/3/2008




domenica 23 marzo 2008

Gerusalemme

Oltre l'odio e la violenza. L'altro volto di Israele

di Luca Meneghel

Israele, anni Quaranta. Due ragazzi – il Pupo e la bimba – sono cresciuti lontani, lui in un kibbutz e lei a Tel Aviv. A unirli, una passione comune: quella per le colombe, prezioso mezzo di comunicazione negli anni in cui Israele corre spedito verso la dichiarazione d’indipendenza. Entrambi, in luoghi diversi, entrano nelle fila della Resistenza e diventano esperti colombofili sotto l’occhio vigile dell’esperto dottor Laufer. Quando per la prima volta il Pupo e la bimba s’incontrano, è amore a prima vista: sul cielo d’Israele, le colombe trasportano veloci indicazioni militari e messaggi d’amore. Sarà la guerra, scoppiata dopo la proclamazione d’indipendenza, a mettere in forse il futuro di un amore nato sulle ali dei piccioni viaggiatori. Israele, giorni nostri. Yair è una guida turistica che porta naturalisti e bird-watchers in giro per il paese. È sposato con Liora, una bella americana incontrata nel corso dei suoi tour: alla passione iniziale è subentrata però la freddezza, complice anche la difficoltà che la coppia incontra nell’avere un figlio.
La madre di Yair, prima di morire, lascia al figlio una somma cospicua con una precisa missione: cercare una casa tranquilla dove ritrovare se stesso, con un balcone affacciato sul panorama e una doccia per potersi lavare in mezzo alla natura. La ricerca della casa, e la sua sistemazione, diventano per Yair un viaggio nel passato e nella propria storia: e chissà che il futuro non sia lì a due passi, in quella donna capomastro conosciuta da fanciullo e ora responsabile dei lavori di ristrutturazione. Due piani temporali, due grandi storie, due insiemi di personaggi che s’intrecciano e si guardano da lontano. Meir Shalev, tra i maggiori esponenti della letteratura israeliana contemporanea, continua con Il ragazzo e la colomba – fresco di stampa per i tipi di Frassinelli, nella traduzione della bravissima Elena Loewenthal – il suo viaggio nella storia, nell’amore e nell’essenza dell’uomo che tanto successo aveva riscosso con il bestseller internazionale La casa delle grandi donne.

Il ragazzo e la colomba, quanto a grandezza, non è certo da meno: nella speranza di vedere Shalev alla Fiera del Libro di Torino (l’autore ha dichiarato che scioglierà la riserva poco prima dell’evento, a seconda dell’andamento delle polemiche e delle indicazioni dell’editore), a questo romanzo è stato riconosciuto in patria il prestigioso premio Brenner. Intervistato dall’italiana Radio Tre, Meir Shalev ha rivelato qualcosa del suo lavoro di scrittore. Alla mattina si alza molto presto e lavora fino a mezzogiorno; dopo la pausa pranzo, il lavoro di scrittura prosegue fino al tardo pomeriggio: risultato, dieci ore di lavoro al giorno. Dieci ore quotidiane da moltiplicare per i tre anni circa di gestazione, comuni a questo e agli altri suoi romanzi: si spiega allora così la perfezione di ogni singolo elemento presente ne Il ragazzo e la colomba, la grazia con la quale i due piani temporali si sfiorano per poi tornare a vivere di vita propria. Si capirà anche la profondità dei personaggi (quella del Pupo, di Yair e della bimba), o la loro delicatezza (il signor Meshullam e il dottor Laufer). Il tutto per comporre un mosaico di rara dolcezza, un mondo fatto semplicemente di parole ma capace di commuovere come se in mezzo ci fossimo proprio noi, in carne e ossa.

Al di là della trama, che è meglio lasciare alla curiosità del lettore, il romanzo di Shalev solleva alcune tematiche fondamentali. Primo: Israele. Complici i mass media piuttosto che l’urgenza degli eventi, siamo abituati a immaginare lo Stato ebraico come a una regione tenuta perennemente in scacco dalla paura, bersaglio dei razzi palestinesi e pronta a rispondere con le armi a ogni provocazione. Di rado viene da pensare che, al di là degli scontri ai confini, Israele è prima di tutto uno Stato normale: questo Shalev lo fa sentire con estrema chiarezza, descrivendo il fascino delle sue città, delle sue valli e delle sue campagne. Quello de Il ragazzo e la colomba è un Israele fiabesco, straniato dallo spazio e dal tempo: dentro ci sono piante meravigliose, fiumi rigogliosi, la moderna Tel Aviv e la seducente Gerusalemme. E in cielo scorrono incessantemente moltissimi uccelli: dai più comuni alle gru, che mandano compagni in avanscoperta per trovare un posto sufficientemente sicuro. Secondo: la guerra. La guerra di Shalev è la guerra che Israele si trova quotidianamente a combattere, contro tutti coloro che negano il suo diritto a esistere. Ma nei personaggi di Shalev non c’è spazio per il rancore, o per il desiderio di vendetta: la guerra è vissuta come parte integrante della vita degli israeliani, e i più giovani vi si accostano con senso del dovere. Tutti sentono di dover fare qualcosa per il proprio paese, e se il Pupo non è bravo a sparare potrà sempre seguire un battaglione con la colombaia in spalla: pronto a lanciare un piccione per avvertire gli altri soldati dei pericoli e delle strategie sul campo. Terzo: la casa. La casa, la sua anima, il suo corpo, la sua ricerca: il tema pervade ogni singola riga di Shalev. È la casa, in fondo, il vero protagonista de Il ragazzo e la colomba: la casa cercata da Yair in mezzo alla natura, piuttosto che un appartamento a Tel Aviv o la colombaia centrale per i piccioni viaggiatori. E poi la casa per eccellenza: Israele, anche se Shalev (da grande autore quale è) non lo suggerire esplicitamente. Israele come terra promessa, certo, ma anche come casa normale per gente comune: una casa sicura dove vivere felici, come la villa fatta ristrutturare da Yair che diventa una metafora di quello che Israele vorrebbe tanto essere. Uno Stato tranquillo, capace di convivere e dialogare con i propri vicini di casa. E gli israeliani, di metafora in metafora, che altro sono se non le colombe? Senza un particolare senso dell’orientamento, ma sempre capaci di ritrovare la strada che porta a casa, verso la colombaia dalla quale sono partite. Quello che gli ebrei, per troppi secoli, hanno cercato di fare fino al miracolo della creazione dello Stato d’Israele: una colombaia centrale aperta a tutti gli ebrei del mondo che dovessero sentire nostalgia di casa.

Oltre le grandi metafore, oltre la commovente storia partorita dalla mente di Shalev, c’è infine lo splendore della sua prosa: fluida e avvolgente, capace di penetrare nelle nostre pieghe più segrete. Una prosa che è riuscita a imbastire la miglior scena di morte in guerra che io ricordi. C’è chi crede che una linea invisibile leghi l’opera e le vite di tre grandi scrittori come Balzac, Dostoevsij e Dickens. Tutti e tre, infatti, hanno raccontato la società dei loro paesi (Francia, Russia e Inghilterra) meglio di quanto abbiano mai fatto saggi e manuali storici sull’Ottocento. Negli uomini di Balzac e Dostevskij, così come in quelli di Dickens, c’è tutto l’Ottocento: quello della borghesia in ascesa e dei poverissimi nelle strade, quello dei sogni e delle illusioni perdute. Qualcosa di simile, oggi, accade con la letteratura israeliana. Qualitativamente tra i migliori al mondo, i romanzieri israeliani trasmettono l’essere ebrei, il sogno d’Israele, il difficile rapporto con i vicini palestinesi e il terrore di una minaccia sempre incombente meglio di qualsiasi saggio o reportage. In questa schiera di storici e sociologi con l’animo da letterati, Meir Shalev occupa una posizione d’assoluto rilievo: Il ragazzo e la colomba è qui per dimostrarlo.

23 Marzo 2008 L’Occidentale