lunedì 10 dicembre 2012
I palestinesi non imparano mai
Il voto alle Nazioni Unite che ha avanzato la condizione dell'OLP a
stato osservatore non membro non ha fatto nulla per far progredire la
condizione della questione palestinese. Al contrario, ripete un vecchio
copione della storia: anziché cercare un compromesso con Israele, i
leader palestinesi ripongono il loro destino nelle mani di altri,
ingenuamente credendo che essi consegneranno loro ciò che non sono in
grado di conseguire.Quando gli stati mondiali si riunirono all'ONU nel 1947 per votare il
piano di partizione del mandato britannico in Medio Oriente in due stati
- uno arabo, uno ebraico - i leader palestinesi si fidarono della Lega
Araba, opponendosi all'accordo, convinti dagli eserciti arabi che
avrebbero ottenuto con la forza tutto il territorio. Ma non andò così.Una volta persa l'occasione di ottenere uno stato arabo, i leader
palestinesi si affidarono ai fautori del nazionalismo arabo, che puntava
a distruggere Israele. Anziché rivolgersi alla Giordania - che occupò
il West Bank e Gerusalemme Est - e all'Egitto - che conquistò Gaza -
chiedendo loro di trasformare questi territorio in stato di Palestina; i
leader palestinesi si fidarono degli arabi, confidando in una nuova
guerra, da cui questa volta sarebbero usciti vincitori.Ma così non fu: nel 1967 Israele respinse l'attacco combinato del mondo
arabo e rilevò ciò che residuava dell'antico Mandato britannico.Cinquant'anni di guerre perdute inducono il ceto politico a rivedere il
proprio atteggiamento mentale: si pensi al comportamento della Germania
dopo due guerre mondiali. Ma così non è stato per i leader palestinesi,
che appoggiarono la decisione della Lega Araba del 1967 di respingere
ogni apertura nei confronti di Israele, continuando le ostilità (i famosi "tre no di Khartoum, NdT).
Naturale conseguenza di questo atteggiamento: il terrorismo, che
avrebbe insanguinato l'area per i due decenni successivi, nella
convinzione che Israele avrebbe potuto essere sconfitto ammazzando
civili innocenti, e spostando l'opinione pubblica a proprio favore.Così è stato, ma ciò non ha portato ad alcuno stato.Anche quando l'OLP ha preso il posto della leadership araba come
riferimento delle aspirazioni palestinesi, la loro causa non ha compiuto
alcun passo in avanti. Astutamente, il leader dell'OLP Yasser Arafat si
barcamenò fra leader arabi e movimenti dei paesi non allineati, senza
però rinunciare nazionalismo palestinese basato sui principi del
respingere tutte le proposte e non fornire alcuna
concessione. Arafat si appoggiò sui leader arabi che di volta in volta
peroravano la sua causa, combattendo quelli che apparivano relativamente
vicini alle posizioni isreaeliane. Ciò ha prodotto per i palestinesi
più guai e dolori di tutte le guerre combattute contro Israele. La breve
stagione giordana di Arafat coincise con il re Hussein che macellò
migliaia di palestinesi per mettere in salvo il suo trono.L'appoggio di Saddam Hussein costò ad Arafat centinaia di migliaia di
morti palestinesi in Kuwait nel 1991 e in Iraq nel 2003. L'unico leader
arabo che si impegnò a negoziare un compromesso per i palestinesi fu
l'egiziano Anwar Sadat: Arafat si impegnò per auspicarne l'assassinio
per punirlo per il suo "crimine". Alla fine, nessuno può fare per la
causa palestinese più di quanto possano fare gli
stessi palestinesi.Per un po' di tempo, nella fase successiva agli Accordi di Oslo, l'OLP
realizzò che, se davvero voleva conseguire l'obiettivo di uno stato,
avrebbe dovuto seriamente negoziare con Israele, anziché appoggiarsi ad
altri che gli avrebbero servito lo stato su di un piatto d'argento. Il
fatto che gli accordi di pace del 1993 siano stati una opportunità
persa, è dovuto in gran misura all'atteggiamento di Arafat di cambiare
idea d'improvviso, allontanando il "suo" popolo (Arafat è nato in Egitto, e non ha alcun legame con i palestinesi, NdT)
da negoziati diretti, e abbandonandolo fra le braccia di gruppi armati
sul terreno, e della comunità internazionale a livello politico.Nella speranza che la pressione internazionale possa concedergli ciò che
il dialogo con Israele tarda a consegnare, Arafat alla fine del 2000
scatena la seconda intifada. Dodici anni dopo, e otto anni dopo la sua
morte, i leader palestinesi stanno ancora seguendo questa strada,
incapaci di allontanarsi dal sentiero della violenza (Hamas) e
aggrappati alla comunità internazionale (Al Fatah) per costringere
Israele a concedere ciò che non si ottiene con il negoziato. Il voto con
cui l'ONU ha avanzato la condizione dell'OLP a stato osservatore non
membro è la continuazione di questa tendenza.La vittoria diplomatica di Mahmoud Abbas non porterà ad alcuno stato.
Non modificherà gli equilibri fra Israele e Autorità Palestinese. Non
risolverà la divisione di poteri fra il governo dell'AP nel West Bank, e
quello di Hamas a Gaza. E di sicuro non ripristinerà la presenza di
Mahmoud Abbas a Gaza. Per non parlare della pace, che adesso si
allontana.Al pari della proclamazione di Arafat di uno stato palestinese nel 1988,
il voto dell'assemblea generale dell'ONU è una pagliacciata. La
Palestina non è uno stato: il 40% del suo territorio è amministrato da
una fazione ostile da anni (Hamas), e la parte restante è contesa con
Israele, o amministrata congiuntamente.Quello che ha prodotto quest'ultimo capitolo degli sforzi palestinesi di
ottenere da altri uno stato è stato l'incremento dell'aspetto teatrale
della statualità palestinese: tutto l'armamentario di uno stato, ma
senza uno stato. Aggiungendo un seggio di osservatore allo stesso
livello del Vaticano, questa iniziativa senza dubbio accresce l'ego dei
palestinesi, dando loro la possibilità di perseguire Israele alla Corte
Penale Internazionale dell'Aja. Ma l'indipendenza rimane un miraggio.Tutto ciò era perfettamente evitabile. Preferibile rimane l'alternativa
di avviare negoziati diretti fra le due parti, con la disponibilità di
ricevere e dare. Ma la storia palestinese non presenta precedenti
simili. La decisione di Mahmoud Abbas di percorrere la strada che
conduce all'ONU è purtroppo l'ultimo capitolo di questa infelice
vicenda. L'OLP adesso potrà anche autodefinirsi uno stato. Ma che in
effetti possa effettivamente essere tale, questo è decisamente un altro
paio di maniche.di Emanuele Ottolenghi Palestine's strangely stubborn state of mind.http://ilborghesino.blogspot.it/
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E la verifica delle fonti?
Nuovo grottesco epic fail del Guardian (mica "L'Eco di Bergamo",
con tutto il rispetto...), che nell'ambito dell'ampio resoconto per le
celebrazioni del 25esimo anniversario della fondazione
dell'organizzazione terroristica nota come Hamas, che dal 2007 governa
in solitudine la Striscia di Gaza; propone una foto eloquente di
miliziani messi a guardia di un edificio «distrutto da uno strike
israeliano durante la parata, stando a quanto riferiscono testimoni».Ovviamente l'aviazione israeliana sta rispettando il cessate il fuoco, e
non sorvola da settimane la Striscia di Gaza. Nessuna menzione di
questo strike appare sul sito di Hamas, ne', sui giornali locali o
arabi, ne' su qualunque altra testata giornalistica mondiale.Ma il Guardian, che dispone sempre di notevole fantasia, non poteva fare
a meno di contornare questa memorabile "adunata oceanica" con la
raffigurazione del cattivo israeliano che pensa solo a guerreggiare. E
così si inventa di sana pianta un attacco. Che colpisce soltanto la sua
sempre più fragile credibilità. http://ilborghesino.blogspot.it/
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Meshaal eroe di Gaza, opposizione israeliana attacca Netanyahu
L’accoglienza trionfale ricevuta a Gaza da Khaled Meshaal complica la
campagna elettorale del premier israeliano Benjamin Netanyahu.Nel Paese, al voto il 22 gennaio, l’opposizione cavalca la delusione
per l’esito dell’operazione militare ‘Colonna di Nuvola’ sulla
Striscia.E Netanyahu risponde all’accusa di aver rafforzato Hamas, attaccando Abu Mazen.“Il leader dell’Autorità nazionale palestinese non condanna Hamas
quando questa incita alla distruzione di Israele – ha detto Netanyahu in
una conferenza stampa convocata a Tel Aviv – Così come in precedenza,
non ha condannato i razzi lanciati da gaza su Israele. E con grande
rammarico da parte mia sta lavorando all’unità con Hamas, che è
sostenuto dall’Iran”.“Ai miei tempi Meshaal non avrebbe osato avvicinarsi a Gaza”, attacca l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert.Il capo di Hamas nel suo primo discorso pubblico a Gaza dopo 45 anni
di esilio ha esaltato i 200mila presenti ribandendo che non concederà
nemmeno un centimetro di terra a Israele e invitando le fazioni
palestinesi all’unità:“La visita di Khaled Meshaal nel 25 anniversario della nascita di
Hamas – sostiene un abitante di Gaza – pone fine alle divisioni e avvia
la ricostruzione dell’unità nazionale”.“La Riconciliazione è vicina, così come la fine delle divisioni –
aggiunge un sostenitore di Hamas – È stato difficile raggiungere questo
risultato”.L’ascesa di Meshaal complica il dialogo con Israele......http://it.euronews.com/
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Israele teme una nuova ondata di terrore
Durante i festeggiamenti in
occasione del 25esimo anniversario dell'organizzazione, il leader di
Hamas Ismail Haniyeh ha chiamato «i fratelli dei territori occupati» ad
insorgere contro le autorità israeliane, assicurandogli che Hamas li
supporterà «in tutti i modi possibili».I
servizi segreti israeliani segnalano la crescente attività dei
terroristi palestinesi e l'aumento degli avvertimenti da parte degli
agenti di possibili attacchi terroristici. Il Ministero della Difesa
israeliano ha espresso la propria preoccupazione riguardo l'incidente di
Hebron, in cui la folla ha aggredito le forze di sicurezza israeliane.
Nessuno dei militari è stato ferito, ma l'aggressione in sè è un grave
segnale.http://italian.ruvr.ru/
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Siria: Israele a caccia armi chimiche
(ANSA) - LONDRA, 9 DIC - Forze speciali israeliane che agiscono come ricognitori in Siria hanno il compito di individuare le armi chimiche e biologiche di cui Bashar al Assad dispone e di seguirne i movimenti. Lo riferiscono fonti israeliane al Sunday Times. "Nell'ultima settimana abbiamo avuto segnali di spostamenti e possibilmente anche di munizioni che sono gia' state armate per colpire - ha proseguito la stessa fonte - e abbiamo urgente bisogno di localizzarle".
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Israele, Peres: "Aprire trattative coi palestinesi,
dopo le elezioni israeliane del 22 gennaio"
In un'intervista allo 'Spiegel' il presidente israeliano
sottolinea sia arrivato il momento di non guardare più al passato ma al
futuro e che il prossimo governo dovrà "prendere una decisione
strategica": "Ci saranno due Stati e tre blocchi di insediamenti,
dovremo concedergli un pezzo di territorio ugualmente grande"
BERLINO -
Il governo israeliano che uscirà dalle elezioni del 22 gennaio dovrà
aprire subito le trattative con i palestinesi. Lo chiede in
un'intervista allo 'Spiegel' il presidente israeliano Shimon Peres,
secondo il quale è ormai arrivato il momento di non guardare più al
passato, ma al futuro. "Dobbiamo mettere la parola fine e dire che i
peccati del passato sono perdonati e che non ci accuseremo più a
vicenda", spiega il presidente israeliano, aggiungendo che con i
palestinesi "dobbiamo immediatamente aprire trattative e immediatamente
significa: subito dopo le elezioni israeliane del 22 gennaio". "Se
vogliamo essere sinceri", spiega Peres, "i dati di fondo di un accordo
sono chiari: ci saranno due Stati e tre blocchi di insediamenti, per i
quali dovremo concedere ai palestinesi un pezzo di territorio ugualmente
grande". "Gli insediamenti occupano tra il 2 per cento e il 6 per cento
della superficie del territorio della Cisgiordania e un territorio
ugualmente grande dovremo darlo ai palestinesi da un'altra parte. Non si
tratta di un problema insolubile".Nell'intervista allo
'Spiegel' Peres sottolinea che il prossimo governo israeliano "deve
prendere una decisione strategica e per Israele non c'è un'opzione
migliore di quella di una soluzione con due Stati".
(09 dicembre 2012)
http://www.repubblica.it/
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domenica 9 dicembre 2012
Nemiche amiche vicine per calendario
Fra
Hanukkah e Natale, in un certo senso, non è mai corso buon sangue: due
feste troppo vicine - nonostante il calendario ebraico si diverta a far
ballare la Festa delle luci fra la fine di novembre e e gli ultimi
giorni di dicembre – e con troppe caratteristiche che a un primo
superficiale sguardo sembrano simili. Quanto basta per alimentare una
rivalità, apparentemente scherzosa, condita di battute e vignette e
storielle più o meno ironiche che da anni tentano di conciliare due
festività che, a essere sinceri, possono avere in comune solo la luce
delle candele e i doni ai bambini. E forse neppure quello, visto che i
regali fanno parte della deriva commerciale di entrambe le occasioni.
Una trottola, che in realtà serviva per nascondere un’occasione di
studio insieme e far credere a uno sguardo nemico che si stava solo
giocando, questo era l’unico divertimento per quegli otto giorni di
festa. Neppure Natale, a quanto pare, sarebbe una festa in cui i regali
sono il tema dominante. E poi? Poi i due mondi si sono avvicinati, e Sankt Nikolaus si è fatto
comprare dalla Coca Cola, ha scambiato il suo abito verde per una
divisa rossa, ed ha iniziato a fare gli straordinari per distribuire
regali. Quei regali che sono diventati sempre di più, e la letterina a
Babbo Natale ha fatto sì che vengano sempre più spesso acquistati su
ordinazione, grazie a genitori spioni che leggono le lettere
indirizzate al Polo Nord. Scritte da bambini che sanno benissimo come
gira il mondo e che riescono a commuovere gli adulti convincendoli che
certo, ovviamente, si sa, Babbo Natale viene solo nelle case dei
bambini che ci credono (e che si sono comportati bene)… E Hanukkah? Non
sarà mica una festa minore? Il fascino degli alberi di Natale
addobbati, il mistero di quella strana cosa chiamata presepe e
soprattutto la frenesia dello shopping di stagione e le centinaia di
pacchetti infiocchettati sono difficili da non notare, per quanto a
casa ci siano famiglie che fanno il possibile, e l’impossibile, per
dare il senso della festa, e Hanukkah di senso da offrire ne ha
tantissimo. I bambini a volte provano a fare i superiori, a scherzare
sulla quantità di Babbi Natale che si arrampicano ormai ovunque, appesi
ai balconi, ma – per essere sinceri - sanno anche che sicuramente fra
trottole e frittelle e monete di cioccolato qualche pacchetto sbucherà.
Perché siamo noi genitori, in realtà, che facciamo il confronto. Siamo
noi adulti che proiettiamo sui bambini le nostre preoccupazioni e, in
un certo senso, cediamo. Provate a chiedere ai bambini perché amano
Hanukkah… saranno pochi quelli che non citeranno i regali. Uno per
sera, ovviamente. Senza dichiararlo, senza ammetterlo, ma il timore che
i nostri cuccioli facciano il paragone con il tripudio di pacchetti
natalizi e che si sentano in un certo senso in difetto esiste. E
cercare di spiegare che no, non tutti festeggiano le stesse cose e che
anzi se vogliamo dirla tutta nel mondo si tratta solo di una piccola
minoranza di persone non basta. Non basta a noi stessi, soprattutto.E allora è con un piccolo senso di rivalsa, subito coperto da un
altrettanto piccolo senso di colpa per il senso di rivalsa, che si
scopre che in America alla ben nota Christmas envy (l’invidia del
Natale) si sta sostituendo una sempre più diffusa Hanukkah envy, grazie
– grazie? – alla crescente diffusione di hannukiot e decorazioni a tema
negli spazi pubblici. Dalla prima hanukkia accesa alla Casa Bianca nel
1979 da Jimmy Carter, ai party a tema di George Bush, al primo
messaggio augurale del presidente degli Stati Uniti Barak Obama
(nell'immagine), si arriva al dreidel portato nello spazio
dall’astronauta Jeffrey Hoffman. Ovviamente la sovraesposizione è
maggiore ed ha effetti pervasivi nelle aree a maggiore popolazione
ebraica, e in Italia vedere negozi addobbati per Hanukkah è raro. Forse
impossibile. Intanto nelle case si contano i regali, e sceglierne otto
moltiplicato il numero di figli può diventare complicato, anche se
scegliere regali per le persone care è bello, sempre. Carta, nastro
adesivo, fiocchi… si lavora alacremente ma un piccolo disagio di fondo
resta. Poi la bellezza delle luci, il profumo delle frittelle e
soprattutto la gioia dei bambini coprirà ogni cosa, anche quella
piccola invidia che ci portiamo ancora dentro noi genitori, ricordo di
quando eravamo bambini ed abbiamo desiderato per settimane quella
particolare decorazione per l’albero che non aveva senso domandare.Ada
Treves http://www.moked.it/
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Curiosità

Nugae - Sindrome da mancanza di Hannukkah
Le
città si accendono di lucine colorate, le strade si affollano di grandi
sacchetti pieni di meraviglie, le radio trasmettono canzoni allegre
fino a non poterne più, alberi dai frutti di cristallo spuntano da
tutte le parti. E le amiche cominciano a manifestare i primi sintomi
della sindrome da mancanza di Natale, che ogni anno a quest’epoca fa la
sua comparsa come un’influenza stagionale. “Perché noi non possiamo
godere dello stesso calore e mangiare biscottini davanti al caminetto
scartando regali?”, chiedono. Piuttosto diffusa, la s.m.n. colpisce gli
ebrei un po’ in tutto il mondo da più di un secolo, da quando cioè ha
avuto inizio questa tanto odiosa commercializzazione del Natale. Il
risultato di tutto ciò è stato che, un po’ per consolazione un po’ per
ripicca, anche Hannukkah non ha tardato a subire la stesso processo,
trasformandosi da piccola ricorrenza in grosso evento, in modo da
rendere le vacanze invernali un periodo ugualmente eccitante per tutti.
La massima espressione del fenomeno si ha naturalmente negli Stati
Uniti, come testimonia una vasta bibliografia, in cui compaiono titoli
estrosi come A Kosher Christmas: ‘Tis The Season To Be Jewish o
Hanukkah in America: A History. Ma la novità è che questa tendenza, con
le luminarie di Hannukkah che affiancano sempre più spesso quelle
natalizie e l’ingrandirsi di anno in anno del reparto oggettistica di
Hannukkah dei grandi magazzini, con trottole, CD di musiche tipiche e
monete di cioccolato, si è accresciuta a tal punto da aver
incredibilmente suscitato addirittura l’invidia di quelli che hanno
sempre festeggiato Natale. Complice anche il fatto che nelle scuole si
parla sempre sia dell’una sia dell’altra festività, i giornali
raccontano di come sia ormai comune che bambini non ebrei tornino a
casa lamentandosi di non poter celebrare Hannukkah e facendo i capricci
per farsi comprare un candelabro. Per il momento questa nuovissima
sindrome da mancanza di Hannukkah riguarda solo l’America, ma chissà
che
presto non si diffonda anche in Europa. E forse così le vittime della
s.m.n. si sentiranno un po’ meno incomprese.Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche,http://www.moked.it/
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Curiosità
Gaza, un quadro in movimento per una storia non breve
A
distanza di qualche settimana dalla conclusione delle tensioni più
esacerbate tra Israele e Gaza, e quindi dall’operazione difensiva
Pilastro di difesa (altrimenti conosciuta anche come Colonna di
fumo), e in concomitanza alla visita di Khaled Meshaal nella
Striscia, quest’ultimo leader storico di Hamas, è possibile
qualche riflessione sul contesto in cui questi fatti si sono andati
ad inserire. Poiché, al di là dell’apparente peculiarità
dell’ultimo episodio bellico, dettata dalla necessità di
rispondere al persistenze lancio di razzi e ordigni esplosivi sia
contro il sud d’Israele (a partire da Sderot) che poi, nel corso
del piccolo conflitto innescatosi, contro il centro del paese (ed in
particolare Tel Aviv e Gerusalemme) da parte sia di Hamas che del
Movimento per il Jihad islamico in Palestina (quest’ultimo prossimo
ai sciiti di Hezbollah), c’è una complessa trama da tenere in
considerazione. Prima di tutto va considerata la natura di quella
entità che conosciamo come "Striscia di Gaza" nel suo
percorso storico. Non si tratta di uno Stato sovrano ma di un
segmento di terra a sé, oggi rivendicato da una pluralità di
soggetti: dall’Autorità nazionale palestinese, che invece trova il
suo insediamento legale ed elettorale in Cisgordania; da Hamas; dai
gruppi salafiti. Sono quindi tre gli attori politici-militari che
ruotano intorno a quell’area. Nella quale vivono poco meno di 1,7
milioni di persone (con un tasso di crescita del 3,3 per cento
annuo), nella quasi totalità dei casi di religione musulmana e per
circa lo 0,7 per cento di origine cristiana. La storia delle egemonie
esercitate in età moderna e contemporanea su circa 360 chilometri
quadrati di territorio è piuttosto articolata: dal 1517 al 1918 la
Striscia è sotto il controllo ottomano; con la fine della Prima
guerra mondiale ricade nel mandato britannico, esercitato, come
sappiamo, fino al 1948. In quel contesto Gaza e le aree limitrofe non
esprimevano un’identità peculiare. Alla data della nascita dello
Stato d’Israele l’intera popolazione che risiedeva sul territorio
dell’attuale Striscia non superava gli 80mila individui. Elementi
economici di rilievo erano il piccolo porto, l’attività ittica e
le coltivazioni. All’interno di un’economia perlopiù di
sussistenza. Con la risoluzione Onu 181 del novembre 1947, secondo i
criteri di ripartizione del territorio, Gaza sarebbe dovuta entrare a
far parte del futuro Stato arabo, che avrebbe visto la sua origine
dalla piena applicazione del dispositivo della decisione presa dal
consesso internazionale. Sia detto per inciso, che se si parlava
della nascita di uno Stato ebraico la risoluzione non identificava
del pari, con identica nettezza, la figura politica di uno “Stato
palestinese” richiamandosi piuttosto ad una comunità politica
indipendente araba. Affermiamo questo per rimarcare, nel merito di
quanto concerne la discussione dell’oggi, che ciò che è definita
come "identità palestinese", sia pure allora coltivata da
alcune élite locali, avrebbe poi assunto una fisionomia più netta
solo con il trascorrere dei decenni. Le
cose, sul piano storico, sono poi andate come è risaputo. Nel 1948
l’area intorno a Gaza si trovò isolata dalla più ampia distesa
dei territori cisgiordani. Con il 1949, con gli accordi di Cipro e la
stabilizzazione delle linee armistiziali, fu pertanto assunta in
amministrazione dall’Egitto, così come avvenne per la Giudea, la
Samaria e parte della Galilea per parte giordana, in attesa che gli
sviluppi politici, diplomatici ma soprattutto militari ne definissero
il destino. Questo stato di cose durò fino al 1967. La scelta del
Cairo, al pari di Damasco, fu quella di mantenere un controllo
amministrativo senza annettere a sé i territori. Da ciò derivò per
i loro abitanti l’impossibilità di acquisire la cittadinanza
egiziana.
La medesima cosa capitò ai profughi arabi stabilitisi nel Libano
meridionale e in altre aree del Medio Oriente. Si trattava di una
opzione precisa, che individuava nell’uso di coloro che vi si
trovavano a risiedere, condannati ad una apolidia di fatto, la
possibilità di creare una sorta di “massa di cuscinetto”:
profughi in (eterna) attesa di una sistemazione definitiva,
vaticinata nella disintegrazione dell’"entità sionista"
e nel "ritorno a casa", e quindi ostili allo Stato ebraico;
elementi di aree considerate no-men-lands, vere e proprie zone di
interposizione tra sé ed Israele. La "questione palestinese"
germina dal connubio tra abbandono delle terre d’origine e mancata
risistemazione in quelle di accoglienza. Non è un caso, trattandosi
semmai di una strategia politica che aveva ad obiettivo quello di
pungolare Gerusalemme il più possibile, sfruttando il diffuso
malcontento popolare. Con
il 1967 il quadro cambia ancora, subentrando l’amministrazione
israeliana che cessa nel 1994, nel quadro degli accordi di Oslo. Ciò
che restava di quest’ultima, con l’eccezione di una serie di
prerogative riconosciute ad Israele per la sua sicurezza, verrà di
fatto a cessare, con l’evacuazione della popolazione civile
israeliana insieme allo smantellamento di 21 insediamenti ebraici,
nell’agosto del 2005, nell’ambito del piano unilaterale di
disimpegno voluto dall’allora governo presieduto da Ariel Sharon.
Nella Striscia e nella città di Gaza, governate dall’Autorità
nazionale palestinese, ossia dagli uomini di Yasser Arafat, il ritiro
israeliano comportò una serie di effetti detonanti. La pessima
gestione delle finanze pubbliche e la diffusissima corruzione
divennero da subito il fuoco della polemica, delegittimando
l’autogoverno palestinese. L’amministrazione di al-Fath, infatti,
aveva lasciato buona parte della popolazione insoddisfatta. Alle
elezioni legislative del 2006 Hamas, il movimento islamista legato ai
Fratelli musulmani egiziani, ottenne il 44 per cento dei consensi,
mentre al-Fath non superò il 41 per cento. Hamas di fatto conquistò
democraticamente, ossia con l’assenso dei votanti, il controllo
della Striscia. Formò un governo che non vedeva la partecipazione
degli avversari e l’anno successivo, dopo una infinità di
frizioni, di fatto procedette ad un vero e proprio regolamento di
conti, con l’espulsione forzata dei propri avversari, dopo una dura
guerra civile. Anche da ciò, e dall’avvio di una intensa attività
terroristica contro Israele, sono poi derivate le vicende a noi più
prossime (il lancio di ordigni contro la popolazione dello Stato
ebraico, le tregue temporanee, l’embargo, le azioni militari di
Gerusalemme), fino ai fatti delle settimane scorse. Evitiamo di
elencarle nello specifico, essendoci per più aspetti ben note. I
fatti degli ultimi due mesi arrivano dopo una serie di mutamenti che
hanno coinvolto profondamente Hamas. Da almeno quattro anni, infatti,
il movimento islamista al potere nella Striscia subisce le pressioni
ai fianchi dei gruppi jihadisti e salafiti. Gaza mette in contatto
l’Asia con l’Africa e questi ultimi sono in forte attività nel
continente nero. Non di meno, Hamas ha dovuto riposizionarsi nei
confronti del pencolante regime di Assad. Gli uomini di Ismail
Hanyeh, infatti, hanno optato per il sostegno alla Coalizione
nazionale siriana, la composita organizzazione la cui esistenza è
stata formalizzata a Doha nel novembre di quest’anno, e che
raccoglie gli oppositori al regime dell’oftalmologo damasceno. La
Siria – e anche questo fatto è abbondantemente risaputo – da
sempre ospita “amorevolmente” le élite del movimento islamista.
Ma
il mutamento del quadro geopolitico, oltre anche ad una non facile
dialettica tra i due tronconi di Hamas (quello più “pragmatico”,
presente nella Striscia, e quello “ideologico”, riparato a suo
tempo a Damasco), ha obbligato a scelte di discontinuità rispetto ai
tempi trascorsi. Così anche per ciò che concerne il tentativo che
il movimento-regime ha compiuto di ricontrattare i rapporti con i
paesi arabi sunniti ed in particolare con il Qatar, uno dei
burattinai della crisi siriana, nonché con l’Egitto passato sotto
il controllo dei Fratelli musulmani, anch’essi però messi a dura
prova dalla contestazione popolare di questi giorni. Il Cairo,
durante l’operazione Piombo fuso del 2008-2009, aveva rivelato i
suoi reali intendimenti chiudendo il valico meridionale di Rafah. In
quegli stessi mesi Teheran
aveva invece proceduto a rafforzare il rapporto con Hamas, usando la
triangolazione con il Sudan per rifornire Gaza di missili anticarro e
razzi a media gittata Fajr 3 e 5.
Anche da ciò, e dalla cooperazione con il governo egiziano, derivò
quindi l’azione preventiva, nel gennaio del 2009, di bombardamento
della colonna di autocarri che stava trasportando il materiale nella
Striscia. Ma questo è, per l’appunto, il passato. L’attuale
contesto geopolitico regionale è diverso da quello di anche solo tre
anni fa. Il riavvicinamento di Hamas alla Fratellanza musulmana, in
ascesa il tutta l’area Memo (Mediterraneo-Medio Oriente) nasce
infatti da un preciso calcolo d’interesse, che solo l’incistarsi
della crisi politica in atto in Egitto in questi giorni potrebbe
vederlo rimesso in discussione. Dai riallineamenti politici e
diplomatici di Hamas sono comunque derivati scetticismo crescenti e
diffidenza. Per l’Iran, che si ritiene escluso, e di riflesso dalla
Siria, che si reputa tradita. All’interno della Striscia forze come
l’immarcescibile Fronte popolare per la liberazione della
Palestina, organizzazione laica ma strettamente legata da una
sintonia operativa con il radicalismo islamico, e il Jihad islamico
si sono adoperate in tutti i modi per mettere in crisi l’azione
politica di Hamas. Ad essi, infatti, vanno attribuiti molti dei
ripetuti lanci di razzi contro Israele. La quale da tempo aveva
invece stabilito contatti riservati nell’ipotesi del raggiungimento
di una tregua stabile. Di fatto, il continuo flusso di armi
provenienti dal Sudan, ed in particolare da Yarmouk, a sud di
Karthoum, nonché l’ossessivo bombardamento contro i civili
israeliani, hanno posto le premesse per i passaggi successivi, tra i
quali la morte di Ahmad al-Ja'bari, il vero negoziatore per parte
islamista, durante una operazione militare delle forze aeree di
Gerusalemme. Lo stallo delle negoziazioni è stato infatti fatale,
facendo precipitare una situazione di crisi che già da tempo si era
ulteriormente incancrenita. Dopo di che l’insieme della cose che
abbiamo preso in considerazione deve a sua volta essere confrontato
con altri fronti aperti. Non è probabile che il governo egiziano
arrivi a sfiduciare gli accordi di Camp David e a troncare i rapporti
con Israele. Non può permetterselo perché ha molte spine nel suo
fianco meridionale. La Turchia neo-ottomana di Erdogan deve vedersela
con i curdi. L’Iran potrebbe conoscere qualche cambiamento con
l’eventuale uscita di scena di Ahmadinejad, a conclusione del suo
ultimo mandato presidenziale. Allo stato attuale delle cose, però,
tutto si gioca intorno alla Siria. Hamas guarda anche in quella
direzione, così come deve porsi il problema, del pari al Cairo e a
Gerusalemme, della nuova instabilità che si misura nel Sinai. Il
movimento-regime sa di non avere chance di vittoria contro Israele. E
tuttavia cerca riscontri simbolici molto netti, per puntellare il suo
potere. Non è un caso se si sia autoproclamato “vincitore” nei
recenti scontri. Dopo di che, il perdurare della fragile tregua
dipende da molti elementi che nessuno dei protagonisti in campo
riesce da solo a governare. Claudio
Vercelli http://www.moked.it/
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La storia questa sconosciuta
Khaled Meshaal, il pregio della chiarezza
Khaled Meshaal, il capo “politico” di Hamas, ha compiuto oggi una
storica visita nella Striscia di Gaza. Nel 25esimo anniversario del
moviemtno islamico, ha pronunciato davanti ad una folla oceanica parole
non nuove ma che nell’Europa affetta da Alzheimer tendono ad essere
dimenticate: “La Palestina e’ nostra, dal fiume al mare, da nord a sud.
Non concederemo un centimetro della nostra terra”. Più’ chiaro di così’,
si muore. Non c’e’ posto per Israele nel Medio Oriente di Hamas.Del resto, la vera natura del movimento islamico si e’ svelata, se ce
ne fosse stato bisogno, durante l’ultimo round con israele. I 2
missili Fajr di fabbricazione iraniana lanciati verso Gerusalemme
avevano le stesse teoriche probabilità di fare strage nella parte
orientale e araba o in quella occidentale e ebraica della città tre
volte santa, di colpire il Muro del Pianto, la basilica del Santo Sepolcro o la Moschea al Aqsa. Neppure Saddam Hussein aveva osato
tanto.Penso a quel leader politico che qualche tempo fa nella residenza di
un imbarazzato ambasciatore italiano sosteneva l’ineluttabilità per
Israele di parlare con Hamas. Penso al capo di una ben nota
organizzazione pacifista che a Sderot chiosava sulla sostanziale
innocuità dei razzi di Hamas. Penso agli analisti che da domani ci
spiegheranno che Khaled Meshaal in realtà e’ un moderato, che si, dice
di voler distruggere Israele, ma mica lo pensa davvero, o se lo pensa
non vuole lo vuole fare tutto in un colpo, solo un po’ alla volta, con
pragmatismo.
Imbecillità’ o malafede? http://www.claudiopagliara.it/
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