lunedì 10 dicembre 2012

I palestinesi non imparano mai 

Il voto alle Nazioni Unite che ha avanzato la condizione dell'OLP a stato osservatore non membro non ha fatto nulla per far progredire la condizione della questione palestinese. Al contrario, ripete un vecchio copione della storia: anziché cercare un compromesso con Israele, i leader palestinesi ripongono il loro destino nelle mani di altri, ingenuamente credendo che essi consegneranno loro ciò che non sono in grado di conseguire.Quando gli stati mondiali si riunirono all'ONU nel 1947 per votare il piano di partizione del mandato britannico in Medio Oriente in due stati - uno arabo, uno ebraico - i leader palestinesi si fidarono della Lega Araba, opponendosi all'accordo, convinti dagli eserciti arabi che avrebbero ottenuto con la forza tutto il territorio. Ma non andò così.Una volta persa l'occasione di ottenere uno stato arabo, i leader palestinesi si affidarono ai fautori del nazionalismo arabo, che puntava a distruggere Israele. Anziché rivolgersi alla Giordania - che occupò il West Bank e Gerusalemme Est - e all'Egitto - che conquistò Gaza - chiedendo loro di trasformare questi territorio in stato di Palestina; i leader palestinesi si fidarono degli arabi, confidando in una nuova guerra, da cui questa volta sarebbero usciti vincitori.Ma così non fu: nel 1967 Israele respinse l'attacco combinato del mondo arabo e rilevò ciò che residuava dell'antico Mandato britannico.Cinquant'anni di guerre perdute inducono il ceto politico a rivedere il proprio atteggiamento mentale: si pensi al comportamento della Germania dopo due guerre mondiali. Ma così non è stato per i leader palestinesi, che appoggiarono la decisione della Lega Araba del 1967 di respingere ogni apertura nei confronti di Israele, continuando le ostilità (i famosi "tre no di Khartoum, NdT). Naturale conseguenza di questo atteggiamento: il terrorismo, che avrebbe insanguinato l'area per i due decenni successivi, nella convinzione che Israele avrebbe potuto essere sconfitto ammazzando civili innocenti, e spostando l'opinione pubblica a proprio favore.Così è stato, ma ciò non ha portato ad alcuno stato.Anche quando l'OLP ha preso il posto della leadership araba come riferimento delle aspirazioni palestinesi, la loro causa non ha compiuto alcun passo in avanti. Astutamente, il leader dell'OLP Yasser Arafat si barcamenò fra leader arabi e movimenti dei paesi non allineati, senza però rinunciare nazionalismo palestinese basato sui principi del respingere tutte le proposte e non fornire alcuna concessione. Arafat si appoggiò sui leader arabi che di volta in volta peroravano la sua causa, combattendo quelli che apparivano relativamente vicini alle posizioni isreaeliane. Ciò ha prodotto per i palestinesi più guai e dolori di tutte le guerre combattute contro Israele. La breve stagione giordana di Arafat coincise con il re Hussein che macellò migliaia di palestinesi per mettere in salvo il suo trono.L'appoggio di Saddam Hussein costò ad Arafat centinaia di migliaia di morti palestinesi in Kuwait nel 1991 e in Iraq nel 2003. L'unico leader arabo che si impegnò a negoziare un compromesso per i palestinesi fu l'egiziano Anwar Sadat: Arafat si impegnò per auspicarne l'assassinio per punirlo per il suo "crimine". Alla fine, nessuno può fare per la causa palestinese più di quanto possano fare gli stessi palestinesi.Per un po' di tempo, nella fase successiva agli Accordi di Oslo, l'OLP realizzò che, se davvero voleva conseguire l'obiettivo di uno stato, avrebbe dovuto seriamente negoziare con Israele, anziché appoggiarsi ad altri che gli avrebbero servito lo stato su di un piatto d'argento. Il fatto che gli accordi di pace del 1993 siano stati una opportunità persa, è dovuto in gran misura all'atteggiamento di Arafat di cambiare idea d'improvviso, allontanando il "suo" popolo (Arafat è nato in Egitto, e non ha alcun legame con i palestinesi, NdT) da negoziati diretti, e abbandonandolo fra le braccia di gruppi armati sul terreno, e della comunità internazionale a livello politico.Nella speranza che la pressione internazionale possa concedergli ciò che il dialogo con Israele tarda a consegnare, Arafat alla fine del 2000 scatena la seconda intifada. Dodici anni dopo, e otto anni dopo la sua morte, i leader palestinesi stanno ancora seguendo questa strada, incapaci di allontanarsi dal sentiero della violenza (Hamas) e aggrappati alla comunità internazionale (Al Fatah) per costringere Israele a concedere ciò che non si ottiene con il negoziato. Il voto con cui l'ONU ha avanzato la condizione dell'OLP a stato osservatore non membro è la continuazione di questa tendenza.La vittoria diplomatica di Mahmoud Abbas non porterà ad alcuno stato. Non modificherà gli equilibri fra Israele e Autorità Palestinese. Non risolverà la divisione di poteri fra il governo dell'AP nel West Bank, e quello di Hamas a Gaza. E di sicuro non ripristinerà la presenza di Mahmoud Abbas a Gaza. Per non parlare della pace, che adesso si allontana.Al pari della proclamazione di Arafat di uno stato palestinese nel 1988, il voto dell'assemblea generale dell'ONU è una pagliacciata. La Palestina non è uno stato: il 40% del suo territorio è amministrato da una fazione ostile da anni (Hamas), e la parte restante è contesa con Israele, o amministrata congiuntamente.Quello che ha prodotto quest'ultimo capitolo degli sforzi palestinesi di ottenere da altri uno stato è stato l'incremento dell'aspetto teatrale della statualità palestinese: tutto l'armamentario di uno stato, ma senza uno stato. Aggiungendo un seggio di osservatore allo stesso livello del Vaticano, questa iniziativa senza dubbio accresce l'ego dei palestinesi, dando loro la possibilità di perseguire Israele alla Corte Penale Internazionale dell'Aja. Ma l'indipendenza rimane un miraggio.Tutto ciò era perfettamente evitabile. Preferibile rimane l'alternativa di avviare negoziati diretti fra le due parti, con la disponibilità di ricevere e dare. Ma la storia palestinese non presenta precedenti simili. La decisione di Mahmoud Abbas di percorrere la strada che conduce all'ONU è purtroppo l'ultimo capitolo di questa infelice vicenda. L'OLP adesso potrà anche autodefinirsi uno stato. Ma che in effetti possa effettivamente essere tale, questo è decisamente un altro paio di maniche.di Emanuele Ottolenghi Palestine's strangely stubborn state of mind.http://ilborghesino.blogspot.it/
 

E la verifica delle fonti? 

Nuovo grottesco epic fail del Guardian (mica "L'Eco di Bergamo", con tutto il rispetto...), che nell'ambito dell'ampio resoconto per le celebrazioni del 25esimo anniversario della fondazione dell'organizzazione terroristica nota come Hamas, che dal 2007 governa in solitudine la Striscia di Gaza; propone una foto eloquente di miliziani messi a guardia di un edificio «distrutto da uno strike israeliano durante la parata, stando a quanto riferiscono testimoni».Ovviamente l'aviazione israeliana sta rispettando il cessate il fuoco, e non sorvola da settimane la Striscia di Gaza. Nessuna menzione di questo strike appare sul sito di Hamas, ne', sui giornali locali o arabi, ne' su qualunque altra testata giornalistica mondiale.Ma il Guardian, che dispone sempre di notevole fantasia, non poteva fare a meno di contornare questa memorabile "adunata oceanica" con la raffigurazione del cattivo israeliano che pensa solo a guerreggiare. E così si inventa di sana pianta un attacco. Che colpisce soltanto la sua sempre più fragile credibilità. http://ilborghesino.blogspot.it/

Meshaal eroe di Gaza, opposizione israeliana attacca Netanyahu

L’accoglienza trionfale ricevuta a Gaza da Khaled Meshaal complica la campagna elettorale del premier israeliano Benjamin Netanyahu.Nel Paese, al voto il 22 gennaio, l’opposizione cavalca la delusione per l’esito dell’operazione militare ‘Colonna di Nuvola’ sulla Striscia.E Netanyahu risponde all’accusa di aver rafforzato Hamas, attaccando Abu Mazen.“Il leader dell’Autorità nazionale palestinese non condanna Hamas quando questa incita alla distruzione di Israele – ha detto Netanyahu in una conferenza stampa convocata a Tel Aviv – Così come in precedenza, non ha condannato i razzi lanciati da gaza su Israele. E con grande rammarico da parte mia sta lavorando all’unità con Hamas, che è sostenuto dall’Iran”.“Ai miei tempi Meshaal non avrebbe osato avvicinarsi a Gaza”, attacca l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert.Il capo di Hamas nel suo primo discorso pubblico a Gaza dopo 45 anni di esilio ha esaltato i 200mila presenti ribandendo che non concederà nemmeno un centimetro di terra a Israele e invitando le fazioni palestinesi all’unità:“La visita di Khaled Meshaal nel 25 anniversario della nascita di Hamas – sostiene un abitante di Gaza – pone fine alle divisioni e avvia la ricostruzione dell’unità nazionale”.“La Riconciliazione è vicina, così come la fine delle divisioni – aggiunge un sostenitore di Hamas – È stato difficile raggiungere questo risultato”.L’ascesa di Meshaal complica il dialogo con Israele......http://it.euronews.com/

 

Israele teme una nuova ondata di terrore

Durante i festeggiamenti in occasione del 25esimo anniversario dell'organizzazione, il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha chiamato «i fratelli dei territori occupati» ad insorgere contro le autorità israeliane, assicurandogli che Hamas li supporterà «in tutti i modi possibili».I servizi segreti israeliani segnalano la crescente attività dei terroristi palestinesi e l'aumento degli avvertimenti da parte degli agenti di possibili attacchi terroristici. Il Ministero della Difesa israeliano ha espresso la propria preoccupazione riguardo l'incidente di Hebron, in cui la folla ha aggredito le forze di sicurezza israeliane. Nessuno dei militari è stato ferito, ma l'aggressione in sè è un grave segnale.http://italian.ruvr.ru/

 

Siria: Israele a caccia armi chimiche

(ANSA) - LONDRA, 9 DIC - Forze speciali israeliane che agiscono come ricognitori in Siria hanno il compito di individuare le armi chimiche e biologiche di cui Bashar al Assad dispone e di seguirne i movimenti. Lo riferiscono fonti israeliane al Sunday Times. "Nell'ultima settimana abbiamo avuto segnali di spostamenti e possibilmente anche di munizioni che sono gia' state armate per colpire - ha proseguito la stessa fonte - e abbiamo urgente bisogno di localizzarle". 

Israele, Peres: "Aprire trattative coi palestinesi,
dopo le elezioni israeliane del 22 gennaio"

In un'intervista allo 'Spiegel' il presidente israeliano sottolinea sia arrivato il momento di non guardare più al passato ma al futuro e che il prossimo governo dovrà "prendere una decisione strategica": "Ci saranno due Stati e tre blocchi di insediamenti, dovremo concedergli  un pezzo di territorio ugualmente grande"
BERLINO - Il governo israeliano che uscirà dalle elezioni del 22 gennaio dovrà aprire subito le trattative con i palestinesi. Lo chiede in un'intervista allo 'Spiegel' il presidente israeliano Shimon Peres, secondo il quale è ormai arrivato il momento di non guardare più al passato, ma al futuro. "Dobbiamo mettere la parola fine e dire che i peccati del passato sono perdonati e che non ci accuseremo più a vicenda", spiega il presidente israeliano, aggiungendo che con i palestinesi "dobbiamo immediatamente aprire trattative e immediatamente significa: subito dopo le elezioni israeliane del 22 gennaio". "Se vogliamo essere sinceri", spiega Peres, "i dati di fondo di un accordo sono chiari: ci saranno due Stati e tre blocchi di insediamenti, per i quali dovremo concedere ai palestinesi un pezzo di territorio ugualmente grande". "Gli insediamenti occupano tra il 2 per cento e il 6 per cento della superficie del territorio della Cisgiordania e un territorio ugualmente grande dovremo darlo ai palestinesi da un'altra parte. Non si tratta di un problema insolubile".Nell'intervista allo 'Spiegel' Peres sottolinea che il prossimo governo israeliano "deve prendere una decisione strategica e per Israele non c'è un'opzione migliore di quella di una soluzione con due Stati". (09 dicembre 2012)  http://www.repubblica.it/

domenica 9 dicembre 2012

Nemiche amiche vicine per calendario

Fra Hanukkah e Natale, in un certo senso, non è mai corso buon sangue: due feste troppo vicine - nonostante il calendario ebraico si diverta a far ballare la Festa delle luci fra la fine di novembre e e gli ultimi giorni di dicembre – e con troppe caratteristiche che a un primo superficiale sguardo sembrano simili. Quanto basta per alimentare una rivalità, apparentemente scherzosa, condita di battute e vignette e storielle più o meno ironiche che da anni tentano di conciliare due festività che, a essere sinceri, possono avere in comune solo la luce delle candele e i doni ai bambini. E forse neppure quello, visto che i regali fanno parte della deriva commerciale di entrambe le occasioni. Una trottola, che in realtà serviva per nascondere un’occasione di studio insieme e far credere a uno sguardo nemico che si stava solo giocando, questo era l’unico divertimento per quegli otto giorni di festa. Neppure Natale, a quanto pare, sarebbe una festa in cui i regali sono il tema dominante. E poi? Poi i due mondi si sono avvicinati, e Sankt Nikolaus si è fatto comprare dalla Coca Cola, ha scambiato il suo abito verde per una divisa rossa, ed ha iniziato a fare gli straordinari per distribuire regali. Quei regali che sono diventati sempre di più, e la letterina a Babbo Natale ha fatto sì che vengano sempre più spesso acquistati su ordinazione, grazie a genitori spioni che leggono le lettere indirizzate al Polo Nord. Scritte da bambini che sanno benissimo come gira il mondo e che riescono a commuovere gli adulti convincendoli che certo, ovviamente, si sa, Babbo Natale viene solo nelle case dei bambini che ci credono (e che si sono comportati bene)… E Hanukkah? Non sarà mica una festa minore? Il fascino degli alberi di Natale addobbati, il mistero di quella strana cosa chiamata presepe e soprattutto la frenesia dello shopping di stagione e le centinaia di pacchetti infiocchettati sono difficili da non notare, per quanto a casa ci siano famiglie che fanno il possibile, e l’impossibile, per dare il senso della festa, e Hanukkah di senso da offrire ne ha tantissimo. I bambini a volte provano a fare i superiori, a scherzare sulla quantità di Babbi Natale che si arrampicano ormai ovunque, appesi ai balconi, ma – per essere sinceri - sanno anche che sicuramente fra trottole e frittelle e monete di cioccolato qualche pacchetto sbucherà. Perché siamo noi genitori, in realtà, che facciamo il confronto. Siamo noi adulti che proiettiamo sui bambini le nostre preoccupazioni e, in un certo senso, cediamo. Provate a chiedere ai bambini perché amano Hanukkah… saranno pochi quelli che non citeranno i regali. Uno per sera, ovviamente. Senza dichiararlo, senza ammetterlo, ma il timore che i nostri cuccioli facciano il paragone con il tripudio di pacchetti natalizi e che si sentano in un certo senso in difetto esiste. E cercare di spiegare che no, non tutti festeggiano le stesse cose e che anzi se vogliamo dirla tutta nel mondo si tratta solo di una piccola minoranza di persone non basta. Non basta a noi stessi, soprattutto.E allora è con un piccolo senso di rivalsa, subito coperto da un altrettanto piccolo senso di colpa per il senso di rivalsa, che si scopre che in America alla ben nota Christmas envy (l’invidia del Natale) si sta sostituendo una sempre più diffusa Hanukkah envy, grazie – grazie? – alla crescente diffusione di hannukiot e decorazioni a tema negli spazi pubblici. Dalla prima hanukkia accesa alla Casa Bianca nel 1979 da Jimmy Carter, ai party a tema di George Bush, al primo messaggio augurale del presidente degli Stati Uniti Barak Obama (nell'immagine), si arriva al dreidel portato nello spazio dall’astronauta Jeffrey Hoffman. Ovviamente la sovraesposizione è maggiore ed ha effetti pervasivi nelle aree a maggiore popolazione ebraica, e in Italia vedere negozi addobbati per Hanukkah è raro. Forse impossibile. Intanto nelle case si contano i regali, e sceglierne otto moltiplicato il numero di figli può diventare complicato, anche se scegliere regali per le persone care è bello, sempre. Carta, nastro adesivo, fiocchi… si lavora alacremente ma un piccolo disagio di fondo resta. Poi la bellezza delle luci, il profumo delle frittelle e soprattutto la gioia dei bambini coprirà ogni cosa, anche quella piccola invidia che ci portiamo ancora dentro noi genitori, ricordo di quando eravamo bambini ed abbiamo desiderato per settimane quella particolare decorazione per l’albero che non aveva senso domandare.Ada Treves  http://www.moked.it/


Nugae - Sindrome da mancanza di Hannukkah

Le città si accendono di lucine colorate, le strade si affollano di grandi sacchetti pieni di meraviglie, le radio trasmettono canzoni allegre fino a non poterne più, alberi dai frutti di cristallo spuntano da tutte le parti. E le amiche cominciano a manifestare i primi sintomi della sindrome da mancanza di Natale, che ogni anno a quest’epoca fa la sua comparsa come un’influenza stagionale. “Perché noi non possiamo godere dello stesso calore e mangiare biscottini davanti al caminetto scartando regali?”, chiedono. Piuttosto diffusa, la s.m.n. colpisce gli ebrei un po’ in tutto il mondo da più di un secolo, da quando cioè ha avuto inizio questa tanto odiosa commercializzazione del Natale. Il risultato di tutto ciò è stato che, un po’ per consolazione un po’ per ripicca, anche Hannukkah non ha tardato a subire la stesso processo, trasformandosi da piccola ricorrenza in grosso evento, in modo da rendere le vacanze invernali un periodo ugualmente eccitante per tutti. La massima espressione del fenomeno si ha naturalmente negli Stati Uniti, come testimonia una vasta bibliografia, in cui compaiono titoli estrosi come A Kosher Christmas: ‘Tis The Season To Be Jewish o Hanukkah in America: A History. Ma la novità è che questa tendenza, con le luminarie di Hannukkah che affiancano sempre più spesso quelle natalizie e l’ingrandirsi di anno in anno del reparto oggettistica di Hannukkah dei grandi magazzini, con trottole, CD di musiche tipiche e monete di cioccolato, si è accresciuta a tal punto da aver incredibilmente suscitato addirittura l’invidia di quelli che hanno sempre festeggiato Natale. Complice anche il fatto che nelle scuole si parla sempre sia dell’una sia dell’altra festività, i giornali raccontano di come sia ormai comune che bambini non ebrei tornino a casa lamentandosi di non poter celebrare Hannukkah e facendo i capricci per farsi comprare un candelabro. Per il momento questa nuovissima sindrome da mancanza di Hannukkah riguarda solo l’America, ma chissà che presto non si diffonda anche in Europa. E forse così le vittime della s.m.n. si sentiranno un po’ meno incomprese.Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche,http://www.moked.it/

Gaza, un quadro in movimento per una storia non breve

A distanza di qualche settimana dalla conclusione delle tensioni più esacerbate tra Israele e Gaza, e quindi dall’operazione difensiva Pilastro di difesa (altrimenti conosciuta anche come Colonna di fumo), e in concomitanza alla visita di Khaled Meshaal nella Striscia, quest’ultimo leader storico di Hamas, è possibile qualche riflessione sul contesto in cui questi fatti si sono andati ad inserire. Poiché, al di là dell’apparente peculiarità dell’ultimo episodio bellico, dettata dalla necessità di rispondere al persistenze lancio di razzi e ordigni esplosivi sia contro il sud d’Israele (a partire da Sderot) che poi, nel corso del piccolo conflitto innescatosi, contro il centro del paese (ed in particolare Tel Aviv e Gerusalemme) da parte sia di Hamas che del Movimento per il Jihad islamico in Palestina (quest’ultimo prossimo ai sciiti di Hezbollah), c’è una complessa trama da tenere in considerazione. Prima di tutto va considerata la natura di quella entità che conosciamo come "Striscia di Gaza" nel suo percorso storico. Non si tratta di uno Stato sovrano ma di un segmento di terra a sé, oggi rivendicato da una pluralità di soggetti: dall’Autorità nazionale palestinese, che invece trova il suo insediamento legale ed elettorale in Cisgordania; da Hamas; dai gruppi salafiti. Sono quindi tre gli attori politici-militari che ruotano intorno a quell’area. Nella quale vivono poco meno di 1,7 milioni di persone (con un tasso di crescita del 3,3 per cento annuo), nella quasi totalità dei casi di religione musulmana e per circa lo 0,7 per cento di origine cristiana. La storia delle egemonie esercitate in età moderna e contemporanea su circa 360 chilometri quadrati di territorio è piuttosto articolata: dal 1517 al 1918 la Striscia è sotto il controllo ottomano; con la fine della Prima guerra mondiale ricade nel mandato britannico, esercitato, come sappiamo, fino al 1948. In quel contesto Gaza e le aree limitrofe non esprimevano un’identità peculiare. Alla data della nascita dello Stato d’Israele l’intera popolazione che risiedeva sul territorio dell’attuale Striscia non superava gli 80mila individui. Elementi economici di rilievo erano il piccolo porto, l’attività ittica e le coltivazioni. All’interno di un’economia perlopiù di sussistenza. Con la risoluzione Onu 181 del novembre 1947, secondo i criteri di ripartizione del territorio, Gaza sarebbe dovuta entrare a far parte del futuro Stato arabo, che avrebbe visto la sua origine dalla piena applicazione del dispositivo della decisione presa dal consesso internazionale. Sia detto per inciso, che se si parlava della nascita di uno Stato ebraico la risoluzione non identificava del pari, con identica nettezza, la figura politica di uno “Stato palestinese” richiamandosi piuttosto ad una comunità politica indipendente araba. Affermiamo questo per rimarcare, nel merito di quanto concerne la discussione dell’oggi, che ciò che è definita come "identità palestinese", sia pure allora coltivata da alcune élite locali, avrebbe poi assunto una fisionomia più netta solo con il trascorrere dei decenni. Le cose, sul piano storico, sono poi andate come è risaputo. Nel 1948 l’area intorno a Gaza si trovò isolata dalla più ampia distesa dei territori cisgiordani. Con il 1949, con gli accordi di Cipro e la stabilizzazione delle linee armistiziali, fu pertanto assunta in amministrazione dall’Egitto, così come avvenne per la Giudea, la Samaria e parte della Galilea per parte giordana, in attesa che gli sviluppi politici, diplomatici ma soprattutto militari ne definissero il destino. Questo stato di cose durò fino al 1967. La scelta del Cairo, al pari di Damasco, fu quella di mantenere un controllo amministrativo senza annettere a sé i territori. Da ciò derivò per i loro abitanti l’impossibilità di acquisire la cittadinanza egiziana. La medesima cosa capitò ai profughi arabi stabilitisi nel Libano meridionale e in altre aree del Medio Oriente. Si trattava di una opzione precisa, che individuava nell’uso di coloro che vi si trovavano a risiedere, condannati ad una apolidia di fatto, la possibilità di creare una sorta di “massa di cuscinetto”: profughi in (eterna) attesa di una sistemazione definitiva, vaticinata nella disintegrazione dell’"entità sionista" e nel "ritorno a casa", e quindi ostili allo Stato ebraico; elementi di aree considerate no-men-lands, vere e proprie zone di interposizione tra sé ed Israele. La "questione palestinese" germina dal connubio tra abbandono delle terre d’origine e mancata risistemazione in quelle di accoglienza. Non è un caso, trattandosi semmai di una strategia politica che aveva ad obiettivo quello di pungolare Gerusalemme il più possibile, sfruttando il diffuso malcontento popolare. Con il 1967 il quadro cambia ancora, subentrando l’amministrazione israeliana che cessa nel 1994, nel quadro degli accordi di Oslo. Ciò che restava di quest’ultima, con l’eccezione di una serie di prerogative riconosciute ad Israele per la sua sicurezza, verrà di fatto a cessare, con l’evacuazione della popolazione civile israeliana insieme allo smantellamento di 21 insediamenti ebraici, nell’agosto del 2005, nell’ambito del piano unilaterale di disimpegno voluto dall’allora governo presieduto da Ariel Sharon. Nella Striscia e nella città di Gaza, governate dall’Autorità nazionale palestinese, ossia dagli uomini di Yasser Arafat, il ritiro israeliano comportò una serie di effetti detonanti. La pessima gestione delle finanze pubbliche e la diffusissima corruzione divennero da subito il fuoco della polemica, delegittimando l’autogoverno palestinese. L’amministrazione di al-Fath, infatti, aveva lasciato buona parte della popolazione insoddisfatta. Alle elezioni legislative del 2006 Hamas, il movimento islamista legato ai Fratelli musulmani egiziani, ottenne il 44 per cento dei consensi, mentre al-Fath non superò il 41 per cento. Hamas di fatto conquistò democraticamente, ossia con l’assenso dei votanti, il controllo della Striscia. Formò un governo che non vedeva la partecipazione degli avversari e l’anno successivo, dopo una infinità di frizioni, di fatto procedette ad un vero e proprio regolamento di conti, con l’espulsione forzata dei propri avversari, dopo una dura guerra civile. Anche da ciò, e dall’avvio di una intensa attività terroristica contro Israele, sono poi derivate le vicende a noi più prossime (il lancio di ordigni contro la popolazione dello Stato ebraico, le tregue temporanee, l’embargo, le azioni militari di Gerusalemme), fino ai fatti delle settimane scorse. Evitiamo di elencarle nello specifico, essendoci per più aspetti ben note. I fatti degli ultimi due mesi arrivano dopo una serie di mutamenti che hanno coinvolto profondamente Hamas. Da almeno quattro anni, infatti, il movimento islamista al potere nella Striscia subisce le pressioni ai fianchi dei gruppi jihadisti e salafiti. Gaza mette in contatto l’Asia con l’Africa e questi ultimi sono in forte attività nel continente nero. Non di meno, Hamas ha dovuto riposizionarsi nei confronti del pencolante regime di Assad. Gli uomini di Ismail Hanyeh, infatti, hanno optato per il sostegno alla Coalizione nazionale siriana, la composita organizzazione la cui esistenza è stata formalizzata a Doha nel novembre di quest’anno, e che raccoglie gli oppositori al regime dell’oftalmologo damasceno. La Siria – e anche questo fatto è abbondantemente risaputo – da sempre ospita “amorevolmente” le élite del movimento islamista. Ma il mutamento del quadro geopolitico, oltre anche ad una non facile dialettica tra i due tronconi di Hamas (quello più “pragmatico”, presente nella Striscia, e quello “ideologico”, riparato a suo tempo a Damasco), ha obbligato a scelte di discontinuità rispetto ai tempi trascorsi. Così anche per ciò che concerne il tentativo che il movimento-regime ha compiuto di ricontrattare i rapporti con i paesi arabi sunniti ed in particolare con il Qatar, uno dei burattinai della crisi siriana, nonché con l’Egitto passato sotto il controllo dei Fratelli musulmani, anch’essi però messi a dura prova dalla contestazione popolare di questi giorni. Il Cairo, durante l’operazione Piombo fuso del 2008-2009, aveva rivelato i suoi reali intendimenti chiudendo il valico meridionale di Rafah. In quegli stessi mesi Teheran aveva invece proceduto a rafforzare il rapporto con Hamas, usando la triangolazione con il Sudan per rifornire Gaza di missili anticarro e razzi a media gittata Fajr 3 e 5. Anche da ciò, e dalla cooperazione con il governo egiziano, derivò quindi l’azione preventiva, nel gennaio del 2009, di bombardamento della colonna di autocarri che stava trasportando il materiale nella Striscia. Ma questo è, per l’appunto, il passato. L’attuale contesto geopolitico regionale è diverso da quello di anche solo tre anni fa. Il riavvicinamento di Hamas alla Fratellanza musulmana, in ascesa il tutta l’area Memo (Mediterraneo-Medio Oriente) nasce infatti da un preciso calcolo d’interesse, che solo l’incistarsi della crisi politica in atto in Egitto in questi giorni potrebbe vederlo rimesso in discussione. Dai riallineamenti politici e diplomatici di Hamas sono comunque derivati scetticismo crescenti e diffidenza. Per l’Iran, che si ritiene escluso, e di riflesso dalla Siria, che si reputa tradita. All’interno della Striscia forze come l’immarcescibile Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione laica ma strettamente legata da una sintonia operativa con il radicalismo islamico, e il Jihad islamico si sono adoperate in tutti i modi per mettere in crisi l’azione politica di Hamas. Ad essi, infatti, vanno attribuiti molti dei ripetuti lanci di razzi contro Israele. La quale da tempo aveva invece stabilito contatti riservati nell’ipotesi del raggiungimento di una tregua stabile. Di fatto, il continuo flusso di armi provenienti dal Sudan, ed in particolare da Yarmouk, a sud di Karthoum, nonché l’ossessivo bombardamento contro i civili israeliani, hanno posto le premesse per i passaggi successivi, tra i quali la morte di Ahmad al-Ja'bari, il vero negoziatore per parte islamista, durante una operazione militare delle forze aeree di Gerusalemme. Lo stallo delle negoziazioni è stato infatti fatale, facendo precipitare una situazione di crisi che già da tempo si era ulteriormente incancrenita. Dopo di che l’insieme della cose che abbiamo preso in considerazione deve a sua volta essere confrontato con altri fronti aperti. Non è probabile che il governo egiziano arrivi a sfiduciare gli accordi di Camp David e a troncare i rapporti con Israele. Non può permetterselo perché ha molte spine nel suo fianco meridionale. La Turchia neo-ottomana di Erdogan deve vedersela con i curdi. L’Iran potrebbe conoscere qualche cambiamento con l’eventuale uscita di scena di Ahmadinejad, a conclusione del suo ultimo mandato presidenziale. Allo stato attuale delle cose, però, tutto si gioca intorno alla Siria. Hamas guarda anche in quella direzione, così come deve porsi il problema, del pari al Cairo e a Gerusalemme, della nuova instabilità che si misura nel Sinai. Il movimento-regime sa di non avere chance di vittoria contro Israele. E tuttavia cerca riscontri simbolici molto netti, per puntellare il suo potere. Non è un caso se si sia autoproclamato “vincitore” nei recenti scontri. Dopo di che, il perdurare della fragile tregua dipende da molti elementi che nessuno dei protagonisti in campo riesce da solo a governare. Claudio Vercelli http://www.moked.it/

Khaled Meshaal, il pregio della chiarezza

Khaled Meshaal, il capo “politico” di Hamas, ha compiuto oggi una storica visita nella Striscia di Gaza. Nel 25esimo anniversario del moviemtno islamico, ha pronunciato davanti ad una folla oceanica parole non nuove ma che nell’Europa affetta da Alzheimer  tendono  ad essere dimenticate: “La Palestina e’ nostra, dal fiume al mare, da nord a sud. Non concederemo un centimetro della nostra terra”. Più’ chiaro di così’, si muore. Non c’e’ posto per Israele nel Medio Oriente di Hamas.Del resto, la vera natura del movimento islamico si e’ svelata, se ce ne fosse stato bisogno,  durante l’ultimo round con israele. I 2 missili Fajr di fabbricazione iraniana  lanciati verso Gerusalemme  avevano le stesse teoriche probabilità di fare strage nella parte orientale  e araba o in quella occidentale  e ebraica della città tre volte santa, di colpire il  Muro del Pianto, la basilica del Santo Sepolcro o la Moschea al Aqsa.  Neppure Saddam Hussein aveva osato tanto.Penso a quel leader politico che qualche tempo fa nella residenza di un imbarazzato ambasciatore italiano  sosteneva l’ineluttabilità per Israele di parlare con Hamas. Penso al capo  di una ben nota organizzazione pacifista che a Sderot chiosava sulla sostanziale innocuità dei razzi di Hamas. Penso agli analisti che da domani ci spiegheranno che Khaled Meshaal in realtà  e’ un moderato, che si,  dice di voler distruggere Israele, ma mica lo pensa davvero, o se lo pensa non vuole lo vuole fare tutto in un colpo, solo un po’ alla volta, con pragmatismo.
Imbecillità’ o malafede? http://www.claudiopagliara.it/