domenica 9 dicembre 2012
Gaza, un quadro in movimento per una storia non breve
A
distanza di qualche settimana dalla conclusione delle tensioni più
esacerbate tra Israele e Gaza, e quindi dall’operazione difensiva
Pilastro di difesa (altrimenti conosciuta anche come Colonna di
fumo), e in concomitanza alla visita di Khaled Meshaal nella
Striscia, quest’ultimo leader storico di Hamas, è possibile
qualche riflessione sul contesto in cui questi fatti si sono andati
ad inserire. Poiché, al di là dell’apparente peculiarità
dell’ultimo episodio bellico, dettata dalla necessità di
rispondere al persistenze lancio di razzi e ordigni esplosivi sia
contro il sud d’Israele (a partire da Sderot) che poi, nel corso
del piccolo conflitto innescatosi, contro il centro del paese (ed in
particolare Tel Aviv e Gerusalemme) da parte sia di Hamas che del
Movimento per il Jihad islamico in Palestina (quest’ultimo prossimo
ai sciiti di Hezbollah), c’è una complessa trama da tenere in
considerazione. Prima di tutto va considerata la natura di quella
entità che conosciamo come "Striscia di Gaza" nel suo
percorso storico. Non si tratta di uno Stato sovrano ma di un
segmento di terra a sé, oggi rivendicato da una pluralità di
soggetti: dall’Autorità nazionale palestinese, che invece trova il
suo insediamento legale ed elettorale in Cisgordania; da Hamas; dai
gruppi salafiti. Sono quindi tre gli attori politici-militari che
ruotano intorno a quell’area. Nella quale vivono poco meno di 1,7
milioni di persone (con un tasso di crescita del 3,3 per cento
annuo), nella quasi totalità dei casi di religione musulmana e per
circa lo 0,7 per cento di origine cristiana. La storia delle egemonie
esercitate in età moderna e contemporanea su circa 360 chilometri
quadrati di territorio è piuttosto articolata: dal 1517 al 1918 la
Striscia è sotto il controllo ottomano; con la fine della Prima
guerra mondiale ricade nel mandato britannico, esercitato, come
sappiamo, fino al 1948. In quel contesto Gaza e le aree limitrofe non
esprimevano un’identità peculiare. Alla data della nascita dello
Stato d’Israele l’intera popolazione che risiedeva sul territorio
dell’attuale Striscia non superava gli 80mila individui. Elementi
economici di rilievo erano il piccolo porto, l’attività ittica e
le coltivazioni. All’interno di un’economia perlopiù di
sussistenza. Con la risoluzione Onu 181 del novembre 1947, secondo i
criteri di ripartizione del territorio, Gaza sarebbe dovuta entrare a
far parte del futuro Stato arabo, che avrebbe visto la sua origine
dalla piena applicazione del dispositivo della decisione presa dal
consesso internazionale. Sia detto per inciso, che se si parlava
della nascita di uno Stato ebraico la risoluzione non identificava
del pari, con identica nettezza, la figura politica di uno “Stato
palestinese” richiamandosi piuttosto ad una comunità politica
indipendente araba. Affermiamo questo per rimarcare, nel merito di
quanto concerne la discussione dell’oggi, che ciò che è definita
come "identità palestinese", sia pure allora coltivata da
alcune élite locali, avrebbe poi assunto una fisionomia più netta
solo con il trascorrere dei decenni. Le
cose, sul piano storico, sono poi andate come è risaputo. Nel 1948
l’area intorno a Gaza si trovò isolata dalla più ampia distesa
dei territori cisgiordani. Con il 1949, con gli accordi di Cipro e la
stabilizzazione delle linee armistiziali, fu pertanto assunta in
amministrazione dall’Egitto, così come avvenne per la Giudea, la
Samaria e parte della Galilea per parte giordana, in attesa che gli
sviluppi politici, diplomatici ma soprattutto militari ne definissero
il destino. Questo stato di cose durò fino al 1967. La scelta del
Cairo, al pari di Damasco, fu quella di mantenere un controllo
amministrativo senza annettere a sé i territori. Da ciò derivò per
i loro abitanti l’impossibilità di acquisire la cittadinanza
egiziana.
La medesima cosa capitò ai profughi arabi stabilitisi nel Libano
meridionale e in altre aree del Medio Oriente. Si trattava di una
opzione precisa, che individuava nell’uso di coloro che vi si
trovavano a risiedere, condannati ad una apolidia di fatto, la
possibilità di creare una sorta di “massa di cuscinetto”:
profughi in (eterna) attesa di una sistemazione definitiva,
vaticinata nella disintegrazione dell’"entità sionista"
e nel "ritorno a casa", e quindi ostili allo Stato ebraico;
elementi di aree considerate no-men-lands, vere e proprie zone di
interposizione tra sé ed Israele. La "questione palestinese"
germina dal connubio tra abbandono delle terre d’origine e mancata
risistemazione in quelle di accoglienza. Non è un caso, trattandosi
semmai di una strategia politica che aveva ad obiettivo quello di
pungolare Gerusalemme il più possibile, sfruttando il diffuso
malcontento popolare. Con
il 1967 il quadro cambia ancora, subentrando l’amministrazione
israeliana che cessa nel 1994, nel quadro degli accordi di Oslo. Ciò
che restava di quest’ultima, con l’eccezione di una serie di
prerogative riconosciute ad Israele per la sua sicurezza, verrà di
fatto a cessare, con l’evacuazione della popolazione civile
israeliana insieme allo smantellamento di 21 insediamenti ebraici,
nell’agosto del 2005, nell’ambito del piano unilaterale di
disimpegno voluto dall’allora governo presieduto da Ariel Sharon.
Nella Striscia e nella città di Gaza, governate dall’Autorità
nazionale palestinese, ossia dagli uomini di Yasser Arafat, il ritiro
israeliano comportò una serie di effetti detonanti. La pessima
gestione delle finanze pubbliche e la diffusissima corruzione
divennero da subito il fuoco della polemica, delegittimando
l’autogoverno palestinese. L’amministrazione di al-Fath, infatti,
aveva lasciato buona parte della popolazione insoddisfatta. Alle
elezioni legislative del 2006 Hamas, il movimento islamista legato ai
Fratelli musulmani egiziani, ottenne il 44 per cento dei consensi,
mentre al-Fath non superò il 41 per cento. Hamas di fatto conquistò
democraticamente, ossia con l’assenso dei votanti, il controllo
della Striscia. Formò un governo che non vedeva la partecipazione
degli avversari e l’anno successivo, dopo una infinità di
frizioni, di fatto procedette ad un vero e proprio regolamento di
conti, con l’espulsione forzata dei propri avversari, dopo una dura
guerra civile. Anche da ciò, e dall’avvio di una intensa attività
terroristica contro Israele, sono poi derivate le vicende a noi più
prossime (il lancio di ordigni contro la popolazione dello Stato
ebraico, le tregue temporanee, l’embargo, le azioni militari di
Gerusalemme), fino ai fatti delle settimane scorse. Evitiamo di
elencarle nello specifico, essendoci per più aspetti ben note. I
fatti degli ultimi due mesi arrivano dopo una serie di mutamenti che
hanno coinvolto profondamente Hamas. Da almeno quattro anni, infatti,
il movimento islamista al potere nella Striscia subisce le pressioni
ai fianchi dei gruppi jihadisti e salafiti. Gaza mette in contatto
l’Asia con l’Africa e questi ultimi sono in forte attività nel
continente nero. Non di meno, Hamas ha dovuto riposizionarsi nei
confronti del pencolante regime di Assad. Gli uomini di Ismail
Hanyeh, infatti, hanno optato per il sostegno alla Coalizione
nazionale siriana, la composita organizzazione la cui esistenza è
stata formalizzata a Doha nel novembre di quest’anno, e che
raccoglie gli oppositori al regime dell’oftalmologo damasceno. La
Siria – e anche questo fatto è abbondantemente risaputo – da
sempre ospita “amorevolmente” le élite del movimento islamista.
Ma
il mutamento del quadro geopolitico, oltre anche ad una non facile
dialettica tra i due tronconi di Hamas (quello più “pragmatico”,
presente nella Striscia, e quello “ideologico”, riparato a suo
tempo a Damasco), ha obbligato a scelte di discontinuità rispetto ai
tempi trascorsi. Così anche per ciò che concerne il tentativo che
il movimento-regime ha compiuto di ricontrattare i rapporti con i
paesi arabi sunniti ed in particolare con il Qatar, uno dei
burattinai della crisi siriana, nonché con l’Egitto passato sotto
il controllo dei Fratelli musulmani, anch’essi però messi a dura
prova dalla contestazione popolare di questi giorni. Il Cairo,
durante l’operazione Piombo fuso del 2008-2009, aveva rivelato i
suoi reali intendimenti chiudendo il valico meridionale di Rafah. In
quegli stessi mesi Teheran
aveva invece proceduto a rafforzare il rapporto con Hamas, usando la
triangolazione con il Sudan per rifornire Gaza di missili anticarro e
razzi a media gittata Fajr 3 e 5.
Anche da ciò, e dalla cooperazione con il governo egiziano, derivò
quindi l’azione preventiva, nel gennaio del 2009, di bombardamento
della colonna di autocarri che stava trasportando il materiale nella
Striscia. Ma questo è, per l’appunto, il passato. L’attuale
contesto geopolitico regionale è diverso da quello di anche solo tre
anni fa. Il riavvicinamento di Hamas alla Fratellanza musulmana, in
ascesa il tutta l’area Memo (Mediterraneo-Medio Oriente) nasce
infatti da un preciso calcolo d’interesse, che solo l’incistarsi
della crisi politica in atto in Egitto in questi giorni potrebbe
vederlo rimesso in discussione. Dai riallineamenti politici e
diplomatici di Hamas sono comunque derivati scetticismo crescenti e
diffidenza. Per l’Iran, che si ritiene escluso, e di riflesso dalla
Siria, che si reputa tradita. All’interno della Striscia forze come
l’immarcescibile Fronte popolare per la liberazione della
Palestina, organizzazione laica ma strettamente legata da una
sintonia operativa con il radicalismo islamico, e il Jihad islamico
si sono adoperate in tutti i modi per mettere in crisi l’azione
politica di Hamas. Ad essi, infatti, vanno attribuiti molti dei
ripetuti lanci di razzi contro Israele. La quale da tempo aveva
invece stabilito contatti riservati nell’ipotesi del raggiungimento
di una tregua stabile. Di fatto, il continuo flusso di armi
provenienti dal Sudan, ed in particolare da Yarmouk, a sud di
Karthoum, nonché l’ossessivo bombardamento contro i civili
israeliani, hanno posto le premesse per i passaggi successivi, tra i
quali la morte di Ahmad al-Ja'bari, il vero negoziatore per parte
islamista, durante una operazione militare delle forze aeree di
Gerusalemme. Lo stallo delle negoziazioni è stato infatti fatale,
facendo precipitare una situazione di crisi che già da tempo si era
ulteriormente incancrenita. Dopo di che l’insieme della cose che
abbiamo preso in considerazione deve a sua volta essere confrontato
con altri fronti aperti. Non è probabile che il governo egiziano
arrivi a sfiduciare gli accordi di Camp David e a troncare i rapporti
con Israele. Non può permetterselo perché ha molte spine nel suo
fianco meridionale. La Turchia neo-ottomana di Erdogan deve vedersela
con i curdi. L’Iran potrebbe conoscere qualche cambiamento con
l’eventuale uscita di scena di Ahmadinejad, a conclusione del suo
ultimo mandato presidenziale. Allo stato attuale delle cose, però,
tutto si gioca intorno alla Siria. Hamas guarda anche in quella
direzione, così come deve porsi il problema, del pari al Cairo e a
Gerusalemme, della nuova instabilità che si misura nel Sinai. Il
movimento-regime sa di non avere chance di vittoria contro Israele. E
tuttavia cerca riscontri simbolici molto netti, per puntellare il suo
potere. Non è un caso se si sia autoproclamato “vincitore” nei
recenti scontri. Dopo di che, il perdurare della fragile tregua
dipende da molti elementi che nessuno dei protagonisti in campo
riesce da solo a governare. Claudio
Vercelli http://www.moked.it/
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La storia questa sconosciuta
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