sabato 25 settembre 2010


Israele è cancellato dalla carta geografica
“Ci è stato offerto il 100% del territorio, ma abbiamo rifiutato”

Rispondendo alle critiche di Hamas, che lo accusa di svendere i principi cardine della posizione palestinese, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha dichiarato: «Noi non abdicheremo a nessun principio cardine. Dal Consiglio Nazionale Palestinese di Algeri del 1988, col quale dichiarammo lo stato palestinese e riconoscemmo le risoluzioni Onu 242 e 338, quali sono le concessioni che avremmo fatto sui principi fondamentali? Abbiamo sempre insistito sulle linee del 1967, su Gerusalemme come nostra capitale e sul diritto al ritorno dei profughi secondo le risoluzioni dell’Onu, a cominciare dalla 194. Non una singola parola dei nostri documenti è stata cambiata da allora ad oggi. Non è accaduto e non accadrà» (da: Al-Ayyam, Autorità Palestinese, 6.9.10).Allo stesso modo, il capo negoziatore dell’Autorità Palestinese Saeb Erekat ha affermato che le accuse dell’opposizione circa concessioni fatte dall’Olp sono totalmente infondate: «Abu Amar [Yasser Arafat] avrebbe potuto firmare un accordo sin dal primo giorno, e così non sarebbe stato assassinato [sic]. Anche Mahmoud Abbas (Abu Mazen) avrebbe potuto accettare ciò che gli venne offerto dopo il summit di Annapolis, vale a dire il 100% del territorio [tra ritiri e scambi territoriali]. Ma noi abbiamo assunto, e sempre assumeremo, una posizione fermissima: che la capitale dello stato palestinese sia a Gerusalemme, che il problema dei profughi venga risolto secondo la risoluzione 194, che lo stato palestinese sia sulle linee del 1967» (da: www.maannews.net, 4.9.10).Sulla questione dei profughi, Abu Mazen ha dichiarato: «Se ci chiederanno di fare marcia indietro sul diritto al ritorno o sulle linee del 1967, io me ne andrò senza fare nessuna concessione» (da Al-Ayyam, quotidiano dell’Autorità Palestinese, 6.9.10). In un’altra intervista il presidente dell’Autorità Palestinese ha ribadito: «Qualunque pressione su di me per farmi recedere sui confini, sui profughi o su qualunque altra questione cruciale, mi spingerà a fare i bagagli e andarmene» (da: Al-Rai, Kuwait, 7.9.10).Circa il futuro degli insediamenti, cioè dei civili israeliani che vivono in Cisgiordania, Saeb Erekat ha detto: «Quando Israele ha deciso di fare la pace con l’Egitto, ha smantellato gli insediamenti nel Sinai, e quando ha deciso il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza ha smantellato gli insediamenti che vi si trovavano. Spero che Israele capisca che, per la pace in Cisgiordania, dovrà fare la stessa cosa» (da: www.maannews.net, 4.9.10).Commentando il discorso di Benjamin Netanyahu al Dipartimento di stato americano, nel quale il primo ministro israeliano aveva parlato del riconoscimento di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, Abu Mazen ha dichiarato: «Questa faccenda mi ha costretto a deviare dal testo del mio intervento per rispondere, giacché si tratta di una questione obsoleta: è terminata con il riconoscimento fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin [1993], quello che chiamiamo il riconoscimento reciproco. Arafat disse: “Riconosciamo il diritto di Israele ad esistere in sicurezza e stabilità”, e Rabin replicò che riconosceva l’Olp come unico legittimo rappresentante del popolo palestinese, e che su queste basi avrebbe negoziato con essa. […] Non stiamo parlando di uno stato ebraico, ma dello stato di Israele. E naturalmente sappiamo con quale intento viene sollevata questa questione e per questo la rifiutiamo, come abbiamo fatto più di una volta in passato: come durante il mio incontro con l’estremista comunità ebraica americana, che chiaramente sostiene le posizioni di Israele, e dove mi venne posta questa domanda sullo stato ebraico. Abbiamo replicato che questo non è affar nostro: non è di questo che stiamo discutendo e non possono aspettarsi che rispondiamo. Voi potete chiamarvi come volete, ma non otterrete che noi ci dichiariamo d’accordo. Così, quando Netanyahu ha sollevato questo tema, ho immediatamente replicato che il riconoscimento reciproco è solo quello del 9 settembre 1993» (da: Al-Ayyam, Autorità Palestinese, 6.9.10).In una successiva intervista, Abu Mazen ha spiegato: «Se Netanyahu vuole parlare di uno stato ebraico, è affar suo. Noi non lo riconosceremo assolutamente: significherebbe chiudere le porte al ritorno dei profughi palestinesi. […] Se qualcuno ci chiederà di accettare di riconoscere lo stato di Israele come stato ebraico, noi non lo faremo. Noi diamo a Israele soltanto lo stesso riconoscimento del 1993, e non abbiamo nulla da aggiungere» (Al-Ayyam, Autorità Palestinese, 7.9.10).(Da: MEMRI, 22.9.10)DOCUMENTAZIONE 1:DICHIARAZIONI PUBBLICHE DI ABBAS ZAKI, AMBASCIATORE DELL’OLP IN LIBANO:«A mio parare, con la soluzione a due stati Israele crollerà perché, quando se ne andranno da Gerusalemme, che cosa ne sarà di tutti i loro discorsi sulla terra promessa e sul popolo eletto? Cosa ne sarà di tutti i sacrifici che hanno fatto, solo per sentirsi poi dire di andar via? Loro considerano che Gerusalemme abbia uno status spirituale; gli ebrei considerano Giudea e Samaria [Cisgiordania] come il loro sogno storico. Se gli ebrei dovranno abbandonare questi luoghi, l’idea sionista inizierà a crollare. Regredirà con il loro stesso assenso. E poi noi andremo avanti» (da: TV ANB, 7.05.09).«Noi siamo totalmente convinti che il diritto al ritorno [all’interno di Israele] sia garantito dalla nostra volontà, dalle nostre armi e dalla nostra fede. L’Olp è l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese e non ha cambiato una virgola della sua piattaforma programmatica. Alla luce della debolezza della nazione araba e della carenza di valori, e alla luce del controllo americano su tutto il mondo, l’Olp ha deciso di procedere per fasi, ma senza cambiare il suo obiettivo strategico. Lasciatemi dire: quando l’ideologia di Israele inizierà a crollare e noi prenderemo perlomeno Gerusalemme, crollerà l’ideologia d’Israele nella sua interezza, e noi inizieremo a procedere con la nostra ideologia, ad Allah piacendo, e a buttarli fuori da tutta la terra di Palestina» (TV NBN, 9.04.08).(Da: MEMRI, 14.05.09)DOCUMENTAZIONE 2:COSA SIGNIFICHI LA RISOLUZIONE ONU 194 PER I PALESTINESI venne messo in chiaro in un memorandum della squadra negoziale palestinese guidata da Yasser Abed Rabbo, presentato l’1 gennaio 2001 in risposta ai parametri del presidente Bill Clinton per un accordo israelo-palestinese. Vi si legge: «È importante ricordare che la risoluzione 194, da tempo considerata la base per una giusta composizione del problema dei profughi, prevede il ritorno dei profughi palestinesi alle loro case, ovunque situate. L’essenza del diritto al ritorno sta nella scelta: ai palestinesi deve essere data la possibilità di scegliere dove vogliono insediarsi, compreso il ritorno alle case da cui furono allontanati» (http://www.robat.scl.net/content/NAD/negotiations/clinton_parameters/param2.php)DOCUMENTAZIONE 3:PER UNA CORRETTA LETTURA DELLA RISOLUZIONE ONU 242«La risoluzione Onu numero 242 approvata il 22 novembre 1967 è internazionalmente riconosciuta come la base giuridica dei negoziati tra Israele e i vicini arabi. Essa fu il risultato di cinque mesi di intense trattative. Ogni sua parola fu attentamente soppesata. Alcuni propagandisti, tuttavia, diffondono quotidianamente un’interpretazione errata della 242, sostenendo che essa prescriverebbe il ritiro di Israele sulle linee del 4 giugno 1967. Quelle linee erano le linee di cessate il fuoco fissate dagli accordi armistiziali del 1949, i quali dicevano espressamente che esse venivano accettate dalle parti senza alcun pregiudizio per la futura sistemazione territoriale. In un'intervista a Israel Radio del febbraio 1973 Lord Caradon, colui che presentò la risoluzione 242 per conto della Gran Bretagna, mise in chiaro che essa non prevedeva affatto l'obbligo per Israele di ritirarsi sulle linee del 1967. "La frase essenziale e mai abbastanza ricordata – spiegò Lord Caradon – è che il ritiro deve avvenire su confini sicuri e riconosciuti. Non stava a noi decidere quali fossero esattamente questi confini. Conosco le linee del 1967 molto bene e so che non sono un confine soddisfacente". I sovietici, gli arabi e i loro alleati fecero di tutto per inserire nella bozza di testo della risoluzione la parola "tutti" davanti ai "territori" da cui Israele doveva ritirarsi. Ma la loro richiesta fu respinta. Alla fine, lo stesso primo ministro sovietico Kossygin contattò direttamente il presidente americano Lyndon Johnson per chiedere l'inserimento della parola "tutti" davanti a "territori". Anche questo tentativo fu respinto. Kossygin chiese allora, come formula di compromesso, di inserire l'articolo determinativo davanti a "territori" ("dai territori" anziché "da territori"). Johnson rifiutò. Successivamente il presidente americano spiegò la sua posizione: "Non siamo noi che dobbiamo dire dove le nazioni debbano tracciare tra di loro linee di confine tali da garantire a ciascuna la massima sicurezza possibile. È chiaro, comunque, che il ritorno alla situazione del 4 giugno 1967 non porterebbe alla pace. Devono esservi confini sicuri e riconosciuti. E questi confini devono essere concordati tra i paesi confinanti interessati". Nel dibattito, il ministro degli esteri israeliano Abba Eban chiarì la posizione di Israele: "Rispetteremo e manterremo la situazione prevista dagli accordi di cessate il fuoco finché non verrà sostituita da un trattato di pace tra Israele e i paesi arabi che ponga fine allo stato di guerra e stabilisca confini territoriali concordati, riconosciuti e sicuri. Questa soluzione di pace, negoziata in modo diretto e ratificata ufficialmente, creerà le condizioni nelle quali sarà possibile risolvere i problemi dei profughi in modo giusto ed efficace attraverso la cooperazione regionale e internazionale".» (Jerusalem Post, 26.12.00).



Lod


CULTURA ITALIANA NEL MONDO - STATI UNITI - AL METROPOLITAN MUSEUM DI NEW YORK LA PRIMA DI UN MOSAICO ROMANO DEL 300 A.C.

(2010-09-24) http://www.italiannetwork.it/
Si inaugura il 28 settembre 2010 per rimanere visibile fino al 3 aprile 2011 un allestimento davvero prezioso per gli amanti dell'archeologia al Metropolitan Museum di New York. Nel 1996, gli operai che lavoravano all'ampliamento della strada Gerusalemme -Tel Aviv nel Lod (ex Lydda ), in Israele , fecero una sorprendente scoperta : trovarono reperti di un pavimento romano a mosaico a circa tre metri sotto la superficie del terreno. Venne immediatamente attivato uno scavo per il recupero da parte della Israel Antiquities Authority, che rivelò un pavimento a mosaico - che misura circa 50 piedi di lunghezza e 27 piedi di larghezza - di qualità eccezionale e in ottimo stato di conservazione. Il mosaico , composto da sette pannelli , è simmetricamente diviso in due grandi " tappeti "da un lungo pannello rettangolare orizzontale , e tutto il lavoro è circondata da una fascia bianca. Per conservarlo il mosaico è stato ricoperto per la ricerca di finanziamenti adeguati alle necessità di un restauro scientifico che ne assicurasse la conservazione. Recentemente, rimosso dal terreno, si è proceduto al restauto ed ora tre pannelli - ovvero la sezione più completa - saranno esposti al pubblico per la prima volta al Metropolitan Museum of Art. La mostra mette in evidenza le sezioni di quella che probabilmente era una stanza aperta al pubblico. All'interno del pannello centrale , che misura 13 metri quadrati, si trovano una serie di piccoli quadrati e triangoli che ospitano le immagini di uccelli, pesci ed altri animali che circondano una scena più grande ottagonale con animali feroci, un leone e leonessa, un elefante, una giraffa , un rinoceronte, una tigre e un toro. Animali ben noti ai Romani , poiché partecipavano ai giochi gladiatori, dove venivano utilizzati nei combattimenti con gli uomini. Attorno al pannello centrale, i due pannelli più piccoli offrono una scena marina, completa di due navi mercantili romane. Una caratteristica sorprendente di questo mosaico è che non raffigura figure umane. La mostra è completata dall'illustrazione della scoperta del mosaico e delle vicende attinenti alla sua rimozione, conservazione e trasporto a New York. Il mosaico si pensa provenga dalla casa di un romano benestante dell'Impero Romano d'Oriente vissuto all'incirca nel 300 dC, cento anni dopo l'insediamento urbano dei romani, per lo piu' cristiani, nella zona - ma poichè le immagini del mosaico non hanno alcun contenuto religioso, non si può determinare se il proprietario fosse un pagano, un ebreo, o un cristiano. Durante il sollevamento del mosaico nel settembre 2009 schizzi preliminari sono stati trovati impressi nell'alvero che conteneva il mosaico, oltre alle orme di numerosi operai coinvolti nella posa del pavimento.Dopo la sua presentazione al Metropolitan, il mosaico sarà esposto presso il Museo della Legione d'Onore (San Francisco), The Field Museum (Chicago) e al Museo di Arte Colombo ( Columbus, Ohio ).


1940 la comunità Lubavitch a Brooklyn

Onu: Israele assente per festa ebraica

Risolto il giallo diplomatico delle sedie israeliane vuote all'Onu: secondo un portavoce della Rappresentanza Usa all'Onu, Marc Kornblau, l'assenza della delegazione israeliana durante il discorso del presidente Usa Barack Obama all'Assemblea Generale Onu è da legare alla festa ebraica di Sukkot, che proibisce, per gli ebrei più osservanti, qualsiasi attività ufficiale. Sukkot è una delle feste legate al capodanno ebraico, ma non è una delle principali, che sono Rosh Hashanah, (l'inizio dell'anno) e Yom Kippur (il giorno del perdono). Giovedì 23 settembre http://www.unionesarda.it/


Presto in Israele la più grande wind farm del Medio Oriente

Il quotidiano israeliano Globes ha annunciato che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe firmato un decreto per fare diventare di “interesse nazionale” la costruzione di un mega impianto eolico da 155 MW sulle alture del Golan
(Rinnovabili.it) – La rivoluzione verde di Israele era iniziata, qualche mese fa, con il sostegno statale ai progetti di produzione energetica da fonte solare ma ora il piccolo stato, protagonista da decenni di aspre dispute e cruenti conflitti, prova a seguire anche un’altra strada: quella del vento. Israele si candida infatti a diventare il Paese che ospiterà la più grande wind farm del Medio Oriente. La notizia, già annnuciata nella scorsa primavera, è stata pubblicata dal quotidiano israeliano Globes che ha riferito come l’impianto, che dovrebbe sorgere entro il 2012 sulle alture del Golan al confine con la Siria, dovrebbe essere dotato di 70 turbine giganti. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, secondo quanto riportato dal quotidiano, avrebbe già firmato un decreto grazie al quale il progetto dell’azienda pubblica Multimatrix sarebbe diventato un progetto di “interesse nazionale”.Il mega parco eolico dovrebbe sorgere in una località tra Massadeh e Majdal Shams e si stima che l’investimento necessario alla sua realizzazione sia pari a circa 400 milioni di dollari. L’impianto verrà costruito grazie alla collaborazione tra il gigante americano AES Corp e la Multimatrix e AES ha già fatto sapere di aver reperito tutti i fondi necessari a promuovere il progetto, potendo contrare su un utile pari alla metà dei profitti derivanti dalla produzione di energia pulita. Le turbine che verranno istallare nella parte nord delle alture del Golan avranno una capacità di generazione di circa 155MW. Grandi anche i profitti che dovrebbero derivare ogni anno dalla vendita di energia alla Israel Electric Corporation: secondo l’azionista di maggioranza e CEO di Multimatrix, Uri Omid, le vendite annuali frutterebbero circa 70 milioni di dollari.La costruzione dell’impianto inizierà entro sei mesi ma in attesa della posa della prima pietra Multimatrix e AES cercheranno di ottenere l’approvazione da parte dell’esercito per istallare turbine anche più grandi che sarebbero in grado di portare la capacità totale dell’impianto eolico fino a circa 200 MW. La costruzione della wind farm sarà comunque relativamente breve, dal momento che si stima di poter istallare una nuova turbina ogni tre giorni in modo tale da rendere operativo il parco eolico entro e non oltre la seconda metà del 2012. Gli azionisti di maggioranza avrebbero già rivelato di essere in trattative con la General Electric e una società della Corea del Sud per concedere l’appalto sulle turbine.


"Parcheggio" in kibbutz

Israele pronto a sì su moratoria

Colonie, chiesto rinvio della scadenza
Israele è pronto ad arrivare a un "compromesso concordato" sull'estensione della moratoria per la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. La notizia è stata confermata da un alto funzionario di Tel Aviv. Proprio ieri il premier italiano, Silvio Berlusconi, e il presidente americano, Barack Obama, avevano chiesto a Israele il proseguimento della moratoria, la cui scadenza naturale sarebbe alla fine di settembre. "Israele è pronto a raggiungere un compromesso accettabile da tutte le parti a proposito dell'estensione del congelamento delle costruzioni, stante il fatto che il congelamento non sarà totale", ha rivelato una fonte rimasta anonima. Il premier Benjamin Netanyahu "sta facendo sforzi notevoli per raggiungere un compromesso prima della scadenza della moratoria, il 26 settembre", ha aggiunto la fonte.
Giovedì il presidente statunitense Barack Obama aveva esortato Israele a "estendere la moratoria" sui nuovi insediamenti. Un appello rilanciato anche dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nell'incontro con il presidente egiziano Hosni Mubarak. Fonti israeliane avevano giudicato il discorso del presidente Usa "equilibrato". Critici invece i coloni israeliani, che per bocca del Consiglio (Yesha) che li rappresenta ha accusato Obama "di essersi piegato alle minacce dei palestinesi". 24/9/2010, http://www.tgcom.mediaset.it/


Sempre più israeliani si trasferiscono in Germania. Berlino è la loro preferita

Sessantacinque anni dopo, la Storia ha preso tutta un’altra piega. Ed è così che a Berlino, da dove partirono gli ordini per l’avvio della “Soluzione finale”, non è raro ascoltare i saluti in lingua ebraica. Nemmeno nelle radio. Ne sa qualcosa la 32enne Nirit Bialer, una conduttrice radiofonica del programma “La voce di Berlino” (titolo originale in ebraico: “Kol Berlin”), ma soprattutto nipote di una sopravvissuta all’Olocausto. Nirit intrattiene per un’ora – ogni venerdì – gli ascoltatori berlinesi con musica e interviste. Soprattutto: è diventata il simbolo di tutti gl’israeliani che negli ultimi anni hanno deciso di farsi una vita in Germania.Le cifre, non definitive, parlano di circa 15mila israeliani di religione ebraica che si sono trasferiti solo nella città di Berlino. Certo, una cifra ancora lontana dai 120mila residenti ebrei che abitavano nella capitale fino al 1933. Ma è indubbio che le cose sono cambiate. La Storia è cambiata.«Berlino è diventata una vera attrazione per molti israeliani», spiega Nirit Bialer all’Associated Press. «Tutti vogliono vivere qui». Un’inversione rispetto a quello che succedeva pochi anni fa. Quando trasferirsi in Germania – da Israele – rappresentava per gli ebrei il massimo grado di tradimento dei valori del Sionismo.Gl’israeliani visitano Berlino per molte ragioni: per lavorare, per studiare, per fare festa, per sviluppare le loro doti artistiche e per dare vita alle loro passioni. A loro poco importa del passato nazista della città e della nazione in cui si trovano. «Qui c’è più libertà e molto più spazio di manovra», spiega Lea Fabrikant, 26 anni, studentessa di fotografia cresciuta a Gerusalemme.In tutto questo, c’è anche chi è andato a Berlino per ritrovare le sue radici. Come Asaf Leshem, 36 anni: ha passeggiato nel quartiere di Schoeneberg, dove vivevano i suoi nonni, e ha fatto visita al cimitero di famiglia.«In Israele uno non pensa a cosa significhi essere ebreo», analizza Nirit, la conduttrice radiofonica. «Di fatto tutti nello Stato ebraico festeggiano le ricorrenze religiose, dallo Shabbat al Rosh haShanah. È solo in Germania che uno realizza all’improvviso cosa voglia dire essere un ebreo e cosa ti rende differente da tutto quello che ti circonda».23 settembre, http://falafelcafe.wordpress.com/


Samaritani a Milano

Chi sono i Samaritani? L’affascinante possibilità di andare alla scoperta di una comunità etnico-religiosa dalle origini millenarie e tuttora presente a Nablus, ai piedi del monte Grizim in Israele, è stata data agli avventori di MiTo al Teatro Nuovo di Milano grazie ad una nuova opera del compositore Yuval Avital: in sostanza, si tratta di circa 90 minuti di spettacolo durante i quali alcuni video girati sul campo (grazie a Nicola Scaldaferri e al suo Laboratorio di Etnomusicologia e Antropologia Visuale dell’Università degli Studi di Milano) mostravano sia immagini più simboliche, sia interviste e registrazioni di autentici testimoni viventi di una tradizione antichissima. Tradizione che, in larga parte, si fonda su un particolare stile di canto – o di cantillazione – della Torah: in scena, quattro straordinari samaritani hanno dato voce alla loro storia alternandosi o sovrapponendosi a tali video, accompagnati dalla musica scritta ex novo da Avital. Dunque, non c’è dubbio che tutto il lavoro di ricerca e ricostruzione di un mondo per noi largamente sconosciuto, sia da sé valevole il prezzo del biglietto.Per il resto, ci sarebbero da fare alcuni distinguo: quello che più colpisce e – mi si permetta di dirlo – irrita di questa operazione, è l’ego in mostra di Yuval Avital: non solo cura musica (suonando la chitarra in mostra davanti a tutti), libretto, regia ed elettronica, ma è egli stesso a leggere i suoi testi in un continuo riferimento a sé che sicuramente non giova allo spettacolo; la musica da lui scritta, poi, è un continuum sonoro molto poco variegato: peccato, perché con 9 strumentisti in scena ci si poteva sbizzarrire di più in giochi timbrici e di rimando con le magnifiche e ancestrali voci dei samaritani, in scena e non.http://www.giornaledellamusica.it/, 21 Settembre 2010


Israele: nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim

Gersualemme. In Israele, tutto il mese di Settembre è contraddistinto da feste. Rosh Hashana (Capodanno ebraico), Yom Kippur (giorno dell'espiazione) e a fine mese otto giorni di Sukkot (festa delle capanne). Il giorno di Yom Kippur è però la ricorrenza che più affascina coloro che visitano la Terra Santa. La popolazione digiuna per un intero giorno. Il traffico si ferma e per le strade circolano solo sporadici taxi di arabi, mentre ebrei vestiti di bianco si affrettano a piedi verso le sinagoghe per chiedere a Dio la remissione dei loro peccati. Il quartiere ultraortodosso di Gerusalemme, Mea Shearim, è però in questo giorno sacro si può fare un salto nel passato e percepire la solennità della preghiera. Il quartiere è abitato dai cosiddetti Haredi, che praticano una forma molto conservatrice dell'ebraismo ortodosso e si reputano i veri eredi della tradizione religiosa. Sono ferocemente contrari alla modernità della quale accettano pochissime cose, come l'elettricità, ma ne rifiutano altre come il computer, il cinema, le macchine fotografiche e qualsiasi cosa minacci di portarli fuori da quella che considerano essere la retta via. All'entrata del quartiere, appaiono dei cartelloni che invitano i visitatori (o meglio le visitatrici) ad adottare un abbigliamento consono o "non immodesto" e si precisa che le camice devono esser chiuse al collo, maniche lunghe, gonne lunghe, niente pantaloni o abiti attillati. Qui infatti si fanno valere regole imposte dalla comunità e non dallo Stato. I muri delle strade inoltre sono ricoperti di "pashkeviln", manifesti murali in bianco e nero che esortano gli abitanti del quartiere a comportarsi in aderenza all'ortodossia. Un cartello di questi se la prendeva con la compagnia dell'elettricità. Un'altro inveiva contro le parrucche: le donne Haredi sono infatti tenute a tagliarsi i capelli a zero per non indurre l'uomo in tentazione, ma rimediano a ciò mettendosi delle costose parrucche. Un altro poster invece metteva in guardia contro il fatto che il giorno seguente ci sarebbe stato un mercato per la festività del Sukkot e si invitavano pertanto i fedeli ad un comportamento scevro da tentazioni, in quanto uomini e donne sarebbero venuti a contatto. Dopotutto è proprio dai Haredi che è nata la pretesa di separare i sessi sugli autobus pubblici: gli uomini davanti e le donne dietro, richiesta che ha provocato l'irata reazione del resto della popolazione laica israeliana. Quello che colpisce del quartiere sono però i bambini piccoli che giocano soli per le strade poco curate, vestiti anche d'estate a maniche lunghe. E le bambine con le calze bianche, si prendono cura dei fratellini di poco più piccoli di loro. Le donne sposate con i volti pallidi hanno i capelli coperti da dei foulard, mentre gli uomini vestiti di nero passano il tempo a studiare la Bibbia. In Israele, si dice che gli Haredim passino più tempo a studiare religione di qualsiasi altro gruppo umano nella storia dell'Uomo. Il sessanta per cento di loro infatti non ha un lavoro regolare e si mantiene grazie ai sussidi dal governo. Sono inoltre anche molto prolifici e questo li rende il gruppo ebraico con il maggiore tasso di crescita demografica. Ciò che contraddistingue i Haredi è comunque la loro posizione contro l'idea sionista di uno Stato israeliano. Per le strade di Mea Shearim infatti si leggono cartelloni del tipo: "Abbasso il Sionismo". Il motivo principale di questo rifiuto è che per loro l'indipendenza politica degli ebrei deve essere ottenuta soltanto attraverso l'intervento divino con l'arrivo del Messia. Ogni tentativo di forzare la storia viene considerato blasfemo. I Haredi sono quindi esonerati dal servizio militare, ma non per questo rinunciano a partecipare alla vita politica, anche per continuare a ricevere i sussidi. Il partito in cui maggiormente si identificano è lo Shas, parte dell'attuale coalizione di governo. Verso le sei del pomeriggio, mentre attraverso Mea Shearim, lo Yom Kippur sta volgendo al termine. Dall'interno delle sinagoghe le preghiere stanno raggiungendo il loro culmine. Dalle sinagoghe si sente invocare perdono al Signore, tra urla straziianti di uomini e pianti. Qualcuno prega sulla strada antistante alla sinagoga, e scorgo donne con le lacrime agli occhi. Ancora un centinaio di metri e la strada di Mea Shearim termina. Mi ritrovo accanto all'ospedale italiano con la sua torre, ispirata a quella di Arnolfo di Palazzo Vecchio a Firenze, opera terminata nel 1917 su progetto dell'architetto Antonio Barluzzi. Vedo poi degli etiopi ebrei con pantolici corti e dei turisti americani. Mi ricordo così una volta di più quante culture vivano qui a Gerusalemme, l'una accanto all'altra, spesso però senza comprendersi. 22 settembre 2010 http://www.agenziaradicale.com/


Ecco come Mosè aprì le acque del Mar Rosso

Come è riuscito Mosè a dividere le acque del Mar Rosso? Secondo quanto è scritto sulla Bibbia non vi sono dubbi: si è trattato di un miracolo che ha permesso al popolo di Israele di mettersi in salvo. Alcuni studiosi americani hanno cercato però di darne una spiegazione più scientifica dimostrando con una simulazione al computer che un forte vento, stimato in 100 chilometri orari, proveniente da oriente che soffia per oltre 12 ore sul Mar Rosso avrebbe potuto sospingere le acque tra una vecchia ansa, formata dal congiungimento di un antico fiume, e una laguna. La ricerca di Carl Drews del National Center for Atmospheric Research spiega che con l'acqua sospinta indietro dalle forti raffiche si poteva creare un ponte di terra sopra cui è passato il popolo di Israele. «Non appena il vento si è placato, le acque sono rientrate».Lo studio fa parte di un più ampio progetto di ricerca di Drews sugli impatti dei venti sulla profondità delle acque, compresa la misura in cui i tifoni del Pacifico possono influenzare le mareggiate. Vedi video:


Bill Clinton: immigrati russi in Israele ostacolo per la pace

Dichiarazioni ex presidente americano scatenano subito polemica
New York, 22 set. (Apcom) - L'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha detto che la popolazione di immigrati in Israele dalla Russia è un ostacolo alla pace con i palestinesi, scatenando immediatamente polemiche nella comunità di immigrati russi dello Stato Ebraico. "Un numero crescente di giovani nell'esercito israeliano sono figli di russi e di coloni, le persone più fortemente contrarie ad una suddivisione del territorio. Questo presenta uno straordinario problema", ha detto Clinton ieri durante una tavola rotonda con la stampa a New York. "E' un'altra Israele. Il sedici per cento degli israeliani parla russo". Come riportato dalla rivista Foreign Policy, Clinton ha detto che gli immigrati russi sono i meno interessati tra gli israeliani ad un accordo di pace con i palestinesi. "Sono appena arrivati là, è il loro paese, si sono impegnati a costruirsi un futuro là", ha detto, "Non possono immaginare nessuna rivendicazione storica o di altro tipo che possa giustificarne la divisione". Yisrael Beiten, il partito di ultra destra formato principalmente da immigrati russi, oggi ha condannato le dichiarazioni di Clinton. "Il popolo di Israele è uno solo, e gli immigrati russi, come gli altri cittadini di Israele, aspirano ad una vera pace basata sul riconoscimento di Israele come lo stato nazione per il popolo ebraico", ha dichiarato il partito.


Israele candida all’Oscar il film tratto da un libro di Yehoshua

Un film tratto da un romanzo di A.B. Yehoshua, ‘Il responsabile delle risorse umane’ sarà il candidato di Israele al prossimo premio Oscar per la categoria del miglior film straniero. Lo ha stabilito ieri la giuria del premio cinematografico Ophir che ha preferito questa opera (del regista Eran Riklis) al suo maggiore rivale: ‘La grammatica interiore’, tratto da un romanzo di David Grossman e diretto da Nir Bergman. ‘Il responsabile delle risorse umane’ aveva già conquistato alcune settimane fa al Festival del cinema di Locarno il ‘Premio del pubblico’. Il film ripercorre, con tono ironico, le vicende del responsabile delle risorse umane di un panificio di Gerusalemme costretto ad accompagnare in Romania la salma di una dipendente, rimasta uccisa in un attentato kamikaze. Come miglior documentario la giuria del Premio Ophir ha scelto ‘Precious life’ (Una vita preziosa) del giornalista televisivo Shlomi Eldar che per mesi ha seguito la disperata lotta in un ospedale di Tel Aviv per salvare un bambino palestinese di Gaza, nei mesi antecendenti la operazione Piombo Fuso. “Un film che - secondo un critico - spezza molte idee preconcette, sia fra i palestinesi sia fra gli israeliani”.http://moked.it/


La lezione di Wiesenthal

Il quinto anniversario della scomparsa di Shimon Wiesenthal, caduto lo scorso 20 settembre, impone, innanzitutto, di rendere omaggio alla straordinaria lezione morale e civile di questo grandissimo protagonista del nostro tempo, grazie al quale la moderna civiltà dell’Europa e del mondo - se non ha, ovviamente, potuto conoscere una riparazione alla spaventosa ingiuria della Shoah - ha, almeno, recuperato un minimo di credibilità e di legittimità, mostrando come sia sempre possibile, anche di fronte al più irreparabile dei mali, credere nella Giustizia. Una Giustizia con la maiuscola, quella di Wiesenthal, e, in quanto tale, né ‘crudele’ né ‘misericordiosa’, ma unicamente sé stessa, ossia ‘giusta’: lontana, per ciò stesso, dalle due opposte forme di risposta al male che ne rappresentano, entrambe, la negazione: la vendetta e il perdono.Wiesenthal, infatti, non praticò mai il proposito della vendetta – ossia del “male contro il male” -, e falso e ambiguo è stato l’appellativo di “cacciatore di nazisti” che gli si è voluto affibbiare: i responsabili di crimini orrendi, scovati nelle loro tane e nei loro rifugi, sono sempre stati consegnati ai legittimi tribunali di Paesi democratici, ove sono stati giudicati e condannati con tutte le garanzie previste dagli stati di diritto. Le pene inflitte hanno rappresentato, rispetto al male arrecato, l’equivalente di una goccia nel mare, e non hanno certo rappresentato alcuna forma di risarcimento per i milioni di vittime della barbarie nazista: ma è proprio grazie a questa goccia, a questa incrollabile fiducia nella possibilità, almeno teorica, di un’umana giustizia, se la parola ‘diritto’, dopo la Shoah, ha conservato ancora, nonostante tutto, un significato.Ma, così come il rifiuto della vendetta, dalla lezione di Wiesenthal deriva, altrettanto forte e “non negoziabile”, il rifiuto del perdono (ossia dell’oblio, della remissione del male), che, di fronte alle vittime di Auschwitz, suona come bestemmia e profanazione. Lo ha ricordato, con particolare lucidità e fermezza, Primo Levi, il quale, più volte interrogato (e talvolta anche sollecitato, quando non implicitamente rimproverato) intorno a questo tema, ha sempre ribadito, con limpido rigore, la sua missione di fermo custode della memoria, alieno dall’odio, così come dal perdono: “non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonare alcuno”. Giudicò ‘rivoltante’, Levi, la favola della cipollina, raccontata nei Fratelli Karamazov, ove si narra che una vecchia malvagia, al momento di essere avvolta dalle fiamme dell’inferno, viene tratta in salvo dal suo angelo custode, che le porge, affinché vi si aggrappi, una cipollina, che una volta aveva donato a un mendicante (unico atto di generosità nell’intera l’esistenza): “quale mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non altri ai suoi figli, alla moglie, al cane?”. E fece sue, invece, le parole di Ivan Karamazov, nello stesso romanzo di Dostoevskij, il quale, di fronte all’episodio di un bambino fatto sbranare dai cani del padrone, come punizione per avere involontariamente offeso la zampa di un cane, così commenta: “non voglio… che la madre s’abbracci col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani!… Non voglio l’armonia: per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga, piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, di rimanere nel mio stato di invendicata sofferenza e d’implacato scontento”.Certo, l’“invendicata sofferenza e l’implacato scontento” non danno pace o consolazione (come proprio la tragica fine di Primo Levi sta a dimostrare). Ma non è compito della giustizia farlo, né rientra nelle sue possibilità. E, quanto al perdono, Wiesenthal ammonì che solo i morti possono concederlo. Che è anche l’unica riposta che può essere data a coloro che, ripetutamente, invitano, anche da alti scranni, a perdonare, “oggi per ieri”, “per procura”.
Francesco Lucrezi, storico, http://moked.it/

giovedì 23 settembre 2010

Una giornata in ricordo di Vittorio Foa

““Riflettendo su quanto si è detto oggi di mio padre, mi colpisce che ciascuno ne ha dato un'immagine diversa” ha detto Anna Foa ricordando suo padre, Vittorio Foa, in occasione di una giornata di studio che si è svolta a Montecitorio per celebrarne il centenario dalla nascita. La studiosa ha preso la parola per pochi minuti, quasi a conclusione della lunga giornata organizzata dalla Fondazione Camera dei Deputati, ed ha tracciato un volto inedito di Vittorio Foa descrivendo il dialogo che si era instaurato fra padre e figlia, negli ultimi mesi della sua vita, soprattutto su due argomenti: la storia e l'ebraismo. Anna Foa ha ricordato l'insaziabile curiosità dell'intellettuale che era sicuramente uno degli elementi del suo insostituibile ottimismo. “La storia era per lui un modo di percepire la realtà” ha chiarito la storica spiegando che suo padre era proiettato al futuro ma con la storia aveva un rapporto intimo, “mentre l'ebraismo era una parte essenziale della sua identità a cui non ha mai rinunciato” pur definendosi un ebreo assimilato. »Daniele Ascarelli e Lucilla Efrati, http://www.moked.it/

mercoledì 22 settembre 2010


Il padrino dei blogger iraniani rischia la pena di morte
Hossein Derakhshan, conosciuto anche come Hoder, è il padre della rivoluzione del blogging in Iran. Arrestato nel 2008 per aver viaggiato in Israele, è in carcere da 22 mesi e potrebbe essere presto giustiziato.
Hossein Derakhshan, nickname: The blogfather, meglio conosciuto come Hoder, il padrino dei blogger iraniani, rischia la pena di morte con l’accusa di “collaborazionismo con gli stati nemici, creazione di propaganda contro il regime islamico, insulti a santità religiose e propaganda per la creazione di gruppi anti-rivoluzionari” in un processo che è iniziato tre mesi fa.HA INSEGNATO ALL’IRAN COME BLOGGARE - Nelle parole di Jeff Jarvis del Guardian Hossein Derakhshan “ha mostrato al suo mondo come bloggare” e ha costruito ponti tra la comunità persiana e le comunità di lingua inglese, sia in Iran che in Canada, dove aveva la doppia cittadinanza. Nel 2005 si era già costruito un alto profilo come pioniere sulla scena della pro-democrazia dei media. Il suo lavoro ha promosso libertà di parola e ha aiutato gli attivisti pro-democrazia a sviluppare il loro utilizzo del web, in particolare per le tecnologie di blogging e podcasting in persiano, e per promuovere la loro causa. Le autorità iraniane gli fecero firmare le scuse per le sue opinioni divergenti quando egli lasciò il paese nel 2000 e censurarono il suo blog dal 2004. Dopo, la sua storia è diventa un po’ curiosa: i suoi scritti hanno spesso difeso il programma nucleare iraniano e lo sviluppo delle politiche del presidente Mahmoud Ahmadinejad, verso gli Stati Uniti, ma bisogna capire che era anche accusato di spionaggio dopo aver trasgredito il divieto imposto dall’Iran di viaggiare in Israele.NON SIAMO TUTTI AHMADINEJAD - Secondo il gruppo Pen per la libertà di stampa, Hoder aveva scritto sul suo blog ormai offline, Hoder.com, che il suo viaggio aveva lo scopo di “umanizzare Israele per gli iraniani e per mostrare loro che non è quello che la macchina di propaganda islamica afferma e cioè che gli israeliani sono assetati di sangue musulmano … e per dimostrare ad Israele che l’ iraniano medio non penserebbe mai di fare un danno a Israele. Voglio che vedano che gli iraniani non assomigliano ad Ahmadinejad“. Global Voices, per il quale Derakhshan ha scritto diversi pezzi, denuncia che il governo canadese non è intervenuto quando Derakhshan è stato arrestato nel 2008 e che vi sono diversi altri blogger in carcere in Iran. Il rapporto dice anche che quella visita in Israele è sospettata di essere la causa principale della sua detenzione .AYATOLLAH-BLOGGER - Come da lui stesso scritto su Global Voices, anche l’allora 80enne Ayatollah Montazeri acquisiva rapidamente dimestichezza con la rivoluzione del blogging e aveva chiesto durante una vistita all’ ex vice presidente e appassionato blogger Mohammad Abtahi come avesse creato il suo blog. “Ogni volta che tu vedi adolescenti, vecchi ayatollah dissidenti fare la stessa cosa, devi sapere che si tratta di una cosa popolare“, aveva scritto. La famiglia Derakhshan ha rifiutato di parlare ai media del processo di Hossein, nella speranza che questo possa favorire una pena più lieve. Le autorità iraniane non hanno commentato il caso e non vi è stata pertanto una copertura mediatica fin dal suo arresto nel 2008. La sua famiglia e gli amici hanno attivato una campagna per la sua liberazione su un blog che però non è aggiornato da aprile, ma i supporters possono contattare l’ambasciata canadese in Iran (teran@international.gc.ca) e spingere per l’azione.


Gaza: Sparati 3 colpi di mortaio verso il sud di Israele

L’azione è stata rivendicata dai miliziani dei Comitati di Resistenza Popolare. I tre colpi di mortaio sono finiti fortunatamente in zone disabitate nel deserto del Neghev. Il Comitato di Resistenza Popolare ha fatto sapere di aver mirato contro una pattuglia militare israeliana che si trovava in servizio lungo il confine, l’azione però non ha causato né morti e né feriti.21.9.2010


Israele: sempre in coma, l’ex premier Sharon torna a casa

In coma profondo dal gennaio 2006, l’ex premier Ariel Sharon (82 anni) sarà presto trasferito dal Centro medico Shiba di Tel ha-Shomer (Tel Aviv) nella sua residenza privata, la Fattoria dei Sicomori nel deserto del Neghev settentrionale. Lo riferisce oggi il quotidiano Yediot Ahronot, secondo cui nella abitazione di Sharon è stato già installato un ascensore per facilitare lo spostamento del suo letto dal piano di ingresso al piano superiore, dove si trova la stanza da letto. Il giornale spiega che sono stati i figli Ghilad ed Omri a chiedere ai medici di Sharon di trasportarlo nella sua fattoria, un luogo dove, anche quando era premier, Sharon amava tornare al termine delle giornate di lavoro a Gerusalemme. In un campo della fattoria è sepolta la moglie Lili.Secondo Yediot Ahronot la permanenza di Sharon nel suo ranch avrà un carattere sperimentale e sarà di breve durata. In questo lasso di tempo i medici verificheranno se sia possibile creare per lui le condizioni necessarie per consentirgli di tornare definitivamente nella propria abitazione.22 settembre 2010, http://www.blitzquotidiano.it/


Vaticano

Nuovo incontro Santa Sede – Israele per la tutela dei Luoghi santi e lo statuto fiscale

di Arieh Cohen, 22/09/2010 http://www.asianews.it/
Come è ormai tradizione, l’incontro è avvenuto in modo “cordiale” e segnando “progressi”. Ma nel comunicato congiunto non si citano le date degli incontri futuri, che erano state concordate.
Tel Aviv (AsiaNews) - Le Delegazioni della Santa Sede e dello Stato di Israele hanno tenuto ieri in Israele una riunione di lavoro. Esse sono incaricate di produrre un terzo trattato tra le Parti, questa volta a conferma dello storico statuto fiscale della Chiesa e a tutela dei Luoghi Santi. Al termine della giornata di lavoro, la Commissione bilaterale, che è la somma delle due Delegazioni, ha rilasciato questo Comunicato congiunto:“La Commissione permanente e bilaterale di lavoro fra la Santa Sede e lo Stato di Israele si è incontrata il 21 settembre 2010 per portare avanti la sua agenda di lavoro riguardo all’articolo 10, par.2 dell’Accordo Fondamentale (1993). I dialoghi si sono svolti in un’atmosfera cordiale e hanno prodotto progressi verso l’accordo desiderato”.Non vi è l'indicazione della data del prossimo incontro a questo livello "di lavoro", e non si accenna alla prossima riunione Plenaria, che pure è stata decisa in modo bilaterale lo scorso mese di giugno, in Vaticano, per il 6 dicembre prossimo, presso la sede del Ministero degli Esteri di Israele.


Israeliani e palestinesiinsieme nel salotto di Bill

L'ex presidente lancia la sfida "Parliamoci come se la pace fosse già stata raggiunta"
M.Molinari, 22/9/2010,http://www.lastampa.it/
Abu Mazen e Benjamin Netanyahu sono ai ferri corti sulla moratoria degli insediamenti, il prossimo summit negoziale ancora non è fissato, a New York Shimon Peres vede il collega palestinese quasi di nascosto e i portavoce di Hillary Clinton tradiscono incertezza sulle prossime tappe della trattativa. Il debutto della settimana di lavori all’Onu è segnato dai timori che l’appena lanciato negoziato israelo-palestinese stia per collassare ma a ridare fiato alla speranza di successo ci pensa Bill Clinton con una sorta di colpo di teatro internazionale.Il palcoscenico è quello della riunione annuale della Global Initiative, la mini-Onu che l’ex presidente convoca in un hotel di Midtown, e in particolare la sala «New York West» dove a sedersi assieme sono il presidente israeliano Peres, il premier palestinese Salam Fayyad e il principe ereditario del Bahrein Salam Bin Hamad Al-Khalifa. E’ Clinton ad accoglierli, sfidandoli a discutere «come se l’accordo di pace definitivo fra Israele e palestinesi fosse stato firmato ieri». Se l’ex presidente punta sulla simulazione della pace è perché convinto che «a dieci anni dal fallimento di Camp David siamo davvero vicini all’accordo, tutti sanno quale sarà e c’è il 50% di possibilità di raggiungerlo». A precipitare nel futuro il pubblico di plenipotenziari in sala - dagli ambasciatori arabi al ministro della Difesa israeliano Ehud Barak - è la stretta di mano fra al-Khalifa e Peres, il Bahrein infatti è uno dei numerosi Paesi arabi che ancora non riconosce l’esistenza di Israele.Clinton vuole dimostrare che si può discutere del Medio Oriente «con la pace già alle nostre spalle». Fayyad raccoglie la sfida: «Se avessimo celebrato ieri la nascita dello Stato di Palestina oggi sarei a lavoro per creare uno spazio economico unico perché tutte le nazioni del Medio Oriente sono legate». Peres lo segue nella simulazione: «Adesso che abbiamo fatto la pace, dobbiamo dare da mangiare a chi non ha cibo nei nostri Paesi e anziché rincorrere il nucleare come fa l’Iran costruendo migliai di centrifughe è il momento di sviluppare l’energia assieme sfruttando il Sole, che è un reattore democratico perché appartiene a tutti». Clinton corre in avanti: «E’ il momento di far nascere una comunità economica avanzata che includa Libano, Egitto, Siria, Israele, Palestina e Emirati del Golfo». Il principe ereditario del Bahrein ammette di «toccare il futuro con un dito» ma poi è lui a riportare tutti alle difficoltà del presente: «Ciò che ci tiene lontani da queste prospettive è l’assenza di pace, dobbiamo raggiungerla».Il riferimento è ai due nodi più difficili del momento: la moratoria israeliana degli insediamenti scade fra il 26 e il 30 settembre e Abu Mazen minaccia di abbandonare il negoziato se non sarà rinnovata mentre Netanyahu ribatte che i palestinesi devono «riconoscere il carattere ebraico di Israele». La replica di Abu Mazen, via agenzie di stampa, è sprezzante: «Se volete chiamatelo pure Impero Sionista Ebraico d’Israele». Tutto si rovescia all’improvviso sul palco della Global Initiative e Clinton commenta con sarcasmo: «C’è una mia parente stretta che sta lavorando sodo per riuscirci». La replica di Peres è: «Bisogna occuparsi anche della bomba nucleare dell’Iran, è la più grande minaccia sulle nostre speranze di un Medio Oriente in pace». Il premier Fayyad e il principe tacciono, tocca così a Bill superare l’attimo di gelo, rilanciando la sfida a immaginare il futuro. E lo fa parlando di «una nuova generazione di macchine elettriche sulle autostrade dal Cairo a Gerusalemme fino a Damasco». Quando cala il sipario la platea di addetti ai lavori sprigiona un lungo applauso liberatorio. Per aver vissuto, almeno per 60 minuti, in un Medio Oriente dove si parla della pace usando il passato prossimo.


Onu/ Paesi Ue pronti lasciare aula se Ahmadinejad attacca Israele

Al suo intervento, comunque, mancheranno funzionari alto livello
New York, 22 set. (Apcom) - Pronti a lasciare l'Aula, se Mahmoud Ahmadinejad farà discorsi negazionisti. Gli Stati dell'Unione europea hanno deciso di comune accordo che tutti i loro rappresentanti lasceranno l'Assemblea generale, se il presidente iraniano pronuncerà parole contro Israele nel suo discorso, atteso fra poco. Lo hanno reso noto fonti della Farnesina. I rappresentanti di alto livello degli Stati europei, comunque, non assisteranno al discorso di Ahmadinejad.


Sderot

Netanyahu: "in caso di accordo, popolo dovrà decidere"

Premier pronto a discutere progetto su referendum Sderot (Israele), 21 set. (Apcom) - Il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che il popolo israeliano dovrà dare il suo placet, in caso di un accordo di pace con i palestinesi. "Se troviamo un accordo, è chiaro che lo sottoporremo al popolo perchè decida in un modo o in un altro", ha detto Netanyahu a dei giornalisti, nel corso di una visita nelle città israeliane di Sderot e di Ashkelon. Secondo quanto riportato ieri sera dalla seconda emittente privata israeliana, Netanyahu avrebbe assicurato il suo sostegno ad un progetto di legge che prevede l'organizzazione di un referendum su un eventuale accordo concluso con i palestinesi. Questo progetto di legge proposto da Ofir Akunis, un deputato del Likud di Netanyahu, è stato depositato in Parlamento la settimana scorsa. Secondo l'emittente, il Primo ministro israeliano ha chiesto che il testo venga esaminato alla Knessat nella prossima sessione che apre ad ottobre. Israele e i palestinesi hanno ripreso il 2 settembre dei negoziati di pace diretti. (con fonte Afp)


Onu/ Frattini boccia Sarkozy,abbraccia Israele, è duro con...

Fiducia sui colloqui di pace espressa anche da comunità ebraica
New York, 21 set. (Apcom) - "La posizione dell'Italia? Diciamo che ci vuole un'iniziativa condivisa, non si può adottare unilateralmente. Preferisco una proposta seria globale. A tutti, per esempio, piace ridurre l'inquinamento del mondo - ha aggiunto Frattini - ma se Cina, India e Stati Uniti non partecipano, l'inquinamento non si riduce ed è inutile che ne parliamo da soli noi europei a Bruxelles", ha concluso. Il ministro ha poi incontrato i rappresentanti della comunità ebraica, con cui ha discusso dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi. Frattini ha ribadito la necessità di prorogare il congelamento delle colonie in Cisgiordania e, da parte palestinese, quella di garantire la sicurezza dello Stato d'Israele. Fiducia è stata espressa sull'esito dei colloqui, oltre che da Frattini, anche dai rappresentanti della comunità ebraica, che hanno elogiato il lavoro del presidente dell'autorità palestinese, Abu Mazen. Frattini ha poi dichiarato che l'Europa deve giocare un ruolo di primo piano, facendo poi da garante all'accordo che israeliani e palestinesi si sono impegnati a raggiungere entro un anno. A proposito di Iran, toccato il discorso delle sanzioni - che stanno già dando i primi risultati - su cui bisogna essere duri, e del rispetto dei diritti umani, con la comunità internazionale che deve continuare a insistere, ha affermato Frattini, come per il caso di Sakineh. Ribadita, poi, la necessità di non tollerare nessun discorso negazionista e contro l'esistenza di Israele.


Atlit: campo prigionia inglese

Voci a confronto

Ancora commenti sul caso svedese in cui la destra di governo ha sconfitto per la seconda volta la sinistra ed è entrato in parlamento il Partito Democratico, che fa della limitazione dell’immigrazione il primo punto del proprio programma. La maggior parte dei giornali (per esempio Zatterin sulla Stampa, in parte Giardina su Giorno-Carlino-Nazione, El mundo) mette insieme indiscriminatamente questa affermazione elettorale con quella recente di Wilders, con il vecchio e tramontato movimento di Heider in Austria e con il partito antisemita che ha avuto un inaspettato successo l’anno scorso in Ungheria. In realtà si tratta di offerte politiche assai diverse, Wilders per esempio è un liberale amico di israele, il partito svedese si proclama fedele ai valori della democrazia, anche se vi sono ombre sul suo passato, in Belgio vi è stata un’affermazione della destra tradizionale, in Italia la Lega può essere antipatica a molti ma è difficile sostenere davvero che abbia radici fasciste. Il fatto è che queste diverse offerte politiche rispondono alla stessa domanda politica da parte dell’elettorato, che è quella di non essere espropriati del modo di vivere e dei valori dell’Occidente in nome di un terzomondismo che di fatto importa con l’immigrazione disoccupazione, violenza, oppressione delle donne, antisemitismo, senza risolvere affatto i problemi dei paesi da cui provengono gli immigrati. E quel che mette in evidenza un utile articolo della redazione del Foglio sul caso svedese, che cita il caso di Malmoe, la città svedese di fronte alla Danimarca, che si èp trasformata in un gigantesco e ingovernabile campo profughi islamico, da cui la comunità ebraica sta fuggendo in seguito a violenze e minacce non contrastate da un sistema politico ideologicamente complice e ricattabile elettoralmente.In Medio Oriente sembrano venire al pettine i nodi della trattativa. Abu Mazen, che come sempre pretende di avere il risultato prima di iniziare a discutere e senza dare nulla in cambio, ha detto che se il blocco delle costruzioni negli insediamenti in Giudea e Samaria non prosegue, abbandonerà immediatamente il negoziato, minacciando anche di dimettersi e di scatenare il caos (notizia su L’Unità, Repubblica, Liberal): un bel regalo per Hamas. A New York, in occasione della sessione dell’Onu, il presidente turco Gul si è rifiutato di incontrare Shimon Peres (Il manifesto): altro bel sogno di pacificazione propiziato dagli americani che sembra svanire. Da leggere con molto interesse il dossier dedicato dal “Financial Times” alla gigantesca vendita di armi che l’amministrazione americana ha realizzato nel golfo per contenere l’Iran e alle sue conseguenze strategiche, economiche, sociali (sono quattro articoli rispettivamente di Naimeh Bogorzmer, Roula Kalaf, James Drummond, Abeer Allam). Molto interessante anche l’analisi del Wall Street Journal dedicato ai rapporti difficili fra India e Iran. Da leggere infine la rievocazione di due grandi ebrei antifascisti (Leo Valiani e Vittorio Foa) nell’anniversario della loro scomparsa, pubblicato su Liberal. Ugo Volli, http://www.moked.it/


Israele, video su You Tube simula l’esecuzione di Shalit

Tel Aviv, 21 set,Profondo sdegno in Israele per un filmato divulgato da You-Tube in cui viene simulata la esecuzione da parte di due miliziani palestinesi col volto coperto di Gilad Shalit, il caporale israeliano prigioniero di Hamas dal giugno 2006. Il filmato mostra la immagine di Shalit (ricavata da un filmato precedente) mentre si trova dietro a un tavolo, fra due miliziani armati. Dopo qualche istante la immagine viene oscurata e si sentono un fucile mentre viene caricato e poi la esplosione di diversi colpi.”La famiglia Shalit - ha reso noto un suo portavoce, riferendosi alla possibilità di uno scambio di prigionieri - nota con dolore che piuttosto di interessarsi della sorte di centinaia di palestinesi detenuti in Israele, parte dei quali potrebbero essere da tempo nelle proprie abitazioni, i dirigenti di Hamas preferiscono tenere nostro figlio in ostaggio delle loro aspirazioni politiche”. Con questo comportamento, aggiunge la famiglia di Shalit, “commettono un crimine di guerra continuato nel tempo” ed “indulgono in un genere particolarmente abietto di guerra psicologica”. Ieri da Gaza il braccio armato di Hamas, Brigate Ezzedin al-Qassam, ha reso noto di essere estraneo a questo filmato. Ma in Israele si pensa che dietro ad esso ci siano esponenti di Hamas specializzati nella guerra psicologica. I principali quotidiani israeliani hanno deciso di ignorarlo del tutto. Fa eccezione il filo-governativo Israel ha-Yom, che titola vistosamente in prima pagina ‘Carogne’, riferendosi a Hamas. In un commento sul nuovo filmato, l’ex capo dell’intelligence Yaakov Amidror ricorda ai dirigenti di Hamas che la incolumità di Shalit è per loro “una polizza di assicurazione”. Se il prigioniero fosse passato per le armi, prevede Amidror, Israele potrebbe tornare “con grande foga” alla prassi delle esecuzioni mirate dei dirigenti di Hamas. http://www.moked.it/



kibbutz Baram

Qualche domanda aspettando il Congresso

Tra poche settimane l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si riunirà in congresso; tra gli argomenti più importanti c’è una possibile riforma dello statuto che ridefinisce Consiglio e Giunta, ripensa i rapporti con il rabbinato, riforma la legge elettorale nelle comunità di Roma e Milano. Al momento si discute soprattutto sul primo punto, per via della consueta diatriba tra le «grandi» e le «piccole» comunità. Vorrei a questo proposito sottolineare tre aspetti.Primo. Parlare di comunità grandi e piccole come se fossero un monolite rischia di essere fuorviante. Mentre a Roma e Milano la competizione elettorale sempre più politicizzata acuisce divisioni e contrasti, e rende così difficile l’elaborazione di un obiettivo comune, nelle realtà più piccole i problemi sono spesso assai specifici e dunque difficilmente condivisibili con altre realtà.Secondo. I soldi garantiti dall’otto per mille non sono un patrimonio degli ebrei italiani. Sono una spia del rapporto tra la nostra minoranza e la società circostante: non a caso i dati delle dichiarazioni dei redditi forniscono un quadro interessante e complesso. In molte aree di Italia prive di comunità ebraioche vi sono numeri significativi di persone che scelgono l’UCEI, mentre, per esempio, a Roma la quota è sensibilmente più bassa. Il primo problema per un leader ebreo è di ampliare complessivamente il gettito dell’otto per mille, ovvero di migliorare il rapporto tra ebrei e società. Solo in un secondo momento ha senso discutere della ripartizione.Terzo. Uno degli argomenti «contro» le piccole comunità è che queste siano ormai piene di monumenti e prive di ebrei. In alcuni casi purtroppo è vero. Ma siamo sicuri che sia questa la prospettiva da assumere? Un ebraismo italiano senza piccole comunità potrebbe ancora definirsi «italiano»? I rapporti tra istituzioni ebraiche e istituzioni civili non sarebbero compromessi da una riduzione del numero delle comunità, poniamo, del cinquanta per cento? In un discorso di sistema – che dovrebbe valere anche sul piano della comunicazione, del peso politico, della diffusione di idee e valori – l’interazione tra comunità grandi e piccole è fondamentale, e in questa direzione sembrerebbe andare la proposta di riforma. Una divisione di campanile è deleteria, tanto più che anche Roma e Milano, purtroppo, non sono poi così grandi.Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas


antico ghetto romano
XX settembre - Gli Ebrei di Roma dal Ghetto all’Emancipazione

“Questo è il giorno di annunzio … Giorno in cui il Signore ha tratto il suo popolo fuori dal crogiolo delle sofferenze, portandolo da schiavitù in libertà, per mezzo del Suo servo, il fido, alto ed eccelso Vittorio Emanuele re d’Italia. Questi raccolse il suo esercito, venne e assediò Roma e combatté finché la città non cadde”, scriveva il 20 settembre 1870 nel suo libro di famiglia Angelo Citone, uno dei maggiorenti della Comunità romana. L’evento era reso dallo studioso Abraham Berliner, testimone attento dei primi anni dell’emancipazione a Roma e autore nel 1893 della prima ricostruzione storica della vita degli ebrei di Roma, con un’immagine forte, quella dei “muri del Ghetto” che “crollano al suono delle trombe della libertà”. Di suonare questa tromba, il generale Cadorna, sembra per evitare la scomunica ad un ufficiale cattolico, incaricò un ufficiale di artiglieria ebreo, il piemontese capitano Segre, la cui tomba nel cimitero ebraico di Chieri porta scolpiti due cannoni incrociati.Il venti settembre 1870, la fine del potere temporale dei papi significò infatti, per i circa quattromilasettecento ebrei romani (circa il 2,2% dell’intera popolazione) l’ottenimento dell’emancipazione, che già era stata raggiunta dagli ebrei del resto d’Italia tra il 1848 e il 1859, seguendo il percorso dell’unificazione italiana. Profondissimi sono infatti i nessi tra emancipazione degli ebrei italiani e Risorgimento, nessi che segnano tanto il carattere dell’emancipazione ebraica che quello della creazione del nuovo Stato italiano. L’ottenimento dell’uguaglianza da parte degli ebrei italiani, e con loro dei valdesi e delle altre minoranze religiose che accompagna il processo di costruzione dell’Italia unita non ne rappresenta infatti una sorta di conseguenza marginale ma ne segna profondamente il percorso, divenendone, con il connesso principio della tolleranza di tutti i culti religiosi e poi con quello dell’uguaglianza dei culti di fronte alla legge, uno dei pilastri basilari. Era un Risorgimento che poteva ispirare a Moses Hess, nel suo Roma e Gerusalemme, l’idea che la rinascita del popolo ebraico potesse modellarsi sulla costruzione nazionale italiana e che nel 1918, molto più tardi ma nello stesso spirito, avrebbe spinto Dante Lattes a definire l’irredentismo il sionismo d’Italia e il sionismo l’irredentismo d’IsraeleIl 25 settembre 1870, la Comunità ebraica romana inviava a Vittorio Emanuele II un indirizzo di saluto e di adesione al nuovo Stato italiano: “ Noi ricordiamo qui ora il nome di Israeliti per l’ultima volta nel momento che passiamo da uno stato di interdetto legale al santo regime d’uguaglianza civile.. Ma retti dal vostro scettro costituzionale noi fuori dai nostri templi non ci ricorderemo d’essere e non saremo che Italiani e Romani”. Samuele Alatri, uno dei più autorevoli membri della Comunità, prese parte alla delegazione che l’11 ottobre presentò al re il risultato della plebiscito del 2 ottobre sull’unione di Roma al Regno d’Italia. Contemporaneamente, lo Statuto Albertino, e con esso l’uguaglianza di tutti i sudditi, ebrei compresi, era esteso a Roma. Era la piena emancipazione. Samuele Alatri e Settimio Piperno furono nel novembre eletti al Consiglio Comunale. Nel 1874 Samuele Alatri, che poi sarebbe stato presidente della ricostituita Comunità Israelitica, fu eletto alla Camera nelle fila della Destra. Entravano così nella società civile ed ancor più nella politica i primi esponenti di una minoranza, quella ebraica, che aveva fatto parte fin dalle origini della Roma papale ma che in questa società aveva vissuto in uno statuto di codificata subordinazione ed inferiorità, aggravata a metà Cinquecento dalla costruzione di quel ghetto, chiuso da mura e portoni, serrato dal tramonto all’alba, che aveva rappresentato un progressivo ma sensibilissimo peggioramento della sua condizione e delle sue possibilità.Ricordiamolo, il ghetto era stato creato da papa Paolo IV Carafa nel luglio 1555, solo due mesi dopo la sua assunzione al pontificato, con la bolla Cum Nimis Absurdum, che sanciva una rigida segregazione del quartiere degli ebrei non nella sola Roma, ma in tutti i luoghi dello Stato della Chiesa in cui vivevano ebrei. Il ghetto era di dimensioni assai ridotte, molto più di quanto normalmente non ci si immagini, per una popolazione ebraica che giunse in alcuni periodi fino a raggiungere le cinquemila persone. In tutto erano circa tre ettari: uno spazio trapezoidale lungo 270 metri circa verso il Tevere, 180 dall’altra parte, per una profondità di 150 metri circa. Quando lo spazio dove sorgeva fu riedificato, tra la fine del secolo e l’inizio del Novecento, vi è stato spazio per quattro isolati: quello del Tempio Maggiore, e gli altri tre isolati intorno, uno di palazzine liberty su via Catalana, gli altri due rispettivamente l’edificio delle scuole (oggi le scuole ebraiche) e l’edificio umbertino di appartamenti che si apre su Via Portico d’Ottavia. Il muro correva tagliando orizzontalmente in due l’attuale via Portico d’Ottavia.La ghettizzazione corrisponde ad una fase in cui la Chiesa ha deciso, dopo secolari esitazioni e cautele, di sbarazzarsi una volta per tutte della presenza di una minoranza al suo interno: sbarazzarsene non secondo il modelle delle monarchie europee, con l’espulsione, ma attraverso la conversione. Un’impostazione ideologica che è ciò che differenzia il fenomeno della ghettizzazione, tipico dell’Italia tra Cinque e Seicento e solo di questa, da altre forme simili di vita obbligata in quartieri separati conosciute dagli ebrei europei, come in Spagna prima dell’espulsione o in alcune città della Germania. Una conversione da ottenersi, ancora una volta, non sulla punta della spada, come nella penisola iberica, ma con la persuasione, anche se si trattava di una persuasione pesante: l’inasprimento delle condizioni di vita, la chiusura anche materiale degli spazi, le pressioni psicologiche, l’appesantimento delle imposte. Una semi-prigione, solo notturna ma munita di portoni, di mura e di guardiani, che gli ebrei potevano lasciare solo attraverso un esilio definitivo. Di tutti i ghetti italiani, quello romano è, data la sua vicinanza non solo alla città di Roma ma anche alla Roma centro della cristianità, il più segnato dal controllo, dall’esercizio di una pressione, quella verso le braccia aperte della Chiesa, continuamente rinnovata e reinventata. Una pressione tuttavia, che portò senz’altro a rendere il fenomeno delle conversioni un fenomeno incisivo e assai presente, ma che non portò al suo obiettivo, la conversione collettiva degli ebrei, la scomparsa dell’unica minoranza presente in seno al mondo cattolico. La spinta, provocata ed acuita dalla pressione esterna, al mantenimento a tutti i costi degli equilibri interni dette come risultato una forte stabilità della società del ghetto, nonostante e forse proprio a causa della sua fragilità. Stabilità che poteva avere i suoi lati positivi, ma che sul lungo periodo divenne soprattutto immobilismo, incapacità di rinnovarsi, chiusura. La Chiesa non riuscì a sbarazzarsi, convertendola, della sua minoranza, ma riuscì senz’altro a tenerla in uno stato di arretratezza e di chiusura.A partire dalla metà del XVIII secolo, rompendo gli equilibri precedenti, l’atteggiamento della Chiesa si fece però sempre più ostile, identificando sempre più gli ebrei con il mondo moderno. Proprio la modernizzazione della società esterna (anche se Roma non ne è certo il punto più avanzato) rende sempre più le mura del ghetto una sopravvivenza. Nel 1775, un editto di Pio VI ribadisce nella loro forma più rigida le norme di istituzione del ghetto, appesantendole ulteriormente. La Repubblica Romana del 1798-99 e l’età napoleonica vedono l’apertura del ghetto e l’introduzione delle leggi della Rivoluzione sull’uguaglianza dei cittadini. E’ l’emancipazione, anche se di durata brevissima, tanto che, quando la Restaurazione li rinserra nelle mura del ghetto, nulla vi è cambiato realmente. Ma gli ebrei amici dei lumi e della modernità che la Chiesa comincia a temere nel Settecento sono unicamente frutto del suo immaginario. La situazione reale del ghetto è, nel suo insieme, tutt’altra. Pochi, giusto tre o quattro maggiorenti delle famiglie più importanti, sono i “giacobini” nel 1798. E quando, con i moti del 1830-31 e poi con il progredire del movimento risorgimentale, il mondo ebraico italiano vi aderisce e vi ripone le speranze in un futuro di eguaglianza e libertà, gli ebrei romani che vi partecipano non sono la maggioranza. E se troviamo un notevole numero di ebrei fra i membri della Repubblica romana e fra i suoi difensori, sono ebrei del resto d’Italia, come il medico triestino Giacomo Venezian, o addirittura ebrei giunti dal resto d’Europa. Impoverita al massimo, timorosa delle novità, la comunità romana si caratterizza come “giacobina” più che nella realtà, a parte alcuni maggiorenti comunitari, nell’immaginario della Chiesa. Ma tutt’ altro che moderno, negli anni che precedono il 1870, è nel suo insieme il ghetto di Roma, privo ormai dal 1848 di porte e portoni ma ancora retto dalle antiche norme. Le testimonianze che abbiamo sono molto significative. Così, Massimo d’Azeglio nel 1848 ci parla di un “ammasso informe di case e tuguri”, mentre la bellissima pagina del Gregorovius, del 1853 (Passeggiate romane) che avete appena ascoltato descrive le cucitrici del ghetto che sulla soglia delle case per trovarvi un poco di luce si strizzano gli occhi sui ricami e i rammendi.Alla vigilia del 1870, la povertà era diffusissima, tanto che nel 1869 quasi metà della Comunità, duemila persone, erano iscritti alla lista dei poveri per le elemosine settimanali. A tale povertà si contrapponeva, in una forbice sociale accentuata, una ristretta élite di poco più di un centinaio di contribuenti , che concentravano nelle loro mani l’intera ricchezza della Comunità.In tale contesto, non c’è da stupirsi che lo sfasciarsi della struttura comunitaria con il 1870 abbia provocato una grave crisi nel mondo ebraico romano. Una crisi indotta non dall’emancipazione in sé, ma dal sommarsi della miseria e dell’arretratezza del periodo precedente l’emancipazione agli inevitabili costi della modernizzazione.
A partire dagli anni Ottanta, in realtà, agli elementi di crisi si affiancano i primi germi di una rinnovata e in alcune forme nuova attività comunitaria. La crisi più forte è, in questi anni, provocata dalla demolizione e dalla ricostruzione del ghetto, che toglie di sotto i piedi degli ebrei di Roma la scena stessa su cui si sono mossi da secoli, il loro territorio. Le demolizioni, in attuazione del piano regolatore di Roma Capitale del 1873, iniziano nel 1885, e terminano nello spazio di un anno. il quartiere sarà ricostruito completamente, così come lo vediamo nel 1911. Per gli abitanti dell’antico ghetto, è il trasferimento, un terribile trauma. Una parte delle famiglie si sposta nelle zone circostanti, le famiglie più povere verso Trastevere e San Cosimato, le famiglie più facoltose si spostano verso i quartieri borghesi di via Nazionale, il Viminale, l’Esquilino, dove nel 1914 sarà inaugurato il tempio di via Balbo. Il progetto, concordato tra Comune di Roma e Università degli ebrei, ebbe il plauso dei dirigenti comunitari, comunque preoccupati di “evitare a quelle viventi infelici testimonianze di un doloroso passato scosse rudi e repentine (Samuele Alatri nel 1885, in Migliau).Nel 1904, l’inaugurazione del Tempio maggiore si pone come un segnale forte di inizio per gli ebrei romani di una nuova era di integrazione e di libertà. Raggiunta l’uguaglianza, innalzato una sinagoga alta, come le leggi del diritto canonico e ancor prima quelle romane avevano loro impedito di fare, gli ebrei potevano sentirsi a pieno titolo cittadini della città di cui si consideravano anche, e non a torto, i più antichi abitanti. Nel 1907 divenne per ben sette anni sindaco di Roma un ebreo, Ernesto Nathan, a significare quanto questa integrazione fosse ormai avanzata.
Nel 1938, quando le leggi razziste imposero agli ebrei uno statuto di assoluta inferiorità, che da una parte riportava indietro le lancette della storia al periodo che precedeva l’emancipazione e dall’altra preludeva allo sterminio che i nazisti avrebbero realizzato, gli ebrei romani erano emancipati da meno di settant’anni, alcuni di loro avevano visto bambini il ghetto. Era una generazione in meno, rispetto agli altri, una generazione in meno di uguaglianza, di diritti civili, di voto, di scuole pubbliche. Essi venivano inoltre, da un ghetto durato molto più a lungo della maggior parte degli altri ghetti, oltre tre secoli contro, ad esempio, i centocinquanta anni del ghetto di Torino. La maggior parte degli ebrei romani viveva ancora nello spazio che era stato quello del ghetto, o tutto intorno. Il ghetto non c’era più, ma se ne sentiva ancora il sapore, era come un fantasma. La coesione sociale vi era ancora ben salda, tutti si conoscevano per nome o per i frequentissimi soprannomi, che aiutano a districarsi nel ripetersi degli stessi nomi. Quanti vivevano del piccolo commercio al minuto non avevano i mezzi per lasciare l’Italia, ma l’idea, nella maggior parte dei casi, nemmeno li sfiorò. All’inizio, nell’autunno 1938, mentre gli ebrei che lavoravano nell’amministrazione statale, i professori erano cacciati tambur battente dal loro lavoro, mentre i liberi professionisti, i giornalisti, gli imprenditori subivano le conseguenze delle leggi antiebraiche, la maggior parte degli ebrei romani, negozianti, venditori ambulanti, non fu toccata che marginalmente. Certo, anche qui i bambini, gli studenti furono immediatamente cacciati dalle scuole dallo zelo antisemita del ministro Bottai. Un trauma incancellabile, appena ammorbidito dalla creazione di una scuola media ebraica. Non si potevano avere donne di servizio “ariane”, ma gli ebrei del ghetto ne avevano ben poche, e non si poteva andare in villeggiatura, ma quale venditore ambulante, quale dei tanti venditori di articoli religiosi cattolici, i madonnari, andava in vacanza? Il piccolo commercio continuò fino al 1940, consentendo al ghetto di sopravvivere. Poi, con lo scoppio della guerra, qualche burocrate pensò che il commercio degli ebrei rappresentasse un pericolo per la sicurezza italiana, e lo vietò riducendo alla fame la maggior parte degli ebrei romani. Fu questo, più delle leggi del 1938, il grande trauma della Comunità romana.
Dal 1942, sull’onda di una campagna volta a mostrare negli ebrei dei parassiti che vivono nell’ozio mentre gli ariani danno il sangue per la patria, gli ebrei sono costretti al lavoro obbligato. Spalano terra sul greto del Tevere, un lavoro inutile, senza scopo. Nel 1943, l’armistizio e la successiva invasione nazista colgono impreparata la Comunità. Si pensava che gli angloamericani stessero per arrivare, che Roma fosse difesa, che la qualifica di “città aperta” e la protezione papale proteggessero i suoi ebrei, ed infine ci si fidò della parola dei tedeschi, quando chiesero 50 chili d’oro in cambio della salvezza degli ebrei romani. E di nuovo è il territorio del ghetto, quello che ghetto non è più dal 1870, lo spazio principale della razzia del 16 ottobre, anche se, muniti dei loro elenchi, i nazisti si recarono quella mattina in tutta la città a arrestare gli ebrei. 1259 gli ebrei catturati, portati nei locali del Collegio Militare, in via della Lungara. Dopo la liberazione dei non ebrei e dei “misti”, restarono 1022 persone, che la mattina del 18 ottobre furono caricati su autocarri, portati alla stazione Tiburtina, e stipati in un convoglio di 18 carri bestiame, piombati. Il convoglio non era diretto ad un campo di raccolta, come diventerà usuale più tardi, ma direttamente ad Auschwitz, dove arrivò dopo 6 giorni, il 22 ottobre, e dove restò ancora chiuso sui binari fino alla mattina di sabato 23 ottobre. Poi iniziò la selezione. 839 di essi furono mandati subito alle camere a gas, una percentuale dell’82%, più alta del normale.La razzia romana del 16 ottobre fu la prima razzia di vasta scala compiuta dai nazisti in Italia e anche l’ultima compiuta a Roma, dal momento che dopo il 16 ottobre gli ebrei abbandonarono le loro case e passarono a vivere nascosti, e furono quindi arrestati alla spicciolata, e dal momento che dal novembre gli arresti furono delegati dai nazisti ai militi della Repubblica di Salò. Gli ebrei romani si nascosero, in casa dei amici ariani, in conventi, istituti religiosi, chiese, che aprirono largamente e generosamente le porte ai perseguitati. Fu il periodo in cui metà dei romani nascondeva l’altra metà. Molti dei mille e ebrei arrestati a Roma nei mesi seguenti furono individuati per strada, per una delazione, per un’imprudenza. Ma la prima imprudenza, quella del 16 ottobre, quando gli ebrei romani restarono nelle proprie case ad aspettare la razzia nazista, o al massimo mandarono a dormire fuori gli uomini giovani (e infatti la maggior parte degli arrestati sono donne e bambini) si spiega anche con l’idea, che si rivelò errata, che lo spazio della città, città aperta, fosse una sorta di spazio protetto. Che sotto le finestre del papa, nulla poteva accadere agli ebrei. Molti sono i motivi per cui quest’idea si rivelò errata, alcuni reali, altri di opportunità politica, e non è il caso di riprendere qui un’annosa e fossilizzata polemica. Ma se gli ebrei vedevano nel papa il loro protettore, è perché per essi non era ancora rotto quella sorta di cordone ombelicale che, nel bene come nel male, aveva legato i papi agli ebrei, il palazzo papale al ghetto. Per la Chiesa, nonostante i grandissimi aiuti che offrì agli ebrei romani, quel legame era stato rotto da molto tempo, e certamente da quel 20 settembre in cui gli ebrei da ebrei del papa erano divenuti cittadini.E la vera fine del ghetto è forse proprio lì, in quel 16 ottobre, perché dopo di allora la memoria di quel luogo non è più memoria della lunga, vitale e contrastata vita del ghetto di Roma sotto i papi, ma è memoria di morte, della razzia nazista, dei passi delle SS. E i ruderi del Portico ci ricordano ormai non il mercato del pesce, e i rumori e il chiasso di una Roma perduta, e nemmeno l’apertura dell’Emancipazione e il fervore dei lavori del risanamento del vecchio ghetto, ma gli ebrei ammassati sotto le rovine del Portico ad aspettare la deportazione. Anna Foa, storica, http://www.moked.it/