sabato 18 aprile 2009

fiori da Israele
M.O./ Anp: non riconosceremo Israele come Stato ebraico

Portavoce Abu Mazen: "E' ostacolo alla pace"
Gerusalemme, 16 apr. (Apcom)- L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha respinto la richiesta di riconoscere Israele come "Stato ebraico", avanzata oggi dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. "Si tratta di un ostacolo sulla via della pace e della creazione di due Stati", ha dichiarato all'Afp il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen. Questa richiesta "si scontra con gli sforzi della comunità internazionale e in particolare con quelli americani per una soluzione di pace", ha aggiunto il portavoce, Nabil Abu Rudeina. "Israele si aspetta dai palestinesi che riconoscano lo Stato di Israele come Stato del popolo ebraico", ha dichiarato Netanyahu all'inviato del presidente americano Barack Obama, George Mitchell, in un incontro a Tel aviv. "Israele non cerca di regnare sui palestinesi, ma deve assicurarsi che il processo politico con loro non sfoci in un secondo 'Hamastan' (Stato di Hamas, ndr) nel cuore del Paese, che minaccerebbe Gerusalemme e la pianura costiera", ha aggiunto. Netanyahu si riferiva alla Striscia di Gaza, che è controllata dal movimento islamico palestinese e da dove vengono tirati i razzi contro Israele.

Azriel Carlebach

Maariv: Mostri sacri e scarpe che volano

Nel novembre del 1947 il giornalista Azriel Carlebach è a New York per seguire il dibattito alle Nazioni Unite sul futuro della Palestina; è un momento storico di assoluta importanza e Azriel scrive senza sosta, inviando numerosi e lunghi telegrammi alla redazione del quotidiano di Tel Aviv Yedihot Aharonot. Il giornalista contrassegna i suoi articoli come urgenti in modo da rendere più veloce, seppur a un prezzo superiore, la trasmissione dei pezzi a Tel Aviv. Yehuda Moses, editore del giornale, inviperito per l’aumento dei costi, telegrafa a Carlebach perché la smetta di trasmettere in via urgente. In definitiva è lui a doversi far carico delle spese. E’ la goccia che fa traboccare il vaso. Carlebach non solo sente attaccata la sua autorevolezza, essendo da una decina d’anni il direttore di Yedihot Aharonot, ma anche la sua professionalità. Boccone troppo amaro da mandar giù per un giornalista di grande levatura. In Europa Azriel si era fatto un nome grazie alla collaborazione con Haynt (il quotidiano yiddish pubblicato a Varsavia dal 1906 al 1939), promuovendo il pensiero sionista e criticando aspramente i crimini sia del comunismo sovietico sia del nazismo. Per tutta risposta i Giovani Comunisti di Amburgo avevano cercato di assassinarlo sparandogli, mentre Goebbels, appena il nazismo sale al potere, lo fa mettere in galera. Nonostante queste esperienze traumatiche, uscito di prigione Carlebach decide di travestirsi da membro della SA e grazie all’uniforme verifica di persona l’espandersi del nazismo in Germania, descrivendo quotidianamente la sua esperienza attraverso articoli pubblicati con lo pseudonimo di Levi Gotthelf da Haynt. Assiste al rogo di libri della Bebelplatz e riconosce fra gli altri anche i suoi scritti. E' il momento di lasciare la Germania. Così Carlebach si rifugia in Polonia, per poi dirigersi verso Londra, da dove attacca la politica antisemita del governo austriaco di Schuschnigg e critica i non sionisti che vogliono rimanere in Europa, accusandoli di non comprendere l’evoluzione degli avvenimenti. Ultima tappa di questo giornalista fuori dal comune è Israele, dove diviene direttore di Yedihot Aharonot fino allo scontro con Moses. Il 14 febbraio del 1948, quando ormai manca poco alla proclamazione d'Indipendenza, Carlebach invia un ultimatum: o si cambia sistema di lavoro oppure la collaborazione finisce. Molti elementi dello staff appoggiano il direttore ribelle, convinti della necessità di riorganizzare il giornale anche con nuovi investimenti. La risposta non si fa attendere, Moses informa la sera stessa Carlebach che le sue condizioni sono inaccettabili. I ribelli allora si organizzano e in un attimo svuotano quasi del tutto la redazione del giornale, organizzandosi in poche ore per pubblicarne uno nuovo. Maariv esce a tempo di record, un solo giorno dopo il grande abbandono. Fra lo stupore generale, il 15 febbraio gli israeliani trovano in edicola sia Yedihot Aharonot, uscito quasi miracolosamente data la carenza d’organico, sia un certo Yedihot Maariv, il cui direttore è sempre Carlebach, lo stesso che i lettori avevano apprezzato per anni alla guida del giornale di Moses.Iniziata sessant’anni fa, la rivalità fra i due quotidiani non si è mai estinta, assumendo in tempi recenti i connotati di una spy-story degna dei film di James Bond, con corruzione, intercettazioni telefoniche e addirittura un presunto tentativo di omicidio. Queste sono alcune delle accuse lanciate da Ofer Nimrodi, attuale editore di Maariv, protagonista di una guerra senza esclusione di colpi con il rivale Arnon Moses di Yedihot Aharonot. Nei primi anni Novanta, Nimrodi assume due investigatori privati, ex agenti dei servizi segreti, con il compito di spiare la concorrenza per ottenere informazioni sulle loro fonti e conoscere in anticipo le prime pagine. Moses non è da meno e crea una fitta rete di intercettazioni in modo da carpire i segreti dell’avversario. Durante le indagini vengono trovate microcamere installate nelle redazioni dei due quotidiani e collocate in modo da controllare l’attività di giornalisti e redattori. Gli inquirenti sospettano che Nimrodi abbia addirittura pensato di eliminare i vertici delle testate concorrenti.Coincidenze o meno, il fatto è che nel periodo dello spionaggio, Maariv e Yedihot Aharonot escono pressappoco con gli stessi titoli in prima pagina; non solo, adottano entrambi uno stile sensazionalista, riempiendo i quotidiani di enormi foto a colori e di scoop che non sempre risultano fondati.Nel 1994 vengono recapitati a Nimrodi sedici avvisi di garanzia. Le accuse vanno da frode e falsificazione di documenti fino a ostruzione alla giustizia e intimidazione di testimoni. Dopo sei anni viene emessa la sentenza che condanna il direttore a venticinque mesi di reclusione, di questi, dieci già scontati durante il processo e i restanti quindici convertiti per buona condotta in cinque mesi di lavoro nei servizi sociali.La storia di Maariv si caratterizza per un passato turbolento e un presente, se possibile, ancor più irrequieto, con personaggi forti e dotati di una professionalità indiscutibile, come Carlebach, e figure spiccate e colorite, come Nimrodi. A quest’ultimo tipo appartiene Amnon Dankner, alla guida del giornale dal 2001 al 2007 e personaggio quantomeno pittoresco. Molti dei suoi collaboratori si sono sentiti chiedere “Perché non sei intelligente quanto me?” o hanno dovuto sottostare al suo rito d’iniziazione: Dankner si toglieva la scarpa e la lanciava verso la porta del suo ufficio, mentre il collega di turno doveva cercare di pararla. Altro passatempo del vulcanico direttore era il tiro a canestro: cercare di fare centro, sempre con la scarpa, nel cestino della segretaria. Si dice che alla notizia delle dimissioni di Dankner, nei corridoi del giornale vi siano state scene di giubilo. Alcuni redattori hanno brindato.Oltre a essere un inguaribile narcisista, Dankner si è rivelato un uomo pieno di iniziativa. Sin dall’inizio della sua avventura al comando di Maariv, era convinto di poter migliorare la qualità del giornale e riuscire a superare i rivali di Yedioh Ahoronot. Ha alle spalle una carriera giornalistica di assoluto rispetto, avendo scritto su Haaretz, Hadashot e Davar, di cui è stato corrispondente a Washington, per poi approdare negli anni Novanta al Maariv, di cui ha preso la guida nel 2001. In un’intervista Dankner spiega di essersi avvicinato al giornalismo per una passione innata di conoscere i fatti, di svelare la realtà, ma ammette di essere anche affascinato dalla fama e l’influenza che il giornalismo può donare.Considerato molto vicino alla famiglia Nimrodi che controlla il giornale, Dankner dimostrò il suo legame con gli editori quando, non ancora direttore, scrisse un violento articolo contro i giudici del processo per lo scandalo delle intercettazioni, difendendo il suo editore. In quel periodo risulta, da un’intercettazione della polizia, che Jakob Nimrodi, padre di Ofer, ordinò all’allora direttore, Yaakov Erez, di lasciare lo spazio più grande e in vista a un articolo di Dackner. Erez fece notare all’editore che quel giorno vi erano stati alcuni attacchi terroristici, ma la risposta è stata: “Al diavolo gli attentati”. In particolare, Dankner si permette il lusso di prendere di mira il pubblico ministero che aveva seguito il caso Nimrodi, Edna Arbel, delegittimando la sua nomina a membro della Corte suprema e apostrofandola come “una donna mediocre, manipolativa, brutale, per la quale ogni sussurro di critiche interne appare come un'orgia di eresia e che vede ogni parere contrario come un crimine terribile.”Un ritratto di Dankner emerge dalle parole di Gal Ochovsky, giornalista per dieci anni di Maariv, in un’intervista rilasciata al concorrente Haaretz: “Quando stava per diventare direttore, quasi impazzì, come un bambino davanti a un negozio di giocattoli. C’è qualcosa di infantile in lui che apparentemente non si può controllare”. Alla domanda su cosa abbia fatto Dankner per Maariv, la risposta di Ochovsky è secca: “Ha distrutto il giornale”.Sta di fatto che nonostante la creatività e la forza del carattere di Dankner, il giornale fra il 2001 e il 2006 ha subito un calo del 20% nelle vendite, con una perdita annua di dieci milioni di shekels (circa 1.8 milioni di euro). Il distacco con l'eterno rivale Yedihot Aharonot è aumentato a favore di quest’ultimo. Non si possono negare le responsabilità di Dankner, ma è pur vero che il giornale continua a navigare in acque difficili anche dopo il suo abbandono, con un forte taglio nell’ultimo periodo a personale e stipendi. La sensazione è che i nuovi direttori, Doron Galezer e Ruth Yuval, abbiano fra le mani un caso difficile. A riprova della complessità della situazione si possono citare i tentativi della famiglia Nimrodi di cedere le proprie quote del giornale.La nave, insomma, fa acqua, ma l’equipaggio continua a lavorare sodo. Infatti Maariv rimane un ottimo prodotto e un giornale in grado di offrire un buon servizio ai lettori. Fino agli anni Ottanta la testata era leader indiscusso fra i quotidiani israeliani e alcuni fra i maggiori giornalisti firmavano su Maariv. Fra i numerosissimi nomi prestigiosi, impossibile non ricordare Ephraim Kishon, il grande scrittore satirico che lavorò per Maariv dal 1952 fino agli anni Ottanta. Kishon amava dire “Non sono uno scrittore, sono semplicemente un umorista. Solo quando sei morto diventi uno scrittore”. Ungherese di nascita, il suo vero nome era Ferenc Hofmann, per avere un cognome meno borghese, lo cambiò in Kishont (Kis in ungherese è un diminutivo, mentre Hont è un cognome tipico in Ungheria). Nel 1944 era stato deportato dai nazisti al campo di lavoro di Jolsva, in Slovacchia, da cui riuscì a evadere con un amico. Durante la prigionia si salvò anche grazie alla sua abilità negli scacchi, infatti il comandante del campo lo scelse come suo avversario di gioco. Più tardi Kishon ricorderà in redazione quell’esperienza con la sottile ironia che lo contraddistingue: “Ha fatto un errore lasciando vivo un autore satirico”.Finita la guerra Kishon torna in Ungheria, ma insofferente del regime comunista decide di trasferirsi in Israele. All’arrivo, un impiegato dell’immigrazione gli cambia nuovamente il nome, omettendo l'ultima lettera del cognome e trasformando Ferenc in Ephraim. Il giovane Kishon comincia a lavorare in un Kibbutz vicino a Haifa e scrive articoli su un quotidiano per immigrati ungheresi; ma ben presto decide di imparare l’ebraico. Dopo un anno di studio, padroneggia talmente bene la lingua da ottenere uno spazio su Maariv, su cui scrive con lo pseudonimo di Chad Gadja. Alcuni suoi personaggi esilaranti diventano indimenticabili, come Schtuks, l’idraulico ritardatario, e Gingi, lo scettico israeliano la cui inguaribile disattenzione provoca disastri. Ben presto Kishon raggiunge la fama internazionale: nel 1959 pubblica “Si volti, signora Lot”, eletto dal New York Times come miglior libro e conquista paragoni illustri con Mark Twain e Shalom Aleichem. Autore poliedrico, Kishon si dedica anche al teatro, creando una propria compagnia e al cinema. Nel 1964 ottiene particolare successo con il film Sallah Shabati (gioco di parole in ebraico che evoca la frase “Sliha shebati” – “Scusate se sono venuto”), storia dell’immigrato Sallah, ebreo yemenita, che arrivato in Israele deve combattere la diffidenza e i pregiudizi per cercare di assimilarsi nel giovane Paese, guidato dagli ebrei d’origine europea. Lo spettacolo mostra attraverso uno sguardo divertente e sferzante i vizi e le virtù della società israeliana, smontando gli stereotipi spesso attribuiti agli ebrei mediterranei: la pigrizia, l’ignoranza, la chiassosità o la furbizia. Kishon ha scritto opere che sono state tradotte in tutto il mondo e particolare successo hanno avuto in Germania. A questo riguardo il figlio Rafi ha ricordato in un’intervista alla radio israeliana che lo scrittore considerava una grande soddisfazione che i figli dei suoi aguzzini fossero suoi ammiratori.Altra storica firma di Maariv è stata quella di Tommy Lapid. Il giornalista è stato definito dell’inglese Indipendent “il campione del laicismo”. Nato in Serbia nel 1931 da genitori ungheresi, Tomislav Lampel aveva visto la Gestapo portare via suo padre, poi ucciso a Mauthausen. Assieme alla madre aveva cercato rifugio a Budapest, dove si era salvato dai rastrellamenti dei fascisti ungheresi, che arrestavano gli ebrei per poi fucilarli sulle sponde del Danubio, nascondendosi in un bagno pubblico. Lapid dirà: “Tutto ciò che ho fatto nella mia vita ha origine dall’esperienza della Shoà”.Emigrato in Israele nel 1948, Lapid viene subito arruolato come meccanico nell’esercito, per poi laurearsi in legge all’Università di Tel Aviv. Come per Kishon, la sua esperienza giornalistica inizia con un giornale ungherese, Uj Kelet, ma la svolta arriva quando Lapid diviene l’assistente personale di Carlebach, editore del neonato Maariv. Da quel momento acquista il suo nome ebraico, Yosef Lapid, e passo dopo passo diviene un pilastro insostituibile del giornale, scrivendo articoli sulle questioni politiche e sociali più spinose. La sua più grande battaglia è stata la laicizzazione dello Stato di Israele, progetto portato avanti anche in campo politico con l’ingresso nel 1990 nel partito Shinui (Cambiamento), con cui raggiunge nel 2003 un significativo successo elettorale, ottenendo 15 seggi alla Knesset. I principali obbiettivi erano il servizio militare per tutti, compresi i giovani ultra-ortodossi esentati per gli studi religiosi; il matrimonio civile, il trasporto pubblico di sabato; l'abrogazione delle indennità per le famiglie numerose e l'abolizione del Ministero degli Affari Religiosi.Scomparso nel 2008, Lapid è stato ricordato da Dankner, suo grande amico, con queste parole: “Aveva un grande fame di vita. Era un uomo molto colto, con un orizzonte di comprensione molto ampio. Un uomo che si rinnovava ogni giorno. Lascerà un grande vuoto nel mio cuore, che non può essere riempito”.Fra gli alti e bassi che caratterizzano tutti i grandi quotidiani israeliani, non si può dunque ricordare Maariv solo per le vicissitudini giudiziarie dell’editore o per un eccentrico direttore, ma bisogna rendere merito a un giornale che ha contribuito a rendere la società israeliana più consapevole di se stessa. Interrogato recentemente sul suo giornale, Ofer Nimrodi ha detto: “Maariv è un giornale che si è sempre battuto per questo Paese e contro la corruzione. Certo, sono stati commessi errori, ma solo chi resta inerte, non commette errori”. Daniel Reichel, http://www.moked.it/

Kibbutz Ketura
ISRAELE: KIBBUTZ MUOIONO, E' IN GIOCO FUTURO PAESE

di Aldo Baquis, 2009-04-15, http://www.ansa.it/
TEL AVIV - Gli stabilimenti industriali sono abbandonati, ingrigiti, coperti di erbacce. La sala da pranzo collettiva - che nei tempi andati ospitava oltre duemila anime - é adesso adibita in parte a ristorante. Tre dei quattro asili-nido che erano il vanto dell'insediamento sono chiusi. Il cinema, è abbandonato anch'esso. Negli appezzamenti dei datteri e delle banane, sudano oggi manovali thailandesi. I padri pionieri sono da tempo sepolti in un piccolo cimitero. I loro coetanei meno fortunati seguono lo sfacelo dalle finestre di una vicina casa di riposo. Nella alta valle del Giordano, il kibbutz di Afikim - quello che ancora negli anni Settanta era il fiore all'occhiello del Movimento - sta morendo. I servizi e gli stipendi degli ultimi membri sono già stati privatizzati. La fase terminale sarà raggiunta quando lo saranno anche i loro beni: ossia quando saranno definitivamente sepolti gli ideali collettivistici ed illuministici dei pionieri che fondarono quel Kibbutz nel 1932. "Sulle loro spalle gravavano due rivoluzioni: il sionismo e il comunismo" rileva con ammirazione Assaf Inbari, nato ad Afikim nel 1968, che ha pubblicato questa settimana un libro ponderoso in cui ricostruisce la nascita, la crescita, e l'inesorabile declino di quella comunità agricola collettiva. Il libro ('A casà) ha subito destato attenzione nella stampa, anche perché va in controtendenza. Mentre i coetanei di Inbari recriminano contro i loro genitori (ad esempio con il film 'Sweet Mud' di Dror Shaul, in cui viene messa alla berlina la meschinità di 'idealisti' in sostanza ipocriti e piccolo borghesi), lo scrittore sollecita gli israeliani di oggi ad inchinarsi di fronte ai pionieri che "sognarono ad occhi aperti l'organizzazione sociale più interessante del XX secolo, una delle più interessanti della Storia umana". Volevano cambiare la natura umana, l'inclinazione al possesso, perfino il modo di essere genitori. Per questo decisero di crescere i figli collettivamente, secondo la loro fascia di età, al di fuori dei nuclei familiari 'borghesi'. "Vedo nella storia del kibbutz elementi di tragedia. Non c'é grottesco, semmai c'é eroismo. I suoi membri conoscevano bene la natura umana, ma la sfidarono egualmente. La loro vita si svolse in tensione continua fra la realtà e l'ideale". Nel libro di Inbari sono descritte tre generazioni: quella 'rivoluzionaria' dei pionieri; quella - spesso denigrata - dei 'continuatori'; e la sua generazione, quella di chi abbandona definitivamente il kibbutz per realizzarsi e fare carriera in proprio. L'anello debole, rileva, fu la seconda. Ebbe la sfortuna di doversi accollare due incombenze: da un lato gestire il progetto impostato dai genitori e dall'altro (si era ormai nella seconda metà del Novecento) di dover combattere per l'indipendenza di Israele. "E loro andarono alla morte in massa", precisa Inbari. Dal libro traspare la sensazione che questi utopisti socialisteggianti fossero religiosi a modo loro, pronti a morire per i loro ideali. Sono ancora significativi per l'Israele di oggi? Inbari - che di recente ha lasciato Tel Aviv per tornare a vivere in un kibbutz della valle Giordano - pensa che la risposta sia sicuramente positiva: "Se l'individualismo prevale, non abbiamo più speranza. Se non c'é niente più importante del singolo, nessuna impresa collettiva giustifica alcun sacrificio". L'Israele che smantella i suoi kibbutzim, insomma, crede di seppellire il passato ma in effetti si gioca il futuro.

giovedì 16 aprile 2009

Galilea - Parco Sacne
El Al tratta l'acquisto del 30% di Montenegro Airlines

La compagnia israeliana El Al sta portando avanti le trattative per l'acquisto del 30% della Montenegro Airlines. Tre anni fa il governo montenegrino aveva dichiarato, senza però definire i tempi di azione, che avrebbe venduto un terzo della compagnia, che necessita fondi per rafforzare la flotta. Le trattative continuano, ma, al momento, non ci sono altri dettagli: "Ne parleremo di più", ha dichiarato Haim Romano, ceo della El Al, mentre Zorano Djurisic, presidente di Montenegro Airlines, ha aggiunto che la compagnia sta negoziando anche la vendita di parte del pacchetto azionario alla Slovenian airline Adria e alla Russia Air Union. Sul 30% delle azioni da cedere alla El Al, invece, la vendita potrebbe essere completata per la fine di dicembre.

mercoledì 15 aprile 2009

Shimon Peres

Israele, il presidente Peres condurrà un talk show televisivoTel Aviv

14 apr - Il presidente israeliano Shimon Peres sembra voler intraprendere una nuova carriera. Secondo la sua portavoce Ayelet Frisch, dopo aver svolto quasi tutti i principali incarichi statali nei suoi 86 anni, Peres avrebbe raggiunto un accordo per realizzare programmi di carattere bimensile in cui dovrebbe presiedere dibattiti di carattere sociale ospitando nella residenza di Stato esperti di vari rami, sulla emittente televisiva nazionale. Il primo programma - dedicato alle relazioni fra ebrei ed arabi in Israele - è stato registrato a dicembre e la sua trasmissione (rinviata a causa della operazione 'Piombo fuso' a Gaza) andrà in onda a giorni. Il secondo programma sarà dedicato al futuro carattere sociale e politico di Israele, nella ottica di giovani leader. Peres, affermano fonti della televisione, ha subito ostentato grande padronanza degli aspetti tecnici legati alla trasmissione. Indici di ascolto molto elevati sono stati inoltre rilevati quando mesi fa Peres ha tenuto una conferenza televisiva, destinata ai giovani. L'iniziativa del capo dello Stato ha intanto diviso l'opinione pubblica: alcuni ritengono che in questo modo Peres potrà stimolare il dibattito interno, mentre altri trovano fuori luogo che un Presidente si dedichi ad iniziative che non gli competono. http://www.moked.it/

Tel Aviv all'alba

E' festa nella città laica: Tel Aviv compie 100 anni

Repubblica — 14 aprile 2009 di Marco Ansaldo
Ci sono già le ragazze in bikini, e i gelatai sulla spiaggia. Ci sono festoni a ogni angolo. I trampolieri su Rotschild Boulevard e i suonatori di tamburo su Hava Naghila.A piazza Rabin, la spianata centrale triste scenario del celebre omicidio, l' altra notte hanno sparato fuochi artificiali bianchi e blu, i colori nazionali. Buon compleanno, Tel Aviv! E che i tuoi cento anni, che cadono nell' anniversario anche della liberazione nel Lager di Buchenwald, siano più lieti delle tante tragedie attraversate. Centinaia di fotografie risplendono a Giaffa, nucleo originario della città. Conferenze e spettacoli ovunque. Concerti e rievocazioni. «La collina della primavera», questo vuol dire Tel Aviv, è da settimane nel vortice di una movida colossale che continuerà tutto l' anno. Una "fiesta" destinataa non finire. Non solo perché questa è una città che non dorme mai. Ma perché, come ha detto il capo dello Stato Shimon Peres ricordando la sua giovinezza, «è il posto adatto per innamorarsi». Da qui partirono i pionieri di Theodor Herzl, sbarcati in Palestina all' inizio del XX secolo, che nella costruzione del nuovo centro si ispirarono nel 1909 agli ideali della «città-giardino». Più tardi, i loro successori la vestirono di grandi edifici bianchi, nella stagione architettonica di scuola Bauhaus. Una città in festa, che non dimentica però le sue cicatrici: dai feroci scontri con i vicini arabi negli Anni venti, ai micidiali bombardamenti italiani nel 1940; dalla caduta dei missili Scud nella prima guerra del Golfo, all' assassinio di Yitzhak Rabin. Un centro in espansione. Patrimonio dell' umanità per l' Unesco, Tel Aviv-Giaffaè ora anche il cuore pulsante dell' economia israeliana. Tenore di vita alto e appartamenti a caro prezzo. Ci si diverte, e si lavora. Bar, ristoranti, discoteche aperte fino al mattino. Nessuno qui è più libero dei gay. Nessuno la notte caccia le prostitute russe.E nessuno si scandalizza su questioni altrove invece dirimenti. L' altro giorno un giovane ebreo ortodosso, vestito di scuro e con la barba di ordinanza, si è spogliato completamente davanti alla cassa di un supermercato, rimanendo con un solo calzino a coprire le parti intime. Protestava per la presenza sugli scaffali di pane lievitato, vietato dalle prescrizioni religiose della Pasqua ebraica, e quindi «non kosher». E' stato portato fuori e alla fine la polizia non gli ha contestato alcun reato. Naturalmente Tel Aviv non è la città perfetta. E' poco verde, e da un punto di vista ambientale lascia parecchio a desiderare. Il traffico spesso non dà scampo. Ma al di là degli inevitabili problemi, qui arrivano per divertirsi milioni di visitatori. «Tel Aviv - spiega Yael Dayan, presidente del consiglio comunale e figlia del generale Moshe Dayan - è un modello per quel che Israele dovrebbe essere. Gerusalemmeè un simbolo, più che una città, e la gente viene via. Noi siamo esattamente il contrario: qui la gente accorre,e si vivee si lascia vivere». E allora, cento di questi anni, Tel Aviv. -

martedì 14 aprile 2009

Da Sderot all'Abruzzo


Prima li hanno mandati a Mumbai, per aiutare i sopravvissuti della strage terrorista a superare per quanto possibile il trauma. Presto arriveranno anche all'Aquila per aiutare le famiglie abruzzesi, le cui vite sono state distrutte dal terremoto, a superare lo choc. Nel limite del possibile, s'intende. Israele possiede infatti tra i migliori esperti al mondo della riabilitazione post-traumatica: una conoscenza che deriva, ovviamente, dall'esperienza di medici e psicologi che si ritrovano quotidianamente alle prese con le vittime di bombardamenti e attacchi terroristici. Per questo, appena saputo del terremoto, il primo ministro Benyamin Netanyahu ha deciso di inviare una squadra di esperti post-traumatici in Italia. E, stando a quanto riportava il sito del quotidiano israeliano Yediot Ahronot, il governo di Roma avrebbe apprezzato. Non si conoscono ancora i dettagli del gruppo che sarà inviato in Abruzzo. Ma la squadra che ha operato in India, sostenuta dall'organizzazione no-profit IsraAID, era capitanata da due medici del “Natal Trauma Center for Victims of Terror and War”: Rony Berger e Marc Gelkopf hanno lavorato a lungo con i residenti di Sderot, sviluppando nuove terapie per curare chi di traumi ne subisce quotidianamente. All'Aquila, riporta Yediot Ahronot, c'erano circa 40 israeliani, in gran parte studenti e quasi tutti già rimpatriati. Uno di loro purtroppo non ce l'ha fatta: Hussein Hamada, 23 anni, nato in un villaggio arabo della Galilea, era arrivato in Italia per studiare medicina. In un primo momento si era dato per disperso anche un secondo ragazzo, ma Yuli Minchin, 24 anni e pure lui iscritto a medicina, è stato ritrovato. Ferito, ma ancora vivo.
Anna Momigliano http://www.moked.it/

Emblema della Brigata Ebraica

Cari amici, ci ho ripensato. Rispetto a quanto ci siamo detti nell’ultima riunione ritengo che l’Associazione Romana Amici d’Israele non deve partecipare al corteo del 25 aprile e invece rivendicare pubblicamente il rispetto dello shabbat come atto di difesa di un diritto umano. Ovvero non possiamo commemorare la Brigata Ebraica senza l’ebraismo, di cui lo shabbat è un elemento fondamentale e identitario. Bisogna valutare il fatto che i prodromi di Durban I furono proprio quelli di fissare le riunioni preparatorie di sabato, nonostante le proteste delle ong ebraiche che non poterono partecipare (anche l’Unione mandò una formale protesta al Ministero degli Esteri). Nel corso della preparazione di Durban II addirittura ci furono riunioni di Pesach. Ebbene ritengo che noi dobbiamo fare diversamente: rivendicare il sabato come un diritto umano da difendere e organizzare la commemorazione della Brigata Ebraica per domenica 26 a Piazza Venezia.Commemorazione che diventa di grande attualità, considerando che diritti ed etica ebraici sono messi sotto attacco sia attraverso Durban II (a cui parteciperà anche Ahmadinejd), che con l’accusa di crimini di guerra all’esercito d’Israele. Per questo è importante avere una posizione chiara in merito alla difesa di un diritto umano come lo shabbat. Nulla ci impedirà l’anno prossimo di partecipare di nuovo al corteo dell’Anpi. Spero che siate d’accordo con me e comunque invito tutti a partecipare alla riunione di giovedì 16 aprile al Keren Hayesod alle 20.30 per prendere una decisione definitiva. A presto Anna B.