sabato 21 giugno 2008


Eilat - Museo oceanografico

Israele, in cella l'agente Jadallh il palestinese più libero di Gaza

Per anni l'uomo, nuotando, ha rotto il rigido isolamento militare della StrisciaArrivava dall'altra parte e prendeva un bus per Tel Aviv senza essere scoperto

TEL AVIV - Lo scorso mese a Jaffa la polizia israeliana ha chiuso in cella quello che per diversi anni è stato probabilmente il palestinese più libero di tutta la Striscia di Gaza. Una pattuglia che arriva inattesa, la richiesta dei documenti, i primi sospetti, l'arresto. Si è conclusa così, nel modo più banale, la spettacolare avventura di Subhi Jadallah, 32 anni, un palestinese di Gaza che per anni, nuotando, è riuscito a rompere il rigido isolamento militare della Striscia imposto da Israele. Ogni volta che aveva bisogno di entrare in Israele, l'atletico Jadallah semplicemente indossava il costume da bagno, andava alla spiaggia del campo profughi di Shati (Gaza) e cominciava a nuotare. Quindici-venti chilometri più a nord individuava una spiaggia israeliana tranquilla, fra Ziqim e Ashqelon, si rivestiva e saliva sul primo autobus per Tel Aviv. Gli inquirenti della polizia israeliana che lo hanno interrogato nelle scorse settimane sono trasecolati nell'apprendere che Jadallah negli ultimi anni ha percorso il tragitto Gaza-Ashqelon, e viceversa, decine di volte. All'inizio, ha spiegato, era solo un tentativo di sfuggire alla miseria. A casa c'era una famiglia da mantenere: Subhi allora nuotava in Israele, lavorava come manovale in un cantiere edile di Ramleh (Tel Aviv) e ogni tanto tornava in visita a Gaza, via mare. Durante le lunghe e solitarie nuotate ha poi pensato che, tutto sommato, avrebbe potuto arrotondare il magro stipendio anche trasportando qualche pacchetto di stupefacenti. Il suo nome ha così cominciato a circolare in ambienti che sono soliti lavorare nell'ombra.
Tre anni fa - secondo l'atto di accusa che sarà discusso a giorni nel tribunale di Beer Sheba (Neghev) - fu un emissario delle Brigate dei martiri di al-Aqsa a proporgli di mettere i suoi muscoli al servizio della causa nazionale palestinese. Gli fu spiegato che doveva aiutare un kamikaze a raggiungere il porto di Ashqelon. L'obiettivo era far saltare in aria una struttura dell'oleodotto. In caso di successo, avrebbe ricevuto la cifra (di tutto rispetto, per gli standard del campo profughi di Shati) di 60 mila dollari. Ma l'operazione non si concretizzò, anche perché non era facile portare alla meta 100 chilogrammi di esplosivo. Due anni fa, anche il Fronte popolare per la liberazione della Palestina pensò che Jadallah poteva risultare utile: ad esempio, per uccidere di sorpresa un soldato israeliano. Ma Jadallah rifiutò. Secondo la polizia israeliana, nel luglio 2007 Jadallah nuotò tre volte fra Gaza e la spiaggia di Ziqim. Si recò in autobus a Tel Aviv e poi a Jaffa trattò l'acquisto di una partita di fucili M-16. Ma alla fine, il sistema si è inceppato. E Jadallah è finito in manette. (20 giugno 2008) La repubblica.it

"Luglio 1938 veniva pubblicato su un quotidiano di Roma un manifesto firmato da alcuni scienziati; in esso si proclamava la necessità di un razzismo italiano e si definivano gli ebrei come non appartenenti alla razza italiana. Quel manifesto segna l'avvio ufficiale di una campagna antisemita che il regime fascista aveva in realtà cominciato a impostare da mesi e che di lì a poco troverà il suo sbocco nelle leggi razziali che sanciranno la discriminazione e la persecuzione degli ebrei. Con grande chiarezza e vigore espositivo, questo libro racconta come e perché il fascismo arrivò all'antisemitismo di stato, come fu orchestrata la propaganda e come fu realizzata la persecuzione dal 1938 fino al tragico epilogo della deportazione a opera dei tedeschi. L'autrice si concentra soprattutto sulla forte rottura costituita dall'improvvisa priorità assegnata alla politica antisemita e ne individua l'origine nella necessità per il regime di tenere il paese in stato di mobilitazione permanente. Una svolta su cui pesa la suggestione del modello nazionalsocialista.
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«Luglio 1938: e l’Italia si scopre antisemita»

Intervista sulle leggi razziali italianealla storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci

« Le leggi razziali del 1938 furono solo indirettamente eredi del razzismo già propugnato in Etiopia dal regime fascista. Ma con quest’ultimo, ebbero un chiaro punto in comune: la volontà di cambiare il carattere degli italiani».
A sostenerlo è la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci, per la quale la legislazione antisemita di 70 anni fa sottese un «progetto di rivoluzione antropologica volto a fare degli italiani un popolo di conquistatori, dominatori, guerrieri». Della studiosa, la casa editrice Il Mulino ha appena pubblicato il volume L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei (pagine 518, euro 29).
Lei sostiene che l’antisemitismo fascista fu essenzialmente di natura politica. In che senso? «Fino alla metà degli anni Trenta, il regime non fu antisemita e criticò anzi abbastanza fortemente l’antisemitismo nazista. Le leggi razziali rappresentarono dunque, a mio parere, una rottura nella storia dell’Italia contemporanea e in particolare del regime fascista. Nel 1937, data di questa rottura, il regime conosceva un certo affievolimento del consenso e una forma di pausa nella dinamica totalitaria, dopo gli entusiasmi suscitati dall’offensiva in Etiopia. Il regime non aveva più autentici antagonisti politici e dunque le leggi antisemite furono pensate come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria». Dato che un certo tipo di attivismo è l’essenza stessa di tali regimi… «Sì, in fondo alle élite fasciste occorrevano dei nemici utili all’innesco di un discorso, all’esplicitazione di una norma da seguire. Ma ciò non vuol dire che gli ebrei vennero scelti per caso. Il contesto delle relazioni con la Germania era importante, anche se la decisione italiana venne presa in modo autonomo. Non ci furono pressioni dirette, ma giocò il fascino esercitato dalla Germania nazista. Del resto, Mussolini leggeva attentamente i rapporti provenienti dalla Germania sulla funzione politica dell’antisemitismo». Come venne creata la 'questione ebrea'? «Il problema della tradizione è importante. Vari Paesi europei come la Francia hanno conosciuto nel XIX secolo movimenti politici di massa antisemiti. L’Italia non aveva sperimentato l’antisemitismo politico. Esso esisteva nella società, ad esempio in certe frazioni cattoliche, nazionaliste o socialiste. Ma non esisteva un antisemitismo organizzato. Il regime fu costretto quasi a inventare una tradizione, prendendo a prestito elementi presenti in Francia e soprattutto in Germania». Lei sottolinea che la comunità ebraica italiana era relativamente ben integrata rispetto alle consorelle europee... «Si trattava in effetti di una specificità in Europa. La comunità ebraica italiana era particolarmente ben integrata, come mostra ad esempio l’indicatore dei matrimoni misti, molto più numerosi che negli altri Paesi. Ad attestarlo sono anche gli archivi delle organizzazioni ebraiche». Per imporre le leggi razziali alla società, il regime dovette superare l’ostacolo della Casa reale e soprattutto quello della Chiesa. Cosa accadde? «Il regime temeva le reazioni di queste due istituzioni. Il re emise qualche protesta di principio, ma accettò le leggi razziali abbastanza rapidamente, come aveva fatto con altre evoluzioni del governo fascista. Il regime aveva molto più da temere dalle reazioni della Santa Sede. Ciò che sappiamo è che Papa Pio XI era probabilmente più determinato ad opporsi alla svolta antisemita che parte del proprio entourage. Nonostante la malattia, il Papa incaricò il padre gesuita John La Farge di curare una bozza d’enciclica sull’unità del genere umano e di condanna dell’antisemitismo. Dopo la morte di Pio XI, l’enciclica resterà però nei cassetti e non verrà utilizzata». Al contempo, dalla Santa Sede giunsero lo stesso parole di condanna. «Il Papa emise delle proteste pubbliche, benché davanti a platee relativamente contenute, come ad esempio quando incontrò del settembre 1937 dei pellegrini belgi, affermando: 'Siamo spiritualmente tutti semiti'. Affermazioni come queste scatenarono l’ira di Mussolini. Nell’entourage del Papa, ci furono interlocutori che affrontarono col regime la questione delle leggi razziali. Questi interlocutori si limitarono alla questione dei matrimoni misti. Ma ciò non impedirà poi al regime di emanare lo stesso il loro divieto. Complessivamente, l’opposizione della Chiesa rimase limitata. La Chiesa non venne coinvolta durante l’adozione delle leggi razziali, ma in seguito, a partire dal 1938, il regime cercherà di presentare le leggi razziali come un elemento di continuità rispetto a certe tendenze antisemite precedenti esistenti in ambienti cattolici». Fino a che punto Mussolini fu in prima persona antisemita? «In generale, fu una figura ambigua e ondivaga, ma fu anche certamente antisemita. È lecito interrogarsi sulle ragioni che lo spinsero per oltre 15 anni a tenere celato quest’antisemitismo, astenendosi da qualsiasi dichiarazione pubblica antisemita. È anche chiaro che il suo antisemitismo non ebbe nulla a che vedere con l’antisemitismo redentore e fanatico di Hitler. Mussolini aderì a un insieme di stereotipi ereditati da una certa cultura nazionalista, ma anche da una certa tradizione antisemita del movimento operaio». Nel suo saggio, numerosi titoli di capitoli portano dei punti interrogativi. Tante questioni restano dunque aperte? «Si tratta di questioni complesse. Ci si deve interrogare ancora, in particolare, sull’atteggiamento della società italiana rispetto all’antisemitismo. Si possono studiare le direttive provenienti dall’alto, le leggi e la loro applicazione, le reazioni dell’amministrazione e del partito, ma nel quadro di un regime dittatoriale cogliere i comportamenti della società è molto più difficile. Si è spesso detto che gli italiani furono in gran parte opposti alle leggi razziali, ma non abbiamo ancora studi sufficienti su questo punto». Avvenire, 20 giugno 2008


venerdì 20 giugno 2008


Top ten al 20.06.08

Maggie Anton
Figlia di Rashi (La)
Narrativa Americana € 19,90

Aleykhem Sholem
Storie di uomini e animali
Narrativa Yiddish € 9,00

Yanat Zvi
Fratello perduto (Il) - La storia vera di due fratelli ebrei separati dalle persecuzioni razziali
Narrativa Israeliana € 19,00

Luzzatto Amos
A proposito di laicità dal punto di vita ebraico
Introduzione allo studio della cultura ebraica € 10,00

Liebrecht Savyon
Donne di mio padre (Le)
Narrativa Israeliana € 18,00

Baehr Arno
La lunga strada dal Reno al Giordano
Biografie e Autobiografie € 13,00

Szlakmann Charles
Ebraismo per principianti (L')
Introduzione allo studio della cultura ebraica € 14,00

Morpurgo Michael
Isola delle balene (L')
Narrativa ragazzi € 12,50

Mendelsohn Daniel
Scomparsi (Gli)
Narrativa Americana € 20,00

Leshem Ron
Tredici soldati Libano 2000: un assedio disperato
Narrativa Israeliana € 17,00

giovedì 19 giugno 2008

ZVI YANAI IL FRATELLO PERDUTO
(Titolo originale Schelcha, Sandro)


Trad. Raffaella Scardi, Ed. Bompiani (Prima edizione: Maggio 2008) pp. 444 €. 19,00

“Esimio Prof. Benvenuti….Spero non le dispiaccia se le pongo una domanda personale. Nel breve accenno biografico che appare alla fine dell’articolo del periodico ‘Savana’ si ricorda che lei è un professore emerito di settantun anni del Dipartimento di Evoluzione ecologica dell’Università di Roma…..io avevo un fratello, di due anni più grande di me, di nome Romolo, come lei….”

L’ultimo scrittore incontrato a Torino in occasione del Salone Internazionale del Libro è stato, come ricorderete, Zvi Yanai. Ho terminato proprio in questi giorni il suo “Il Fratello perduto” e ripeto quanto ho già scritto: di un libro che ti è piaciuto, puoi dire, una volta per tutte, sono arrivata alla fine?
Si tratta di un autentico “romanzo di formazione”, una sorta di trave portante nella costruzione della personalità, impegno che dura una vita, anche quando riterresti, con una certa presunzione, di essere carica di esperienza e in grado di somministrare salutari insegnamenti ai più giovani.
Qual è la storia, che non dev’essere qui rivelata appieno, anche perché lo stesso protagonista non scopre del tutto le sue carte?
Zvi Yanai, nato a Pescara nel 1935 come Sandro Toth, notissimo divulgatore scientifico israeliano, autore di numerosi volumi, nel febbraio 2004, in occasione della lettura di un articolo su una rivista specializzata, viene a sapere dell’esistenza di un certo Prof. Romolo Benvenuti dell’Università di Roma. Decide di scrivergli per formulargli alcune domande in ordine al comportamento dei grandi mammiferi, erbivori e predatori, ma non solo. La circostanza funge da pretesto per rivolgere al Professore, dopo alcuni preamboli e accenni generici, una domanda personale: sei tu il mio fratello Romolo, maggiore di due anni, nato a Catanzaro nel 1933, lasciato dai nostri genitori presso una balia per una qualche ragione misteriosa, del quale, in un certo senso, io ho preso il posto all’interno della famiglia?
Il Professore, nella sua risposta, dopo aver confermato la propria nascita a Catanzaro in quell’anno fatidico, esprime rammarico per la scomparsa di questo fratello, suo omonimo, e poiché l’interlocutore è israeliano, domanda: “Gli eventi sono forse legati alla Shoah?”
Lo Scrittore, premesso che il piccolo Romolo non è stato una vittima della Shoah in senso letterale, conferma il legame con questa tragedia di tutta la sua famiglia e fornisce le prime notizie sui parenti più stretti. I genitori, in primo luogo, entrambi artisti: il Padre, Kalman Toth, ungherese protestante, baritono; la Madre, Juzi Galambos, austriaca ebrea, ballerina, assai più giovane di lui.
Si erano incontrati nel 1929, forse a Budapest, forse a Graz (dove la mamma di lei, Luisa Löwy, possedeva un negozio di corsetteria) e poco dopo erano partiti insieme per un giro di spettacoli in Italia, da Pordenone a Palermo; Catanzaro ne era stata una delle tappe. Lì era nato Romolo; poco dopo veniva reperita una balia, cui lasciare in custodia il piccolo. I primi punti interrogativi riguardano proprio quest’ultimo; non tanto in ordine alla data di nascita, che è certa, ma circa il “dopo”, a cominciare dal nome e cognome della persona cui il bambino fu affidato.
Nella sua risposta il Prof. Benvenuti non conferma né smentisce. Tuttavia è significativo che accetti di continuare quell’insolita corrispondenza. Unica pre-condizione: “Se lei intende continuare a trattare argomenti personali, le chiedo la sua parola che il contenuto delle mie lettere non sarà mai rivelato, né per iscritto né verbalmente”.
L’Autore, di rimando, garantisce la riservatezza.
A questo punto è la voce di Zvi o, per meglio dire, di Sandro, quella che ascoltiamo nella nostra lettura; Romolo entra nell’ombra. Da romanzo epistolare a diario, sia pure con caratteristiche peculiari.
Sandro ci riporta, qua e là in breve, le osservazioni di Romolo su questo o quell’episodio, su questo o quello stato d’animo delle numerose persone che anche noi impariamo a conoscere in una complessa vicenda, che è, al tempo stesso, storia dell’Italia tra le due guerre e oltre, storia dell’Europa continentale sfregiata dalla barbarie nazista, storia del popolo ebraico sofferente, ma forte nella sua identità.
Alla base della narrazione sulle vicende della famiglia sta un fascio di lettere pervenuto al fratello della madre, Shaul (lo “zio Pali”) e passato, dopo la morte di questi nel dicembre 1991, in possesso dell’Autore. Lettere ”…scritte in ungherese, alcune su una sottile carta da pacco, per la maggior parte in matita, sbiadite dal tempo”, a volte senza data o destinatario; difficili per questo da decifrare. Per di più il fascio contiene per lo più missive spedite alla madre Juzi (eccetto quelle scritte dalla stessa al fratello in Israele); quindi le vicende vissute da lei nel decennio oggetto del racconto è noto tramite le testimonianze altrui. Dunque “ il plico di documenti in mio possesso è un groviera tutto buchi. Anzi…un mezzo groviera…..l’altra metà è andata perduta, irrecuperabilmente, in quanto i destinatari delle…lettere non sono più in vita”.
Aspetto interessante: le lettere della mamma sono state tradotte da una cara amica di Yanai, Agi Yoeli, una scultrice nata in Cecoslovacchia. Egli scrive a proposito di quest’ultima: “…è passata attraverso i campi di sterminio, dove ha conosciuto sofferenze indescrivibili. La principale difficoltà [è stata] il fatto che si immedesimava con l’epoca e i protagonisti della nostra storia: scene atroci e ricordi amari, incisi nel suo cuore da cinquant’anni, si sono risvegliati”.
Prendono corpo gli attori della storia, a cominciare dalle figure familiari.
La Nonna materna Luisa Löwy, vedova di Marton Galambos (pittore). Vive, come sappiamo, a Graz dove ha un negozio di corsetteria; è una donna di grande umanità, forte figura di mamma ebrea; di continuo preoccupata anche per la sorte dei figli, Juzi e Shaul. Patisce, in quanto ebrea, sofferenze indicibili specie dal 1938; disperati sono i tentativi di sottrarsi alla tenaglia che si stava richiudendo su di lei (come su tutti gli Ebrei austriaci che non avevano abbandonato per tempo il Paese); avrebbe voluto andarsene a sua volta, ma era timorosa di lasciare la sorella maggiore, Lina, anziana e malata. La decisione di rinunciare ad un viaggio in Italia per comperarsi un nuovo cappotto (date le ristrettezze di vita) le fu fatale. E comunque, per diverse complicazioni burocratiche non trovò nessun Paese disposto ad accoglierla. Ogni prospettiva di emigrazione svanisce e tutte le porte si chiudono prima ancora di aprirsi davvero. La situazione diventa sempre più insostenibile, gli Ebrei sono ridotti progressivamente ed inesorabilmente alla fame (“Siamo in cammino verso l’orrore” scrive in una lettera a Juzi); vive un’alternanza di disperazione e illusioni. Nonostante tutto questo, la sua principale preoccupazione sono figli e nipoti, compreso Romolo.
Il 28 febbraio 1941 viene deportata vicino a Lublino, dove gli Ebrei sono ammassati in un ghetto. Ciò che commuove in questa donna è l’estrema dignità. Nel dicembre di quell’anno si ammala gravemente di tifo, ma sopravvive. Muore nel giugno 1942.
Zvi confessa che le numerose missive scritte da Luisa, ora in suo possesso, gli hanno donato dopo 40 anni una nonna che non conosceva; è emozionato dalla potenza della prosa di lei, che paragona a quella di Primo Levi. Da una lettera di Sandro emerge che la figura di Luisa conquista pure Romolo.
I Genitori. La Madre, Juzi (nata nel 1912), è una donna di una bellezza magari non eclatante, ma di grande fascino ed eleganza: ad una delle prime lettere al fratello Zvi/Sandro ne acclude una foto in cui sono visibili le stupende gambe.
Aspetto significativo del libro sono le fotografie in esso contenute, che incorporano tutta un’epoca.
Juzi, ballerina appassionata, madre affettuosa, conduce un’esistenza difficile; tra l’itinerante attività artistica, la cura dei suoi ragazzi (le figlie, Fiorenza e Lisetta, e il piccolo Sandro) e il rapporto col marito, non sempre facile, dato il carattere spigoloso e la forte gelosia di lui. Quando egli, nel 1941, lascia la famiglia per l’Ungheria a seguito di espulsione in quanto apolide, le difficoltà si acuiscono. Durante il soggiorno della famiglia a Castiglion Fiorentino (in provincia di Arezzo) ella si guadagna la vita come insegnante ed interprete di tedesco; a tale proposito resta un mistero come sia riuscita a nascondere alla Wehrmacht il fatto di essere ebrea (ciò era indicato anche nella sua carta di identità temporanea). Juzi si ammala di “angina pectoris” e muore il 9 gennaio 1944: commoventi le immagini che ci donano i suoi ultimi istanti e l’affido dei figli ad una sorta di governante, Ida Brunello, ventiquattrenne di Monselice, incontrata alcuni anni prima, che si era subito guadagnata l’affetto di tutti.
Dopo l’importante lettera del 12 dicembre 2004 nella quale descrive gli ultimi momenti di vita della madre e, in modo più dettagliato, la figura di Ida, Zvi si chiede (cioè chiede a Romolo) se non è il caso di chiudere la loro corrispondenza: ci teneva a far conoscere la storia della famiglia, anche in una sorta di risarcimento per l’abbandono che il fratello ha subìto; abbandono per molti versi misterioso per lo stesso Zvi. Ma Romolo non intende chiudere la corrispondenza e lo “scambio” continua.
Il Padre, Kalman, di diciotto anni maggiore della compagna (i due non erano coniugati; il che costituì, per la nonna Luisa un grave cruccio e non solo per ragioni, diciamo, morali), visto da Sandro piccolo come il “Capitano degli ussari ungheresi”, potrebbe essere definito una figura equivoca: da una parte, infatti, è colui che, in primo luogo, aveva indotto Juzi all’abbandono di Romolo, nato da pochi mesi, e successivamente aveva lasciato la famiglia (complice la difficile situazione politica) per tornarsene in Ungheria alla ricerca di improbabile fortuna; dall’altro era quello che scriveva alla “moglie” lettere appassionate. Ciò che Zvi sa di lui proviene dal famoso fascio di lettere (vi appare sia come cicala canterina che come formica industriosa). Soffre di dolori periodici ad una gamba, che gli causano violente esplosioni di ira. Nel suo Paese d’origine cerca una prospettiva salvifica, che non esiste, data la legislazione antiebraica colà promulgata tra il 1938 e il 1941. Le successive ricerche sulle circostanze della sua morte (avvenuta tra fine ’42 e inizio ‘43) non approdano a nulla (a motivo delle distruzioni belliche), come, del resto quelle sulla fine della nonna.
E’ forse il padre la chiave di volta per comprendere il vero motivo dell’abbandono di Romolo, che era stato dato, ad un certo punto, per morto nel luglio 1934, con una comunicazione inoltrata addirittura sette anni dopo dal Comune di Catanzaro a Juzi, allora residente a Castiglion Fiorentino?
Possiamo sbizzarrirci ad immaginare, fantasticare, nella lettura di questo suggestivo scambio tra ipotetici fratelli, che assomiglia alla luna della quale si conosce solo una faccia; tuttavia è proprio questa conoscenza parziale a rendere ancora più avvincente la storia.
Le missive di Zvi si fanno via via più circostanziate e confidenziali; in quella datata 3 luglio 2004, ad esempio, esordisce, per la prima volta, con un “Caro Romolo” e conclude con “Tuo Sandro” (titolo originale del romanzo).
Ma sappiamo che c’è un’altra importante figura femminile nella vita dell’Autore, dopo la Mamma. Si tratta di Ida Brunello (che oggi ha 88 anni e vive a Torino; dichiarata , nel 1993, “Giusto tra le Nazioni” per l’aiuto dato ai piccoli Toth): persona positiva, dal dolce sorriso (la sua foto è a p. 125) che, molto giovane, fa da madre ai bambini, dopo la morte di Juzi. La sua umanità è pura ed incontaminata, afferma Sandro, come il Lorenzo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Ida, dopo che i ragazzi sono stati qualche tempo ospiti a Monselice della sua famiglia, ritiene doveroso, pur nel grandissimo dolore della separazione, affidarli ai soldati della Jewish Brigade, affinché ritornino in seno al loro popolo. Ed è proprio in uno dei campi della Brigata che Sandro assume il nome di Zvi.
Altro personaggio, rilevante per lo snodarsi delle diverse esperienze, ma lontano dal punto di vista affettivo, è il fratello minore della madre, Shaul, cui pure i fratelli Toth furono formalmente affidati dopo la morte di lei; dico formalmente, perché, dopo l’arrivo in Terra di Israele, essi soggiornarono presso il kibbutz di Ramat David, nella valle di Jezreel, mentre lo zio si limitava a visitarli solo periodicamente, per lo più nel fine settimana.
Pali, nella Palestina mandataria, aveva assunto il cognome di Yanai, che pure Sandro adotterà. Uomo schivo, meticoloso, aveva aderito, fin da quando viveva in Austria, al Betar, il movimento giovanile sionista revisionista fondato da Vladimir Ze’ev Jabotinsky; la lunga egemonia laburista nella vita politica israeliana lo aveva fatto molto soffrire.
Donna generosa e perfino ingenua, per tanti versi inconsapevole dell’incombente tragedia è la cugina ungherese di Juzi, Ilonka Dömjen, la quale si offre di aiutare i ragazzi, rimasti orfani, pur tenendo conto della grave situazione dell’Ungheria (!). Perfino a guerra finita -ella sfugge al tragico destino di tanti suoi connazionali- vorrebbe avere i bimbi con sé in Ungheria; ma zio Pali si oppone. Interessante notare come, in una lettera, Ilonka accenni a quattro bambini, anziché a tre.
La terza donna più importante nella vita di Sandro, dopo la madre e Ida, è Riva Youtzis, che, insieme al marito Shimon, lo accoglie al Kibbutz. I due coniugi (immigrati dalla Bessarabia) impersonano l’ideale sionista di uguaglianza e solidarietà e trasmettono al ragazzo, oltre a questi alti valori, anche un comportamento improntato a riservatezza ed autocontrollo, sviluppatosi a seguito delle gravi difficoltà affrontate nell’arco del tempo: vivere nella Terra di Israele, amata, certo, ma esigente, con vicini ostili pronti ad attaccarti in ogni momento.
Il protagonista fu molto aiutato dagli Youtzis; con loro si instaurò un legame profondo che è durato tutta la vita dei due; e prosegue anche oggi, tramite la loro figlia, Ditta.
L’esperienza del kibbutz, che egli peraltro abbandonò per sempre all’età di diciassette anni, fu tuttavia notevole per la formazione umana e culturale.
Il romanzo può essere letto anche come un libro di storia; che, a differenza di un asettico manuale, contiene pensieri, sentimenti, vicende intime inserite nella tragiche vicende fungenti da sfondo.
Ad esempio l’impegno sionista di Pali è occasione per illuminare il lettore su alcuni particolari della storia degli Ebrei agli albori del regime fascista. Nel primo decennio del suo governo Mussolini vedeva con un certo favore il sionismo, considerato, da una parte, la soluzione al problema dell’antisemitismo in Europa; dall’altro, una sorta di breccia all’egemonia inglese in Medio Oriente. Allorché si rese conto che le principali correnti sioniste erano filobritanniche, egli si rivolse all’ala revisionista; e Yanai riporta un episodio ritengo poco conosciuto.
Le lettere di nonna Luisa ci consentono di rivivere il 1938, l’ “Annus horribilis”, per gli Ebrei d’Europa.
E poi ci sono i grandi eventi che ebbero come teatro il nostro Paese: è evidente che il “25 luglio” e l’ “8 settembre”, l’invasione tedesca, l’offensiva alleata non vengono colti nel loro reale significato da Sandro, data l’età; ciò nondimeno il ragazzo avverte il clima difficile che grava sulla sua famiglia e, tanti decenni dopo, lo scrittore ripercorre tutte le tappe, ad esempio parlandoci dei bombardamenti alleati che la cittadina di Castiglion Fiorentino subì; il più rilevante dei quali fu alle 13.30 del 19 dicembre 1943. Vennero distrutti, ad opera di 36 bombardieri pesanti: l’ospedale (dove Juzi era ricoverata e fu evacuata in tutta fretta con gli altri degenti); la chiesa e due scuole (che i ragazzi Toth avevano frequentato). Ignota la motivazione dell’atto, ma, probabilmente, ipotizza l’Autore, la cittadina fu scambiata per Arezzo.
Le incursioni aeree fecero 108 vittime civili, per la maggior parte il 19 dicembre. Ho sempre sentito parlare di questo episodio: infatti Castiglion Fiorentino (soprannominata “Castiglioni” dai suoi abitanti), in cui mi sono recata alcune volte e che ho ben presente, era il paese d’origine di mio suocero Ferruccio; nel terribile bombardamento di dicembre furono uccisi sua madre ed altri congiunti.
Mi si permetta di approfondire questa digressione personale, anzi familiare. Alcuni anni fa il Comune di Castiglion Fiorentino -con il patrocinio della Regione Toscana, del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali e dell’Unione Europea- ha pubblicato un libretto, a cura del “Circolo di Studio” (associazione culturale locale coordinata da Gabriele Nocentini), dal titolo “Memoria storica delle donne castiglionesi”. In esso sono raccolti i ricordi di vita nella cittadina toscana e, in specie, le testimonianze femminili. L’opera abbraccia un arco di tempo coincidente, per lo più, con la prima metà del Novecento ed è ricca di fotografie, che rammentano, per la spontaneità che le rende davvero suggestive, le immagini riportate ne “Il Fratello perduto”. Forti le reminiscenze del bombardamento del 19 dicembre 1943, domenica; tra queste ecco le parole della cugina Adriana Bernardini (allora undicenne), che scrive: “…..abbiamo sentito un rumore di aeroplani….e fuori c’era gente….Ad un tratto hanno detto: ‘Tirano i bigliettini!!’…abbiamo sentito degli scoppi tremendi…..altro che bigliettini, erano bombe!! Siamo scappati fuori…Il babbo ha guardato il paese e non ha più visto la casa di mia zia….Allora ha detto: ‘Vado a vedere’ Quando è tornato era sconvolto: la casa di sua sorella non esisteva più e tutta la famiglia era sotto le macerie….tutti morti. Il babbo…ha visto mia cugina Piera di otto anni appesa per il vestito alle macerie; gli altri li abbiamo trovati dopo qualche giorno”.
Torniamo alla voce di Yanai.
……E poi la catastrofe degli Ebrei ungheresi, nel 1944: l’occupazione tedesca in marzo e il perfezionarsi della tragedia nei sei mesi successivi, con la complicità delle c.d. croci frecciate di Ferenc Szalasi.
Un libro di storia che ti costringe a confrontarti e a prendere posizione con lancinanti problemi morali: un forte stimolo per un lettore paziente ed attento.
Combattere o stringere i denti e aspettare che la bufera finisse? Abba Kovner, l’intrepido poeta del ghetto di Vilna, o Jacob Gens, il capo della locale polizia ebraica?
Vi sono pure incontri con persone destinate ad illustrare la storia dell’attuale Stato di Israele.
Sulla nave “Mataroa” proveniente da Marsiglia, con la quale i ragazzi salpano da Napoli nel 1945 diretti nella Palestina mandataria, essi incontrano diversi sopravvissuti ai campi di sterminio. Tra questi c’è, insieme al fratellino Naftalì (che diverrà noto giornalista e diplomatico), un bambino di otto anni: il suo nome è Israel Meir Lau (Lolik!), il futuro rabbino capo ashkenazita di Israele, figura di primordine, unanimemente rispettata ed amata, anche da fedeli di altre religioni e da non credenti.
E’ occasione per riflettere sul problema del rapporto tra la giustizia di D-o e la presenza del male nel mondo; l’Autore esprime senza infingimenti la diversità tra la propria posizione e quella del rabbino, la cui fede non è intaccata dal fatto di non riuscire a comprendere la volontà divina (perché Lolik e Naftalì si sono salvati, mentre l’altro fratello e i genitori, Moshe Haim e Raya, no?). Su quella nave, dice Zvi, c’erano due bambini: l’uno discendente da una grande famiglia di rabbini che continua a credere nella sua fede, mentre nell’altro i germogli del dubbio nei confronti di D-o (ebreo o cristiano non importa) si annidano in lui. Per uno il viaggio è il compimento di una promessa, per l’altro è andare verso l’ignoto.
Non mancano accenni significativi al rapporto tra scienza e fede (la differenza tra visione scientifica e visione religiosa): problemi difficili ed affascinanti, che interessano molto Yanai, e che costituiscono pure l’oggetto della sua professione.
Il romanzo è pure giocato sui contrasti: ci sono le persone generose e pronte a sacrificarsi per i ragazzi, da loro amati: come Ida, che già conosciamo; o la Sig.ra Maria Berti Martelli di Bologna, che essi incontrano nel loro viaggio verso il nord con i tedeschi in ritirata, proprietaria di un famoso stabilimento di marmellate ed esponente della Croce Rossa, che li accoglie con dedizione e affetto; ma vi sono anche uomini gretti ed indifferenti, come il Sig. Grifoni di Castiglion Fiorentino, proprietario della villetta affittata ai Toth, che non dette una mano ai fratellini, nemmeno dopo la morte della mamma.
E che dire della figura di Emanuele Weishaar, il sergente della Werhmacht che si commuove per la loro sorte, che avrebbe desiderato portarli nel suo Paese, cioè in Germania (dato che Juzi, della quale Sandro ipotizza fosse segretamente innamorato, era austriaca)? Egli parrebbe ignorare che sono ebrei. Che cosa avrebbe fatto se l’avesse saputo? Scrive Sandro: “Non lo sapremo mai. Voglio credere che Emanuele fosse uno di quei tedeschi che non avevano perso la loro umanità…..Sono cosciente del fatto che non è possibile fare deduzioni da un caso singolo, tanto più quando si tratta della condizione ebraica”.
Altro contrasto: tra il cattolicesimo -cui i ragazzi furono avviati, per ovvie ragioni, fin dal 1942-, rassicurante nei suoi riti suggestivi, specie agli occhi e al cuore di Fiorenza e Lisetta (Sandro è sempre stato uno spirito laico), e la nuova sconosciuta realtà dell’ebraismo: estranea e dura, perché collegata alle difficoltà di adattamento in questa nuova Patria della quale essi nulla sapevano. Nel kibbutz, ci conferma Zvi, non si parlava quasi mai di Shoah, del passato di subordinazione, non c’era tempo, né desiderio per le lacrime: l’obiettivo era costruire l’uomo nuovo, l’israeliano sicuro di sé e combattivo, che sa (di dover solo) contare sulle proprie forze.
Il processo Eichmann, cui l’Autore dedica alcune perspicue riflessioni, produrrà un forte trauma nella vita pubblica del Paese, ma contribuirà ad operare la saldatura tra le diverse anime ed esperienze del popolo ebraico.
A proposito di Ebraismo, di ebraicità, di Israele, insomma di quel nodo di vita vissuta, di valori, di appartenenza, che Sandro vuol chiarire a Romolo (ma soprattutto a se stesso), egli ci rivela che il suo legame non è religioso, ma storico; con Israele esiste un rapporto stretto, proprio in quanto Patria del popolo ebraico e si domanda: forse che “zio Pali” non si meritava uno Stato, lui che, con giusto orgoglio sionista, lasciò l’Austria per ricominciare da zero la sua vita? O l’amata nonna Luisa, non si meritava uno Stato, lei alla quale tutte le nazioni cui si era rivolta avevano sbattuto le porte in faccia, accampando pastoie burocratiche diverse?
Il romanzo ti coinvolge nel profondo per la notevole capacità dell’Autore di suonare i diversi strumenti: storia, letteratura, filosofia e problemi religiosi, i sentimenti più intimi (come quando si rivolge alla mamma o rievoca la sua solitudine e il desiderio di essere coccolato nei primi tempi di vita al Kibbutz); il tutto in un’armoniosa orchestra; ciò non è casuale, se si pensa che lo scrittore ha amato la musica fin da ragazzo, come egli stesso ci racconta.
Paziente ed ammirevole, nella sua capacità di cogliere le sfumature del racconto, la traduzione di Raffaella Scardi, ben nota agli amanti della letteratura israeliana, la cui menzione mi auguro non venga dimenticata nella seconda edizione del romanzo.

CONCLUSIONE
Lo scrittore ripercorre il lungo cammino della storia personale sua e del suo popolo attraverso il racconto delle vicende della propria famiglia proposto a un interlocutore da lui definito fratello maggiore. Ma tale figura è reale o immaginaria? Non lo sappiamo.
Il mistero non è certo sciolto alla fine del libro, con l’ultima lettera, che ha al centro il silenzio di “Romolo”, e alla quale Sandro risponde con un omaggio profumato di reminiscenze infantili; ma nemmeno nell’incontro torinese Zvi Yanai ci ha rivelato il suo segreto.
A noi, modesti ed ammirati lettori, l’ultima parola.

Mara Marantonio Bernardini, 17 giugno 2008
http://www.mara.free.bm/
http://www.italiaisraele.free.bm/

mercoledì 18 giugno 2008

Gerusalemme

ISRAELE: GAY ALL'ATTACCO, VOGLIAMO DONARE IL SANGUE A OMOSESSUALI FINORA PROIBITA DONAZIONE, MA C'E' PENURIA SANGUE
TEL AVIV, - La libera donazione di sangue e' il nuovo fronte di battaglia identificato dai gay israeliani nella loro lotta per aggiudicarsi pieni diritti civili.Ieri il Maghen David Adom (equivalente locale della Croce Rossa internazionale) ha fatto squillare sonori campanelli d' allarme quando ha reso noto che resta forte il deficit delle porzioni di sangue a disposizione dei centri medici per via della scarsa inclinazione alle donazioni da parte degli israeliani. I donatori definiti abituali sono solo il 4,3% della popolazione e malgrado le campagne di sensibilizzazione il loro numero non e' in crescita.Gli omosessuali israeliani, che da tempo insistevano per poter donare il proprio sangue, hanno colto la palla al balzo e sono subito tornati alla carica.Dror Mizrahi, un attivista del partito di sinistra Meretz impegnato nella lotta per i diritti dei gay, ha detto alla stampa che occorre adesso modificare i questionari sottoposti ai donatori dal Maghen David Adom.'Finora - ha notato Mizrahi - una delle domande rivolte ai donatori uomini mira a sapere se abbiano avuto relazioni sessuali con altri uomini', per il timore che il loro sangue possa essere infetto da virus dell'Hiv. 'In realta' - secondo Mizrahi - la domanda dovrebbe concentrarsi sulla utilizzazione o meno di preservativi, non sul sesso del partner'.L'argomento appassiona da mesi la comunita' omo-lesbisca locale. Il sito online GoGay, ad esempio, ha appreso che da alcuni mesi la Banca del Sangue israeliana ha acquisito apparecchiature molto moderne ed efficienti, che renderebbero superfluo il questionario ai donatori.Ma le autorita' sanitarie locali preferiscono procedere in questa materia con i piedi di piombo, per non correre il rischio di inoltrare inavvertitamente porzioni di sangue infetto. Israele, viene spiegato, si consulta periodicamente con altre autorita' sanitarie all'estero e per il momento continua a non ritenere prudente la utilizzazione di donazioni dagli omosessuali. martedì 17 giugno 2008 , di ansa

martedì 17 giugno 2008


Baklawah, Biscotti con noci e sciroppo

Ingredienti
1 confezione di pasticcini lievitati (bignè), 2 ½ tazze di arachidi (o mandorle oppure noci) tritate, 1 tazza di margarina non salata, 2 tazze di zucchero, ½ tazza d'acqua.
Preparazione: Dividere i bignè in quarti. In una teglia creare un piano di bignè, spargervi sopra un po' di noci tritate, fare un altro piano di bignè e ripetere fino ad esaurimento dei bignè. Usare un coltello per tagliare a forma di diamante. Grattugiare grossolanamente la margarina sui pasticcini e cuocere in un forno a temperatura moderata fino a doratura dei pasticcini. Rimuovere e lasciar raffreddare per 15 min.Bollire l'acqua, aggiungere lo zucchero e mischiare finché si sia formato uno sciroppo denso. Versare lo sciroppo caldo immediatamente sui biscotti usando un cucchiaio.Servire come dessert o snack con caffè turco semi-dolce.

Gerusalemme - città vecchia

La figlia di Rashi

di Maggie Anton, Traduzione di Alessandra Roccato
Ed. Piemme € 19,90

Un racconto appassionante in bilico fra invenzione e verità storica è il romanzo “La figlia di Rashi” di Maggie Anton. Ambientato nella Francia settentrionale, a Troyes, in un’epoca di prosperità e di fiorenti commerci narra la storia di Salomon ben Isaac, uno sconosciuto nel 1068 ma destinato a diventare nel giro di un secolo uno dei più grandi studiosi del Talmud di tutti i tempi.
“Il primo libro stampato in ebraico fu il suo commento alla Bibbia, e nelle stampe del Talmud del XV secolo le sue chiose, occupano le colonne interne di ciascuna pagina. Da quel momento in poi Salomon sarà conosciuto come Rashi, acronimo ebraico per Rabbi Shlomo ha Yitzhaki”.
In realtà il romanzo di Anton è soprattutto la storia delle figlie di Rashi: Joheved, Miriam e Rachel alle quali il padre aveva permesso di accedere allo studio del Talmud.
Dopo aver desiderato un figlio maschio per tutta la vita, Rashi aveva accettato il destino che sembrava non volerlo accontentare e aveva preso la decisione di insegnare ogni sera alla figlia maggiore Joheved a leggere il Talmud, a comprenderlo e ad apprezzarlo: una scelta rischiosa perché in quell’epoca ad una donna non era consentito avvicinarsi ai libri sacri.
Dalla primavera del 4829 (1069 dell’era cristiana) fino alla tarda estate del 4837 (1077 dell’era cristiana), in un periodo fiorente nel quale i commerci si espandono e le città che sorgono al crocevia delle rotte commerciali organizzano fiere dove i mercanti possono al tempo stesso vendere e comprare – come alle due fiere che si tengono a Troyes – si dipanano le vicende di Rashi e della sua famiglia, costellate da momenti di gioia e felicità ma anche da altrettanti episodi di dolore e morte.
Il racconto delle festività e ricorrenze ebraiche, da quelle gioiose come Purim dove si balla e si beve fino a stordirsi a quelle più “religiose” come Yom Kippur, si mescola alla lettura e al commento di molti brani tratti dal Talmud dai quali Rashi, le sue figlie e gli studenti della Yeshivà traggono ispirazione ed insegnamento per ogni aspetto della vita quotidiana: dal comportamento delle donne quando sono “niddah”, alle modalità di preghiera, fino ad arrivare alle norme che regolano la vita intima dei coniugi.
Non mancano episodi di superstizione come quando Joheved, ormai adulta e sposata a Meir, uomo saggio e studioso del Talmud, si rivolge a Ben Yochai, un anziano erborista della comunità, per risvegliare la virilità del marito straziato dalla perdita della sorella Hannah, morta nel dare alla luce il suo bambino. La cura che l’anziano ebreo darà a Joheved si rivelerà quasi fatale per il giovane Meir.
L’accuratezza nella descrizione dei personaggi ebrei, la maggior parte dei quali è esistita veramente, non esclude una profonda conoscenza della vita delle donne nel Medioevo, frutto di studi storici approfonditi e che trova nella descrizione della figura di Catharina, cristiana che si convertirà all’ebraismo e di Anna, sfuggita ai predoni e accolta in casa dalla famiglia di Rashi, l’espressione più alta.
L’autrice, che ha riscoperto le sue radici ebraiche in età adulta, ha iniziato lo studio del Talmud nel 1992 con Rachel Adler, professore alla Hebrew Union College di Los Angeles proseguendo poi con Rabbi Aaron Katz .
Affascinata dalla figura di Rashi e dal fatto che le sue figlie studiassero i testi sacri, l’autrice ha dedicato anni di studio e ricerche all’approfondimento della letteratura medioevale ebraica e questo bellissimo romanzo storico è il frutto di quel lavoro; un libro con il quale Maggie Anton ha voluto offrire a tutte le donne ebree ortodosse e non uno spunto per dedicarsi allo studio del Talmud. “Spero – ha detto Anton nel corso di un’intervista – che le piccole lezioni del Talmud che ho riportato nel libro inducano le donne ad avvicinarsi a questo prezioso insegnamento”.

Giorgia Greco

grotte di Qumran

LA REGIONE MERIDIONALE

Questa regione comprende quella parte del paese che si trova a sud della linea ideale che si estende da Gaza a Ein Ghedi , sul Mar Morto, comprendendo il Neghev . Il suo capoluogo e' Beer Sheva e la sua finestra sul Mar Rosso e' Eilat.

BER SHEVA- Moderna capitale del Neghev, sorge sul posto dove Abramo pianto' la sua tenda; e' sede dell'Universita' di Ben Gurion, uno dei centri piu' importanti del mondo per la ricerca agronomica.
EILAT- Sul Mar Rosso, e' il porto piu' meridionale d'Israele ed una stazione climatica invernale famosa, servita direttamente da un'aereoporto internazionale e punto di passaggio verso la Giodania e l'Egitto. Possiede un importante Museo Oceanografico con Osservatorio Marino. Ha delle ottime strutture alberghiere ed attrezzature per il nuoto ed immersioni subacquee.
ARAD- E' una moderna citta' nel deserto, stazione climatica soprattutto per le malattie asmatiche.Importante scavo archeologico dell' antica Arad.
AVDAT- In una cornice naturale nel cuore del deserto, possiede ruderi di un'antica citta' nabatea, romana e bizantina.
EIN BOKEK- Stazione termale internazionale sul Mar Morto per la cura delle malattie della pelle. Ha ottime strutture alberghiere e puo' essere il punto di partenza per le escursioni nel deserto.
MASSADA- Fortezza che domina il Mar morto, roccaforte dell'ultima resistena contro Roma. Magnificenti i resti archeologici del periodo erodiano.
MIZPE' RAMON- Moderna cittadina che sorge sul bordo del Machtesh Ramon , una specie di enorme cratere, museo geologico all'aperto. Ha un interessante Centro Visitatori , punto di inizio di tutti i tragitti nel sud del paese.
SDE' BOKER- Kibbuz dove e' vissuto David Ben Gurion , accanto c'e la tomba del famoso statista dalla quale si gode uno dei piu' bei panorami del paese.
TIMNA- E' una riserva desertica poco a nord di Eilat, dove si trovano le Miniere di Rame di Salomone, i resti di un importante tempio egizio ed interessanti formazioni rocciose.

erbetta invernale nel deserto della Giudea

LA REGIONE CENTRALE

Questa regione si estende dalle pendici meridionali del Carmelo fino al Neghev settentrionale ed include la Giudea e la Samaria e le due citta’ piu’ grandi di Israele : Gerusalemme (capitale) e Tel-Aviv.

GERUSALEMME Capitale dello Stato d’Israele ed una delle sue quattro citta’ sante, la cui storia si identifica con la storia del popolo ebraico. Sacra agli Ebrei, ai Cristianie ed ai Musulmani racchiude un gran numero di luoghi di interesse storico, religioso e turistico. La Citta’ Vecchia con i suoi quattro quartieri, il Monte degli Olivi, il Monte Sion, la Valle del Kidron, il Monte Scopus, il museo archeologico Rockfeller. La citta’ nuova con la Kneset, la Corte Suprema,il Museo d’Israele, l’Universita’ di Ghivat Ram, Monte Herzl, Yad Vashem ed il Cimitero Militare, il villaggio di Ein Karem, le vetrate di Chagall, i quartieri di Yemin Moshe e Mea’ Shearim. Numerosi piccoli musei ma da non mancare il Tempio Italiano ed il Museo d’arte ebraica italiana.
TEL -AVIV JAFFA Movimentata metropoli e’ situata sulla costa del Mediterraneo. Il Museo d’Arte Moderna, il complesso dl museo Haarez, il Museo della Diaspora, il lungomare. Jaffa e’ parte di Tel-Aviv e ne e’ considerata la sua citta’ vecchia; molto bello ed interessante il promontorio con gli scavi archeologici, gallerie d’arte, caffe’ locali notturni, ristoranti ed un museo.
BET GUVRIN Grande ed interessante parco archeologico con rovine romane bizantine e crociate ed un complesso sistema di colombari sotterranei.
BETANIA Luogo del soggiorno di Gesu’ durante la sua ultima settimana. Resurrezione di Lazzaro.
BETLEMME In territorio autonomo palestinese, citta’ natale del re David e di Gesu’; tomba di Rachele e Chiesa della Nativita’ con numerosi altri luoghi di culto.
CAESAREA Sulla costa del Mar Mediterraneo con i resti della citta’ romana sede dei procuratori e del porto erodiano. Esteso parco archeologico in una bella riserva naturale.
GERICO In territorio autonomo palestinese, oasi del deserto e’ la piu’ antica citta’ ancora abitata. Ruderi del Tel, Palazzo Hisham del VII secolo ed il Monastero delle Tentazioni.
HEBRON In territorio autonomo palestinese e’ una delle quattro citta’ sante di Israele con il luogo di sepoltura dei Patriarchi d'Israele.
QUMRAN Sito archeologico e posto di parte del ritrovamento dei rotoli del Mar Morto.
SHECHEM (NABLUS)- Citta’ biblica e centro religioso dei Samaritani . Tomba di Giuseppe e pozzo di Giacobbe.
SHOMRON (SEBASTIA)- E’ la biblica Samaria con importanti rovine romane, erodiane , bizantine e crociate.

Galilea - Banyas

LA REGIONE SETTENTRIONALE

Questa regione comprende il Golan, la Galilea, la valle di Izreel , il Mare di Galilea, la valle di Bet Shean ed include Haifa, la terza grande citta’ d’Israele.

HAIFA
E’ il porto principale d’Israele ed un grande centro industriale, dal Monte Carmelo, che e’ tra l’altro meta di turismo e pellegrinaggio per la sua importanza biblica, si gode una bella vita panoramica sulla baia di Haifa fino alla costa libanese. Da visitare: il Technion, l’Universita’, il Tempio Bahai,vari musei. Puo’ essere la base per le gite in Galilea.
ACCO (S. GIOVANNI D’ACRI)
Citta’ costiera a nord di Haifa, porto importante fin dall’epoca fenicia, dove si trovano i piu’ magnificenti resti dell’epoca crociata. Presenta ancora resti delle repubbliche marinare italiane . Importanti anche i resti della citta’ turca con una bella moschea ed un caravanserraglio. Ha un pittoresco mercato orientale.
ALTURE DEL GOLAN
Altopiano che sovrasta l’Alta Galilea, il Mare di Galilea e la Valle del Giordano in cui si trovano le sorgenti del Giordano, vari siti di importanza archeologica e storica, numerosi itinerari naturalistici, villaggi drusi e trincee siriane del periodo precedente la Guerra dei sei giorni.
BANYAS
Una delle sorgenti del Giordano , luogo dell’antica Caesarea di Filippo dove si trova ancora un tempio greco dedicato al dio Pan. BAR’AM- con una sinagoga del II secolo ben conservata.
BET-ALFA- Famosa sinagoga del VI secolo con pavimenti musivi ben conservati , che si trova all’interno del kibbuz Hefziba.
BET-SHEAN-Qui i Filistei profanarono la salma del re Saul. fu un importante centro ellenistico;e’ uno dei piu’ importanti e grandi parchi archeologici di Israele.
BET- SHEARIM- Sede del Sinedrio dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme; vi sono una sinagoga del II secolo, catacombe del III e IV secolo ed un museo.
CAFARNAO (KFAR NAHUM)- Villaggio sulla riva del Mare di Galilea, dove abitava Pietro e dove Gesu’ soggiorno’ operando miracoli. Scavi con sinagoga e casa di Pietro.
GAN SHLOSHA-parco nazionale con cascate e piscine naturali.
HAMMAT- L’antica terma a Tiberiade con i resti di un’antica sinagoga che presenta un bellissimo pavimento musivo.
HAMMAT GADER - E’ un’antica sorgente termale le cui acque calde alimentano una piscina naturale. L’ambiente, in un parco archeologico, e’ molto suggestivo e si trova al punto di confluenza di tre stati: Israele, Siria e Giordania.
HAZOR- una delle piu’ ampie zone d’intersse archeologico del paese .
KAFAR CANA-Luogo del primo miracolo di Gesu’ con varie chiese
KAZRIN -Capoluogo del Golan con i resti di un antico insediamento del periodo talmudico in parte ricostruito. Museo archeologico.
KOCHAV HAYARDEN (BELVOIR)-Castello crociato del XII secolo costruito su un’alta collina sopra la valle del Giordano.
MEGHIDDO - Ampio sito archeologico nella valle di Izreel. La tradizione cristiana ritiene che sia il posto della battaglia di Armagheddon. Museo archeologico.
METULLA-Citta’ sul confine libanese, punto di osservazione del “confine buono”.
MONTE DELLE BEATITUDINI-Secondo la tradizione cristiana e’ il posto del sermone della montagna.
MONTE TABOR- Luogo della sconfitta di Sisera’ da parte di Debora e Barak e della trasfigurazione di Gesu’.
NAZARET- Il paese dell’infanzia di Gesu’ con la Basilica dell’Annunciazione, la chiesa di San Giuseppe, il pozzo di Maria ed altri posti sacri .
ROSH HANIQRA’- Sul confine libanese, grotte naturali a livello del mare , raggiungibili per mezzo di una funivia.
SAFED- Sulle colline della galilea, centro del misticismo ebraico nel medioevo, e’ una delle quattro citta’ sante di Israele. Ci sono quartieri antichi, sinagoghe ed una colonia di artisti.
TABGHA- Sulla riva del Kinneret (lago di Tiberiade) e’, secondo la tradizione cristiana, il luogo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
TIBERIADE -Sulla riva del lago a 220 metri sotto il livello del mare. Fondata 2000 anni fa, e’ una delle quattro citta’ sante di Israele con molte antiche sinagoghe, scavi archeologici e tombe di famosi maestri. E’ un’ottima stazione climatica invernale a causa delle sue sorgenti terapeutiche di acqua calda.


KARPFELACH - ravioli israeliani

INGREDIENTI (per 4 persone):
Per la pasta: 200 gr. di farina, 2 uova, sale
Per il ripieno: 200 gr. di polpa di manzo magra, 1 kg di spinaci, 1 uovo, 1 carota,
1 cipolla, 2 cucchiai d’olio d’oliva, sale, pepe nero.
TEMPO DI PREPARAZIONE: 1 ora per la preparazione; 30 min per la cottura del
ripieno; 6-7 minuti per la lessatura della pasta.
PREPARAZIONE: Impastate la farina con le uova ed un pizzico di sale fino ad ottenere un impasto liscio e morbido; se necessario aggiungete anche qualche cucchiaio d’acqua. Stendete l’impasto così da ottenere due sfoglie uguali e molto sottili che lascerete riposare dopo averle infarinate leggermente.
Mondate gli spinaci, lessateli in poca acqua, scolateli bene spremendoli per eliminare tutta l’acqua e tritateli finemente.
Mondate la cipolla e la carota, tritatele e mettetele a soffriggere nell’olio in un tegame posto su un fuoco moderato. Quando la cipolla ha preso colore, unite gli spinaci e la carne.
Lasciate rosolare per una decina di minuti, salate a gusto, aromatizzate con del pepe nero macinato al momento quindi ritirate dal fuoco ed aggiungete anche l’uovo mescolando bene per omogeneizzare il composto. Ricavatene ora della palline grosse come una nocciola che disporrete ad intervalli regolari su una delle sfoglie. Sovrapponetevi l’altra e premete sugli spazi vuoti tra una pallina di ripieno e l’altra
Con un coltello, o meglio con la rotellina taglia-ravioli, ricavate dei ravioli quadrati che andranno lessati in acqua appena salata e poi conditi con del sugo di carne. I Karpfelach si accompagneranno
bene ad un vino rosso e corposo. Beteavòn!(buon appetito)

Dal bollettino Sullam della Comunità ebraica di Napoli

palme nel deserto del Neghev

Israele Eden Ben-Basat tra Maccabi e la Grecia

Eden Ben-Basat, 22 anni, uno dei migliori cannonieri in Israele (l'anno scorso 12 reti con la maglia dell'Hapoel Haifa), potrebbe sbarcare in Grecia.
E' un giocatore molto interessante e conosciuto in Europa: quando aveva 18 anni, ha fatto parte del World gala team segnando nella sfida pareggiata per 1-1 contro l'Inghilterra a Manchester. Nel torneo papale disputato in Italia, poi, mise a segno quattro gol in due reti, cosa che attirò l'interesse della Juventus. Ma dal momento che il giocatore faceva parte dell'esercito israeliano, l'affare sfumò. Il suo agente, Oved Kraus, sta trattando per un eventuale ritorno di Ben-Basat nella squadra della sua città, il Maccabi. Ma c'è anche l'interessamento di alcuni club greci.
http://www.calciomercato.com/ 16 giugno

lunedì 16 giugno 2008

Gerusalemme - le mura

UN DOCUMENTO DEL 1944
DOPO LA LIBERAZIONE DI ROMA

UNA MADRE RACCONTA LE TRAVERSIE IN ROMA OCCUPATA DAI TEDESCHI AL

FIGLIO CHE AVEVA COMPIUTO L’ALIA’ DA SOLO, SEDICENNE, QUATTRO ANNI PRIMA

La madre, autrice della lettera che pubblichiamo a 68 anni da quando fu scritta, è Fernanda Di Segni, sposata con Giovanni Sermoneta. Nacque a Roma nel 1901 ed è quivi morta nel 1967. Il figlio è Joseph Baruch Sermoneta (1924-1992), allora ventenne, divenuto poi professore di storia della filosofia ebraica e di storia della letteratura ebraica italiana all’Università ebraica di Gerusalemme. Baruch era partito per la Palestina, dopo le leggi antiebraiche, a soli sedici anni. I genitori rimasero a Roma con l’altra figlia, Rosetta, poi sposata con Bruno Ajò, la quale mi ha gentilmente autorizzato a pubblicare la lettera. Abitavano con loro, in via degli Scipioni 35 (quartiere Prati) i genitori di Fernanda, Amaddio o Amedeo Di Segni e Giannina Castelnuovo. I Sermoneta avevano un negozio di merceria in via del Leoncino, presso San Lorenzo in Lucina, in pieno centro. Trascorsero gli anni dal 1938 al settembre 1943, in un sereno meno peggio. Nel settembre morì Giannina, madre di Fernanda. Al dolore per la sua scomparsa si aggiunsero le preoccupazioni per le angherie degli occupanti nazisti a danno degli ebrei, finché all’alba del sabato 16 ottobre, il giorno della Juden Aktion, capitò il peggio. Suonò il campanello. Giovanni aprì la porta di casa e si trovò di fronte due soldati tedeschi, che gli misero in mano il foglio dell’ordinanza: vestirsi, fare sommariamente le valigie, portare con sé le vettovaglie disponibili in casa, e andare con loro. Giovanni mostrò invano le benemerenze di combattente della grande guerra, del resto combattuta contro di loro. Fecero loro scendere le scale e li fecero fermare fuori del portone, in attesa del camion, che passasse per portarli alla prima tappa della tragica sorte, il Collegio militare. Gente vicina e negozianti della via, che da sempre li conoscevano, vedendoli arrestati, fecero attorno a loro un capannello di compianto e di saluto. Altri passanti si aggiunsero e nel provvidenziale ritardo dell’automezzo, mentre si produceva una confusione, che distraeva i guardiani, qualcuno sussurrò ai quattro catturati di svignarsela. I nostri non se lo fecero consigliare due volte e osarono allontanarsi di gran lena, con passo spedito a cominciare dal sessantasettenne signor Amedeo. Voltato l’angolo, furono favoriti dalla sorte con un nuovo dono della provvidenza: un raro taxi di passaggio, su cui immantinente salirono e che rapidamente s’involò.
Sentii, fanciullo, la vicenda, pochi giorni dopo il fatto, dagli stessi protagonisti, essendo mio cognato Ettore Di Segni fratello di Fernanda, sicché condividemmo il rifugio, in un convento di suore sarde, in Trastevere, che è attuale sede della Comunità di Sant’Egidio. Ne ho scritto, con fotografia del sito, alle pagine 200 e seguenti della nostra XI annata. Poi, sfuggendo a una delazione, ci si divise in diversi nascondigli.
La scrittrice Rosetta Loy, venutane a conoscenza, ha incontrato Rosetta Sermoneta e ha raccontato fedelmente il fatto nel bel libro La parola ebreo, Torino, Einaudi 1997, pp. 132-135.
Fu un caso del tutto eccezionale nella tragedia del 16 ottobre, che rapì, tra i tanti, Riccardo Di Segni, fratello di Fernanda, con la moglie Rita Caviglia e la piccola Gianna, di due anni. Più tardi una delazione fece catturare la sorella Tosca, con il marito Gino Tagliacozzo: arrestati da italiani furono deportati dai tedeschi. Perciò la pronta generosità della gente di via degli Scipioni fu un po’ velata nel giudizio di Fernanda sugli italiani, dalla malvagità di altri. Ella giustamente scrisse che le perdite degli ebrei romani dopo la retata tedesca del 16 ottobre, nei successivi sette mesi, furono dovute soprattutto a italiani, sia delatori che polizia della Repubblica sociale.
Il 4 giugno 1944 fummo liberati dagli alleati e quindi, tra le difficoltà della guerra che continuava, si riattivarono le comunicazioni postali con la Palestina. Ecco dunque, alla pagina seguente, la lettera di Fernanda Sermoneta al figlio Baruch, che è una genuina testimonianza storica sulla tragedia degli ebrei di Roma sotto l’occupazione nazista. Testimonia, in primo luogo, la difficoltà che si ebbe, pur nell’angoscia per le angherie tedesche, di prevedere cosa gli occupanti preparassero dopo il ricatto dell’oro e la sottrazione della ricca biblioteca. Si prevedeva la possibilità di altre rapine, di saccheggi, per prepotente utilità economica, ma non la deportazione in massa e tanto meno l’annientamento fisico, in dimensione di genocidio. La deportazione in massa non aveva riscontro, ella correttamente osserva, nella memoria degli ebrei romani, che molto dovettero sopportare nella miseria del ghetto, ma radicati, sedentari, raccolti su un territorio, nella città nativa. La logica umana delle vittime non stava al passo con quella metodicamente distruttiva del nazismo. Fernanda doveva pensare al fratello Ettore (e a noi con lui) quando scrisse che prima del 16 ottobre qualche pessimista si era allontanato dalla propria casa, ed infatti non venivamo molto compresi per quella salutare prudenza. Dopo la liberazione, parlando dei parenti deportati in luoghi ignoti e impossibilitati a comunicare, stava tra la speranza e il dubbio che tornassero. Al confronto con il terrore vissuto nei nove mesi dell’occupazione nazista, il giudizio sui primi anni della persecuzione è più che pacato, quasi di sorprendente nostalgia, se non fosse stato per la lontananza del figlio: “Posso dire che siano stati anni buoni”. Lo furono, nell’immediata retrospettiva, al confronto dell’incubo che è seguito. Lo furono nell’ involucro privato di una vita di famiglia e di lavoro, e, vorrei aggiungere, di semplice certezza identitaria, non scossa dall’ ostilità politica e dalle contumelie di regime.
La continuazione pacifica del quotidiano andamento, senza impatto di violenze e di odio da parte della gente comune, le consentiva di non badarci. L’atteggiamento dei vicini nella strada, con l’aiuto alla fuga, sembra dimostrarlo. Un alleviamento penso fosse dovuto al tipo di lavoro, non avendo ella subito direttamente il trauma della cacciata da impiego, studio o professione. Una spiegazione del giudizio sereno su quegli anni sta nel non volere angustiare troppo il figlio e nell’aver quindi limitato le note tristi agli ultimi nove mesi, davvero tremendi. La madre, con ciò, conteneva il suo stesso duolo e misurava la valutazione degli anni addietro, alle spalle del periodo tragico. Scriveva che il lavoro, rimedio sovrano, attutisce qualunque pena. La pena ci era stata, ma sopportabile e compensabile in confronto a quel che venne poi. Tuttavia il senso dell’estraneità dalla nazione italiana circostante, che ella espresse al figlio, si era fatto strada in quegli anni, pur ancora vivibili, di esclusione, e maturò soprattutto nella prova fatta delle vili delazioni e degli arresti operati da italiani, dopo la retata del 16 ottobre. Ella rilevava una massiccia ripresa di arresti, per opera dei fascisti, in febbraio, basandosi su ciò che avvenne a parenti, ma probabilmente fu un andamento generale, che può spiegarsi con il senso di impunità dei fascisti in seguito allo stallo degli alleati dopo lo sbarco ad Anzio. I delatori denunciavano, la polizia della Repubblica sociale arrestava e i tedeschi facevano poi il lavoro di morte. Fu una delazione a far prendere la sorella Tosca con il marito, e un’altra delazione obbligò i Sermoneta, insieme con i miei, a lasciare il convento di cui dicevo, presso Ponte Sisto. A fronte dei delatori è consolante il riconoscimento che molti sono stati benigni con noi e resta sempre valida l’attestazione sull’accoglienza nei conventi, ascritta allo stesso Vaticano, come generalmente si riconobbe all’indomani della liberazione.
Il fatto che si stesse particolarmente attenti a non far uscire gli uomini, dopo che si era visto deportare anche donne, vecchi, bambini, dipendeva dal timore delle generali retate di uomini per il servizio obbligatorio del lavoro e per ricerca dei renitenti alla leva. La lettera è ricca di introspezione e di esame autocritico. Si noteranno comprensibili oscillazioni nello stato d’animo e sul da fare per il ricongiungimento familiare, tra la prospettiva dell’aliah e quella della permanenza in Italia, questa povera Italia, in cui, dopo i tormentosi eventi, non riconosceva più la patria: Tutto apparentemente tornerà come prima, ma tutto è diverso da prima. Manca alla lettera la data, ma il paterno augurio di Giovanni per il nuovo anno, 5705, la colloca nel settembre 1944. Tra parentesi quadre sono alcune note informative redazionali.

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LA LETTERA DI FERNANDA SERMONETA

Carissimo figlio,
è giunta oggi la tua del 4/8/44. E’ la lettera che aspettavo da quattro lunghi anni, e quasi sembrava impossibile dovesse più giungere. Eppure è arrivata, portando a noi tanta parte di te quasi da sentirti vicino. Ci siamo tutti commossi, e le tue parole nostalgiche hanno acuito il desiderio di rivederti. Da tanto desideravo un così ampio racconto di come si è svolta la tua vita in questo tempo! Finalmente il mio desiderio è stato soddisfatto e ho gioito nel sapere che non sono stati tempi troppo duri per te e che forse hai trovato la strada che più ti piace.
Cinque lunghi anni sono passati da quando sei partito. In questo tempo mi sono domandata più volte come ho potuto mandarti lontano, specialmente io che avevo per te quell’affetto morboso che forse è stato la causa della tua partenza. Prima che lasciassi la tua casa, incerta se acconsentire, mi affidai un po’ alla fatalità che guida spesso i miei atti, pregai il Signore che ti guidasse, mi affidai alla sua volontà. E’ stato un bene o un male? Vorrei saperlo da te. In questi anni hai occupato un posto recondito nel mio cuore, ti ho pensato sempre con vivo desiderio di averti vicino, di seguirti nel cammino della tua adolescenza, e il rimorso di non aver fatto per te il mio dovere di madre mi ha amareggiato sempre, ed ha fatto di me con il mio carattere già triste e scontroso, un essere senza energia, senza volontà, con la paura di sbagliare ad ogni mossa!
Non parlavo quasi mai di te, non facevo né progetti né intuizioni, non dicevo mai ‘come sarà diventato?’ A che scopo? Per me tutto si era fermato al giorno dell’ultima lettera. Non vi era da dir nulla, da far nulla, questa terribile guerra era come un baluardo fra noi, mentre [nulla] si poteva saper di vero. Soltanto pregavo il Signore che ti guardasse perché Lui solo era in potere di farlo. Sembra che il filo della corrispondenza, che si era spezzato, si riallacci di nuovo per giungere alla definitiva unione.
Voglio dirti anche io con povere parole come sono trascorsi per noi questi anni. So che sei ansioso di sapere e vorrei dirti tutto a voce, avendoti vicino. Purtroppo questo ultimo anno è stato per noi quasi terribile, ma voglio raccontarti con ordine. Le ultime notizie ti mancano dal giugno del ’40. Fino all’agosto del ’43 posso dire che siano stati anni buoni, nulla ci è mancato materialmente né moralmente. La vita è trascorsa calma, tranquilla, una vita di lavoro, che mi ha tenuto sempre occupata tra casa e negozio. Quel lavoro, rimedio sovrano, che fa dimenticare ed attutisce qualunque pena. In questi anni abbiamo avuto parentesi di riposo, durante l’estate qualche viaggetto, villeggiature. Per due inverni ho accompagnato Rosetta a sciare in Abruzzo.
Il nostro lavoro ci ha dato abbastanza soddisfazioni. La vita politica ci lasciava indifferenti, nessuno ci ha mai dato noia. I nostri parenti vivevano tranquilli, i tuoi zii e le zie trascorrevano la vita di pacifico lavoro.
Nel settembre del 1941 sono nati Gianfranco a zio Ettore e Gianna a zio Riccardo. I nonni vivevano tranquilli presso di noi. Tutto questo, come per incanto, è cessato l’8 settembre 1943. Non vorrei darti un dolore così grande, ma ti considero un uomo, la vita ci riserva il bene e il male, per questo bisogna essere forti. Due giorni dopo che i nazisti occuparono Roma, e precisamente l’11 settembre, la tua povera nonna fu colpita da un nuovo attacco di paralisi, come già ebbe nel ’39, ricordi? Dopo 8 giorni il Signore l’ha ripresa con sé, se ne è andata serenamente, senza soffrire, senza accorgersi di morire, con il volto sereno, atteggiato ad una grande pace. Il Signore è stato benevolo con lei, le ha risparmiato i grandi dolori che avrebbe dovuto soffrire.
E’ sembrato che con la sua scomparsa fosse volato l’angelo benefico che proteggeva la nostra famiglia. Ma il destino non è stato cattivo soltanto con noi. Centinaia di nostri correligionari piangono oggi tanti loro cari lontani.
Subito si manifestò la ferocia nazista per tutti. Dopo 15 giorni si delineò apertamente per noi. Furono richiesti alla Comunità Israelitica 50 chili d’oro da consegnarsi in poche ore, pena uomini in ostaggio. Con grandi sacrifici furono contentati. Qualche giorno dopo trasportarono via la ricca antica biblioteca dell’Università Israelitica. Tutti gli ebrei vivevano in ansia, la minaccia era sospesa sul capo di tutti. Credevamo peraltro in un saccheggio di negozi, rapine nelle case di oro, argento, biancheria. Quasi nessuno pensava all’atrocità che doveva avvenire. Qualche pessimista si era allontanato dalla propria casa [si veda il volume Roma, 16 ottobre 1943 Anatomia di una deportazione, a cura di S.H. Antonucci, C. Procaccia, G. Rigano, G. Spizzichino, Milano, Guerini, 2006, pp. 23-24].
Fu il 16 ottobre che si compì quell’azione così selvaggiamente inumana che non ha riscontro nella memoria degli ebrei italiani. Nelle prime ore del mattino vennero prese a viva forza dai nazisti, nelle loro case, famiglie intere, vecchi, malati, bambini, Purtroppo fu così anche per zio Riccardo, zia Rita e la piccola Gianna [si veda il Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion, ed. Mursia, pp. 179, 241, 243]. Di mattina alle sei furono portati via dalla loro casa e non abbiamo saputo più nulla, puoi immaginare il nostro dolore! La stessa sorte subì zio Prospero, la moglie e i due figli [Libro della memoria, p. 546]. Gli altri tuoi zii e zie e famiglie furono per allora tutti salvi.
Riguardo a noi accadde un miracolo! Se oggi possiamo scrivere, parlare con te, devi ringraziare il Signore, che non ha voluto subissimo la stessa sorte. Pensa che dopo averci preso di mattina alle sette, riuscimmo a fuggire aiutati dalla folla. Forse la tua povera nonna era morta per salvarci a tutti e quattro. Certo, con lei così sofferente, non saremmo potuti fuggire. A noi alle volte sembra un sogno! Papà in una prossima sua ti racconterà i particolari della nostra fuga. Abbiamo trascorso otto mesi, dall’ottobre ai primi di giugno, nascosti, senza lavorare, abbiamo cambiato alloggio più volte, case di amici e soprattutto suore ci hanno accolto. Il Vaticano ha aperto le porte dei suoi conventi a noi e a tutti i perseguitati; molti sono stati benigni con noi. Abbiamo trascorso giorni calmi ed anche giorni agitati. I primi mesi sembrava che dopo l’atto così inumano nessuno ci desse noia, anzi erano tornati molti anche nelle proprie case. Fu ai primi di febbraio ’44 che ricominciò la persecuzione più spietata e questa volta da parte dei fascisti, di spie, di persone conoscenti. Zia Tosca e zio Gino furono presi e fatti partire per un campo di concentramento di Modena, dove hanno scritto due volte, poi più nulla [furono nel campo di Fossoli. Per Gino Tagliacozzo, deceduto in prigionia dopo il giugno 1944, si veda il Libro della memoria, p. 577. Tosca sopravvisse, fu lasciata dai tedeschi in ritirata il 21 aprile 1945 a Theresienstadt, dove il 9 maggio giunsero le truppe russe liberatrici]. Gli ultimi di marzo nel medesimo modo arrestarono zio Amedeo [Libro della memoria, p. 544] zio Angelo [nel Libro della memoria risulta catturato il 16 ottobre 1943] e Benedetto, il figlio di zia Eleonora [Giuseppe Benedetto Fiano, figlio di Eleonora, che era la sorella di Giovanni Sermoneta, arrestato il 3 maggio 1944, un mese prima della liberazione e morto a Mauthausen il 26 febbraio 1945, Libro della memoria, p. 267].
La vita degli ultimi tempi era diventata impossibile. Da per tutto si vedeva l’insidia. Nessuno e specialmente gli uomini non uscivano più. I quattro ragazzi di zia Tosca, tre dei quali erano in collegio [al Collegio Nazareno] sono ora con noi, cioè Umberto con zio Ettore, Fausto con zia Bianca, Sergio [Sergio Tagliacozzo è stato presidente della Comunità di Roma] con la zia Amedea, il piccolo Armando con noi. Per fortuna questi mesi di terrore sono finiti. Ci siamo ritrovati salvi ed in buona salute, ma con il dolore vivo per il pensiero dei cari lontani che chissà se rivedremo più. Ora ci stiamo riorganizzando, abbiamo aperto negozio già da tre mesi, fra qualche giorno torneremo a casa, che era stata occupata da sfollati. Tutto apparentemente tornerà come prima, ma tutto è diverso da prima. Sebbene ora godiamo perfetta libertà ed abbiamo ripreso il nostro lavoro, ci sentiamo qui quasi estranei. Sentiamo che questa non è la nostra patria. Sentiamo che dobbiamo formarla laggiù dove sei tu, dove dovrebbero andare gli ebrei di tutto il mondo. Noi ci sentiamo diversi. Vediamo tra questa gente, tra questi italiani, tante di quelle spie che hanno contribuito alla rovina dei nostri in quel fatale periodo. Non sappiamo più distinguere i buoni dai cattivi. E poi come sarà il futuro di questa povera Italia, e per noi? Ora il nostro desiderio sarebbe venire da te.
Il mio in particolare è di avere una piccolissima casa con un pezzetto di terreno, vivere tranquilla con la mia famiglia unita. Vorrei condurre una vita modestissima di lavoro. Sarà possibile? Credo di no, perché nella vita tutto ciò che si desidera non viene mai raggiunto, neanche le cose più semplici. Tuo padre è entusiasta di venire costì, grazie a Dio non ha perduto il suo bell’ottimismo, e tre mesi di lavoro nell’orto di un convento [intitolato al Cardinale Angelo Mai, in via dei Serpenti, notizia data da Rosetta], dove si era rifugiato negli ultimi tempi, hanno fatto di lui un perfetto agricoltore. Rosetta verrebbe volentieri con noi. Vedi dunque che saremmo pronti a partire anche subito, tutto dipende da te, se vedi per te un avvenire in Palestina, se a te piace star lì, se non hai la nostalgia della tua casa di qui, delle tue abitudini di ragazzo del paese dove sei nato, noi ti raggiungiamo volentieri. Al contrario, ti dico: torna. Anche qui, sorpassando idee, pregiudizi, si può vivere tranquillamente di commercio, professioni, ecc. Noi faremo tutto quello che tu vorrai. Devi dirci: o torno o venite. Per noi è uguale. Tu stai lì e sei vissuto qui, puoi sapere dove sarà l’avvenire migliore. L’importante è riunirci. Se approvi la nostra venuta in Palestina, pensa subito a facilitare i certificati per la nostra partenza. Tutto questo anche per zio Ettore, zia Marina, Gianfranco e Anna. Ora smetto, mi sono dilungata troppo e ti ho dato troppo brutte notizie. Speriamo di riunirci al più presto e che i cari lontani ritornino. Ti bacio e abbraccio tanto, grazie per la tua bella lettera a cui speriamo ne seguiranno altre,
Mamma


PS: Riceviamo ora la tua del 15.8.44. Stai tranquillo per noi, stiamo benissimo, non ci manca nulla, prendi pure la strada che preferisci, continua a studiare e non ti preoccupare per noi. Saluti, mamma
Santa benedizione e baci, papà, e buon anno.-- I Sermoneta partirono per la Palestina con la grande aliah dall’Italia del marzo 1945, raggiungendo Joseph Baruch. Tornarono con lui in Italia alla fine del 1946. Facemmo entrambi i viaggi insieme. Baruch fece privatamente gli studi liceali, conseguendo la maturità, quindi si laureò brillantemente in filosofia all’Università di Roma, e tornò in Eretz Israel con la moglie Maia Jenni Minerbi. E’ morto nel 1992. La moglie e i figli vivono In Israele, dove pure vive uno dei figli di Rosa, Michele, rabbino in yeshivah a Bené Beraq, la cittadina dove la mia famiglia abitò insieme con i Sermoneta.
da "Il Tempo e l'idea" Hazman Veharaion





deserto della Giudea

UN DOCUMENTO DEL 1938

LETTERA DI UNA EBREA FASCISTA A VITO MUSSOLINI

E’ pubblicata in parte nella raccolta, a cura di Paola Frandini, Ebreo, tu non esisti!, le vittime delle leggi razziali scrivono a Mussolini, San Cesario di Lecce, Manni, 2007. Qui la riproduciamo interamente, con una introduzione.

Molti ebrei, ad ogni attacco antisemita della stampa fascista, scrissero ai giornali nel ventennio, e più che mai all’avvicinarsi della bufera, nel 1937-38. La lettera che pubblichiamo, di una ebrea fascista, subito all’indomani del manifesto della razza, firmato dagli scienziati, spicca per estensione di pagine, per sofferto ed acceso tono personale, per il passaggio dal cruccio per la svolta razzista allo strenuo ed ingenuo suggerimento di un formula che conciliasse con il principio della razza la permanenza degli ebrei nella patria e nel regime.
La ho reperita tra la documentazione della Segreteria particolare del duce e la pubblico per intero, nella sua prolissità di scritto, che aveva a monte il trepidante interesse per la politica ebraica del fascismo e che si snoda tra apologetica del patriottismo ebraico, appello alle passate rassicurazioni, sforzo di convincere il big cui si rivolgeva, ricerca della formula salvifica: va bene, non facciamo parte della razza, giacché la avete decisa, ma riconoscete che siamo italiani per meriti e per sentimento.
Nel numero scorso, per un quesito posto da Carla Forti a proposito di Pardo Roques, si parlò del bivio epocale tra l’ italiano ebreo e l’ ebreo italiano. Questa signora o signorina, di nome Vittoria e di cognome Levi, è prototipo dell’italiana ebrea. Viveva a Milano. Era colta, documentata, ma non una intellettuale. Dal Gruppo universitario fascista passò nel 1935, nell’emblematico giorno delle sanzioni, nel Partito nazionale fascista, con piena e sincera fede. Si sentiva, al tempo stesso, ebrea, nell’accezione unicamente religiosa del termine, e non rinnegava l’ebraismo. Non distingueva bene i concetti di assimilazione e di integrazione, usando solo il primo dei due termini, come molti facevano, e affermando che gli ebrei italiani erano assimilati in tutto, tranne per la religione. Evitò di scagliarsi contro i sionisti e contro i correligionari antifascisti, presenze scomode, volendo sostenere che il complesso degli ebrei italiani fosse univocamente italiano e fedele al regime. Solo nell’ultima parte, riflettendo sul capo d’accusa che le si sarebbe opposto, relativo al sionismo, vantò come rappresentative dell’ebraismo italiano le posizioni de “La Nostra Bandiera” e del Comitato antisionista degli italiani israeliti. Le leggi antiebraiche non erano ancora state varate, ma Vittoria, procedendo nel dolente ed appassionato scritto, le mise in conto, dando comunque la priorità all’offesa dignità morale e patriottica rispetto alle conseguenze pratiche che sarebbero venute dai provvedimenti.
Chiedeva dunque a Vito Mussolini di pubblicare sul “Popolo d’Italia” un codicillo al manifesto della razza, che salvasse l’appartenenza degli ebrei italiani all’Italia, sotto forma di affiliazione volontaristica, per meriti e per sentimento. Riusciva patetica nell’addurre anche un elemento fisico di somiglianza, dato che la fisionomia (le facce) degli ebrei italiani era diversa da quella degli altri ebrei e simile a quella degli italiani. Stentava a rendersi conto che il manifesto degli scienziati era stato voluto dal duce proprio per escludere gli ebrei.
La lettera non fu pubblicata, e, a parte la censura antisemita ormai imperante, non si prestava per la lunghezza alla pubblicazione. Del resto lei stessa la concepì per ottenere un passo a favore degli ebrei sul giornale di Mussolini e non per essere pubblicata.
Non riporto l’elemento, particolarmente privato, del suo indirizzo di casa, da lei indicato sotto la firma, per coraggiosa presentazione e nella speranza di ricevere una risposta, che non credo le sia giunta. Ma la lettera, a sua insaputa, fu evidentemente giudicata interessante, se ne venne dattilografata la copia e serbata tra le carte della Segreteria particolare del duce. La scrittura di questa parola in lettere stampatello, DUCE, era divenuta d’obbligo.
Giacomo Venezian, caduto nel 1849 a difesa della Repubblica Romana, viene confuso con l’ omonimo irredentista e giurista caduto nella prima guerra mondiale.
Nel Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion compaiono due persone con il nome e cognome VITTORIA LEVI, entrambe deportate e soppresse, l’una nata nel 1869 a Casale Monferrato e l’altra nel 1888 a Urbino. La loro età non si addice all’autrice della lettera, che fu studentessa universitaria nei primi anni ’30. Non posso dire se fossero sue ascendenti o parenti.
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Dott. Vito Mussolini
Direttore del “Popolo d’Italia”
Milano - Via Arnaldo Mussolini 10

Permettetemi di scriverVi in merito a una dichiarazione emanata dal Vostro giornale, oltre che da tutti gli altri giornali. Preferisco rivolgermi a Voi, perché siete il figlio di Arnaldo, il nipote del nostro DUCE, il direttore infine del giornale fondato dal DUCE.
Mi rivolgo a Voi da italiana a italiano, da fascista a fascista, e perdonate se l’argomento è delicato, ma ho voluto scriverVi perché l’affermazione che dico mi è arrivata come una mazzata e mi è motivo (e non solo a me credetelo) di strazio indicibile. Abbiate la bontà di leggermi fino in fondo, Vi scongiuro.
Come vedrete dal mio stesso cognome, io sono ebrea di religione, e l’affermazione di cui parlo è quella di quel gruppo di docenti che, fissando la posizione del
Fascismo nei confronti della razza, ha reso noi, italiani ebrei, stranieri nella nostra patria!
Ebbene, a Voi, figlio dell’indimenticabile Arnaldo e nipote del DUCE, io dico /e con me dicono gli ebrei italiani tutti): fate tutto quel che volete, discutete sulle razze, diteci anche, se vi piace, che noi ebrei apparteniamo a una razza inferiore e degradata, tutto vi permettiamo, ma non dite, in nome di Dio, che non siamo italiani come voi! Questo no! E permettetemi, vi prego, di fissare in poche parole la posizione vera degli ebrei in Italia.
Nello scritto anzidetto, viene affermato nel modo più categorico che esiste una pura razza italiana appartenente alla razza superiore ariana. E va benissimo. Potrei ricordarVi che nel Congresso tenuto a Londra (il “Congresso antropologico”) nell’agosto 1934, al quale parteciparono fra gli altri l’accademico Pettazzoni e Lidio [Lido] Cipriani, venne affermato che “i mediterranei furono creatori della prima civiltà” e che “la razza ariana non è mai esistita” (relazione dello stesso Cipriani nel “Corriere della Sera del 19 agosto 1934 – XII); ma io non me me intendo di antropologia e vi riferisco solo quanto detto allora. Posso ricordare però quanto disse il DUCE stesso al Ludwig: “Non esiste più alcuna razza pura e neppure gli israeliti sono rimasti senza mescolarsi. Precisamente da felici mescolanze sono spesso derivate la forza e la bellezza d’una Nazione. Razza: ciò è sentimento, non realtà! Io non crederò mai che possano dimostrarsi razze più o meno biologicamente pure…” (Emilio Ludwig, “Colloqui con Mussolini”, Mondadori ed., Milano).
Comunque, ammettiamo pure che esista una pura razza formata però dalla felice mistione di più razze diverse. E qui vengo, a questo punto, all’affermazione che mi preme: per quei “docenti d’Università” saranno senza dubbio forti in antropologia, ma non altrettanto nella storia, oltreché difettano di memoria e perciò sbagliano grossolanamente. E infatti: 1) – “…Il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, ecc.” I docenti in questione affermano con sicurezza che ciò avvenne “perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani.” Io non discuto affermazioni scientifiche proclamate così “ore rotundo”, ma ricordo molto bene un elemento che è a loro sfuggito perché appartiene alla storia: il “ghetto”! Diamine, possibile che non se ne siano ricordati? Il processo d’assimilazione fu sempre rapidissimo, ma gli ebrei durante i secoli nonsi sono assimilati: ma diamine, l’avessero pur voluto, i cristiani l’avrebbero loro impedito, anzi l’ hanno senz’altro impedito appunto con la creazione del ghetto per segregarli! E se è ben naturale che, in tempi in cui la religione sovrastava sin alla scienza, venissero allontanati gli ebrei dal consorzio umano, è altrettanto evidente che è questa appunto la causa per cui non han potuto assimilarsi prima! I ghetti furono fatti “proprio” perché non si assimilassero. Le altre stirpi si sono assimilate fra loro e quella ebrea no? Ma le altre stirpi non c’entravano con l’uccisione di Gesù Cristo, quindi per esse sarebbe stato assurdo il ghetto e cioè la “voluta” dai cattolici separazione! E’ chiaro! Non è più dunque per gli “elementi razziali diversi”! Ho detto poi che quei docenti illustri mancano pure di memoria; infatti 2) “gli Ebrei non si sono mai assimilati”: potevano almeno, per imparzialità, aggiungere: “nel corso dei secoli” (e sempre per la ragione che ho detto io, della non voluta assimilazione da parte dei cristiani, cosa umana del resto, dati i tempi). Giacché se l’assimilazione non è avvenuta nel Medio Evo, è pur avvenuta – e intermante – non appena gli ebrei ebbero uguaglianza di diritti. Non ricordano più che il ghetto udrò sino a metà dell’800 e che quindi è stato abolito – e permessa quindi l’assimilazione, prima non permessa – appena un secolo fa? E non ricordano parimente che, ancora vigente il ghetto, gli ebrei italiani cooperarono coi cattolici per l’Italia, e che (lo voglio dire con le parole di uno che non potrà essere accusato di essere ebreo, né tanto meno di non essere patriota di fede provata, e morto in questi giorni: Dario Lischi,* nella sua rivista “Costruire” del giugno (o luglio, non ricordo bene ora del 1937): “… in Italia … gli Ebrei da lungo tempo si sono amalgamati con la popolazione italiana, fino a dividerne le vicissitudini volontariamente e spesso con slancio, fino a sopportare uniti gli stessi sacrifici, i martìri, fino a dare con sincerità il proprio sangue oltre che gli averi, in perfetta comunione di idee e di spirito, per gli stessi altissimi scopi di grandezza nazionale”. E proseguiva: “Il nostro Risorgimento ha fra i suoi maggiori e più sublimi esponenti, accanto a religiosi cattolici … molti nomi di ebrei che, cospirarono, patirono nelle segrete dell’oppressore, si batterono nelle file garibaldine e … nelle città, nel campo del lavoro e della produzione … La nostra storia ci mostra numerosi ebrei che furono studiosi, soldati, magistrati integerrimi e valorosi, scienziati insigni, lavoratori accaniti e diritti, statisti di italianissima fede e benemeriti della Patria in mille guise. La grande guerra vide gli ebrei battersi gomito a gomito con i cattolici …, così come fra gli ebrei si ebbero rappresentanti all’estero della nostra Patria, accorti, sagaci, animati da spirito altissimo di patriottismo. Né mancarono gli ebrei nelle file squadriste e in quelle fasciste della Vigilia (e fra i Sansepolcristi: anche 2 donne) quando tanti e tanti “non ebrei” erano perfettamente e accanitamente nemici del nuovo Verbo Mussoliniano. Così, nella guerra per la conquista dell’Abissinia i nomi ebrei di volontari e combattenti sono innumerevoli in tutti i gradi … (e così ora in Spagna) e di ebrei di senno e di valore, di rettitudine e di ideale, il nostro Governo seppe ripetutamente valersi in molte occasioni.
Tutto ciò … pur rimanendo ligi alla loro religione, alla loro compattezza di razza, o meglio di origine lontana …”. E aggiungeva: “Non è una difesa degli ebrei, questa: è una constatazione semplice e pura, di dati di fatto da tutti conosciuti e facilmente documentabili”. E più sotto: Essi si avvicinarono spiritualmente al resto della popolazione, e finirono col divenirne parte integrale, lasciandosi di buon grado assorbire dalla grande razza italica, formata appunto dall’amalgama e dalla fusione di cento razze diverse, attratte e plasmate insieme dalla superba forza di assorbimento e di assimilazione della razza latina”.
Uguale osservazione faceva, nella rivista garibaldina “Camicia Rossa” dello stesso mese e stesso anno, Ezio Garibaldi, il quale pure non è ebreo ed è fascista tra i primi, e che aggiungeva che almeno “il razzismo hitleriano … si ricollega a miti e leggende ancora vivi nel cuore del popolo tedesco, ma nel cervello e nell’anima dei nostri razzisti nulla vi è di veramente italiano: imbevuti di dottrina straniera, ammiratori servili della cultura straniera” e rammenta, fra i massimi, Sidney Sonnino, Giacomo Venezian (medaglia d’oro, caduto a Roma nel 1849 e fondatore della “Dante Alighieri”, la società così benemerita per la difesa e la propaganda della lingua e cultura italiana all’estero)*, Raimondo Franchetti, il diciassettenne Roberto Sarfatti e il sessantenne Giulio Blum, medaglia d’oro della grande guerra … E voglio pur ricordare che alla morte di Marconi, nell’articolo “La radio, scienza italiana” di Riccardo Moretti sulla “Tribuna”, si nominò Alessandro Artom, creato barone da S.M. il Re per le sue benemerenze patriottiche oltre che scientifiche, fondatore della radiogoniometria; e il sommo glottologo fondatore della glottologia italiana, e fervidissimo patriota (nonché ebreo praticante!) Graziadio Isaia Ascoli. E’ il caso di dire con Ezio Garibaldi che “Tutti intenti a compulsare i fasti delle stirpi nordiche, i nostri razzisti ignorano certo la più recente storia d’Italia, bisogna quindi compatirli”! E così ha detto molti altri in diversi giornali (“Popolo d’Italia” compreso).
E tutto questo non solo capovolge l’affermazione di quegli illustri professori per cui “gli Ebrei non si sono mai assimilati in Italia”, ma schiaccia pure ampiamente l’altra loro affermazione per cui “dei semiti venuti in Italia nulla in generale è rimasto”, come l’occupazione araba in Sicilia che “nulla ha lasciato all’infuori di qualche nome”. E’ vero questo anche riguardo agli Ebrei (che, fra parentesi, come disse il DUCE “sono a Roma sin dal tempo dei Re”)? gli articoli del Lischi e del Garibaldi, oltre all’affermazione del DUCE nel dicembre 1935: “Da molti anni gli ebrei italiani prendono viva parte alla vita politica, scientifica ed artistica dell’Italia”, non confutano forse abbondantemente questa affermazione? E le parole del DUCE nella stessa epoca (dicembre ’35): “In questi giorni, grandi per la Nazione italiana, io dichiaro che gli ideali italiani ed ebraici sono pienamente fusi in uno solo” (dal messaggio alla Delegazione Studentesca ebraica americana), non dimostrano forse inconfutabilmente che gli ebrei italiani si sono perfettamente assimilati? Se lungo i secoli non poterono causa il ghetto, arrivato il Risorgimento e abbattuto il ghetto, essi si unirono ai cattolici e affrettarono rapidissimamente il processo di assimilazione, facendo in pochi anni ciò che avrebbe dovuto avvenire nel corso dei secoli, bruciando per così dire le tappe di tale processo.
E del resto, parliamoci chiaro, quei professori dicono che le altre razze in Italia si sono assimilate in modo rapidissimo; e sia pure; ma quando da tale fusione si generarono le varie regioni, è vero o no che gli italiani si combatterono sempre gli uni gli altri, dimenticando di essere tutti italiani a un modo e cioè per l’appunto di una stessa razza? Milano contro Como, Siena e Lucca, Lucca e Firenze, Lucca e Pisa, Genova e Venezia … e non si continuò così sino a epoca recentissima? E non è forse vero che D’Azeglio disse: “Ora che è fatta l’Italia, facciamo gli italiani”, appunto perché non avevano ancora la coscienza di esserlo tutti e perciò in altre parole non erano ancora perfettamente assimilati? Tanto che D’Azeglio stesso nei suoi “Ricordi” (v. ed. Barion a pag. 46) rammenta che suo padre dopo l’annessione del Piemonte alla Francia andò a Firenze come “in terra d’esilio”, appunto perché allora non si pensava ancora che si era tutti italiani? E non è forse vero che solo ora col Fascismo sono scomparsi i campanilismi; e che anzi il DUCE stesso dovette ordinare che cessassero la “Famiglia Turineisa”, la “Famegia Veneziana” ecc. ecc. e che ciò vuol pur dire anche che, se quelli non l’avevano abolita da sé, era perché l’idea dell’unità e uguaglianza tra italiani non era ancora penetrata bene nelle loro menti? Devo forse ricordare che si disse che solo il Fascismo ha compiuto “l’assimilazione” (sì, fu detta proprio questa parola) di tutti gli italiani? E devo forse dire (è vero o no?) che ancora adesso si sentono certuni (e sia pure vecchi) che dicono parlando di uno e con disprezzo: “E’ un napoletano” o: “son tutti veneti quelli lì!”: quante volte mi capita ancora! Sono “ assimilati” questi? O non son più assimilati gli ebrei?? E se gli ebrei han combattuto, lottato, difeso l’Italia, cooperato con Essa, tutti, non è questa una prova che si sono assimilati? Han forse lottato per se stessi o per un ipotetico regno d’Israele? No, ma solo come italiani. E se all’epoca delle sanzioni, nella raccolta dell’oro, tutte le Comunità ebraiche d’Italia han dato, non solo oro e denaro, ma fin le chiavi dell’Arca Santa e le corone d’oro che contengono i rotoli della Legge, cosa non mai avvenuta, (corrispondono per importanza sacra alla Pisside che contiene le Ostie Consacrate), non è perché si sono assimilati? E se per la vittoria i templi furono gremiti (lo riferirono igiornali) non è perché si sono assimilati?
Gli stranieri, anche ebrei (sin dall’Egitto: “Popolo d’Italia” del 22 febbraio 1936 – XIV) offirono oro anch’essi, e furon lieti della nostra vittoria: ma non offrirono certo gli oggetti sacri come gli italiani (cattolici e ebrei) né andarono in chiesa a ringraziare Iddio!
Questo l’abbiam fatto solo noi, perché era una cosa intima che toccava solo noi. Se gli ebrei non fossero tutti assimilati, l’avrebbero fatto? Tranne alcuni pochi, la massa sarebbe rimasta amorfa, indifferente, o almeno simpatizzante, ma nulla più – spettatrice ma non attrice anch’essa -. E allora? Non è forse perché ha riconosciuto ciò che il DUCE, nell’intervista accordata a Generoso Pope e da questi riprodotta nel suo giornale “Il Progresso Italo-Americano” di New York del 20 luglio 1937, disse a proposito degli ebrei italiani, fra l’altro: “Ti autorizzo a dichiarare … agli ebrei d’America … che ogni loro preoccupazione non può essere che frutto di malevoli informatori. Ti autorizzo a precisare che gli Ebrei d’Italia hanno avuto, hanno e continueranno ad avere lo stesso trattamento d’ogni altro cittadino italiano e che nessuna forma di discriminazione di razza o di religione è nel mio pensiero …”
Voglio pur rammentarvi la nocina “Attenzione” di E. Bir. In “Libro e Moschetto” del 22 aprile 1937 (e non si potrà dire che non sia un giornale fascistissimo), che dice fra l’altro: “che proprio nella terra che fece da culla alla latinità si sviluppino “ideologie” tanto poco “Latine”, questo davvero meraviglia … si tenta cioè di far serpeggiare … un concetto nuovo, il quale esula da ogni precedente presupposto … del fascismo e che del pari esula da ogni tradizione latina e italica: il concetto prevenzione di razza. Questo, ripetiamo, meraviglia, per una Italia risorta ad immagine di quella Roma che raccoglieva in fascio tutte le forze, da qualsiasi parte sorgessero, purché informate a princìpi sani, costruttivi e, in una parola, imperiali. Preoccuparsi come fanno gli autori di quei libri e redattori di quei giornali della diversità di razze in Italia e dei loro effetti, equivale a ingerirsi, senza
esserne chiamati né averne l’autorità, nell’ufficio proprio di quella legge fascista di cui abbiamo detto … Oltre a tutto ciò, sussistere [insistere] su tale opera equivale a condurre un’azione contraria alla utilità della vita pubblica, creando malintesi, inasprendo attriti … fomentando in una parola ragioni polemiche in seno al popolo italiano … che non possono che intralciare l’opera di lavoro cameratescamente condotta fra tutti i componenti del popolo stesso. Per non dire poi che i concetti esposti in quei libri e in quei giornali non possono che far sorridere ogni buon lavoratore dell’intelletto”.
In quanto poi all’assimilazione per se stessa, mi sembra che noi ebrei italiani abbiamo (come tutti possono notare) una faccia diversa dagli altri ebrei stranieri, e persino il “Messaggero” di Roma (non certo giornale ebraico o antifascista) diceva in proposito (settembre 1936) : “Da vari viaggiatori si è rilevato nella fisionomia dei nostri ebrei un carattere diverso da quello degli altri, stabiliti altrove. Quali maggiori titoli per una integra romanità? E non solo fra i bianchi, giacché nemmeno questi antropologi ignoreranno che esistono ebrei negri (i Falascià del nostro Impero) e gialli (cinesi e giapponesi): se non è un’assimilazione questa, non saprei come chiamarla! In una sola cosa non ci siamo assimilati: nella religione. Ma è per la stessa ragione per cui anche in Germania, dove pure tutti sono tedeschi ad un modo, non avvengono matrimoni (e cioè assimilazione) tra cattolici e protestanti, e non già per disprezzo o per fare parte a sé, ma solo per la educazione religiosa da dare ai figli, affinché non nutrano dubbi, o, se lasciati liberi, non crescano poi liberi pensatori e cioè atei.
E concludo – Vi ho dovuto esporre particolareggiatamente, riferendo frasi di altri e del DUCE, per non parere che scrivessi per semplice difesa o per spirito di parte. Vi ho voluto pericò dare testimonianze irrefragabili e di persone che non possono essere sospettate di non essere fasciste di fede provata né di essere ebree. Vi scongiuro ora di pubblicare sul “Popolo d’Italia” una rettifica brevissima, così concepita: 1) E’ necessario che gli Italiani siano gelosi custodi della loro razza magnifica e che perciò non si mescolino ad es. coi negri, ecc. – Però: 2) gli Ebrei non si sono assimilati durante i secoli non perché sono appartenenti a elementi razziali diversi, ma perché costretti a tenersi segregati nei ghetti, con minacce spesso se avessero voluto uscirne – 3) Non appena però furon liberi e spesso prima ancora di esserlo, cooperarono coi cattolici per l’Italia, contribuendo alla sua prosperità e salvezza in tutti i modi, dal Risorgimento alla Grande Guerra al Fascismo, alla Guerra per l’Impero alla lotta in Spagna, compiendo in pochi anni quella perfetta assimilazione che avrebbe dovuto avvenire nel corso di secoli, come fu riconosciuto da tutti e dal DUCE stesso; 4) E’ perciò anche vero che moltissimi italiani noti in vari campi sono di religione ebraica, e che comunque, se non si fossero tutti assimilati perfettamente, tranne alcuni pochi, la massa sarebbe rimasta amorfa e indifferente e non avrebbe tutta intera partecipato con slancio a tutte le vicissitudini della Patria, come è stato da tutti riconosciuto – 5) E’ per queste ragioni che il DUCE ha detto che anche gli ebrei non sono rimasti senza assimilarsi ed ha assicurato che mai gli sarebbe venuto un pensiero di discriminazione di razza, riconosciuto anche da altri fascisti, dannoso perché fomentatore di dissidi nel popolo italiano, formato da cento razze diverse e che solo col Fascismo si sono amalgamate del tutto, abolendo i campanilismi vari. Siamo dunque pure razzisti, ma non in questo senso.
Questo è quanto – e vi scongiuro, solo questo, pubblicate nel vostro giornale, perché è una rettifica doverosa! Perché non è vero ciò che han detto quegli studiosi in proposito alla presunta assimilazione degli ebrei e alle sue cause!
Non è vero, né che sia stato per quelle cause, ne che [non] si siano assimilati mai! Quelli che hanno così affermato o non si sono ricordati come stan veramente le cose, presi com’erano dalle loro reminiscenze scientifiche (perché non si può certo dire che ignorino queste cose, che tutti sanno) o (per usare una frase del DUCE) mentiscono sapendo di mentire. In un caso o nell’altro, affermano cose errate: me ne appello al Vostro buon senso, alla Vostra cultura e soprattutto al Vostro senso fascista. Non vi costerà niente fare questa rettifica: è una cosa di politica interna dell’Italia su cui nessuno potrà ridire, perché se è giusto, anzi doveroso. Che anche l’Italia sia razzista e cioè gelosa custode della propria razza, non è mano giusto riconoscere agli ebrei italiani il posto che loro spetta di diritto nella formazione della Nazione e perciò la loro appartenenza alla razza italiana (e non solo di diritto ma anche di fatto: non vedete la fisionomia?). E’ doveroso che tutte queste persone che hano lottato e lottano per l’Italia non si sentano negare l’appartenenza alla loro Patria: che tanti che han combattuto per il trionfo del Fascismo vengano straziati nei loro più cari sentimenti proprio dal Fascismo. Insegnerete dunque tutti ai vostri figli di riguardare gli ebrei come stranieri e dir loro: “Non siete dei nostri?” Dovreste, per far questo far togliere dai musei del Risorgimento e di Guerra tutti i cimeli appartenenti a patrioti che eran però ebrei; dovreste negare a tutti noi l’appartenenza al Partito, che è solo per gli Italiani e non per quelli d’altra razza e sia pure simpatizzanti per l’Italia; dovreste infine dichiarare che tutti noi non siamo italiani integrali come voi, noi che pure abbiamo fatto e facciamo tutto per l’Italia nostra, noi che come voi discendiamo da patrioti e da italiani convinti e integerrimi, come tanti italiani cattolici insigni – primo fra essi il DUCE – ci hanno riconosciuto! Non toglieteci la Patria! Non negate la nostra appartenenza all’Italia come voi! Pubblicate questa rettifica, almeno questa, perché non è vero, perché il pubblico, che non ha la possibilità di controllo - e all’estero – non credano questo, che non è vero! Leggete la “Nostra Bandiera” e ve ne convincerete! Rammentatevi della dichiarazione del Comitato antisionista degli italiani israeliti nel “Popolo d’Italia” del 5 giugno 1937! Quale dolore non sarebbe per Voi, come per qualunque altro Italiano, il sentirsi dire da compatrioti di non essere italiano integrale, dopo aver fatto tanto, non meno degli altri? E’ una rettifica che non toglie nulla al valore della dichiarazione intera “Il Fascismo e la razza”, e nello stesso tempo ristabilisce la verità e non pone stranieri degli Italiani che sono e si sentono tali con tutta sincerità. Più volte si è detto sulla “Nostra bandiera” (rivista di cultura ebraica, torinese) del dolore causato tra gli ebrei italiani da queste insinuazioni sul loro patriottismo. Che diranno ora che si afferma che non sono italiani? Vi rimangerete le parole e avrete preso il DUCE di sorpresa, perché egli aveva sempre dichiarato che non avrebbe mai fatto questo perché non è giusto. Ed ora lo si afferma quasi ufficialmente! Perdonate, Vi prego, tutta questa lettera: Voi avreste fatto altrettanto. Non dico più, ma attendo la rettifica sul “Popolo d’Italia”: l’aspetto da Voi, degno nipote del nostro Capo e degno figlio di Arnaldo – e Ve ne ringrazio.
Saluti fascisti,
Vittoria Levi
(iscritta al P. N. F., dal 18.11. 1935 – XIV, giorno delle sanzioni, proveniente da G.U.F. “Ugo Pepe”)
Milano, 16 luglio 1938 - XVI

P. S. Vi posso aggiungere che, anche se il razzismo italiano cosiffatto non sfociasse in un vero e proprio antisemitismo, sarebbe per noi la stessa cosa: giacché l’eleiminare gli ebrei o viceversa il lasciarli al loro posto come prima, non sono altro che due aspetti diversi della medesima questione, ed è appunto la questione che a noi è penosa, e cioè che, lasciati o no ai nostri impieghi e alle nostre cariche, non siamo più considerati italiani come prima: e credete Voi forse che lo facciamo solo per il nostro tornaconto? Meglio disoccupati che essere occupati ma sentirsi stranieri in Patria! Saremmo peggio dei Dalmati, dei Corsi, dei Maltesi, che almeno hanno per sé la solidarietà degli Italiani e son riconosciuti tali essi pure! Credete che saremmo contenti se tutto camminasse apparentemente come prima ma non fossimo più considerati italiani. E dai nostri stessi compatrioti per giunta? Lo sareste Voi? Ve ne prego, rettificate, fatelo rettificare anche dal DUCE, Voi lo potete fare. E se potete, rispondetemi – Grazie.
Basterebbe che si dicesse: “Gli ebrei non appartengono alla razza [italiana], ma lo sono per sentimento e per ciò che han fatto, quindi siano proclamati italiani, come noi cattolici”.

Nota: Non ho trovato nell’annata 1937 l’articolo, citato da Vittoria Levi, di Dario Lischi, nato presso Pisa nel 1891 e morto nel 1938. Con maggior tempo consulterò l’annata 1936. Nell’annata che ho consultato Lischi e la sua ivista effettivamente non si univano al già iniziato coro antisemita, ma affermavano la supremazia razziale sugli africani conquistati ed assoggettati, vituperavano i meticci ed esaltavano l’Asse Roma- Berlino, con la convergenza tra le due rivoluzioni, cosa che avrebbe potuto mettere in apprensione la lettrice ebrea.
Dario Lischi (pseudonimo Darioski) collaborò assiduamente anche alla rivista “Echi e Commenti”, fondata da Arturo di Castelnuovo e la lunga conoscenza con questo collega ebreo può forse avere influito, fin quando squillò la diana (ma allora egli morì) nel risparmiare gli ebrei.
da "Il Tempo e l'idea" Hazman Veharaion