giovedì 19 giugno 2008

ZVI YANAI IL FRATELLO PERDUTO
(Titolo originale Schelcha, Sandro)


Trad. Raffaella Scardi, Ed. Bompiani (Prima edizione: Maggio 2008) pp. 444 €. 19,00

“Esimio Prof. Benvenuti….Spero non le dispiaccia se le pongo una domanda personale. Nel breve accenno biografico che appare alla fine dell’articolo del periodico ‘Savana’ si ricorda che lei è un professore emerito di settantun anni del Dipartimento di Evoluzione ecologica dell’Università di Roma…..io avevo un fratello, di due anni più grande di me, di nome Romolo, come lei….”

L’ultimo scrittore incontrato a Torino in occasione del Salone Internazionale del Libro è stato, come ricorderete, Zvi Yanai. Ho terminato proprio in questi giorni il suo “Il Fratello perduto” e ripeto quanto ho già scritto: di un libro che ti è piaciuto, puoi dire, una volta per tutte, sono arrivata alla fine?
Si tratta di un autentico “romanzo di formazione”, una sorta di trave portante nella costruzione della personalità, impegno che dura una vita, anche quando riterresti, con una certa presunzione, di essere carica di esperienza e in grado di somministrare salutari insegnamenti ai più giovani.
Qual è la storia, che non dev’essere qui rivelata appieno, anche perché lo stesso protagonista non scopre del tutto le sue carte?
Zvi Yanai, nato a Pescara nel 1935 come Sandro Toth, notissimo divulgatore scientifico israeliano, autore di numerosi volumi, nel febbraio 2004, in occasione della lettura di un articolo su una rivista specializzata, viene a sapere dell’esistenza di un certo Prof. Romolo Benvenuti dell’Università di Roma. Decide di scrivergli per formulargli alcune domande in ordine al comportamento dei grandi mammiferi, erbivori e predatori, ma non solo. La circostanza funge da pretesto per rivolgere al Professore, dopo alcuni preamboli e accenni generici, una domanda personale: sei tu il mio fratello Romolo, maggiore di due anni, nato a Catanzaro nel 1933, lasciato dai nostri genitori presso una balia per una qualche ragione misteriosa, del quale, in un certo senso, io ho preso il posto all’interno della famiglia?
Il Professore, nella sua risposta, dopo aver confermato la propria nascita a Catanzaro in quell’anno fatidico, esprime rammarico per la scomparsa di questo fratello, suo omonimo, e poiché l’interlocutore è israeliano, domanda: “Gli eventi sono forse legati alla Shoah?”
Lo Scrittore, premesso che il piccolo Romolo non è stato una vittima della Shoah in senso letterale, conferma il legame con questa tragedia di tutta la sua famiglia e fornisce le prime notizie sui parenti più stretti. I genitori, in primo luogo, entrambi artisti: il Padre, Kalman Toth, ungherese protestante, baritono; la Madre, Juzi Galambos, austriaca ebrea, ballerina, assai più giovane di lui.
Si erano incontrati nel 1929, forse a Budapest, forse a Graz (dove la mamma di lei, Luisa Löwy, possedeva un negozio di corsetteria) e poco dopo erano partiti insieme per un giro di spettacoli in Italia, da Pordenone a Palermo; Catanzaro ne era stata una delle tappe. Lì era nato Romolo; poco dopo veniva reperita una balia, cui lasciare in custodia il piccolo. I primi punti interrogativi riguardano proprio quest’ultimo; non tanto in ordine alla data di nascita, che è certa, ma circa il “dopo”, a cominciare dal nome e cognome della persona cui il bambino fu affidato.
Nella sua risposta il Prof. Benvenuti non conferma né smentisce. Tuttavia è significativo che accetti di continuare quell’insolita corrispondenza. Unica pre-condizione: “Se lei intende continuare a trattare argomenti personali, le chiedo la sua parola che il contenuto delle mie lettere non sarà mai rivelato, né per iscritto né verbalmente”.
L’Autore, di rimando, garantisce la riservatezza.
A questo punto è la voce di Zvi o, per meglio dire, di Sandro, quella che ascoltiamo nella nostra lettura; Romolo entra nell’ombra. Da romanzo epistolare a diario, sia pure con caratteristiche peculiari.
Sandro ci riporta, qua e là in breve, le osservazioni di Romolo su questo o quell’episodio, su questo o quello stato d’animo delle numerose persone che anche noi impariamo a conoscere in una complessa vicenda, che è, al tempo stesso, storia dell’Italia tra le due guerre e oltre, storia dell’Europa continentale sfregiata dalla barbarie nazista, storia del popolo ebraico sofferente, ma forte nella sua identità.
Alla base della narrazione sulle vicende della famiglia sta un fascio di lettere pervenuto al fratello della madre, Shaul (lo “zio Pali”) e passato, dopo la morte di questi nel dicembre 1991, in possesso dell’Autore. Lettere ”…scritte in ungherese, alcune su una sottile carta da pacco, per la maggior parte in matita, sbiadite dal tempo”, a volte senza data o destinatario; difficili per questo da decifrare. Per di più il fascio contiene per lo più missive spedite alla madre Juzi (eccetto quelle scritte dalla stessa al fratello in Israele); quindi le vicende vissute da lei nel decennio oggetto del racconto è noto tramite le testimonianze altrui. Dunque “ il plico di documenti in mio possesso è un groviera tutto buchi. Anzi…un mezzo groviera…..l’altra metà è andata perduta, irrecuperabilmente, in quanto i destinatari delle…lettere non sono più in vita”.
Aspetto interessante: le lettere della mamma sono state tradotte da una cara amica di Yanai, Agi Yoeli, una scultrice nata in Cecoslovacchia. Egli scrive a proposito di quest’ultima: “…è passata attraverso i campi di sterminio, dove ha conosciuto sofferenze indescrivibili. La principale difficoltà [è stata] il fatto che si immedesimava con l’epoca e i protagonisti della nostra storia: scene atroci e ricordi amari, incisi nel suo cuore da cinquant’anni, si sono risvegliati”.
Prendono corpo gli attori della storia, a cominciare dalle figure familiari.
La Nonna materna Luisa Löwy, vedova di Marton Galambos (pittore). Vive, come sappiamo, a Graz dove ha un negozio di corsetteria; è una donna di grande umanità, forte figura di mamma ebrea; di continuo preoccupata anche per la sorte dei figli, Juzi e Shaul. Patisce, in quanto ebrea, sofferenze indicibili specie dal 1938; disperati sono i tentativi di sottrarsi alla tenaglia che si stava richiudendo su di lei (come su tutti gli Ebrei austriaci che non avevano abbandonato per tempo il Paese); avrebbe voluto andarsene a sua volta, ma era timorosa di lasciare la sorella maggiore, Lina, anziana e malata. La decisione di rinunciare ad un viaggio in Italia per comperarsi un nuovo cappotto (date le ristrettezze di vita) le fu fatale. E comunque, per diverse complicazioni burocratiche non trovò nessun Paese disposto ad accoglierla. Ogni prospettiva di emigrazione svanisce e tutte le porte si chiudono prima ancora di aprirsi davvero. La situazione diventa sempre più insostenibile, gli Ebrei sono ridotti progressivamente ed inesorabilmente alla fame (“Siamo in cammino verso l’orrore” scrive in una lettera a Juzi); vive un’alternanza di disperazione e illusioni. Nonostante tutto questo, la sua principale preoccupazione sono figli e nipoti, compreso Romolo.
Il 28 febbraio 1941 viene deportata vicino a Lublino, dove gli Ebrei sono ammassati in un ghetto. Ciò che commuove in questa donna è l’estrema dignità. Nel dicembre di quell’anno si ammala gravemente di tifo, ma sopravvive. Muore nel giugno 1942.
Zvi confessa che le numerose missive scritte da Luisa, ora in suo possesso, gli hanno donato dopo 40 anni una nonna che non conosceva; è emozionato dalla potenza della prosa di lei, che paragona a quella di Primo Levi. Da una lettera di Sandro emerge che la figura di Luisa conquista pure Romolo.
I Genitori. La Madre, Juzi (nata nel 1912), è una donna di una bellezza magari non eclatante, ma di grande fascino ed eleganza: ad una delle prime lettere al fratello Zvi/Sandro ne acclude una foto in cui sono visibili le stupende gambe.
Aspetto significativo del libro sono le fotografie in esso contenute, che incorporano tutta un’epoca.
Juzi, ballerina appassionata, madre affettuosa, conduce un’esistenza difficile; tra l’itinerante attività artistica, la cura dei suoi ragazzi (le figlie, Fiorenza e Lisetta, e il piccolo Sandro) e il rapporto col marito, non sempre facile, dato il carattere spigoloso e la forte gelosia di lui. Quando egli, nel 1941, lascia la famiglia per l’Ungheria a seguito di espulsione in quanto apolide, le difficoltà si acuiscono. Durante il soggiorno della famiglia a Castiglion Fiorentino (in provincia di Arezzo) ella si guadagna la vita come insegnante ed interprete di tedesco; a tale proposito resta un mistero come sia riuscita a nascondere alla Wehrmacht il fatto di essere ebrea (ciò era indicato anche nella sua carta di identità temporanea). Juzi si ammala di “angina pectoris” e muore il 9 gennaio 1944: commoventi le immagini che ci donano i suoi ultimi istanti e l’affido dei figli ad una sorta di governante, Ida Brunello, ventiquattrenne di Monselice, incontrata alcuni anni prima, che si era subito guadagnata l’affetto di tutti.
Dopo l’importante lettera del 12 dicembre 2004 nella quale descrive gli ultimi momenti di vita della madre e, in modo più dettagliato, la figura di Ida, Zvi si chiede (cioè chiede a Romolo) se non è il caso di chiudere la loro corrispondenza: ci teneva a far conoscere la storia della famiglia, anche in una sorta di risarcimento per l’abbandono che il fratello ha subìto; abbandono per molti versi misterioso per lo stesso Zvi. Ma Romolo non intende chiudere la corrispondenza e lo “scambio” continua.
Il Padre, Kalman, di diciotto anni maggiore della compagna (i due non erano coniugati; il che costituì, per la nonna Luisa un grave cruccio e non solo per ragioni, diciamo, morali), visto da Sandro piccolo come il “Capitano degli ussari ungheresi”, potrebbe essere definito una figura equivoca: da una parte, infatti, è colui che, in primo luogo, aveva indotto Juzi all’abbandono di Romolo, nato da pochi mesi, e successivamente aveva lasciato la famiglia (complice la difficile situazione politica) per tornarsene in Ungheria alla ricerca di improbabile fortuna; dall’altro era quello che scriveva alla “moglie” lettere appassionate. Ciò che Zvi sa di lui proviene dal famoso fascio di lettere (vi appare sia come cicala canterina che come formica industriosa). Soffre di dolori periodici ad una gamba, che gli causano violente esplosioni di ira. Nel suo Paese d’origine cerca una prospettiva salvifica, che non esiste, data la legislazione antiebraica colà promulgata tra il 1938 e il 1941. Le successive ricerche sulle circostanze della sua morte (avvenuta tra fine ’42 e inizio ‘43) non approdano a nulla (a motivo delle distruzioni belliche), come, del resto quelle sulla fine della nonna.
E’ forse il padre la chiave di volta per comprendere il vero motivo dell’abbandono di Romolo, che era stato dato, ad un certo punto, per morto nel luglio 1934, con una comunicazione inoltrata addirittura sette anni dopo dal Comune di Catanzaro a Juzi, allora residente a Castiglion Fiorentino?
Possiamo sbizzarrirci ad immaginare, fantasticare, nella lettura di questo suggestivo scambio tra ipotetici fratelli, che assomiglia alla luna della quale si conosce solo una faccia; tuttavia è proprio questa conoscenza parziale a rendere ancora più avvincente la storia.
Le missive di Zvi si fanno via via più circostanziate e confidenziali; in quella datata 3 luglio 2004, ad esempio, esordisce, per la prima volta, con un “Caro Romolo” e conclude con “Tuo Sandro” (titolo originale del romanzo).
Ma sappiamo che c’è un’altra importante figura femminile nella vita dell’Autore, dopo la Mamma. Si tratta di Ida Brunello (che oggi ha 88 anni e vive a Torino; dichiarata , nel 1993, “Giusto tra le Nazioni” per l’aiuto dato ai piccoli Toth): persona positiva, dal dolce sorriso (la sua foto è a p. 125) che, molto giovane, fa da madre ai bambini, dopo la morte di Juzi. La sua umanità è pura ed incontaminata, afferma Sandro, come il Lorenzo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Ida, dopo che i ragazzi sono stati qualche tempo ospiti a Monselice della sua famiglia, ritiene doveroso, pur nel grandissimo dolore della separazione, affidarli ai soldati della Jewish Brigade, affinché ritornino in seno al loro popolo. Ed è proprio in uno dei campi della Brigata che Sandro assume il nome di Zvi.
Altro personaggio, rilevante per lo snodarsi delle diverse esperienze, ma lontano dal punto di vista affettivo, è il fratello minore della madre, Shaul, cui pure i fratelli Toth furono formalmente affidati dopo la morte di lei; dico formalmente, perché, dopo l’arrivo in Terra di Israele, essi soggiornarono presso il kibbutz di Ramat David, nella valle di Jezreel, mentre lo zio si limitava a visitarli solo periodicamente, per lo più nel fine settimana.
Pali, nella Palestina mandataria, aveva assunto il cognome di Yanai, che pure Sandro adotterà. Uomo schivo, meticoloso, aveva aderito, fin da quando viveva in Austria, al Betar, il movimento giovanile sionista revisionista fondato da Vladimir Ze’ev Jabotinsky; la lunga egemonia laburista nella vita politica israeliana lo aveva fatto molto soffrire.
Donna generosa e perfino ingenua, per tanti versi inconsapevole dell’incombente tragedia è la cugina ungherese di Juzi, Ilonka Dömjen, la quale si offre di aiutare i ragazzi, rimasti orfani, pur tenendo conto della grave situazione dell’Ungheria (!). Perfino a guerra finita -ella sfugge al tragico destino di tanti suoi connazionali- vorrebbe avere i bimbi con sé in Ungheria; ma zio Pali si oppone. Interessante notare come, in una lettera, Ilonka accenni a quattro bambini, anziché a tre.
La terza donna più importante nella vita di Sandro, dopo la madre e Ida, è Riva Youtzis, che, insieme al marito Shimon, lo accoglie al Kibbutz. I due coniugi (immigrati dalla Bessarabia) impersonano l’ideale sionista di uguaglianza e solidarietà e trasmettono al ragazzo, oltre a questi alti valori, anche un comportamento improntato a riservatezza ed autocontrollo, sviluppatosi a seguito delle gravi difficoltà affrontate nell’arco del tempo: vivere nella Terra di Israele, amata, certo, ma esigente, con vicini ostili pronti ad attaccarti in ogni momento.
Il protagonista fu molto aiutato dagli Youtzis; con loro si instaurò un legame profondo che è durato tutta la vita dei due; e prosegue anche oggi, tramite la loro figlia, Ditta.
L’esperienza del kibbutz, che egli peraltro abbandonò per sempre all’età di diciassette anni, fu tuttavia notevole per la formazione umana e culturale.
Il romanzo può essere letto anche come un libro di storia; che, a differenza di un asettico manuale, contiene pensieri, sentimenti, vicende intime inserite nella tragiche vicende fungenti da sfondo.
Ad esempio l’impegno sionista di Pali è occasione per illuminare il lettore su alcuni particolari della storia degli Ebrei agli albori del regime fascista. Nel primo decennio del suo governo Mussolini vedeva con un certo favore il sionismo, considerato, da una parte, la soluzione al problema dell’antisemitismo in Europa; dall’altro, una sorta di breccia all’egemonia inglese in Medio Oriente. Allorché si rese conto che le principali correnti sioniste erano filobritanniche, egli si rivolse all’ala revisionista; e Yanai riporta un episodio ritengo poco conosciuto.
Le lettere di nonna Luisa ci consentono di rivivere il 1938, l’ “Annus horribilis”, per gli Ebrei d’Europa.
E poi ci sono i grandi eventi che ebbero come teatro il nostro Paese: è evidente che il “25 luglio” e l’ “8 settembre”, l’invasione tedesca, l’offensiva alleata non vengono colti nel loro reale significato da Sandro, data l’età; ciò nondimeno il ragazzo avverte il clima difficile che grava sulla sua famiglia e, tanti decenni dopo, lo scrittore ripercorre tutte le tappe, ad esempio parlandoci dei bombardamenti alleati che la cittadina di Castiglion Fiorentino subì; il più rilevante dei quali fu alle 13.30 del 19 dicembre 1943. Vennero distrutti, ad opera di 36 bombardieri pesanti: l’ospedale (dove Juzi era ricoverata e fu evacuata in tutta fretta con gli altri degenti); la chiesa e due scuole (che i ragazzi Toth avevano frequentato). Ignota la motivazione dell’atto, ma, probabilmente, ipotizza l’Autore, la cittadina fu scambiata per Arezzo.
Le incursioni aeree fecero 108 vittime civili, per la maggior parte il 19 dicembre. Ho sempre sentito parlare di questo episodio: infatti Castiglion Fiorentino (soprannominata “Castiglioni” dai suoi abitanti), in cui mi sono recata alcune volte e che ho ben presente, era il paese d’origine di mio suocero Ferruccio; nel terribile bombardamento di dicembre furono uccisi sua madre ed altri congiunti.
Mi si permetta di approfondire questa digressione personale, anzi familiare. Alcuni anni fa il Comune di Castiglion Fiorentino -con il patrocinio della Regione Toscana, del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali e dell’Unione Europea- ha pubblicato un libretto, a cura del “Circolo di Studio” (associazione culturale locale coordinata da Gabriele Nocentini), dal titolo “Memoria storica delle donne castiglionesi”. In esso sono raccolti i ricordi di vita nella cittadina toscana e, in specie, le testimonianze femminili. L’opera abbraccia un arco di tempo coincidente, per lo più, con la prima metà del Novecento ed è ricca di fotografie, che rammentano, per la spontaneità che le rende davvero suggestive, le immagini riportate ne “Il Fratello perduto”. Forti le reminiscenze del bombardamento del 19 dicembre 1943, domenica; tra queste ecco le parole della cugina Adriana Bernardini (allora undicenne), che scrive: “…..abbiamo sentito un rumore di aeroplani….e fuori c’era gente….Ad un tratto hanno detto: ‘Tirano i bigliettini!!’…abbiamo sentito degli scoppi tremendi…..altro che bigliettini, erano bombe!! Siamo scappati fuori…Il babbo ha guardato il paese e non ha più visto la casa di mia zia….Allora ha detto: ‘Vado a vedere’ Quando è tornato era sconvolto: la casa di sua sorella non esisteva più e tutta la famiglia era sotto le macerie….tutti morti. Il babbo…ha visto mia cugina Piera di otto anni appesa per il vestito alle macerie; gli altri li abbiamo trovati dopo qualche giorno”.
Torniamo alla voce di Yanai.
……E poi la catastrofe degli Ebrei ungheresi, nel 1944: l’occupazione tedesca in marzo e il perfezionarsi della tragedia nei sei mesi successivi, con la complicità delle c.d. croci frecciate di Ferenc Szalasi.
Un libro di storia che ti costringe a confrontarti e a prendere posizione con lancinanti problemi morali: un forte stimolo per un lettore paziente ed attento.
Combattere o stringere i denti e aspettare che la bufera finisse? Abba Kovner, l’intrepido poeta del ghetto di Vilna, o Jacob Gens, il capo della locale polizia ebraica?
Vi sono pure incontri con persone destinate ad illustrare la storia dell’attuale Stato di Israele.
Sulla nave “Mataroa” proveniente da Marsiglia, con la quale i ragazzi salpano da Napoli nel 1945 diretti nella Palestina mandataria, essi incontrano diversi sopravvissuti ai campi di sterminio. Tra questi c’è, insieme al fratellino Naftalì (che diverrà noto giornalista e diplomatico), un bambino di otto anni: il suo nome è Israel Meir Lau (Lolik!), il futuro rabbino capo ashkenazita di Israele, figura di primordine, unanimemente rispettata ed amata, anche da fedeli di altre religioni e da non credenti.
E’ occasione per riflettere sul problema del rapporto tra la giustizia di D-o e la presenza del male nel mondo; l’Autore esprime senza infingimenti la diversità tra la propria posizione e quella del rabbino, la cui fede non è intaccata dal fatto di non riuscire a comprendere la volontà divina (perché Lolik e Naftalì si sono salvati, mentre l’altro fratello e i genitori, Moshe Haim e Raya, no?). Su quella nave, dice Zvi, c’erano due bambini: l’uno discendente da una grande famiglia di rabbini che continua a credere nella sua fede, mentre nell’altro i germogli del dubbio nei confronti di D-o (ebreo o cristiano non importa) si annidano in lui. Per uno il viaggio è il compimento di una promessa, per l’altro è andare verso l’ignoto.
Non mancano accenni significativi al rapporto tra scienza e fede (la differenza tra visione scientifica e visione religiosa): problemi difficili ed affascinanti, che interessano molto Yanai, e che costituiscono pure l’oggetto della sua professione.
Il romanzo è pure giocato sui contrasti: ci sono le persone generose e pronte a sacrificarsi per i ragazzi, da loro amati: come Ida, che già conosciamo; o la Sig.ra Maria Berti Martelli di Bologna, che essi incontrano nel loro viaggio verso il nord con i tedeschi in ritirata, proprietaria di un famoso stabilimento di marmellate ed esponente della Croce Rossa, che li accoglie con dedizione e affetto; ma vi sono anche uomini gretti ed indifferenti, come il Sig. Grifoni di Castiglion Fiorentino, proprietario della villetta affittata ai Toth, che non dette una mano ai fratellini, nemmeno dopo la morte della mamma.
E che dire della figura di Emanuele Weishaar, il sergente della Werhmacht che si commuove per la loro sorte, che avrebbe desiderato portarli nel suo Paese, cioè in Germania (dato che Juzi, della quale Sandro ipotizza fosse segretamente innamorato, era austriaca)? Egli parrebbe ignorare che sono ebrei. Che cosa avrebbe fatto se l’avesse saputo? Scrive Sandro: “Non lo sapremo mai. Voglio credere che Emanuele fosse uno di quei tedeschi che non avevano perso la loro umanità…..Sono cosciente del fatto che non è possibile fare deduzioni da un caso singolo, tanto più quando si tratta della condizione ebraica”.
Altro contrasto: tra il cattolicesimo -cui i ragazzi furono avviati, per ovvie ragioni, fin dal 1942-, rassicurante nei suoi riti suggestivi, specie agli occhi e al cuore di Fiorenza e Lisetta (Sandro è sempre stato uno spirito laico), e la nuova sconosciuta realtà dell’ebraismo: estranea e dura, perché collegata alle difficoltà di adattamento in questa nuova Patria della quale essi nulla sapevano. Nel kibbutz, ci conferma Zvi, non si parlava quasi mai di Shoah, del passato di subordinazione, non c’era tempo, né desiderio per le lacrime: l’obiettivo era costruire l’uomo nuovo, l’israeliano sicuro di sé e combattivo, che sa (di dover solo) contare sulle proprie forze.
Il processo Eichmann, cui l’Autore dedica alcune perspicue riflessioni, produrrà un forte trauma nella vita pubblica del Paese, ma contribuirà ad operare la saldatura tra le diverse anime ed esperienze del popolo ebraico.
A proposito di Ebraismo, di ebraicità, di Israele, insomma di quel nodo di vita vissuta, di valori, di appartenenza, che Sandro vuol chiarire a Romolo (ma soprattutto a se stesso), egli ci rivela che il suo legame non è religioso, ma storico; con Israele esiste un rapporto stretto, proprio in quanto Patria del popolo ebraico e si domanda: forse che “zio Pali” non si meritava uno Stato, lui che, con giusto orgoglio sionista, lasciò l’Austria per ricominciare da zero la sua vita? O l’amata nonna Luisa, non si meritava uno Stato, lei alla quale tutte le nazioni cui si era rivolta avevano sbattuto le porte in faccia, accampando pastoie burocratiche diverse?
Il romanzo ti coinvolge nel profondo per la notevole capacità dell’Autore di suonare i diversi strumenti: storia, letteratura, filosofia e problemi religiosi, i sentimenti più intimi (come quando si rivolge alla mamma o rievoca la sua solitudine e il desiderio di essere coccolato nei primi tempi di vita al Kibbutz); il tutto in un’armoniosa orchestra; ciò non è casuale, se si pensa che lo scrittore ha amato la musica fin da ragazzo, come egli stesso ci racconta.
Paziente ed ammirevole, nella sua capacità di cogliere le sfumature del racconto, la traduzione di Raffaella Scardi, ben nota agli amanti della letteratura israeliana, la cui menzione mi auguro non venga dimenticata nella seconda edizione del romanzo.

CONCLUSIONE
Lo scrittore ripercorre il lungo cammino della storia personale sua e del suo popolo attraverso il racconto delle vicende della propria famiglia proposto a un interlocutore da lui definito fratello maggiore. Ma tale figura è reale o immaginaria? Non lo sappiamo.
Il mistero non è certo sciolto alla fine del libro, con l’ultima lettera, che ha al centro il silenzio di “Romolo”, e alla quale Sandro risponde con un omaggio profumato di reminiscenze infantili; ma nemmeno nell’incontro torinese Zvi Yanai ci ha rivelato il suo segreto.
A noi, modesti ed ammirati lettori, l’ultima parola.

Mara Marantonio Bernardini, 17 giugno 2008
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