sabato 26 maggio 2012

Giustizia: Vietti in Israele, su autonomia pm meglio Italia

(ANSAmed) - GERUSALEMME, 24 MAG - Attenzione al modello giudiziario israeliano in materia di contenimento del flusso di impugnazioni e snellimento del lavoro della suprema corte, ma anche di una maggiore ''contaminazione fra magistratura e avvocatura''. Difesa del sistema italiano, invece, sul fronte delle garanzie d'indipendenza e autonomia dei magistrati e di rifiuto della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Sono queste le riflessioni suggerite oggi al vicepresidente del Csm, Michele Vietti, dai colloqui e dal giro di orizzonte avuti in questi giorni a Gerusalemme con interlocutori israeliani a conclusione d'una visita ufficiale nei Territori palestinesi e nello Stato ebraico.Inaugurata martedi' con la firma a Ramallah di un accordo di cooperazione per la formazione di giudici palestinesi e con una fitta agenda di incontri con la leadership dell'Anp (dal premier Salam Fayyad al presidente Abu Mazen), la missione della delegazione del Csm e' poi proseguita in Israele: dove ieri vi sono stati incontri con i vertici della Corte suprema e con il ministro della Giustizia, Yaakov Neeman, e oggi un omaggio alle vittime della Shoah nel museo-memoriale dello Yad Vashem.Dal dialogo con gli israeliani, Vietti dice d'aver tratto ''una buona ispirazione'' riguardo al sistema delle impugnazioni: che in Italia porta ogni anno sui banchi della Cassazione 80.000 ricorsi; e in Israele, viceversa, si esaurisce nei 4000 dossier discussi dalla Corte suprema locale (che ha per di piu' funzioni di Corte costituzionale). Un divario che Vietti afferma di ''invidiare'' un po' al modello israeliano e che imputa alla ''quantita' di contenzioso assolutamente anomalo'' prodotta dall'Italia rispetto alla gran parte degli altri Paesi a causa di quello che il vicepresidente dell'organo di autogoverno definisce ''un sistema a parallelepipedo'': nel quale quasi tutto cio' che entra in primo grado finisce poi in appello e in cassazione. ''Un lusso - ammonisce - che non ci possiamo piu' permettere'' e che va sostituito (anche attraverso forme di depenalizzazione) con ''un modello a imbuto, o se si preferisce a piramide'', in cui solo una piccola parte di procedimenti raggiunga i gradi ulteriori di giudizio.Dall'analisi comparata con l'ordinamento israeliano, Vietti sottolinea al contrario d'essere uscito ''confortato'' nell'apprezzamento del modello italiano per cio' che concerne le garanzie d'autonomia della magistratura e di rappresentanza unitaria di giudici e pubblici ministeri attraverso un organo - ''quasi un unicum al mondo'' - come il Csm. Premesso che il dibattito sulla separazione delle carriere ''appare ormai accantonato anche a livello politico'', Vietti sostiene in effetti di non vedere motivi per rivedere questa ''peculiarita' italiana''. Peculiarita' - rimarca - che ''tutela l'autonomia, l'indipendenza e l'imparzialita' del pubblico ministero, oltre che del giudice, in un sistema nel quale il pm e' titolare di un'azione penale obbligatoria''. E nel quale, per altro verso, ''all'indipendenza deve corrispondere la responsabilita' e l'impegno a evitare forme di protagonismo inopportune''.Il confronto con altri (incluso il modello di common law applicato in Israele) resta in ogni modo importante, conclude il vicepresidente del Csm, annunciando un programma di scambi di stage fra magistrati italiani e israeliani. E la possibilita' di mettere all'ordine del giorno anche l'ingresso dell'Italia nel circuito di formazione globale dell'International Organization of Judicial Training (IOJT): forum che raccoglie 64 paesi (Penisola per ora esclusa) e del quale il vicepresidente della Corte suprema israeliana ha la presidenza di turno.

Il vecchio, il cattivo e l'islamico

Giornata storica per l'Egitto: ieri, per la prima volta, dopo un sessantennio di dittatura nasseriana, i cittadini sono chiamati alle urne per scegliere democraticamente il loro presidente. Ma i candidati sono più l'espressione di un ritorno al passato, che non esponenti della rivoluzione che ha posto fine al regime di Mubarak. I movimenti nati con la rivoluzione dell'11 febbraio sono i più delusi, i meno rappresentati, sia nelle idee che negli uomini. Nessuno di loro è riuscito ad emergere quale leader del nuovo Egitto.E' paradossale che il candidato di punta di queste elezioni sia, infatti, un vecchio uomo di regime: Amr Moussa. Ex ministro degli Esteri di Mubarak negli anni '90, è noto anche in Occidente per essere stato, nel decennio scorso, il segretario generale della Lega Araba. È il volto pragmatico di queste elezioni. Rassicura sia Israele che l'Occidente, promettendo di seguire la linea tracciata dall'Arabia Saudita nel 2002 e mai abbandonata dalle diplomazie arabe: riconoscimento di Israele da parte di tutti i vicini, in cambio del suo ritiro dai territori occupati nel 1967. Forse anche per questo, in Egitto, può incontrare qualche difficoltà in più. Perché i partiti usciti vincitori dalle elezioni parlamentari, Libertà e Giustizia (espressione dei Fratelli Musulmani) e Al Nour (salafita, ultra-fondamentalista) sono chiaramente ostili a Israele. Queste tendenze non sono appannaggio dei soli estremisti islamici. Anche fra i movimenti di piazza, nel febbraio 2011, Mubarak veniva raffigurato con la stella di David in fronte.In un contesto di antisemitismo rampante, fa impressione un altro candidato laico, il nasseriano Hamdeen Sabahi. Oppositore di Mubarak, dunque con un curriculum pulito anche agli occhi dei rivoluzionari più intransigenti, promette, prima di tutto, di rompere ogni rapporto con Israele, che lui considera uno «Stato razzista e aggressore». Intende abolire il trattato di pace, interrompere le forniture di gas e dichiara che la guerra con lo Stato ebraico «non è da escludere».Da questo punto di vista sono già più raffinati i candidati islamici. Che non parlano esplicitamente di una rottura, ma di una "revisione" del trattato con Israele. Uno strano candidato è Abdel Moneim Aboul Fotouh, medico, indipendente, appoggiato dai salafiti di Al Nour. Promette giustizia sociale, redistribuzione delle ricchezze e più fondi per sanità e istruzione. Non si manifesta come un integralista: al suo fianco, nella campagna elettorale, c'è la professoressa al Mahdi, scienziata politica, laica e liberale (non porta neppure il velo). «Le donne non devono temermi» rassicura Fotouh. E sbanca nei sondaggi: mira a raccogliere sia i voti islamici che quelli secolari. Ma perché i salafiti lo appoggiano? Una sua elezione potrebbe riservare brutte sorprese. Apparentemente è più in difficoltà il candidato dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi. È subentrato all'ultimo minuto al candidato designato da Libertà e Giustizia, il milionario Khairat al Shater e soffre dei tempi rapidi della sua campagna improvvisata. Ma dietro di lui c'è la marea montante organizzata dalla Fratellanza Musulmana, ben radicata nelle moschee e nelle province rurali. E, purtroppo per gli amanti della libertà, l'unica vera alternativa al vecchio regime.http://www.opinione.it/

Archeologia: scoperto il tesoro di Megiddo, il piu' grande di Israele

Gerusalemme, 23 mag. - (Adnkronos) - Una brocca d'argilla risalente al periodo cananeo, recentemente scoperta nel sito archeologico dell'antica citta'-stato di Megiddo, nascondeva un tesoro in oro e argento. Gli archeologi israeliani dell'Universita' di Tel Aviv hanno cosi' scoperto uno dei piu' grandi reperti di preziosi mai trovato in Israele risalente ai tempi biblici. Gli oggetti, rinvenuti in una brocca d'argilla portata alla luce durante uno scavo a Tel Megiddo, vengono fatti risalire a 3.100 anni fa, cioe' all'Eta' del Ferro (1200-550 a.C.), quando il luogo era abitato da una tribu' cananea.

Attesa in Israele per Madonna

(ANSA) - TEL AVIV, 23 MAG - Alla vigilia dell'arrivo in Israele di Madonna, cresce sulla stampa e nei botteghini la aspettativa per il concerto del 31 maggio a Tel Aviv che segnera' l'inizio del suo nuovo tour mondiale contrassegnato dal logo 'Mdna'. L'aereo personale della diva - che in Israele si e' gia' esibita in due tour precedenti e che e' molto amata - atterrera' domani. La prima tappa dell'artista sara' allo stadio di calcio di Ramat Ga.

Gilad Shalit, prigioniero di pubblico dominio

Riservato per natura, o per altro, non lascia trapelare emozioni. Solo un sorriso stanco, certamente intimidito, viene rilasciato sulla soglia di una barriera invisibile che lo divide dal costante, caloroso e a tratti soffocante abbraccio mondiale. Nella sua recente visita a Roma, raccontano i giornali, voleva vedere una partita di calcio o forse di tennis, visto che ci sono gli Internazionali.La sera del 17 maggio è comparso in una piazza (il Campidoglio) emozionata, mentre le sue foto seduto a pranzo con la famiglia in un ristorante del quartiere ebraico sono state subito messe in rete da turisti e passanti. La mattina dopo ha fatto una breve visita ai ragazzi della scuola ebraica di Portico d’Ottavia.Sono felici, pronti con il cellulare in mano a scattare foto per subito postarle su Facebook. Regalano a Gilad magliette con le loro firme, una del Milan e una della Roma. Gilad ringrazia, non è un tifoso, ma non li può deludere: i simboli, sopratutto di speranza, non hanno lussi di questo tipo. A pranzo i suoi ospiti romani lo portano a Fregene a mangiare pesce fresco di fronte al mare. Di nuovo foto su Facebook. Qualcuno si chiede se il ristorante è kosher, qualcun altro risponde che tanto lui a queste cose non ci tiene più di tanto, “come gran parte degli israeliani”, aggiunge un altro.Subisce, non agisce, osserva un mondo che in sua presenza gli sembra impazzito. Tutti ne vogliono un pezzo. Politici in primis, naturalmente, e poi attori, cantanti e altre celebrità mettono su internet le proprie foto con Gilad per la gioia dei loro improbabili fan. Anche Noam, il padre, non esce bene da questa giostra e ora che ha deciso di occuparsi di politica, difficilmente ne uscirà indenne.“Gilad è diventato una celebrità”, scrive amareggiato Moran Sharir, critico televisivo del quotidiano israeliano Ha’aretz, quando il giovane, in visita su un set televisivo, diviene suo malgrado un’icona o un item, in gergo tv, inserito tra un’intervista con una poco vestita vincitrice di un reality show e la pubblicità. Funziona così quando diventi un item: non uno qualunque, ma una vera e propria icona simbolo della speranza e della libertà.In Israele, paese dove i ragazzi lasciano la casa dei genitori a 18 anni, tutti si augurano che non sia lontano il giorno in cui anche Gilad, con i suoi 26 anni, potrà finalmente lasciare quella casa mediatica, popolata da pseudo genitori virtuali, verso la sua vera libertà.http://www.internazionale.it/

Calcio, ex Barcellona Garcia nuovo tecnico del Maccabi Tel Aviv

Tel Aviv (Israele), 23 mag. (LaPresse/AP) - Oscar Garcia è il nuovo allenatore del Maccabi Tel Aviv. L'ex centrocampista del Barcellona arriva in sostituzione di Nir Levin, chiamato come 'traghettatore' dopo l'esonero di Moti Ivanir a settembre. Nelle ultime due stagioni Garcia ha allenato le giovanili del Barcellona. Nel mese scorso, il Maccabi ha nominato Jordi Crujff, figlio del grande Johann, direttore sportivo. acg 230939 Mag 2012 (LaPresse News)

Israele non intende inviare le forze speciali a Cipro

Il Ministero degli Esteri d’Israele ha smentito ufficialmente l’informazione diffusa dai media secondo la quale sull’isola di Cipro dovrebbero essere inviati 20 mila commandos israeliani."Le informazioni dell’agenzia turca Anatolia sono prive di fondamento e non hanno niente a che vedere con la realtà. Israele non ha mai inviato i suoi soldati in altri paesi", si dice nella dichiarazione del Ministero degli Esteri israeliano.C’è l’ipotesi che questa notizia falsa rappresenti un tentativo di mandare a monte le gare d'asta promosse dal governo cipriota per la valorizzazione dei giacimenti di gas offshore nella zona economica esclusiva creata da Cipro ed Israele.http://italian.ruvr.ru/

Israele: Danimarca, etichettare prodotti dei coloni

(ASCA-AFP) - Copenhagen, 22 mag - La Danimarca chiedera' ai commercianti di etichettare i prodotti alimnetari che provengono dalle colonie israeliane nei territori palestinesi occupati. ''Un passo per mostrare chiaramente ai consumatotri che questi beni sono prodotti in circostanze che il governo danese, come altri governi europei, non approva'', ha detto il ministro degli Affari Esteri, Villy Soevndal. ''Spettera' poi ai consumatori decidere se vogliono acquistarli o meno''.Le modalita' del progetto non sono state ancora decise, ma la Danimarca ''si ispirera' a quanto fatto dalla Gran Bretagna'', che ha adottato delle misure che invitano i supermercati del Regno Unito a distinguere i prodotti alimentari che provengono dalle colonie da quelli palestinesi.

Germania: Israele "simpatico" solo ad un terzo dei tedeschi

(AGI) - Berlino, 23 mag. - Drammatico crollo di immagine di Israele per i tedeschi, poco piu' di un terzo dei quali (36%) trova "simpatico" lo Stato ebraico, 9 punti in meno rispetto ad un sondaggio del 2009. A pochi giorni dalla visita di Stato in Israele del presidente Joachim Gauck, che si svolgera' dal 28 al 31 maggio, il settimanale 'Stern' ha condotto un sondaggio su come i tedeschi vedono oggi lo Stato ebraico. Ne risulta che per il 70% Israele persegue i propri interessi senza riguardi per gli altri popoli. A pensarla in questo modo e' l'11% in piu' dei cittadini interrogati tre anni fa. Per il 59% dei tedeschi Israele e' "aggressivo" (+10%), con il 58% che lo considera un Paese "estraneo", mentre solo il 21% del campione ritiene che lo Stato ebraico rispetti i diritti umani, opinione che nel 2009 aveva il 30% della popolazione tedesca. Come tre anni fa il 13% continua a negare il diritto di esistenza allo Stato ebraico, mentre il 60% afferma che la Germania per il suo passato storico non ha piu' obblighi verso Israele, con il 33% che la pensa in maniera opposta. Quasi due terzi dei tedeschi (65%) affermano poi che la Germania dovrebbe riconoscere lo Stato palestinese, con il 18% di opinioni contrarie.

Dagli autodafè a Mussolini: una fuga lunga cinque secoli

Di rocambolesco, nel destino ebraico, c’è sempre quasi tutto. Non fa eccezione la famiglia Boccara, prima portoghese, poi italiana, quindi tunisina e infine francese, un’avventura durata cinque secoli che porterà i membri di questo clan in giro tra i flutti del Mediterraneo, dalle carceri del Sant’Uffizio portoghese alle insidie della politica, della storia italiana e di quella del nord Africa. Con “In fuga dall’Inquisizione” (Giuntina), un interessante saggio scritto da uno dei discendenti della casata iberica, Elia Boccara ci propone l’odissea delle proprie origini attraverso le vicende dei Boccara e dei Valensi, rispettivamente famiglia paterna e materna dell’autore.Nato a Tunisi nel 1931, l’autore fece parte di quella “Comunità Ebraica Portoghese” di Tunisi che era stata formata dagli ebrei fuggiti dalla Spagna nel 1492 in seguito al decreto di espulsione. In un primo tempo avevano trovato riparo in Portogallo dove, per più di un secolo, condussero una doppia vita: ebrei fra le mura domestiche e cattolici davanti al resto del mondo. La storia è nota: dal 1497 gli ebrei portoghesi erano stati costretti ad accettare il battesimo e gli antenati dell’autore, come tanti altri correligionari, portavano avanti una vita scandita dal terrore dell’arresto per delitto di apostasia e il conseguente processo davanti al Tribunale dell’Inquisizione, con il rischio estremo di venire condannati al rogo. Ad esempio, Dona Isabel Henriquez Bocarra, parente di Josè Bocarra, padre di quel Benjamin Y Bocarra che diede inizio alla stirpe tunisina dei Bocarra, nel 1670 fu rinchiusa nella prigione di penitenza del Sant’Uffizio di Toledo in seguito alla seguente condanna: “Dona Isabel Henriquez Bocarra, nata a Toledo, di nazione portoghese, residente a Madrid, di 34 anni…[condannata] per l’osservanza della legge di Mosè, si presentò all’autodafè con sanbenito, lettole la sua sentenza fu riconciliata in forma, e condannata all’abito [il sanbenito], al carcere perpetuo irremissibile e alla confisca dei beni, dato che cominciò a delinquere, come dichiarò, dall’anno 1644”.Separata forzatamente dal marito Melchor Gomez Silveyra, al quale era stato risparmiato il carcere, Dona Isabel era stata condotta nella sua nuova prigione con un guardaroba fornitissimo che, quattro mesi più tardi, era stato rimpinguato da due camicie, una sottoveste, delle scarpe e un lenzuolo. Condannata alla prigione perpetua irremissibile (che era irremissibile solo di nome in quanto, su richiesta di indulgenza, il recluso veniva liberato in media dopo otto anni di reclusione), Dona Isabel aveva sfiorato la massima pena, il rogo, e fu riconciliata in seguito all’ammissione delle proprie colpe e a un pentimento che era stato ritenuto attendibile dagli inquisitori.Peregrinazioni.Molti discendenti degli ebrei portoghesi convertiti a forza nel 1497 non attesero le perquisizioni dell’Inquisizione spagnola di cui fu vittima Dona Isabel Henriquez Bocarra per emigrare dal Portogallo verso lidi più tranquilli: una delle mete più battute a fine Cinquecento fu Venezia, dove gli ebrei portoghesi (o ponentini, così i Veneziani li distinguevano dai levantini) furono ammessi ufficialmente con la Ricondotta del 1589.Altre due mete degli ebrei fuggiaschi furono Pisa e Livorno: dopo la cacciata da Pisa nel 1571, un importante passo avanti si ebbe nel 1591 e nel 1593, con due editti del granduca Ferdinando I, le cosiddette Livornine, che consentivano agli ebrei iberici di stabilirsi a Livorno, dichiarando liberamente la loro identità ebraica. Erano finalmente previsti libertà di religione e di culto, facilitazioni nel commercio, autonomia amministrativa e giurisdizionale e privilegi fiscali.Nei primi decenni del Seicento, i commercianti ebrei trasferirono il loro domicilio da Pisa a Livorno; la creazione del porto di Livorno e il declino di Venezia condusse, infatti, parecchi mercanti ebrei veneziani a trasferirsi prima a Pisa e poi a Livorno: tra questi, alcuni dei Valensi che si erano stabiliti nella città adriatica.Con la conquista di Tunisi nel 1574 da parte dell’esercito ottomano, i sovrani francesi appoggiarono i pascià contro i nemici spagnoli e, nel 1577, aprirono un Consolato di Francia a Tunisi e una Cancelleria. Arrivarono così molti ebrei italo-iberici: dopo aver abbandonato Spagna e Portogallo per l’Italia, attraversarono nuovamente il mare per raggiungere la costa africana: e non a caso, tradizionalmente, la comunità sefardita di Tunisi è designata come livornese. I primi Valensi attestati a Tunisi sono i fratelli Abram e David Valensin, che appaiono negli atti del Consolato di Francia nel 1615, famiglia che poi si specializzerà nella compravendita e trattamento del tabacco. Una data fondamentale della storia ebraica a Tunisi è il 1710, anno in cui venne creato il “Kahal Kadosh de Portugueses de Tunes”: gli ebrei livornesi crearono un proprio organo comunitario indipendente, con un proprio rabbino capo (nella persona di Rabbi Yitshaq Lombroso), una propria sinagoga, un proprio cimitero. Questa comunità venne da subito definita Comunità Portoghese e tale nome sopravvisse fino al 1944, anno della sua dissoluzione forzata. Per raddrizzare alcuni comportamenti contrari alla morale, al decoro e alla modestia, la Comunità promulgò delle regole di comportamento individuale, le Escamot (le prime nel 1726), tutte scritte in uno spagnolo spesso arcaico, infarcito di termini di varie origini (dall’arabo al portoghese, dall’italiano al francese all’ebraico); ciò dimostra come lo spagnolo fosse rimasto la lingua più famigliare per questo gruppo.Sotto i francesi.Dopo questa fase iberica, le famiglie Valensi e Boccara vivranno il periodo italo-francese: se, infatti, per tutto il Settecento gli antenati dell’autore parlavano in spagnolo (o in portoghese), nell’Ottocento avevano adottato l’italiano come lingua di comunicazione familiare; l’italiano venne sostituito, o semplicemente accompagnato, dall’uso del francese in seguito alla conquista della Tunisia da parte della Francia nel 1881.I nonni Boccara sono un esempio del dualismo italiano/francese: nel 1783 nasceva, francese, Clotilde Cattan che, nel 1890, sposava Elia Boccara, italiano; nel 1882 nasceva Henriette Valensi, discendente di una famiglia livornese ma francese di origine, la quale sposò nel 1902 Isacco Boccara, italiano. In quegli anni Mussolini ottenneva la simpatia di molti ebrei in Italia e anche in Tunisia. Il fascismo italiano rappresentava agli occhi degli italiani in Tunisia, ebrei o meno, una difesa della loro italianità gravemente minacciata dal regime francese. Giorgio Boccara, padre dell’autore, si iscrisse al partito fascista, ma senza mai partecipare alle riunioni di partito e senza mai indossare la camicia nera: per lui era sufficiente che il fascismo difendesse gli italiani di Tunisi dall’invadenza francese. Anche dopo la promulgazione delle Leggi razziali, la vita degli ebrei tunisini continuò pacificamente: Elia potè frequentare la scuola italiana, senza ricevere insulti per la propria religione, tranne sporadiche eccezioni. La situazione cambiò radicalmente quando Mussolini dichiarò guerra a Francia e Inghilterra. Le autorità locali invitarono tutti gli italiani di sesso maschile fino ai cinquant’anni, compresi gli ebrei, a presentarsi in luoghi di raccolta da dove sarebbero stati condotti in un campo di concentramento. Giorgio Boccara fu arrestato e inviato nel campo di concentramento del Kreider, nel sud algerino, vicino al confine con il Marocco; tornò a casa un mese e mezzo dopo, quando l’armistizio con la Francia era stato firmato già da un pezzo.Nel novembre 1942 gli americani effettuarono un massiccio sbarco in Africa del Nord, in Marocco e Algeria; per tamponare questa mossa le truppe italo-tedesche arrivarono in Tunisia; incominciarono quasi subito i terribili bombardamenti inglesi e americani del porto di Tunisi che colpivano zone sempre più vicine alla casa dei Boccara, che decise allora di trasferirsi a Cartagine. Il 7 maggio 1943 Tunisi venne liberata dagli alleati che consegnarono il potere al governo provvisorio di De Gaulle. Tutti gli italiani, compresi gli ebrei, ebbero i loro beni posti sotto sequestro; molti giovani furono sottoposti al lavoro obbligatorio; dopo la liberazione dell’Italia, furono espulsi e i loro beni confiscati come “danni di guerra”. A Giorgio fu risparmiato il campo di concentramento ma furono anni di umiliazioni: le scuole italiane vennero chiuse, la plurisecolare Comunità Ebraica Portoghese fu soppressa e tutti i suoi membri e i suoi beni immessi d’autorità nella Comunità Tunisina.Rossella De Pas, http://www.mosaico-cem.it/


La (mezza) festa di Gerusalemme

Gerusalemme. Ad ogni folata di vento, le kippa non ben ancorate volano, inseguite dai loro giovanissimi proprietari. Sono teen ager, appartengono al movimento sionista religioso, studiano nelle yeshivot di Gerusalemme e della Cisgiordania. Sono loro i protagonisti del Ha-Yom ha-Yerushalaim, il Giorno di Gerusalemme, che marca la conquista israeliana della parte est della citta’ nella guerra dei Sei giorni (1967).Momento clou della giornata, la marcia attorno alle mura della Citta’ Vecchia. I giovani entrano dalla Porta di Damasco, fulcro della vita araba della citta’. Sono le 7 di sera. Il variopinto mercato ha gia’ chiuso i battenti. I 300 mila abitanti arabi di Gerusalemme, un terzo della popolazione, restano tappati a casa. C’e’ solo uno sparuto gruppo di giovani con la bandiera palestinese. Vola qualche parolaccia, c’e’ un accenno di rissa, interviene la polizia , dispiegata in forze, a disperdere la contro-manifestazione. Elicotteri fendono in continuazione l’aria tersa e insolitamente fresca per la stagione.E’ la festa di Gerusalemme, ma una festa a meta’. Non solo perche’ gli arabi comprensibilmente non paretcipano alla celebrazione della “riunificazione” di Gerusalemme. Ma anche perché’, a parte i giovanissimi studenti con la kippa tessuta all’uncinetto, segno distintivo del movimento sionista religioso, non si vedono le altre componenti della societa’ israeliana: gli ultraortodossi,e soprattutto i laici. Tel Aviv, 60 chilometri ad Occidente, e’ distratta. Anche un pizzico infastidita. Sul Monte delle Munizioni, teatro della decisiva battaglia tra esrecito israeliano e esercito giordano per la conquista di Gerusalemme, c’e’ la manifestazione ufficiale. Benjamin “Bibi” Netanyahu ripete che Gerusalemme restera’ unita in eterno. Ma al di la’ della retorica, nessuno nega i giganteschi problemi di Gerusalemme. La sperequazione dei servizi, tra la parte araba, negletta, e quella ebraica. La mancanza di un tessuto sociale unitario. E il fatto che la citta’ tre volte santa resta l’epicentro del conflitto arabo – israeliano.Rovina la festa l’ex premier Olmert, che proprio nel giorno di Gerusalemme, ammette che lo Stato di Israele ha sempre agito in modo contrario a ciò’ che dichiarava, non ha agito per riunificare Gerusalemme, ma l’ha mantenuta di fatto divisa, investendo nello sfiluppo dei quartieri ebraici e lasciando in uno stato di deprecabile abbandono quelli arabi. L’ex premier continua a rivendicare i meriti del suo governo che nel 2008 – sostiene – era ad un passo da uno storico compromesso con i palestiensi, che includeva la cessione dei quartieri arabi della città. Quartieri – precisa – che non hanno alcuna connessione con la storia del popolo ebraico.http://www.claudiopagliara.it/

Obama e Fratelli musulmani convergenza sulla Turchia

MAURIZIO MOLINARI La Stampa 24.5.2012
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Georgetown University e Fondazione Carnegie: le porte di Washington si sono aperte in aprile a una delegazione dei Fratelli musulmani egiziani segnando il formale momento di inizio di un dialogo con l’amministrazione degli Stati Uniti d’America che rientra nella strategia di Barack Obama di consolidare i rapporti con i partiti islamici considerati «più moderati» nonché protagonisti della stagione della Primavera araba.La scelta di far cadere il tabù dei rapporti con l’Islam fondamentalista risale al 2009, quando Obama scelse il podio dell’Università cairota di Al Azhar, loro roccaforte, per aprire una nuova stagione di dialogo con i musulmani traducendo in politica il suggerimento che nel febbraio precedente l’opinionista Fareed Zakharia gli aveva dato dalle colonne di «Newsweek»: «Dobbiamo imparare a vivere con l’Islam radicale». Il rovesciamento di Hosni Mubarak in Egitto, nel febbraio 2011, ha offerto un concreto terreno di incontro fra l’amministrazione Obama e l’Islam politico perché mentre la Casa Bianca spingeva il Raiss ad abbandonare il potere i Fratelli musulmani erano in piazza a sostenere la rivolta popolare. I contatti diretti sono iniziati poco dopo la caduta di Mubarak e la vittoria dei Fratelli musulmani nelle elezioni parlamentari terminate lo scorso gennaio ha spinto la Casa Bianca ad accelerarli, in vista delle presidenziali che potrebbero portare a prevalere proprio un candidato islamico.Da qui la decisione di accogliere a Washington una delegazione del partito Libertà e Giustizia, espressione diretta dei Fratelli musulmani, che si è presentata alla Casa Bianca con le parole di Sondos Asem: «Rappresentiamo il punto di vista dei musulmani moderati, centristi, e le nostre priorità sono economiche e politiche, vogliamo preservare gli ideali di giustizia sociale della rivoluzione e garantire la sicurezza del nostro popolo».Da quanto trapelato, durante i colloqui gli ospiti egiziani hanno scelto di tacere del tutto sui temi più spinosi: aiuti statunitensi all’esercito egiziano e trattato di pace con Israele. Sebbene l’amministrazione Obama non abbia mai specificato i nomi dei funzionari che hanno ricevuto Asem e gli altri componenti della delegazione, la svolta avvenuta si spiega con la scelta della Casa Bianca di raccogliere le indicazioni giunte da due degli Paesi mediorientali più vicini e ascoltati: la Turchia e il Qatar. Se l’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa al-Thani, è stato il primo, dopo la caduta di Gheddafi a Tripoli, a suggerire a Obama di «aprire il dialogo con i partiti islamici nel mondo arabo perché sono le forze che guideranno la primavera di riforme», la Turchia guidata dal primo ministro Recep Tayyp Erdogan è considerata da Washington il modello di democrazia islamica da promuovere in Medio Oriente.Tantopiù che un sondaggio appena pubblicato dalla Brookings Istitution testimonia che la nazione stranierapiù ammirata dagli egiziani è con una percentuale del 61 per cento proprio la Turchia. Erdogan è anche il leader straniero con cui il presidente Obama registra il maggior numero di contatti fra incontri e telefonate - perché in comune c’è l’approccio alla Primavera araba, confermato dal fatto che durante una riunione a Washington fra islamici tunisini, marocchini ed egiziani si è discusso proprio di «modello turco».

Ripensare il ruolo di internet

Sui giornali di questi giorni è apparsa la notizia che, domenica, negli Stati Uniti, gli ebrei ultraortodossi si sono ritrovati nello stadio dei New York Mets per protestare contro il “flagello” di Internet. Leggendo in maniera disattenta, e facendo riferimento soltanto i titoli, l’iniziativa rischia di apparire come una semplice crociata contro la modernità. Nulla di questo genere, tanto che gli stessi promotori si sono affrettati a chiarire che l’obiettivo non è la messa al bando d’internet, ma il suo corretto utilizzo. Ciò che viene denunciato dagli ultraortodossi è che, oltre alla pornografia e al gioco d’azzardo, il troppo tempo speso sui social network finisca per intaccare i rapporti sociali e famigliari. Praticamente niente di diverso da ciò che sostengono pediatri e psicologi da molto tempo. Per questo l’iniziativa, che potrà apparire folkloristica ai più, apre degli spazi di riflessione interessanti sul cambiamento dei nostri rapporti sociali e sulle nostre relazioni umane. Ripensare Internet in modo kosher non è quindi un’assurdità fuori dal tempo, ma un semplice richiamo alle cose che contano veramente. Daniel Funaro, studente, http://www.moked.it/

Yoram Kaniuk "Così è nato Israele"


Il suo esordio italiano risale a quasi vent’anni fa. Quando Adamo risorto, pubblicato un po’ in sordina da Theoria, folgorò i lettori con quelle pagine superbe e faticose che narrano, in un avveniristico ospedale nel cuore del Negev, ad Arad, la storia dell’uomo che i nazisti avevano trasformato in cane. Da allora i libri di Yoram Kaniuk – Post mortem, Tigerhill, Il comandante dell’Exodus, La ragazza scomparsa – hanno conquistato un loro pubblico appassionato e fedele. Senza però mai sedurre le classifiche di vendita che in questi anni hanno dimostrato di apprezzare molto gli autori israeliani: forse per la sua complessità narrativa o forse perché il personaggio è senz’altro scomodo, anticonformista, impossibile da rinchiudere in canoni o stereotipi preconfezionati. Tradotto ormai in 25 lingue, Kaniuk in Israele è considerato invece una vera e propria icona. Assai popolare e sempre presente nel dibattito pubblico, è noto per le sue prese di posizione coraggiose e spesso fuori del coro: una fama ribadita dalla recente vicenda che a ottobre l’ha visto alla ribalta delle cronache per la battaglia che l’ha portato in tribunale ad affermare il suo diritto a non definirsi ebreo nei documenti d’identità. Mossa radicale ed eclatante che l’ha proiettato sulle pagine di tutti i giornali internazionali. Anche se lui, sommesso, afferma di avere ottenuto la vittoria “solo perché i giudici probabilmente non avevano capito bene cosa stavano facendo”. Tanto che “sono stato il primo e con ogni probabilità sarò l’ultimo a poter cancellare l’appartenenza alla religione di Stato”.Il suo ultimo romanzo, 1948, in ebraico Tashach-5708, che lo scorso anno ha ottenuto il prestigioso Sapir Prize for Literature e che Giuntina manda ora in libreria nella traduzione di Elena Loewenthal, s’inserisce a perfezione in questo quadro. In meno di duecento pagine, dense e colme di poesia, Kaniuk racconta il conflitto che portò alla nascita dello Stato d’Israele inoltrandosi nel profondo del dolore della guerra. Ne ritrae il sangue, le morti, l’orrore. E decostruisce la retorica che così spesso avvolge il mito della fondazione denunciando, senza mezzi termini, la deriva che oggi attraversa taluni settori della società israeliana. Un libro stupefacente, capace di avvincere il lettore come un thriller, scritto da chi, allora soldato adolescente (“Avevo diciassette anni e mezzo, ero un bravo ragazzo di Tel Aviv finito in mezzo a un bagno di sangue”), si ritrovò quasi per caso a fondare una Nazione e a mutare lesorti del popolo ebraico. Un libro che lo stesso Kaniuk, raggiunto al telefono nella sua casa israeliana, considera il suo testamento spirituale.Perché la scelta di scrivere ora questo romanzo?Ci sono voluti quasi sessant’anni. Ci avevo provato già nel 1959, quando lavoravo come marinaio sulla Pan York, una delle navi che portavano i profughi ebrei dall’Europa in Israele. Ma quel testo, che avevo intitolato Uno degli amici di Benny Marshak, uno dei commilitoni di allora, fu rifiutato da tutti: dicevano che non sapevo scrivere. Da allora ho tentato più volte di raccontare quella storia ma non volevo trattarla come un semplice testo narrativo, sentivo il bisogno di essere anche provocatorio. Poi, qualche anno, mi sono ammalato e mi sono trovato in punto di morte. Quando sono riuscito a venirne fuori ho capito che se non avessi scritto allora non lo avrei fatto mai più.Com’è stato accolto il libro in Israele?Le persone qui non sanno più da dove veniamo. Un importante ministro, che preferisco non nominare, mi ha detto di recente di aver capito solo dopo averlo letto quanto sia stato difficile combattere quella guerra, senza riserve e con grande scarsità di armi. Credo di aver toccato l’argomento giusto nel momento giusto.“Sono vecchio e malato, – scrive – penso al nuovo Stato che ha fondato Ben Gurion, oggi ha sessant’anni, i suoi genitori ormai non ci sono più e gli eredi sono stupidi, idioti, ladri, cattivi, hanno dimenticato da dove sono venuti”. E’ un giudizio duro e senza appello. Qual è il suo pensiero sull’Israele di oggi?E’ venuto meno quello spirito di comunità che una volta caratterizzava Israele. Il Paese è cambiato nel profondo, il solco tra laici e religiosi e tra destra e sinistra si è approfondito in modo drammatico mentre la situazione politica fa sì che ci troviamo a vivere un’atmosfera di costante tragedia. Eppure sono qui, ci vivo e ci morirò: Israele è il mio Paese.In 1948 lei parla spesso del peso della Shoah sulla vita dello Stato. E’ ancora così forte?E’ un trauma silenzioso che persiste, aleggia nell’aria ed è difficile non pensarci con tutto ciò che sta accadendo. Non è possibile dimenticare una tragedia come quella, dovranno scomparire ancora alcune generazioni. La nascita d’Israele si deve in gran parte alla Shoah. La cosa strana è però che allora ne sapevamo molto poco. Fu solo dopo la Guerra d’Indipendenza, quando lavorai sulla nave Pan York, che mi ritrovai davanti a migliaia di sopravvissuti ai campi di sterminio e alle persecuzioni. Fu sconvolgente. Di recente, mentre una sera presentavo il libro a Yafo, sono stato avvicinato da una bella donna di ottant’anni. Mi disse che da anni mi pensava e seguiva il mio lavoro e subito capii chi era. L’avevo incontrata in uno di quei viaggi. Era scampata alla Shoah e cercava riparo in Israele. A bordo le avevo regalato una clementina: ricordo la sua commozione e la delicatezza con cui sbucciò quel frutto, per lei prezioso come un gioiello. Episodi e incontri come questo hanno influito nel profondo sulla mia vita.Il libro 1948 si apre con una dedica. “Ai miei amici, morti e vivi, della brigata Harel, a Hanoch Kosovsky, prode guerriero, che ama colui che sono e mi disapprova, uomo perbene, assassino come noi tutti. Con profondo affetto per tutti coloro che sono stati in quell’inferno di macello e sì, hanno anche fondato uno Stato”. Subito dopo una citazione da Ezechiele “Passai vicino a te, ti vidi mentre dibattevi nel sangue e ti dissi: vivi nel tuo sangue” (16,6). E in tutto il racconto l’elemento dominante è il sangue. Perché quest’insistenza?Ho scritto ciò che ho visto e vissuto. Oggi è quasi impossibile immaginare cos’è stata quella guerra. Si combatteva notte e giorno ma nessuno di noi era stato addestrato a questo: fummo costretti a impararlo combattendo. Mancavano le armi e le riserve. Gli amici con cui eri cresciuto e i compagni ti morivano intorno senza tregua. Sono stato ferito alle porte di Gerusalemme, ma sono sopravvissuto. E quel che ho visto allora mi ha lasciato un segno indelebile nell’anima.“I leader di quella generazione – scrive – si aspettavano che fossimo eroi”. In qualche modo allora vi fu affidato il compito di segnare l’avvio di una nuova storia per il popolo ebraico.Non eravamo eroi. Eravamo solo ragazzi. Io avevo 17 anni e mezzo e lasciai il liceo per arruolarmi. I miei compagni più vecchi erano appena ventenni. Volevamo dare una casa agli ebrei rifiutati dal resto del mondo e massacrati dalle persecuzioni. Ma la verità è che non pensavamo di fondare uno Stato: combattevamo per sopravvivere.Nel 2009 lei ha condannato la normativa, votata a maggioranza dalla Knesset, che elimina la parola Nakba dai testi scolastici di storia. Per quale motivo?Nel 1948 ci sono stati anche degli sconfitti e questo va insegnato ai nostri ragazzi. Non possiamo dimenticare che qui vivevano 700 mila palestinesi: hanno una storia e nessun ministero può imporre loro di cancellare la memoria o impedirgli di chiamare come preferiscono quella guerra terribile.In che modo le guerre, dal 1948 a oggi, hanno influito sul Paese?La Shoah ha distrutto le nostre famiglie. Le guerre ci hanno segnato nel profondo. Non è facile vivere nelle nostre condizioni. Oggi giorno leggo sui giornali quanto siamo cattivi e terribili, c’è chi non esita a paragonarci ai nazisti, e ciò fa male. E’ vero, non siamo a posto sotto molti punti di vista. Ma nessuno vuole pensare alla nostra storia: cosa c’è di terribile se anche noi abbiamo uno Stato? E perché ci si sofferma sempre sui torti di Israele e non si pensa a quanto accade in altri paesi? Perché non si denuncia il sanguinoso regime siriano? Perché non si parla di quanto sta accadendo in Egitto? E come si sentirebbero i romani se la loro città vivesse per mesi sotto un bombardamento di missili?
Nella Diaspora il 1948 e la nascita dello Stato d’Israele rimangono ancora oggi un mito fondante. Come pensa possa venire accolta la sua narrazione così spesso dissacrante?So che negli Stati Uniti il libro è molto atteso. Ma mi è difficile dare risposta a questa domanda. Non scrivo mai pensando ai lettori. L’unica speranza è che riescano a capire quanto è avvenuto.In 1948 a un certo punto lei cita la città di Trieste. Una memoria dei suoi viaggi a bordo della nave Pan York?Il mio legame con l’Italia è ancora più antico e profondo. Fu mia madre a passare per Trieste quando, nel 1910, lasciò Odessa per andare in Israele. Allora era una bambina di appena sei o sette anni, ma il ricordo le rimase dentro per tutta la vita.Sa che allora gli emigranti venivano accolti nell’edificio di via del Monte 7 dove ora c’è il Museo della Comunità ebraica triestina?Non ne sapevo nulla. Ma se mi manda qualche foto sarò felice di vederlo. Potrei ricambiare con uno dei miei disegni. Sa, sono ormai tanti anni che ho abbandonato la pittura per lo scrivere. Ma mi diverto ancora a pasticciare con pennelli e colori. Daniela Gross, Pagine Ebraiche, Giugno 2012

Sergio Romano scrive sul Corriere del 16 maggio: "Parecchi anni fa un editore italiano mi chiese se vi fossero testi politici del XX secolo che sarebbe stato utile ripubblicare. Risposi suggerendo Mein Kampf." Potremmo fermarci qui e scrivere un lungo editoriale sul ritorno della nostalgia. Ma forse qualcuno potrebbe criticare la "avulsione" della singola frase dal suo contesto. E allora aggiungiamo che Romano scrive anche: "Naturalmente occorreva una introduzione per ricordare al lettore quale importanza il delirante libro di Hitler abbia avuto nella storia mondiale. E occorreva smontarlo, un pezzo alla volta, per comprendere dove Hitler fosse andato a cercare gli ingredienti delle sue teorie sulla razza e sulla «missione» del Reich tedesco." Diciamo subito che le introduzioni ai testi deliranti sono un'arma a doppio taglio, come ben dimostra l'introduzione dello stesso Romano alla nuova edizione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion (I falsi protocolli: il «complotto ebraico» dalla Russia di Nicola II a oggi, Longanesi, 2011) che alterna circostanziate critiche al famoso falso dei Protocolli a critiche alla «lobby ebraica» contemporanea che sembrano riportate di peso dagli stessi Protocolli. Non sappiamo quanti lettori si soffermeranno sulle 166 pagine dell'introduzione e quanti invece preferiranno andare direttamente alle 60 pagine del testo dei Protocolli. Resta il fatto iniziale che è facile marcare un autore citando con precisione le sue parole. La contestualizzazione è una concessione che oggi pochi sono disposti a fare.Sergio Della Pergola, univ. Gerusalemme, http://www.moked.it/


Israele: scoperto sigillo millenario relativo alla città di Betlemme

Straordinario rinvenimento nell'area della Cittadella di re David a Gerusalemme. Una troupe di archeologi ha infatti scoperto un sigillo in creta risalente a 2700 anni fa in cui è menzionata la città di Betlemme.Il frammento del sigillo ha un diametro di un centimetro e mezzo e su di esso è riportato un testo in tre righe in cui compare per l'appunto l'espressione “Beit Lehem”, ossia Betlemme. Stando a quanto riferisce Radio Gerusalemme si tratterebbe del più antico reperto mai rinvenuto finora relativo a questa antichissima località.http://www.moked.it/


Eroi a pedali e una bandiera che viene risollevata

Abituati a commentare quasi sempre brutte notizie, è con grande piacere che diamo segnalazione di un’iniziativa particolarmente lodevole, quale la recente discussione (lo scorso lunedì 20 marzo), presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Sudi di Teramo, di una pregevole tesi di Laurea in Sport e Politica, dal titolo Un ‘giusto’ in bicicletta: Gino Bartali tra eroismi e pacificazione (1940-1948), elaborata dalla candidata Marzia Teodori - che ha così conseguito la Laurea magistrale in Management dello sport e delle imprese sportive – sotto la guida del relatore, prof. Luigi Mastrangelo.Nel lavoro viene ripercorsa l’intensa biografia umana e sportiva del campione, nato il 18 luglio 1914 a Ponte a Ema, vicino Firenze, le cui vicende vengono ripercorse, in particolare, negli anni del secondo conflitto mondiale, nei quali Bartali è impegnato in prima persona a difesa della persona umana, persino indossando – ben oltre le proprie convinzioni – la camicia nera come forma di garanzia per i rifugiati nel corso di perlustrazioni nazifasciste. Proprio questi gesti clamorosi rischiano di costargli la vita, visto che, una volta fermato dai partigiani, viene chiamato a rispondere di una camicia indossata per gli altri, e non per sé stesso.Nel 1943-1944, nonostante le gare ciclistiche non si disputassero, Bartali continua a percorrere lunghi percorsi. In un periodo di carenza di carburanti, le gambe del grande ciclista risultano il migliore dei mezzi di trasporto per documenti e certificazioni, con la copertura perfetta di un atleta che stava svolgendo il suo duro allenamento. A beneficiare di questa coraggiosa e faticosa attività, anche molti ebrei, ai quali Bartali riesce a far avere lasciapassare e carte d’identità con le quali mettersi in salvo. Come ha sottolineato il relatore, Bartali era un nome inattaccabile, vista la sua popolarità e il suo seguito: interrogato più volte, riesce però a sfuggire alla carcerazione, anche perché gli inquisitori non possono non tener conto della popolarità e dell’ascendente dello sportivo, anche sui loro sottoposti.
Vengono poi esaminati i difficili anni del dopoguerra, quelli della rivalità con Coppi, ma soprattutto quelli dell’azione di pacificazione sociale che i successi di Bartali - specie quello al Tour del 1948 -favoriscono, contribuendo a placare animi esacerbati, come nei giorni successivi all’attentato alla vita di Palmiro Togliatti.Il lavoro, sicuramente di alto profilo sul piano scientifico (tanto che ci sentiamo di caldeggiarne, presso i Colleghi teramani, la pubblicazione), si segnala per il suo grande significato etico, nel momento che tratta – in un contesto accademico di analisi culturale del fenomeno sportivo – di una vicenda storica e umana di grande importanza, rievocata e analizzata non perché specificamente connessa allo sport, ma in quanto collegata alla persona di un grande, amatissimo campione. Tutte le medaglie vinte da Bartali, a nostro avviso, non valgono la metà di una sola delle coraggiose azioni che, a rischio della propria vita, scelse di intraprendere, andando in soccorso di innocenti perseguitati. E la grandezza dell’uomo è ancor più esaltata dalla sua naturale modestia, che mai lo ha indotto (analogamente al suo collega di grandezza e umiltà, Giorgio Perlasca) a esibire tali benemerenze, che sono state conosciute e apprezzate dai più solo dopo la sua morte.Un grazie convinto, quindi, a candidata e relatore, per avere reso onore a un grande italiano, e, con lui, al ciclismo e allo sport italiano in generale, ricordando come il loro “albo d’oro” possa vantare delle persone davvero speciali. E, anche, perché no, per avere tenuto alta la bandiera della bella e prestigiosa Università di Teramo, tristemente destinata, da un po’ di tempo, a essere menzionata soprattutto per squallidi episodi di ‘asserzionismo’ (quello che, come ho cercato di spiegare in un mio pilpul dell'ottobre di due anni fa, sarebbe il modo più corretto di chiamare il cd. ‘negazionismo’).Francesco Lucrezi, storico, http://www.moked.it/


Beppe Grillo e Israele


VIDEO: http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=AeBG_Dh8tdk

da Barbara


Memorie dell'Eden


VIDEO: http://jewishrefugees.blogspot.it/2012/05/law-may-be-drafted-to-deal-with-jewish.html

da Barbara

Un'arpa jazz per la "voce degli angeli"

“Quando i miei genitori mi dissero che il mio nome significava ‘il canto degli angeli’, ho pensato: ‘se gli angeli cantano, allora suonano anche l’arpa’”.Renana Ne’eman ha 21 anni e mentre suona l’arpa la sua voce sembra avere davvero qualcosa di angelico. Ma anche qualcosa di più: nella sua voce si percepisce la carica emotiva, la forza e la convinzione che si trova nei suoi modelli musicali, da Nina Simone a Billy Holiday.Renana canta e suona da quando aveva sette anni, da quando cioè ha cominciato a frequentare il conservatorio Striker di Tel Aviv; poi si è trasferita negli Stati Uniti con i genitori, ha suonato in un’ensemble di arpisti americani, e una volta tornata in Israele ha ripreso gli studi con un arpista israeliano molto apprezzato come Sunita Stanislaw.Ora, ha quasi pronto il suo primo album che uscirà in Israele quest’estate.La musica di Renana non è quella che ci si attende da un’arpista classica. E’ il jazz infatti la nota dominante della sua musica. Nel preparare l’album, dice, “ci siamo concentrati soprattutto sulle improvvisazioni jazz per arpa” e grazie alla collaborazione e ai suggerimenti del musicista e produttore Benno Hendler, alle note jazz e folk si è unita talvolta anche una “linea” di musica elettronica.Nell’intervista rilasciata al quotidiano Haaretz, Renana racconta: “Avevo 10 canzoni pronte, e dopo l’incontro con Benno ne ho aggiunte altre 10, cosicchè alla fine abbiamo realizzato un doppio album”. “Ho registrato io per prima la voce e l’arpa e adesso il resto dei musicisti stanno aggiungendo i loro pezzi per il mixaggio finale”.Ad accompagnare Renana all’arpa, c’è un nutrito gruppo di musicisti: due contrabbassisti, un flautista, un trombettista e poi le percussioni, la chitarra acustica.La musica di Renana è influenzata da sonorità diverse – da Nina Simone a Habiluim, Chava Alberstein, Billie Holiday. Tutti artisti anticonformisti, dalle idee talvolta controcorrente. E Renana ne è perfettamente consapevole. Anzi, dice: “Uno dei compiti della musica e della creatività è quello di protestare. Spesso si ha paura di dire cose che vanno “contro”. Ma io non intendo essere un altro ‘yes-man’”. E nelle sue canzoni non manca la protesta anche politica. In “”Im Tirtzu,” per esempio prende di mira il movimento nazionalista Tirtzu. “Ho scritto la canzone contro le azioni del movimento Im Tirtzu durante il mio servizio militare”, spiega Renana. “Avevo sentito che questo movimento stava tentando di riportarci indietro, di tenerci bloccati nel passato, nella storia del popolo ebraico”.Nella canzone d’amore “Epilogue”, si percepisce il medesimo spirito di protesta: “Non sono venuta per fare pace, non sono venuta a guarirti, sono stufa delle tue parole.”In attesa dell’uscita dell’album, e (magari) di qualche registrazione live, un video di qualche mese fa: la prima esibizione pubblica di Renana Neeman insieme a Moosh Laav al Joz&Loz di Tel Aviv, VIDEO: http://www.mosaico-cem.it/articoli/unarpa-jazz-per-la-voce-degli-angeli


Ricercatori israeliani ricavano cellule per il cuore dalla pelle


Cellule cardiache 'a misura di paziente' sono state ricavate a partire dalla pelle di due uomini con scompenso cardiaco. Nell'arco di 5-10 anni questa tipologia di pazienti potrebbe dunque beneficiare di un trapianto di simili cellule per riparare i danni al cuore. Pubblicato sulla rivista European Heart Journal, lo studio e' stato condotto da Lior Gepstein del Technion-Israel Institute of Technology and Rambam Medical Center di Haifa, Israele. Gli esperti hanno preso cellule di pelle di due pazienti (di 51 e 61 anni) con insufficienza cardiaca, hanno 'caricato' nel Dna di queste cellule tre geni (Sox2, Klf4 e Oct4) che le hanno trasformate prima in staminali, poi in cellule cardiache, giovani e funzionanti. Riprogrammare cellule adulte di pelle e' un processo ormai eseguito varie volte e riproducibile; ma mai prima d'ora si erano prodotte cellule cardiache giovani e sane da pazienti di una certa eta' e con problemi cardiaci seri. Le cellule create dal team israeliano sono risultate funzionanti a tutti gli effetti e sono state 'fuse' con successo con il tessuto cardiaco coltivato in provetta, che poi e' stato trapiantato nel cuore di ratti. Il trapianto ha attecchito e le cellule umane hanno preso a battere col resto del cuore. Ci vorranno pero' 5-10 anni per arrivare alle sperimentazioni su pazienti, ma questa potrebbe essere una strada percorribile per 'riparare' cuori malati e non piu' in grado di pompare il sangue normalmente. (salute.aduc.it, 23 maggio 2012)