venerdì 18 giugno 2010



campo inglese di prigionia di Atlit


Israele studia alleggerimento del blocco su Gaza. Fini: piena luce sul blitz

Israele studia alleggerimento del blocco su Gaza. Il gabinetto di sicurezza israeliano si è riunito questa mattina per discutere dell'alleggerimento dell'embargo imposto da quattro anni alla Striscia di Gaza dopo le pressioni della Comunità internazionale. Intanto un gruppo turco pro palestinese ha annunciato che è pronto a inviare un'altra flottiglia con aiuti umanitari sfidando il blocco israeliano. A Roma, Gianfranco Fini ha incontrato il vice ministro degli Esteri israeliano, Daniel Ayalon, e ha chiesto di fare piena luce sul blitz contro la flottiglia. Mentre a Strasburgo il capo della politica estera Ue Catherine Ashton ha riferito al Parlamento della situazione di Gaza e del raid israeliano. Fini incontra il vice ministro degli Esteri israeliano. «Il cordiale incontro - si legge in una nota dell'ufficio stampa di Montecitorio - è stato incentrato su un approfondito scambio di vedute sulla situazione nella regione medio-orientale, con particolare riferimento al processo di pace, anche nella prospettiva della visita del Presidente Fini in Israele e in Cisgiordania la prossima settimana». In relazione al grave incidente della Freedom Flotilla in navigazione verso Gaza del 31 maggio scorso, il Presidente Fini ha espresso apprezzamento per l'iniziativa del Governo israeliano di assicurare la presenza di esperti internazionali, nelle persone del Premio Nobel per la Pace irlandese, David Trimble, e del canadese Ken Watkin, nella «Commissione pubblica indipendente» istituita per condurre un'indagine sulle circostanze e sulle responsabilità che hanno portato all'incidente. Al riguardo, il Presidente Fini - conclude la nota - ha auspicato che la Commissione possa fare presto piena luce sui fatti del 31 maggio, come già indicato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dal Consiglio dell'Unione Europea.Una lista di prodotti per Gaza. In Israele i quindici ministri del governo Netanyahu stanno esaminando esaminare un elenco di nuovi prodotti che dovrebbero essere autorizzati ad entrare a Gaza e sul via libera ad alcuni progetti Onu per la costruzione di scuole e altri edifici pubblici, a vantaggio dei profughi della Palestina. In compenso, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha segnalato che il blocco marittimo attorno alla zona franca palestinese resterà in vigore. Secondo il capo del governo israeliano, questa misura è indispensabile per impedire a Gaza di "diventare un porto iraniano" di approdo per armi e missili da utilizzare contro Israele. Il blocco su Gaza da 4 anni. Israele ha imposto un blocco al territorio palestinese nel giugno 2006 dopo la cattura da parte di un commando palestinese di Gilad Shalit, il soldato dello Stato ebraico ancora detenuto da Hamas. Le autorità israeliane hanno poi deciso di rafforzare questo blocco nel giugno 2007 dopo la l'assunzione con la forza del controllo di Gaza da parte del movimento radicale palestinese. I materiali di costruzione come tubature, cemento e ghiaia sono stati sottoposti al blocco e non possono essere introdotti nella Striscia. Secondo Israele, le tubature possono servire a fabbricare razzi, mentre cemento e ghiaia possono essere utilizzati da Hamas per costruire "bunker". Blitz militare. Dall'incursione israeliana del 31 maggio contro una flottiglia umanitaria internazionale diretta a Gaza, nella quale nove civili hanno perso la vita, Israele è sottoposto a forti pressioni internazionali per ridurre il suo embargo contro il territorio palestinese dove la maggioranza della popolazione (i residenti totali sono 1,5 milioni) dipende dagli aiuti stranieri. Già nei giorni scorsi il premier Benyamin Netanyahu ha dichiarato che Israele insiste nell'impedire l'ingresso a Gaza di armamenti, ma non si oppone che vi vengano inoltrate maggiori quantità di aiuti umanitari e di prodotti commerciali. Di norma, Israele autorizza l'ingresso a Gaza di circa 100 camion al giorno. In un'intervista alla radio militare il ministro Yitzhak Herzog ha previsto che nella seduta odierna sarà approvato un aumento «molto importante» nella varietà di generi che da adesso sarà possibile trasportare nella Striscia. Il ministro ha aggiunto che il blocco marino resterà comunque in vigore e che le merci straniere dirette a Gaza anche in futuro dovranno essere scaricate ed ispezionate nel vicino porto israeliano di Ashdod. Questo provvedimento, ha precisato, rientra peraltro negli accordi di cooperazione economica fra Israele e Anp.Una seconda flottiglia a metà luglio. «Nella seconda metà di luglio» una seconda «flottiglia per Gaza» potrebbe mettersi in movimento verso le coste del territorio palestinese con l'obiettivo di infrangere il blocco israeliano e consegnare aiuti umanitari alla popolazione palestinese locale. Lo ha confermato in una conferenza stampa al parlamento europeo il portavoce della Campagna europea per la fine del blocco a Gaza, Mazen Kahel. «Abbiamo sei imbarcazioni già pronte a lasciare l'Europa, speriamo di riuscirci il mese prossimo, nella seconda metà di luglio», ha detto Kahel, la cui organizzazione ha già partecipato alla missione di maggio, bloccata dal blitz della marina israeliana che si è concluso con la morte di nove civili. «Pensiamo che questa seconda flottiglia sarà più importante della precedente», ha precisato Kahel, che ha parlato su invito dell'europarlamentare laburista britannico Richard Howitt. «D'altronde siamo aperti alla partecipazione di altri e soprattutto invitiamo il mondo intero a venire a verificare, nella più grande trasparenza, la composizione del carico che noi imbarcheremo», ha dichiarato il coordinatore del gruppo. 16 giugno 2010 http://www.ilsole24ore.com/


Israele: forse proteste ultraortodosse

Non vogliono accogliere ragazze sefardite nelle loro scuole
(ANSA) - GERUSALEMME, 17 GIU - La polizia e' in allerta per possibili proteste di ebrei ultraortodossi, che rifiutano nelle loro scuole ragazze ebree sefardite. Una sentenza della Corte suprema dello stato ebraico, invece, lo impone ma gli ultra ortodossi rifiutano di accogliere le ragazze, originarie di Asia e Sudafrica, in scuole di loro colonie.Mobilitati 10.000 uomini, schierati a Gerusalemme, oltre che a Beit Shemesh e Bne' Brak.La sentenza e' contestata dagli ultraortodossi hassidim Slonim, di origini russa



la Farnesina

Gerusalemme protesta: «L'Italia non ci invita al Forum Mediterraneo»

Non si sono mai amati .Ma non s'erano ancora detestati. Finora, almeno: i Craxi sulla poltrona di viceministro degli Esteri, prima Bobo con Prodi e poi Stefania con Berlusconi, a Gerusalemme sono sempre stati degli osservati speciali. Per la storia di quel nome, che nella Palestina di Arafat ha significato molto. Ieri, prima volta, dagli israeliani è partito un siluro. Diretto al Forum dei Paesi del Mediterraneo, in programma a Milano, e a chi lo sta organizzando: «Il boicottaggio contro Israele si sta espandendo - ha scritto Yedioth Ahronot, il quotidiano più diffuso - . E comincia a influenzare anche Paesi considerati amici...». Nel mirino c'è l'amico Berlusconi: «Esponenti del governo italiano hanno ceduto alle pressioni dei Paesi arabi e deciso di non invitare Israele alla conferenza, in luglio, nonostante Israele sia membro di questo forum. La decisione ha fatto profondamente infuriare gli israeliani, che stanno facendo pressioni sull'Italia perché torni sulla sua strana decisione...». Segue (triplo) nome e cognome del sottosegretario italiano che ha sponsorizzato l'evento e avrebbe voluto l'esclusione: Stefania Gabriella Anastasia Craxi. [...]F.Bat., il Corriere della Sera, 17 giugno 2010

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(ANSA) – GERUSALEMME, 16 GIU – Voci sulla possibile esclusionedi Israele dal Forum Paesi del Mediterraneo destano proteste erichieste di ripensamento all’Italia.Il Ministero degli Esteriisraeliano parla di boicottaggio e di resa ‘a pressioni arabeche puo’ portare ad altre imposizioni’. Replica la Farnesina:‘non e’ vero che non e’ stato invitato. Ci si sta raccordandocon Israele e Paesi arabi per finalizzare il livello dipartecipazione, non necessariamente governativo’. Il Forum siterra’a meta’luglio a Milano.


battesimo nel Giordano

Qui a Gaza abbiamo numerose qualità di generi alimentari, possiamo anche esportarli negli Stati Uniti a prezzi simbolici. Non vogliamo la maionese di Obama, non vogliamo l'elemosina”. Barack Obama farebbe bene a prendere nota di queste parole di scherno di un leader di Hamas, e prima di dichiarare che a Gaza la situazione è insostenibile (e prima di inviare grandi container di maionese) dovrebbe parlare con Bassam Naim, che conosce la situazione alimentare e sanitaria della Striscia perché è il responsabile della Sanità. Altrettanto dovrebbe fare Lady Ashton, capa della diplomazia europea, che considera inaccettabile che Israele tenga chiusi i valichi di Gaza (dimenticando che i principali valichi sono tenuti chiusi dall'Egitto, con l'appoggio peraltro dell'Unione europea). Così dovrebbero fare anche i media che continuano a dipingere Gaza come un lager in cui si muore di fame e di mancanza di cure. [...]Il Foglio, 17 giugno 2010



lettura a Gerusalemme


Il 'reporter-spia' è tornato a lavorare

ROMA — Primo pomeriggio di ieri. L’uomo con i baffetti che maneggia una telecamera in un corridoio al secondo piano del palazzo della Stampa estera — a tre portoni dalla sede del partito di Silvio Berlusconi, in via dell’Umiltà— è accusato di spionaggio. O meglio, di essere forse un agente segreto di alto livello. Forse, perché l’accusa è stata mossa con una dose di dubbio: «Con ogni probabilità» alto livello. E non spia di un Paese qualsiasi, bensì della Repubblica islamica di Mahmoud Ahmadinejad. Lunedì, lo stesso uomo era alla presentazione di un rapporto sul terrorismo internazionale. Lì di spioni ce ne saranno stati di certo: lo studio era della Fondazione Icsa, Intelligence culture and strategic analysis, un centro dell’ex sottosegretario Marco Minniti e dell’ex capo dell’Aeronautica Leonardo Tricarico che si è ispirato per il rapporto ai propri convegni, spiegava un comunicato, con «la presenza di esperti di terrorismo, analisti della difesa e dell’intelligence...». Una storia italiana. Anzi, più precisamente una storia italo-iraniana, perché a fondersi sono uno spirito mediterraneo e uno, benché più orientale, non troppo diverso. L’uomo con i baffi di via dell’Umiltà è Hamid Masoumi Nejad, 51 anni, iraniano, corrispondente da Roma della Islamic Republic Iran Brodcasting, Irib. Giornalista di una tv di Stato, in passato stipendiato dall’Iran Air. Il 3 marzo è stato arrestato in un inchiesta chiamata Sniper, cecchino. Mandati di arresto: nove in tutto. Accusa per Masoumi: associazione a delinquere finalizzata all’illecita esportazione verso l’Iran di armi e sistemi di armamento. Origine delle indagini: il sequestro, in Romania, di 200 mirini ottici per tiratori scelti prodotti da una ditta italiana. Il 29 aprile — dopo che Teheran aveva protestato, la Farnesina aveva reagito sottolineando l’indipendenza della magistratura dal governo e il caso aveva raggiunto un’importanza tale per le relazioni tra i due Paesi per la quale Masoumi ha ricevuto in carcere una telefonata del ministro degli Esteri iraniano Manouchehr Mottaki — il giornalista di Irib è stato messo agli arresti domiciliari. Con permesso di uscire per lavorare. Come ieri. Di giorno, l’accusato di spionaggio è tenuto a esercitare l’attività giornalistica nella sede della Stampa estera. La conferenza dell’Icsa era lì, un piano sotto al suo ufficio. Per questo Masoumi era libero di assistere, anche se poi, diplomaticamente, ha evitato di incrociare il ministro dell’Interno Roberto Maroni. Da quando è fuori di cella, il corrispondente dell’Irib, che si definisce innocente, ha prodotto una trentina di servizi per la tv. Se una personalità va alla Stampa estera, la può intervistare. Da oggetto di cronache, però, il giornalista interviste non ne dà. Dice Masoumi: «Per rispetto verso il dottor Armando Spataro, non ne rilascio anche se potrei. Non vorrei influenzare». Spataro è il procuratore aggiunto di Milano che lavora sull’inchiesta, vicina all’ora della decisione: proscioglimento o rinvio a giudizio? Fosse per Elisabeth Missland, francese che si occupa di cinema dalla stanza 5 della Stampa estera, seduta a fianco dell’iraniano, la scelta non deve essere che la prima. «Se è così pericoloso, come mai Masoumi è qui? Vedo da anni ciò che fa. Spia? Mi viene da ridere», sostiene. Un altro compagno di stanza, Maarten Lulof Van Aalderen, olandese, dei corrispondenti esteri è il presidente. Di fronte a questa storia nella quale si incrociano ragioni di Stato e tesi ardue da verificare per occhi comuni, osserva: «Non è stata una mia decisione che Masoumi possa lavorare, ma del giudice. Non me la sento di andare contro la sua decisione. E non sta a me decidere la sorte del processo». dal CORRIERE della SERA, 17/06/2010

Khaled el Nabawy

Liraz Charhi
Fa un film con un’israeliana, l’Egitto lo processa

Anche gli attori si beccano le loro fatwa. Ora tocca a Khaled el Nabawy, star del cinema egiziano, che si è visto piovere addosso un’inchiesta della locale associazione degli attori. L’accusa ha un sapore piuttosto nazionalista: «normalizzazione » dei rapporti «con Israele». Che dietro ci sia un odio religioso o razziale, contro gli ebrei è più che un sospetto, visto che tra le bancarelle della fiera del libro del Cairo, soltanto tre anni fa, si trovava in bella vista un’edizione nuova di zecca del Mein Kampf di Adolf Hitler. Sembra comunque che a Nabawy, di Israele, piaccia più che altro la collega Liraz Charhi, che del resto vanta numerosi ammiratori. Insieme, i due hanno interpretato il film americano di Doug Liman, “Fair Game”, con Sean Penn e Naomi Watts. Nei cinema italiani lo si potrà vedere dal 22 ottobre, ma le polemiche hanno già fatto scoppiare un caso. Da maggio l’attore egiziano è bersagliato da critiche aspre per aver osato abbracciare la Charhi in pubblico, addirittura sul tappeto rosso di Cannes, dove il film è stato presentato in anteprima mondiale. Alla reprimenda si aggiunge ora una fase istruttoria, guidata da Ashraf Zaki, una specie di faraone della corporazione degli attori, che come le altre associazioni professionali egiziane, vieta qualsiasi tipo di normalizzazione con lo Stato ebraico e condanna fermamente chi non aderisce al boicottaggio. Non si rendono conto che la protesta contro il blocco israeliano a Gaza è un controsenso, se loro stessi impongono sanzioni assurde perfino ai rapporti personali. In quel contesto, anche le attività economiche risultano influenzate. Tanto che tutte le aziende arabe impongono ai loro partner occidentali di non intrattenere relazioni commerciali con Israele, se vogliono proseguire il business. E non pochi cedono al ricatto. Incurante del ridicolo, Zaki annuncia che convocherà Nabawy questa settimana: era a conoscenza della cittadinanza israeliana di Charhi? Se sì, lo dichiareranno colpevole, condannadolo alla sospensione dalla congrega degli attori per un periodo da determinarsi. Tra le aggravanti, per la requisitoria, la Charhi è «un’attrice israeliana di origini americane, che ha servito nell’esercito per due anni prima di dedicarsi alla recitazione ed è apparsa in alcuni film americani». Lei intanto spiega che «la foto di noi due non cambiava nulla. Nabawy sapeva già che avrebbe pagato un prezzo per la nostra collaborazione sullo schermo. Prima di essere stati scelti per il ruolo, c’era un altro attore egiziano che si è ritirato dalla produzione dopo aver ricevuto minacce di allontanamento da parte dell’associazione» di cui faceva parte. Si aspettava che toccasse a lei, semmai, la parte della vittima del boicottaggio, tanto che «a quel punto ero quasi certa che mi avrebbero allontanata. Ma poi arrivò Nabawy, un attore professionista interessato a lavorare. Quando ci siamo incontrati alle prove ho notato che era un po’introverso e ho aspettato prima di avvicinarmi ». Man mano che le riprese continuavano, «siamo diventati amici. Interpretavamo un fratello e una sorella e non ci è sembrato strano». Fino alla prima, a Cannes. «Quando hanno sistemato i posti a sedere, ci hanno messo insiemee a nessuno dei due è sembrato strano », racconta l’attrice, ma Nabawi «non ha detto niente quando ci hanno fotografato insieme. Ero certa che si sarebbero arrabbiati con lui, ma non pensavo che si sarebbe giunti a una procedura di sospensione. Sono scioccata». Consideravano il film «come lavoro, non come politica. E speravamo che il fatto di vederci insieme facesse passare una sorta di messaggio. Ma non avrei mai immaginato che le voci contro di lui sarebbero state così ostili», conclude la Charhi, sorpresa. Ingenua, avrebbe dovuto sapere che, in Medio Oriente, chi cerca la pace e la comprensione reciproca non è apprezzato, tranne che in Israele. da LIBERO 17/06/2010



Mar Morto


Quando morirò da martire




da Barbara


Tel Aviv: lavori per Allenby Street, 1915

Israele-Palestina ultima chiamata per gli Stati Uniti

Lo scenario israelo-palestinese nelle ultime settimane è decisamente cambiato. Forse qualcuno sosterrà che la questione delle navi non modifica sostanzialmente il quadro: da una parte la persistenza di un blocco che appare a molti come un sopruso, dall'altro un confronto politico non solo tra israeliani e palestinesi, ma anche fra palestinesi che ormai è in stallo da almeno cinque anni, ovvero dal momento in cui la striscia di Gaza, nell'estate 2005, fu abbandonata dai coloni israeliani per divenire l'enclave di Hamas, prima nei fatti e poi sancito dai risultati delle elezioni del gennaio 2006. Apparentemente l'unica novità su cui molti hanno concentrato l'attenzione è l'atteggimento della Turchia. E tutto vero nei dati, ma non è più sostanzialmente vero nei fatti, a cominciare dal blocco intorno a Gaza: ancora operante ma sempre meno sostenibile. In ogni caso una politica che puntasse esclusivamente al suo mantenimento senza proporre una soluzione complessiva è destinata alla sconfitta. Comunque dopo i 9 morti della Mavi Marmara al di là di chi ci fosse su quella nave - quel blocco non è sostenibile. In Medio Oriente, la geopolitica è in movimento. Non è detto che ne esca un quadro più governabile. Quando una situazione, in stallo per anni si rimette in moto sono in vista nuovi equilibri: o un compromesso che dia, almeno sui punti nodali, reciproca soddisfazione ai contendenti e dunque sia anche il risultato di una mediazione (il che implica qualcuno che sia in grado di funzionare da mediatore) o la sconfitta secca di uno dei due contendenti, forse di entrambi? [...]David Bidussa, il Secolo XIX, 17 giugno 2010


Gerusalemme - Yad Vashem

Radici lontane per la Shoah

Le parole che usiamo per definire l'ostilità antiebraica sono nate tardi, assai più tardi del fenomeno che intendono descrivere. È solo in tempi assai recenti che appaiono sia il termine «antigiudaismo», con cui designiamo oggi un'opposizione nei confronti degli ebrei caratterizzata in senso religioso e diretta in particolar modo contro l'ebraismo post-biblico, sia quello di «antisemitismo», con cui designiamo un'ostilità antiebraica a carattere prevalentemente razziale, «Antisemitismo», infatti, è un termine che si afferma nel linguaggio comune soltanto nel 1879, dopo essere stato usato dal giornalista tedesco W. Marr nel corso di una violenta campagna giornalistica contro gli ebrei. Quanto ad «antigiudaismo», che descrive un fenomeno assai più antico, è termine ancora più recente che appartiene, nella sua forma sostantivata, alla seconda metà del XX secolo, anche se è coniato sul più antico aggettivo «antigiudaico» e sulla tradizione, affermatasi già nella prima età patristica, degli scritti contra Iudaeos. In realtà, fino a che la teologia cristiana aveva considerato naturale considerare gli ebrei come il simbolo dell'errore e accettarne la presenza nella società cristiana solo entro uno statuto di inferiorità, l'ostilità verso di loro non aveva avuto bisogno di un nome. L'insegnamento del disprezzo verso gli ebrei era una parte fondamentale dell'insegnamento religioso, quello che individuava l'errore per esaltare la verità del cristo. [...]Anna Foa, Avvenire, 17 giugno 2010



Haifa

Con Ankara abbiamo perso un alleato importante

[…] La Turchia è entrata nella Nato nel 1952 e in questi anni ha lavorato per diventare un membro effettivo dell'Unione Europea, obiettivo che non è venuto meno con l'arrivo di Erdogan al potere. In questo ambito il governo turco ha portato avanti numerose riforme e in questo contesto ha sviluppato legami profondi, sia di tipo economico che militare, con Israele. Così la Turchia ha giocato le proprie carte in Medio Oriente, ha potuto per esempio contenere la vicina Siria e farsi consegnare il leader del Pkk Abdullah Òcalan. La speranza di ricevere finalmente la cittadinanza europea è diffusa fra la gente per le strade di Istanbul, ma si avverte anche la frustrazione per quello che di fatto è visto come il continuo rifiuto da parte dell'Europa nei confronti dei turchi. La Turchia sembra aver iniziato ad alzare la voce e a voler far capire quanto pesi. Erdogan ha iniziato a dare segnali: le critiche a Israele, le provocazioni, ma anche un progressivo avvicinamento all'Iran. All'Onu Ankara si è appena opposta all'aumento delle sanzioni a Teheran per il nucleare. Forse siamo a un punto di non ritorno.Yasha Reibman, Tempi, 17 giugno 2010


Le reazioni

Non ha suscitato reazioni che Aryeh Leib Misinzov, ebreo venticinquenne del movimento Chabad, sia stato rapito a Kiev il 20 aprile, giorno del compleanno di Hitler. Da giorni, non suscita reazioni la notizia del ritrovamento in dieci pezzi del suo corpo, e in una sempre più lunga catena di silenzio non sta suscitando reazioni che non vi siano reazioni. Un silenzio antico circonda la morte ebraica.Il Tizio della Sera, http://www.moked.it/


università Sde Boker

L'emergenza povertà in Israele


La nuova rivista Emòr (che si pubblica in italiano e inglese) "si impegna a dedicare una costante attenzione a problematiche di carattere umanitario e sociale inerenti sia 'am Israel che altre identità" (secondo le parole della sua redattrice Rosa Banin di Milano). È un impegno particolarmente importante per ognuno di noi, è un invito a non chiuderci in noi stessi, nella nostra carriera, intenti a soddisfare solo i nostri bisogni, ma anzi a guardarci intorno per vedere se possiamo essere di aiuto a qualcuno e allora potremo scoprire facilmente, per esempio, che vi sono "oltre un milione e mezzo di cittadini poveri in Israele" e che "famiglie numerose, anziani e bambini (sono) le categorie più fragili". Scopriremo così che in questo nostro desiderio di dare (latet secondo il nome di una delle organizzazioni filantropiche) non siamo soli, ma che vi sono varie organizzazioni che si propongono di aiutare.Per esempio l'organizzazione Yad Ezra veShulamit è stata fondata soprattutto per assistere "orfani, vedove, madri single, famiglie numerose, tutti accomunati da gravi difficoltà finanziarie"; con la collaborazione di centinaia di volontari vengono distribuite a Jerushalaim e in altre città pacchi di cibo e vengono gestite mense pubbliche nelle quali "un migliaio fra donne, uomini e bambini possono ricevere il loro unico pasto caldo della giornata". Questa parte di Emòr si chiude con una Postfazione di Maurizio Picciotto sulla Mitzvà della Zedakà e i suoi otto livelli come descritti dal Maimonide. Specialmente nei nostri momenti di tristezza, di senso di solitudine potremo trovare conforto nell'aiutare chi ha bisogno del nostro aiuto (per esempio all'indirizzo www.yadezra.net). Si legge nei Racconti Chassidici sulla Torà raccolti dal Rav Zevin (Gerusalemme, 1956): "Raccontano i Chassidim che un rabbino si recò un giorno dal giusto Rabbi Avraham di Satritin: 'Ho sentito dire che sua eccellenza ha la possibilità di dare un rimedio che permetta di conquistare il timore di D-o'. Gli rispose il giusto: 'Per il timor di D-o non ho alcun rimedio; posseggo un rimedio solo per l'amor di D-o'. Gli disse il rabbino: 'Oh, di questo ho ancor più bisogno; l'amore di D-o è più importante del timore di D-o.; dammi subito, ti prego, questo rimedio'. Gli rispose il giusto: 'Il gran rimedio per arrivare all'amore di D-o è amare il prossimo; chi ha il cuore pervaso dall'amore per Israele, può arrivare facilmente ad ottenere l'amore di D-o...".Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme, http://www.moked.it/



Ebrei sefarditi famosi (dall'alto a sx): Maimonide, Isaac Abrabanel, Baruch Spinoza, David Nieto, Daniel Mendoza, David Ricardo, Moses Montefiore, Benjamin Disraeli, Sabato Morais, Emma Lazarus, Benjamin N. Cardozo, David de Sola Pool, Basil Henriques, Pierre Mendès-France, Sam Costa, Jacques Derrida, Shlomo Amar, Hank Azaria


Questa settimana, a un simposio internazionale a Gerusalemme, ci siamo interrogati su "Chi è sefardita?", anzi "Chi è un Ebreo orientale?" In tempi di politica internazionale dura, e a volte di vera aggressione mediatica, può essere salutare cambiare marcia per un momento e guardare a noi stessi un po' dall'interno. Non che le domande siano ingenue, o le risposte semplici. Lo stesso concetto di Oriente e Occidente non ha una relazione precisa con la geografia, ma rappresenta piuttosto un immaginario mondo gerarchico in cui il cosiddetto Occidente sta effettivamente a nord, e il cosiddetto Oriente sta a sud di una virtuale linea Tangeri-Astrakhan. L'ostilità dell'ambiente e le molte migrazioni internazionali hanno quasi completamente svuotato le terre islamiche della loro presenza ebraica sefardita, Nordafricana e Mediorientale. Queste comunità si sono quasi interamente trasferite e ricostituite in Israele, in Europa, in America del Nord e del Sud. Qui convivono, competono, e in buona parte si sono fuse con comunità ebraiche di altre provenienze. In Israele esiste ancora un rabbinato sefardita e uno ashkenazita. Nella cittadina di Emanuel, una scuola molto religiosa ha tentato di separare le alunne sefardite da quelle ashkenazite. La Corte suprema ha dichiarato illegale questa divisione. Ne sono nate subito pubbliche dimostrazioni di protesta da parte dei genitori ashkenaziti che vogliono tenere alla larga le ragazzine sefardite. Il Partito religioso Shas (sigla di Osservanti sefarditi) sta studiando se unirsi a queste proteste - a sostegno dei genitori ashkenaziti! Politica delle identità. Certo, dall'interno, le identità di gruppo divengono sempre più complesse, multiple, soggettive, transnazionali; dall'esterno, sono spesso frutto di giudizi e pregiudizi a priori - senza possedere più quell'oggettività storica, sociologica o geografica che avevano in passato. SergioDella Pergola,Università Ebraica di Gerusalemme, http://www.moked.it/

giovedì 17 giugno 2010


"Impegno delle Forze dell'ordine contro i razzismi"

"Accogliamo con favore la notizia diffusa dal Capo della Polizia, Antonio Manganelli, della costituzione di un Ufficio Centrale dedicato alle minoranze coordinato dalla Criminalpol". Lo ha affermato il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. "Si tratta - ha proseguito il Presidente Ucei - di un organismo da noi auspicato, utile a garantire il monitoraggio e la prevenzione delle diverse forme di discriminazione, di pregiudizio, di razzismo e di antisemitismo. E’ la proficua conclusione di un iter di colloqui e di contatti che da tempo intratteniamo con tutti gli organi responsabili della sicurezza sul territorio, il cui lavoro, che ha prodotto apprezzabili risultati, viene così ulteriormente rafforzato. Mi sembra inoltre utile sottolineare, quale iniziativa di particolare interesse tra i compiti del nuovo organismo, quella di essere presente anche nel mondo virtuale, con un “commissariato online” composto da esperti, che seguirà l’evoluzione del pregiudizio su questo nuovo media, usato in particolar modo dalle giovani generazioni".


attività in kibbutz

Rassegna stampa

Nei giorni nei quali si svolgono i mondiali di calcio in Sud Africa, Europa approfitta per dare visibilità a tale Alex Hughes, tifoso ideologizzato che porta il dramma del Medio Oriente negli stadi, ripetendo che i territori palestinesi sono come il Sua Africa dell’apartheid; bisognerebbe invitarlo in Israele per permettergli di vedere coi suoi occhi quella che è la realtà oggettiva. In vista di un importante dibattito che avverrà oggi a Roma a cura della fondazione Fanfani (tra gli oratori Ettore Bernabei, al centro di polemiche pochi giorni or sono), l’Avvenire, in un articolo di Riccardi, fa un excursus sulla politica di colui che fu a lungo ministro degli Esteri; peccato che, fin dall’inizio, cada in errore quando cita la risoluzione 242 scrivendo “del ritiro Dai territori occupati”, e dimenticando, di conseguenza, di parlare anche delle necessarie modifiche dei confini previste dalla stessa 242. E’ comunque interessante il suo ritornare alle parole del ministro degli Esteri Sforza che già nel 47 scriveva che Italia e mondo arabo costituiscono uno degli elementi essenziali della nostra politica estera (fu buon profeta). E fu lo stesso Fanfani, in visita nel 67 in Siria, ad invitare invano gli arabi a dichiarare “pubblicamente” di non volere il genocidio degli israeliani. Sul Corriere troviamo due diversi articoli di Battistini; in quello di cronaca parla delle nuove navi che nei prossimi giorni dovrebbero tentare di forzare il blocco navale arrivando dal Libano e dall’Iran. Su quella libanese sarà, con un gruppo di donne, la moglie di un generale filosiriano arrestato per l’omicidio Hariri. Nel finale dell’articolo Battistini entra nei giochi della politica interna israeliana, severo con la scelta della commissione di inchiesta e con le “leggerezze” di Netanyahu tra l’affare di Dubai e le violenze contro la Flotilla; Battistini appare ora decisamente schierato in favore di un ritorno al governo della Livni. Nel secondo articolo intervista uno dei fondatori di Hamas, Al Zahar, che subito, dalle prime parole, porta la discussione anche sul piano religioso affermando che è un obbligo per ogni musulmano aiutare i fratelli. L’intervista viene effettuata nel salone di casa Zahar, che, pur se non descritta, potrebbe essere uno di quei meravigliosi palazzi che tanto diversi sono dalle catapecchie delle quali sempre si parla; apprendiamo solo che nel salone tirato a lucido sta anche una gigantesca Land Cruiser ancora più lucida. Interessanti le parole di Zahar quando ci dice che Erdogan è l’uomo nuovo che ritorna dopo mezzo millennio di impero ottomano; la Turchia è il nuovo centro dell’Islam. Purtroppo avremmo sperato di leggere delle domande più pungenti, come si devono fare ai potenti, per non diventarne il megafono. Invece leggiamo solo, tra le righe, che sì, anche Hamas avrebbe dovuto proclamare le elezioni, essendo il suo diritto di governare scaduto da 3 mesi. Si può, infine, purtroppo concordare con Zahar quando afferma che il processo di pace è fallito e che ora possiamo aspettarci di tutto. Su La Voce Repubblicana Italico Santoro fa un’accurata analisi del mondo musulmano dove nulla è come appare, e dove la realtà è ben diversa da quanto viene dichiarato ufficialmente, oggi come sempre nel passato. Su Libero Socci parla dei funerali del vescovo dell’Anatolia Luigi Padovese: severa è la critica che muove alla Chiesa di Roma i cui vescovi sono come dei moderni don Abbondio. La Turchia, prima terra a diventare cristiana, venne islamizzata con la forza (la presa di Bisanzio avvenne con un bagno di sangue). I cristiani nel paese si riducono velocemente, da due milioni a poco più di centomila, e nonostante il fatto che, prima di Padovese, sia stato ucciso don Santoro, e che da quella terra provenisse pure Ali Agca, oggi Tettamanzi esita ad usare il termine martirio. Preferisce parlare di violenza insensata e tragica, ma purtroppo non si può davvero considerarla senza senso. Il martirio, in Turchia, va avanti da secoli, e monsignor Padovese lo aveva capito benissimo se in un suo scritto premonitore leggiamo: nessun paese ha avuto tanti martiri come la Turchia. Il papa lo ha capito bene, scrive Socci, ma la Segreteria di Stato no; infatti ha preferito restare assente dai funerali, così come è stata notata l’assenza del governo italiano, pur di solito così presenzialista. Non lontano l’argomento che troviamo sul Foglio che, non a caso, si reca a Cordoba (questa città è stata scelta per dare il nome alla enorme moschea che si vorrebbe costruire nei pressi di Ground Zero). Il papa chiese ai suoi vescovi che cosa intendessero fare coi musulmani, e questi risposero di non saperlo. Ma il nuovo vescovo di Cordoba, d’accordo col cardinale di Madrid, ben deciso a non concedere ai musulmani, per le loro preghiere, la cattedrale, si oppone al piano di Zapatero che vuole fare della città il nuovo centro dell’alleanza tra le civiltà; progetto che Zapatero porta avanti coi turchi e coi musulmani senza comprendere il significato che riveste, per loro, la città di Cordoba. Accogliere i musulmani, sì, ma nel modo giusto. Attenta l’analisi da Mosca di Felix Stanevskiy: la Russia, che fu definita da Khomeini il piccolo satana, teme che prima o poi si stabilisca un legame tra l’Iran e l’occidente che vuole controllarne le risorse energetiche; la Russia rischia di restare tagliata fuori. Tra le tante voci raccolte vi è chi pensa che Mosca abbia perso l’occasione unica di costituire un asse con Teheran ed Ankara. Le sanzioni comunque, a detta di molti, non potranno funzionare, e nessuno intuisce quali saranno le sorti dei sistemi antimissile S300 promessi dalla Russia all’Iran; una fornitura questa che rischia di avere pesanti ripercussioni sugli equilibri del MO. Su il Riformista trova spazio la polemica che dilania in questi giorni l’associazione della stampa estera che, ben foraggiata da importanti finanziamenti dello stato italiano, protegge l’attività di un giornalista iraniano arrestato per traffico di armi e spionaggio, ma nel contempo ha espulso prima l’israeliano Menachem Gantz, che non ha voluto lasciarsi imbavagliare, e poi la francese Ariel Dumont che lo aveva difeso. La polemica, già trattata da par suo da Meotti nei giorni scorsi, appare come uno dei tanti giochi sporchi che avvengono nei nostri palazzi. Fa piacere trovare sul Resto del Carlino un articolo, a firma di Gatti, che per una volta non è aprioristicamente schierato contro Israele come lo sono di solito gli articoli di questa testata. Se sarà seguito da altri simili sarà una piacevole sorpresa. Da leggere con attenzione, infine, su l’Avanti, dure parole contro l’editoriale pubblicato da La Stampa a firma di Barbara Spinelli che, ancora domenica scorsa, non ha mancato di scagliarsi contro Israele (e, naturalmente, solo contro questo stato), in un editoriale da tanti severamente criticato.
Emanuel Segre Amar, http://www.moked.it/


Tel Aviv: inaugurazione della Allenby Street, 1918

Una provocazione stimolante, ma irrealizzabile e controproducente

La provocatoria e stimolante proposta di Alain Elkann, di estendere la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei del mondo, ha suscitato molteplici reazioni, richiamando l’attenzione sul particolare, complesso rapporto tra Israele e la diaspora, la cui interrelazione anima e alimenta, in modo intenso e problematico, l’essere e il divenire della moderna identità ebraica. La proposta risponde evidentemente allo scopo di rinsaldare il legame tra l’ebraismo “di dentro” e “di fuori”, superando ogni ambiguità ed esitazione riguardo al senso di appartenenza e di solidarietà, da parte degli ebrei, nei confronti della comune patria ebraica, e va senz’altro lodata per il suo forte messaggio di sostegno nei confronti dello Stato di Israele, tanto più da apprezzare in quanto formulato in un momento delicato e difficile come quello attuale.Ciò detto, appare doveroso ricordare per quali motivi tale proposta, oltre che giuridicamente irrealizzabile, potrebbe anche rivelarsi controproducente ai fini della stessa sicurezza di Israele, a cui essa vorrebbe invece contribuire.Com’è noto, la Legge del Ritorno, approvata nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle successive Leggi della Cittadinanza e dell’Ingresso, del 1952), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del suo trasferimento, attraverso la ‘aliyà’, nella Terra Promessa, acquisti immediatamente, in quanto ‘olè’, ‘salito’, la cittadinanza israeliana. Tale legge - che deriva direttamente dalla Dichiarazione di Indipendenza, che stabilisce che lo stato ebraico “aprirà le porte della patria a ogni ebreo” che vi faccia ritorno (6° c.), e “sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati” (12° c.) -, con la sua incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei, pone già le basi di una naturale estensione della cittadinanza nei confronti dell’intero popolo mosaico, i cui componenti sono tutti eletti a ‘potenziali’ cittadino dello stato. Ma la cittadinanza israeliana, evidentemente, non viene estesa automaticamente a tutti, ma solo a coloro che esercitino concretamente tale facoltà, scegliendo di vivere in Israele. Trasformare tale cittadinanza da potenziale a effettiva, con tutti i connessi diritti e doveri (voto, tasse, servizio militare ecc.), indipendentemente dalla aliyà, sarebbe evidentemente impossibile, e non solo perché la grande maggioranza degli ebrei del mondo, verosimilmente, non vorrebbe farlo (né sarebbe giusto che coloro che rifiutassero di ‘promuovere’ l’identità ebraica a cittadinanza israeliana si vedessero perciò accusare di incoerenza, infedeltà o scarso patriottismo), o non potrebbe (ci sono ebrei anche in Paesi, come l’Iran, che mai permetterebbero una cosa simile), ma anche perché ciò sposterebbe impropriamente, e forse pericolosamente, il baricentro della responsabilità delle scelte da assumere per il destino dello stato ebraico (scelte, non dimentichiamo, che assumono spesso un carattere di assoluta urgenza e drammaticità). Chi mai potrebbe avere l’autorità e il coraggio di dire “sì o no”, di fronte, per esempio, a una grave opzione di pace o guerra, se non coloro che sono chiamati a sopportare direttamente (anche con la propria vita o morte) le conseguenze della stessa? Chi mai potrebbe dire “facciamo così o così”, comodamente seduto in poltrona, al sicuro nella propria casa di New York o di Roma? Sono problemi che sono già stati motivatamente sollevati in Israele, di recente, riguardo alla proposta di estendere il diritto di voto ai cittadini israeliani residenti soltanto all’estero (di numero, ovviamente, molto inferiore a quello di tutti gli ebrei del mondo), e la giusta richiesta di permettere a tutti i cittadini l’esercizio di un fondamentale diritto di cittadinanza si è scontrata con la forte obiezione che la responsabilità del voto non può essere disgiunta dalla sopportazione delle ricadute pratiche dello stesso: un principio forse non tanto avvertito da chi viva tranquillamente in pace, ma fondamentale per un Pese in continuo, reale pericolo.Anche con tutti gli ebrei del mondo come cittadini, d’altronde, Israele resterebbe pur sempre un Paese molto piccolo, circondato da miliardi di non ebrei. Il compito storico della golà, al momento attuale, non è quello di ‘diventare’ Israele, ma di difendere le ragioni di Israele nel modo dei gentili, facendo capire quanto esse coincidano con le ragioni della civiltà, del diritto, della pace, dell’uguaglianza nella diversità. Che è, poi, lo stesso compito anche dei molti, tanti non ebrei che amano Israele. Al punto, a volte, da considerarla propria “patria ideale”, senza con ciò desiderare di diventare israeliani, né ebrei.Francesco Lucrezi, storico http://www.moked.it/


Il sindacato dei poliziotti yiddish

di Chabon Michael. ed. Rizzoli
In un fumosissimo locale nei bassifondi di una improbabile città, un cane aspetta il padrone morto, legato a una catena di ferro assicurata su un palco. Il cane è nervoso e triste per via della perdita, e l’unica cosa che lo rilassa è essere legato.Questo è un piccolo assaggio del fantastico mondo descritto nel Sindacato dei poliziotti yiddish, l’ultimo libro di Michel Chabon.Il romanzo esce dopo Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, i libri per ragazzi Soluzione finale e Summerland, la sceneggiatura di Spiderman II e romanzi quali I misteri di Pitsburgh e Wonderboys. Chabon è, inoltre, autore della raccolta di racconti Lupi mannari americani. I primi tre libri si possono facilmente iscrivere nel genere fantastico. I misteri di Pitsburgh e Wonderboys sono rigidamente realistici. I lupi mannari alternano racconti di uno e dell’altro genere.Il sindacato dei poliziotti yiddish è, insieme, realistico e fantastico. Il tutto senza soluzione di continuità.Siamo intorno al 2004. Può essere il 2005. Ci troviamo nel Distretto Federale di Sitka, in Alaska. Dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1946 e il suo crollo nel ’48, gli Usa ospitano ormai da decenni uno Stato ebraico semi-indipendente, con un proprio governatore e un proprio corpo di polizia. Landsman, il protagonista del racconto, è un poliziotto.Un bravo poliziotto, coraggioso, ma poco efficiente e ubbidiente. Ha il brutto vizio di indagare su cose sulle quali avrebbe dovuto imparare da tempo a chiudere gli occhi.Tipo sulla morte di Mendel Shpilman, figlio di Rebbe Shpilman, grande boss mafioso e capo spirituale della comunità. Mendel è stato vittima di un vertiginoso complotto. Certo, perché, come sa qualsiasi ebreo credente, a ogni generazione Dio manda dalle nostre parti uno Zadik, un giusto, un Messia a salvare il nostro corrotto mondo. Malgrado il nostro mondo sia veramente tanto corrotto, molti, però, fanno gli schifiltosi su come debba essere un messia. In molti non apprezzano Mendel, seppure conosce tutta la legge a memoria, guarisce i malati e ha il dono della poliglottia, ritenendo che non confà a un Messia essere omosessuale ed eroinomane.A moltissimi non piace che il detective Landsman indaghi su questa pietosissima morte. Il sindacato dei poliziotti yiddish è in qualche modo un libro consigliabile per il Natale: è il libro nero del Natale. Infatti, parla (sarà chiaro) dell’avvento del Messia; un fatto che, pur fantastico e miracoloso nelle premesse, duemila anni di storia ci mostrano aver avuto conseguenze concrete e molto realiste. Chabon si sforza di rendere ancora più fantastica e miracolosa questa premessa per arrivare alla più realistica delle conseguenze.Il primo elemento fantastico è proprio questa premessa, tipica della tradizione ebraica, e tradotta con successo in quella occidentale, secondo cui la costante opera di un messia salva la creazione. Nella cultura giudaica la salvazione si ripete ogni cento anni circa. In quella cristiana è avvenuta una volta per tutte. Questa premessa è cruciale nella nostra storia.Il secondo elemento fantastico del racconto risiede nel fatto che l’azione messa in opera dalla premessa non avviene nella nostra dimensione storica. Il racconto, infatti, si svolge in un luogo che non c’è, in un tempo mai esistito. Sitka non esiste, sebbene Churchill ne abbia caldeggiato la realizzazione, perché esiste lo Stato di Israele. Per quale motivo Chabon cerca un’ambientazione ucronica? Si diverte con il gioco di ciò che non è stato? No, la sua storia potrebbe avvenire per davvero ora e in qualsiasi luogo. Chabon si diverte con le possibilità fantastiche del genere ucronico. Si diverte a mostrarci che la stessa fantasia sul messia agirebbe con lo stesso effetto drammatico su qualsiasi dimensione storica. Passiamo al terzo elemento fantastico: le conseguenze di questa fantasia messianica come si svolgerebbe in qualsiasi tempo e luogo. Questa fantasia, ci dice l’autore, non farebbe altro che creare in chiunque l’idea che intervenire nella storia per cambiarla è possibile, lecito, doveroso. E l’estrema propaggine del messianismo, vediamo, in effetti, come oggi diventi complottismo e paranoia di bassa lega, martiri e attentati terroristici.Infine Chabon gioca su un quarto elemento che, pigiando ancora di più sul tasto del fantastico, fa diventare la sua storia più vera del vero: la trama è svolta secondo i più rigorosi stilemi dell’hard boiler, ma quasi senza giallo. Un genere che ritroviamo nei tic, nell’affastellamento degli elementi: un mondo crepuscolare e sul crinale della fine; i personaggi decadenti e misteriosi; il protagonista duro, ma con il cuore tenero; donne di ghiaccio e fatali; un’umanità minore, delirante, grottesca; alcol, tabacco, droghe. Un hard boiled, soprattutto nel linguaggio: questo romanzo è scritto esattamente come lo avrebbe scritto Hammett. Con una lingua fra Shakespeare e il fumetto. Una lingua densa, contorta, labirintica. Una lingua artefatta, che può destabilizzare il lettore e che lo impegna quasi sul piano di una sfida, ma che rimane l’unica con la quale è possibile raccontare in maniera realistica questa storia che non sta in piedi e che va in giro da millenni.A cosa serve l’accumulo di tanti elementi fantastici? Serve a Chabon per costruire un romanzo che vuole parlare della realtà e, soprattutto, sulla realtà. Un romanzo filosofico, quasi, in cui l’autore si diverte a dissezionare il cuore umano per vederne i segreti e deliranti palpiti quando è esposto senza filtri a un fantasia che, nel finale, l’autore è lapidario nel giudicare: Ma il Messia di Sikta non esiste.Da Fantasy magazine


Il grande ritorno dei fratelli Coen: Il sindacato dei poliziotti Yiddish

I fratelli Coen puntano ancora una volta sugli ebrei d’America. Dopo l’uscita del loro film A Serious Man il duo di registi lavorerà a un adattamento per la Columbia Pictures del romanzo Il sindacato dei poliziotti Yiddish del premio Pulitzer Michael Chabon. Il produttore Scott Rudin, che ha collaborato con i due registi nella produzione del film Non è un paese per vecchi, ha acquistato già da tempo i diritti di questo Hard-boiled in salsa Yiddish con l’intenzione di affidare la direzione del progetto a Ethan e Joel Coen.“Sono al settimo cielo - ha affermato lo scrittore Chabon in una recente intervista - tra tutti i registi viventi i fratelli Coen sono i miei preferiti e alcuni film da loro diretti rientrano nella mia personale top list. Credo che siano geniali e che siano perfettamente in sintonia con il genere, i contenuti e il tono del mio romanzo”.Chabon ha ridisegnato la storia ebraica degli ultimi 60 anni, creando un universo contemporaneo alternativo, un’ucronìa complessa e articolata. Nell’agosto del 1948, dopo solo tre mesi dalla nascita dello Stato d’Israele, la resistenza di Gerusalemme cade sotto gli attacchi dei paesi arabi confinanti e gli ebrei della neonata repubblica d’Israele, in netta minoranza numerica, vengono sbaragliati e rigettati in mare. Gli Stati Uniti d’America si preparano così a ospitare i rifugiati a Sitka, in Alaska, dove nel giro di pochi anni si riversano circa due milioni di ebrei, un numero tale da obbligare il congresso ad assegnare alla colonia lo status ad interim di distretto federale. Dopo 60 anni, Sitka è ormai uno Stato ebraico semi-indipendente, con un proprio governatore e un proprio corpo di polizia. In città si parla indifferentemente inglese, russo, tedesco e Yiddish, mentre rabbini ultraortodossi governano veri e propri imperi criminali a colpi di Tohu va-Vohu, il caos primigenio. In questa babele si snodano la vicende di Meyer Landsman, un detective alcolizzato della squadra omicidi. Landsman è alla ricerca di risposte sul caso di uno scacchista ebreo ritrovato morto in un sudicio albergo di periferia. La vittima, Mendel Shpilman, un eroinomane che usa bucarsi utilizzando i Tefillin come fossero lacci emostatici, si rivela essere il figlio di uno dei più influenti boss della città e guida spirituale della comunità, il Verbover Rebbe. Come se non bastasse, Landsman scoprirà col proseguire delle indagini, che molti considerano il figlio del rabbino, vittima innocente di un complotto per sovvertire l’ordine nel distretto, lo Zaddik ha-dor, il giusto della generazione.Tra gli ebrei credenti si ritiene infatti che in ogni generazione Dio mandi sulla terra uno Zaddik, un giusto, che potenzialmente potrebbe diventare, se le condizioni nel mondo fossero favorevoli, il messia degli ebrei. Nessuno è ovviamente d’accordo che il proprio messia possa essere proprio un eroinomane omosessuale, nonostante conosca a memoria i testi sacri e guarisca con una semplice preghiera gli infermi e i malati.Un film che non mancherà di suscitare polemiche, caratterizzato da una trama audace e al contempo politicamente scorretta. Un’occasione più unica che rara per ritrovare sugli schermi la creatività e la pazzia costruttiva dei fratelli Coen. L’uscita della pellicola è prevista per la fine del 2010.Michael Calimani http://www.moked.it/


Yisrael Campbell

Negli spettacoli off-Broadway questa è la stagione di "Circumcise Me", lo show in cui il comico Yisrael Campbell, nato con il nome di Chris in una famiglia cattolica della Pennsylvania, racconta il suo accidentato percorso attraverso tre successive conversioni: prima all'ebraismo riformato poi all'ebraismo conservative e infine all'ebraismo ortodosso. Ciò che ne esce è una descrizione autoironica dell'ebraismo americano contemporaneo visto dal di dentro. Con il risultato di liberare gli spettatori in sala da totem e tabù al punto da far riflettere sul fatto che anche gli ebrei europei e italiani avrebbero bisogno di qualcosa di simile, per riuscire a ridere di se stessi. Maurizio Molinari,giornalista,http://www.moked.it/


Produrre elettricità dal manto stradale:tecnologia israeliana sulla Venezia-Trieste

L’israeliana Innowattech sta sviluppando una tecnologia per generare elettricità dal traffico stradale. Il sistema sfrutta lo “stress” da traffico pesante e si basa sull’impiego di generatori piezoelettrici di nuova generazione in grado di catturare, accumulare e riutilizzare l’energia derivante da peso, movimento, vibrazione o cambiamenti di temperatura.Nel suo primo progetto commerciale la azienda fornirà la propria tecnologia per illuminare i segnali stradali sull’autostrada Venezia-Trieste. L’impresa italiana Impregilo SpA sta lavorando per migliorare la Venezia-Trieste con un investimento di 225 milioni di euro. I lavori sono cominciati nel 2010 e dovrebbero essere completati nel 2013. Il progetto comprende l’allargamento della strada a tre corsie in ogni direzione e la costruzione di circa 16 km di ponti e sovrappassi.Lucy Edery-Azulay, CEO di Innowattech, ha dichiarato a Globes, il principale quotidiano finanziario di Israele, che “i conducenti leggeranno le informazioni sul traffico su cartelli elettronici che saranno azionati dall’elettricità generata dai loro stessi veicoli”. Generatori Innowattech saranno posti sotto lo strato superiore di asfalto dell’autostrada. La tecnologia Innowattech converte in elettricità l’energia meccanica del traffico veicolare o ferroviario.Il centro Ricerca e Sviluppo di Innowattech è presso l’istituto Technion di Haifa.Secondo Edery-Azulay, entro la fine di giugno Innowattech avrà firmato altri accordi con varie compagnie in tutto il mondo che sono interessate alla sua tecnologia.16-06-2010, http://www.israele.net/








Mar Morto



Gaza: un po' di dati
http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/7891434.stm

da Barbara


Weizmann institute

Erdogan e il declino dei turchi: Ankara torna fuori dall'Occidente

Le forze speciali israeliane e i loro comandanti sembravano sconvolti di fronte alla violenza incontrata nel loro tentativo di abbordare la nave Mavi (“Blue”) Marmara. Non avrebbero dovuto stupirsi. Non ho dubbi che “gli attivisti della pace” turchi a bordo della nave considerassero le truppe israeliane come qualcosa di simile alla seconda venuta delle SS di Hitler. Seguire il discorso turco negli ultimi anni equivale a seguire un declino nazionale verso la follia. Immaginate circa 80 milioni di persone sedute nel crocevia tra Europa e Asia. Non parlano una lingua indo-europea e forse centinaia di migliaia di loro possono accedere significativamente a qualsiasi media esterno. Le informazioni che la maggior parte di loro ne ricava sono filtrate da una stampa laica che a confronto fa apparire i comunisti italiani come di destra... Gli argomenti A e B (o B e A, non importa realmente) sono nati dalla cattiva influenza di Israele e degli Stati Uniti sul mondo.Per esempio, mentre i nostri media si sono occupati con grande interesse della questione “chi ha perso la Turchia?” quando alle forze statunitensi è stato impedito di entrare in Iraq da nord nel 2003, una simile autoanalisi non è stata chiaramente fatta ad Ankara o a Istanbul. Invece, ai turchi venivano quotidianamente propinate irreali atrocità perpetrate dalle forze statunitensi in Iraq, spesso con l’insinuazione che stessero agendo per conto degli ebrei. Il giornale Yeni Safak, tra le letture quotidiane del primo ministro Tayyip Erdogan, asseriva che gli americani stessero gettando talmente tanti corpi iracheni nel fiume Eufrate che i mullah locali avevano emesso una fatwa con l’ordine per gli abitanti di non mangiare il pesce. Lo stesso giornale affermava ripetutamente che gli Stati Uniti utilizzassero armi chimiche a Fallujah. E riportava che soldati israeliani fossero stati schierati insieme alle forze statunitensi in Iraq e che le forze statunitensi stessero raccogliendo gli organi interni dei morti iracheni per destinarli alla vendita nel “mercato degli organi”degli Stati Uniti.Il quotidiano laico Hurriyet, nel frattempo, accusava i soldati israeliani di uccidere personale della sicurezza turca a Mosul, ed affermava che gli Stati Uniti stessero avviando un’occupazione dell’Indonesia (musulmana) sotto le spoglie di aiuti umanitari. L’ambasciatore statunitense in Turchia, Eric Edelman, in realtà ha sentito il bisogno di organizzare un’assemblea telefonica per spiegare ai media turchi che i test nucleari segreti degli Stati Uniti non sono stati la causa dello tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano. Una delle teorie più folli che circolavano ad Ankara era che gli Stati Uniti stessero colonizzando il Medio Oriente perchè i loro scienziati sapevano che a breve un asteroide avrebbe colpito l’America settentrionale.Le storie di Mosul e della raccolta degli organi sono state presto riunite in un film di successo turco, dal titolo “La Valle dei Lupi”, che ho visto in un centro commerciale di Ankara nel 2006. Conoscendo poco la lingua, ho avuto alcune difficoltà di comprensione. Ma si vedeva chiaramente che le parti del corpo dei morti iracheni venivano messe in casse marcate New York e Tel Aviv. Non è un’esagerazione affermare che un simile anti-semitismo non era stato mostrato al grande pubblico in Europa dal Terzo Reich. Quando ho intervistato il primo ministro Erdogan (in uno dei numerosi incontri) nel 2006, non era turbato dal racconto.
Erdogan: “Credo che gli autori di questo film si siano basati sui resoconti dei media…. Prendiamo ad esempio la prigione di Abu Ghraib: l’abbiamo vista in televisione, ed ora stiamo vedendo la Baia di Guantanamo in tutti i media del mondo, e certamente è possibile che questo film sia stato realizzato sotto tali influenze”.Io: “Ma lei crede che siano in molti i turchi che hanno un’opinione simile dell’America, che ci considerano quel genere di persone capaci di andare in Iraq per uccidere la gente e prenderne gli organi?”Erdogan: “Nel mondo accadono cose di questo genere. Se non è successo in Iraq, allora sta succedendo in altri paesi”.Io. “Quale genere di cose? Uccidere persone per prenderne gli organi?”Erdogan: “Non sto dicendo che vengano uccise….. ci sono persone povere che in questo vedono un mezzo per fare soldi”.Sono stato colto alquanto di sorpresa dal fatto che il primo ministro non sia riuscito a condannare una diffamazione di sangue romanzata. Non avrei dovuto stupirmi. Erdogan e il suo partito hanno approfittato da sempre dell’odio per l’America e Israele. E’ molto probabile che la flottiglia turca che ha sfidato il blocco israelo-egiziano di Gaza fosse organizzata con la sua approvazione, se non con il suo incoraggiamento. Il ministro degli esteri turco, Ahmet Davutoglu, è fautore di una filosofia che spinge la Turchia ad allentare i legami occidentali con Stati Uniti, NATO ed Unione Europea, oltre a cercare la propria sfera di influenza in Oriente. Il recente accordo della Turchia per aiutare l’Iran nell’arricchimento dell’uranio non dovrebbe suscitare alcuna sorpresa.Purtroppo, la Turchia non ha avuto alcuna credibile forza di opposizione da quando i suoi partiti laici e corrotti si sono arresi ad Erdogan nel 2002. Il People’s Republican Party, ispirato ad Ataturk, si è già sbarazzato di un leader che vedeva complotti CIA ovunque, sostituendolo con un altro che vuole aumentare la spesa nazionale proprio mentre tutte le casse del resto del mondo sono al collasso. E per di più, i turchi sembrano continuare a non vedere le loro evidenti ipocrisie. Provate a chiedere come si sentirebbero se altri paesi organizzassero un convoglio “di aiuti” (simile alla flottiglia di Gaza) per la loro minoranza curda: in tutta risposta otterrete sguardi fissi e silenzio.L’angolo cieco della Turchia sulla questione curda è particolarmente impressionante ogni volta che si richiama alla memoria il fatto che la Turchia abbia quasi invaso la Siria nel 1998 per finanziare il terrorismo curdo. Il leader dei separatisti curdi, Abdullah Ocalan, è stato poi rimbalzato tra le capitali europee, per finire con l’essere catturato in Kenia e riconsegnato ai turchi dalla CIA. L’alleanza antiterroristica della Turchia con Israele e gli Stati Uniti non avrebbe potuto essere più naturale.Ancora, il primo ministro Erdogan è stato uno dei primi leader mondiali a riconoscere la legittimità del governo di Hamas a Gaza. Ed ora sta innalzando la retorica dopo le provocazioni ad Israele per conto di Hamas. E’ stato Israele, ha dichiarato, a sconvolgere “la coscienza dell’umanità”. Il ministro degli esteri Davutoglu sta sfidando gli Stati Uniti: “ Ci aspettiamo piena solidarietà da parte vostra. Non dovrebbe sembrare una scelta tra Turchia e Israele. Dovrebbe essere una scelta tra giusto e sbagliato”.
Ma per favore. I buoni leader si impegnano per calmare le tensioni in situazioni come queste, non per intensificarle. Nessun americano dovrebbe essere ingannato, credendo che le motivazioni di questi uomini siano vere: sono soli demagoghi, che fanno ricorso ai peggiori elementi dei loro paesi e dell’intero Medio Oriente.La ovvia risposta alla domanda. “Chi ha perso la Turchia?”- ovvero la Turchia filo-occidentale - è: “Sono stati i turchi”. La vera domanda che rimane da porsi è quanto abbiano danneggiato il processo di pace attualmente in atto nella regione.
© The Wall Street Journal 5 Giugno 2010 http://www.loccidentale.it/


Cari Amici,

in occasioni dell’apertura ufficiale delle celebrazioni per il 90° anniversario del Keren Hayesod, abbiamo concentrato tutte le notizie e gli eventi organizzati nel nostro sito.
Siete tutti invitati a visitare il sito ai link che seguono per aggiornamenti su notizie, eventi, manifestazioni, messaggi di auguri da leaders e personalità famose del mondo israeliano, concorsi riservati ai bambini e tanto altro.

English http://www.kh-uia.org.il/EN/Missions-Events/Worldwide-Events/Pages/90YearsKH.aspx
Spanish http://www.kh-uia.org.il/ES/Missions-Events/worldwide-events/Paginas/90YearsKH.aspx
French http://www.kh-uia.org.il/FR/Missions-Events/worldwide-events/Pages/90YearsKH.aspx

Verrà inoltre trasmessa in diretta la cena “90 anni di sogni e conquiste” durante la quale verrà conferito il premio Yakir. Il programma sarà trasmesso mercoledì, 16 giugno alle ore 21:30 al seguente link: http://www.kh-uia.org.il/EN/Pages/Yakir.aspx
Un cordiale Shalom Enrica Moscati
Keren Hayesod Roma Corso V. Emanuele II 173 - 00186 Roma enrica@keren-hayesod.it

mercoledì 16 giugno 2010


Souad Sbai

"Sbai: femministe assenti. 'Non serve il coro per esserci' - Per Hina e Sanaa lo stesso ergastolo, ma si diffonde l'indifferenza»

MILANO— «Sono rammaricata». Non è la prima volta che succede e Souad sa bene che non sarà l’ultima. Però ci tiene lo stesso a farlo notare: «Mi dispiace sono rammaricata di vedere ancora una volta la pressoché totale assenza delle femministe. Tutta l’Italia si deve schierare dalla parte delle donne e di Sanaa. Oggi siamo tutte Sanaa». Da parlamentare pdl o da presidente dell’associazione delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai ha già seguito decine di casi simili a quello di Sanaa, magari non così tragici ma comunque storie di sopraffazioni, di donne che soccombono, che soffrono, che a volte si arrendono alla violenza di un marito, un padre, un fratello. E ogni volta che ha potuto, Souad ha fatto presente quell’assenza: le femministe. «Peccato che il femminismo non sia un gruppo di presenza, non si muova come i carabinieri. È un movimento», le risponde stizzita Ritanna Armeni, giornalista e scrittrice nonché convinta femminista da sempre. «Che cosa miserabile questo modo strumentale per attaccare il femminismo di sinistra... — se la prende —. E poi mi fa specie che venga da persone che ritengono vetero le manifestazioni, folli i cortei, sbagliata la piazza... Vogliamo ricordare che il femminismo ha imposto le leggi contro la violenza?». E che sia chiaro: «Se il ministro Carfagna o un gruppo di femministe è al processo di Sanaa dico che è una cosa buona, certo. Ma se non c’è non è una cosa cattiva. Lo so dove si vuole arrivare: dire che le donne di sinistra non sono femministe quando si tratta di colpire un islamico. Una teoria che non si può sentire». Inascoltabile anche per Carmen Leccardi, docente di Sociologia della cultura e delegata per le pari opportunità dell’università Bicocca di Milano. «Più che le femministe — ragiona — io direi che il vero problema è che la società civile tutta assieme stenta a far sentire la sua voce. E poi chiunque può capire che non siamo negli anni Settanta e che la frammentazione del movimento rende difficile far sentire in modo univoco la voce delle donne in casi come questo di Sanaa. Ma non è vero che siccome non c’è il coro allora niente si muove». Quando, nell'agosto 2006 in provincia di Brescia, Hina Saleem, una ventenne pakistana fu sgozzata dal padre (e sepolta nel giardino di casa) perché «si comportava da occidentale e rischiava di diventare come le ragazze di qui», l'opinione pubblica rimase sconvolta con tanto di mobilitazione del dibattito culturale sullo scontro o confronto di civiltà tra Islam e Occidente. Al delitto si aggiunse l'agghiacciante dichiarazione della madre di Hina, che dava ragione al marito: «Mohammed ha fatto giustizia».
Tre anni dopo, e cioè nel settembre scorso, a Pordenone, un destino analogo è toccato a Sanaa Dafani, una diciottenne marocchina, uccisa dal padre che (esattamente come il padre di Hina) pretendeva di disporre della vita della figlia e non accettava la sua relazione con un ragazzo italiano. Ieri il tribunale ha emesso la stessa sentenza di tre anni fa: ergastolo. Il delitto d'onore, per fortuna, è punito dalla nostra legge. Giustamente, la deputata Souad Sbai, presidente delle donne marocchine in Italia, si è rammaricata del fatto che il processo è stato disertato dalle femministe, che neanche si sono dichiarate parte civile in difesa della povera Sanaa. Ma forse, a ben pensarci, ci sarebbero ragioni di rammarico più sottile e forse più gravi. Non da ultimo la sensazione che mentre in passato si restava indignati e increduli di fronte a queste forme di violenza tribale, oggi si sia passati a una sorta di generale indifferenza. Che può essere tranquillamente assimilata ad altri tipi di assuefazione che si manifestano in presenza delle ordinarie follie cui assistiamo quasi quotidianamente e che non hanno nessuna coloritura etnica o religiosa: insensate stragi familiari, carneficine di provincia, regolamenti di conti tra vicini e lontani. Ma viceversa la stessa indifferenza si può interpretare anche come una alzata di spalle di fronte a fenomeni che tutto sommato ci appaiono (erroneamente!) estranei. Un modo per dire: «In fondo sono fatti loro!». Tra complicità e autolesionismo. CORRIERE della SERA 15/06/2010