Da Caschi Blu Unifil ed esercito libanese
giovedì 28 ottobre 2010
Da Caschi Blu Unifil ed esercito libanese
Sulle feroci polemiche che hanno accompagnato la chiusura del Sinodo dei vescovi del medio oriente, “un’assise presa in ostaggio da una maggioranza anti israeliana”, hanno accusato da Israele, dice la sua padre Pierbattista Pizzaballa, 45 anni, francescano, dal 2004 Custode di Terrasanta e, dunque, l’uomo incaricato della potestà su tutti i maggiori luoghi sacri cristiani della regione. Dice: “Non credo che i padri sinodali siano stati presi in ostaggio da nessuno. Il Sinodo ha espresso la voce di personalità della chiesa che vivono in medio oriente. La maggior parte di queste personalità, direi il 90 per cento, è araba. Che il mondo arabo abbia poca simpatia per Israele è evidente. E, dunque, che questa poca simpatia sia stata in qualche modo presente nel Sinodo è cosa normale. Ma insieme si deve ricordare che il messaggio finale del Sinodo condanna l’antisemitismo e l’antigiudaismo. E ricorda l’importanza di studiare i due testamenti, il Nuovo ma anche l’Antico. Non è scontato che i padri sinodali del mondo mediorientale abbiano scritto queste parole”.Tante parole sono uscite dal Sinodo. Due giorni fa il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che solo il messaggio finale fa testo. Dice Pizzaballa: “Il messaggio finale è quello ufficiale. Ma non è la voce del Vaticano e nemmeno della chiesa. E’ semplicemente la voce dei padri sinodali”. Se il messaggio fa testo ma non è la voce ufficiale del Vaticano, gli interventi dei singoli vescovi durante il Sinodo cosa sono? “Sono interventi personali. Vanno presi come punti di vista di singole persone e assolutamente non come la voce comune”.Quali novità porta il messaggio finale rispetto a Israele? “Poche, direi. Si condanna l’occupazione dei Territori e si dice che non si può usare il nome di Dio per compiere violenze. E’ una posizione già espressa in passato”. Già, però sotto sembra esserci una condanna teologica: il ritorno di Israele nella terra promessa e, dunque, la sua legittimità a esistere. Tutto sembra evidenziare un forte antisionismo. Risponde padre Pizzaballa: “Anzitutto vorrei dire una cosa sull’antisionismo. E’ una categoria occidentale. E’ un modo con cui l’occidente prova a descrivere una situazione”.Una situazione reale? “Che un certo antisionismo sia presente anche tra i cristiani del medio oriente è evidente. Ma questo antisionismo, se c’è, non ha fondamenti teologici. E’ più che altro un sentimento motivato dal conflitto israelo-palestinese. E’ una reazione a una situazione drammatica e nella quale non si vedono soluzioni immediate”. Tuttavia esiste una teologia che vuole negare agli ebrei la terra promessa… “Su questo devo ammettere che occorre maggiore dialogo tra cattolici ed ebrei. Abbiamo due modi diversi di leggere le scritture e questi due modi ci dividono. Non parlerei di teologie diverse ma di diversi modi di interpretare la scrittura. Noi siamo abituati a fare una lettura spirituale e allegorica delle scritture e non sempre questa nostra lettura combacia con quella degli ebrei”.Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006 parlò dell’islam e condannò l’uso del nome di Dio per giustificare la violenza. Oggi il Sinodo dice le stesse cose a Israele. La chiesa ha cambiato obiettivo? “Ripeto: non è la chiesa a parlare ma sono i vescovi mediorientali. C’è differenza. In secondo luogo devo dire che il Sinodo ha espresso anche diverse critiche a un certo modo di vivere l’islam. I vescovi dei paesi a maggioranza musulmana non sono stati teneri con chi usa l’islam con la spada. Le critiche, insomma, non sono state unilaterali. Anche se il Sinodo non aveva principalmente questi temi in agenda”.Di che cosa si è parlato principalmente? “E’ stato un evento di chiesa. Erano riunite a Roma tutte le realtà ecclesiali del mondo mediorientale. Tutte hanno presentato le proprie realtà. Si è parlato di laicità positiva nel mondo islamico e di piena cittadinanza. Per i giornali sono stati importanti alcuni accenti di alcuni interventi. E sono stati ignorati gli interventi per noi più significativi, quelli di carattere pastorale. E poi abbiamo parlato molto dei tanti cristiani occidentali che oggi vivono nel mondo arabo: una risorsa che servirà in futuro e della quale non si parla mai. Sono occidentali e sono di rito latino”.Come si fa a custodire i luoghi cari alla cristianità in una regione così contesa? “Vivo in solitudine. Una certa solitudine è necessaria qui. Certo, ho vicino i frati francescani che mi aiutano. E poi ci sentiamo molto anche con Roma, col nunzio e col Vaticano. Ci aiutiamo a decifrare questa terra così complessa”.FOGLIO QUOTIDIANO di Paolo Rodari 27 ottobre 2010
In Israele estratti per due volte gli stessi sei numeri della lotteria
Si è verificata una incredibile coincidenza proprio in questi giorni in Israele, dove il 6 della lotteria nazionale ha mostrato per due volte, nel corso dello stesso mese, gli stessi identici numeri, che come se non bastasse sono stati estratti in ordine perfettamente inverso, dando vita ad una coincidenza assurda.Così mentre in Italia il 6 del superenalotto sta per compiere un anno da quando è stato realizzato l’ultima volta a febbraio 2010, in Israele, dove la lotteria nazionale segue lo stesso regolamento del nostro concorso dal jackpot multimilionario, la stessa combinazione di numeri è già uscita per due volte nell’arco di un solo mese.Ma quante sono le probabilità che una cosa del genere avvenga? Non tante, questo è certo, basti pensare che le probabilità di centrare il 6 al superenalotto sono una su 622 milioni circa, ebbene le probabilità che vengano estratti gli stessi 6 numeri per due volte nell’arco di un mese, sono approssimativamente una su 4 miliardi.Il professor Yitzhak Melechson dell’Università di Tel Aviv, ha spiegato che un evento del genere si può verificare una volta ogni 10.000 anni, e proprio per l’assurdità di questa incredibile coincidenza, c’è chi sospetta che la lotteria sia truccata, d’altra parte si ritiene che sia improbabile che una lotteria venga truccata in modo così evidente, gli organizzatori si sono difesi dicendo che quando si tratta di giochi di probabilità, tutto è possibile, anche eventi così straordinari.26 ottobre 2010, http://playbonuscasino.com/
Hamas punta a occupare Haifa e Acco (città israeliane) in collaborazione con eserciti stranieri. Lo ha dichiarato lunedì scorso il “ministro degli interni” di Hamas a Gaza, Fathi Hammad.L’ennesima minaccia del movimento palestinese sostenuto dall’Iran giunge nello stesso momento in cui i massimi esponenti dell’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) intensificano i loro attacchi retorici contro Israele per il suo rifiuto di prorogare la moratoria delle attività edilizie ebraiche in Cisgiordania oltre i dieci mesi a suo tempo stabiliti per favorire il negoziato coi palestinesi (e lasciati trascorrere dai palestinesi senza avviare seri negoziati).Hammad, che parlava durante una visita all’Università “della scienza e della tecnica” di Khan Yunis, nella parte meridionale della striscia di Gaza, ha sostenuto che Israele si starebbe apprestando a lanciare “un’altra guerra contro la striscia di Gaza nel tentativo di sradicare la resistenza armata palestinese”. Rivolgendosi direttamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il “ministro” di Hamas ha affermato: “Stiamo per venire a riprenderci Haifa e Acco, insieme con altri eserciti dal resto del mondo”.Hammad ha riempito di elogi i convogli di “aiuti umanitari” che giungono nella striscia di Gaza via el-Arish (Egitto) sfidando il blocco anti-Hamas imposto sull’area. Questi convogli, ha detto, portano ai palestinesi un chiaro messaggio: “Che dobbiamo continuare ad impegnarci sulla via della jihad (guerra santa) e della lotta armata. Il nemico cerca di imporci un assedio, ma è lui che è assediato dietro le sue barriere”.Hammad ha proseguito dicendo che Israele sta ancora patendo le conseguenze della “sconfitta” e della “umiliazione” subite nell’operazione anti-Hamas a Gaza del gennaio 2009. “I capi dell’entità sionista – ha sottolineato compiaciuto – hanno paura a recarsi nei paesi europei per il timore di essere arrestati e processati”. Hammad, che è responsabile delle forze di sicurezza di Hamas nella striscia di Gaza ed è considerato uno dei personaggi più potenti del movimento islamista palestinese, si è anche scagliato contro l’Autorità Palestinese per aver accettato di negoziare con Israele. Rivolgendosi al presidente Abu Mazen, ha detto: “Non importa quante concessioni farai, l'occupante e l'America non saranno mai sazi”.(Da: Jerusalem Post, YnetNews, 25.10.10)La nave di “attivisti pacifisti” chiamata “Viva Palestina 5”, attraccata di recente al porto egiziano di el-Arish, non aveva a bordo solo “aiuti umanitari” destinati agli abitanti della striscia di Gaza ma anche dei fervidi attivisti turchi che hanno approfittato dell’occasione per incontrare alcuni membri della Jihad Islamica palestinese. Nelle immagini ottenute da YnetNews si possono vedere questi “pacifisti” turchi che brandiscono armi automatiche e lanciarazzi.Mentre il loro primo ministro Recep Tayyip Erdogan continua ad accusare Israele per gli incidenti di fine maggio a bordo della “Mavi Marmara” e pretende da Gerusalemme scuse ufficiali per quello che definisce “terrorismo di stato”, almeno un paio dei “pacifisti” turchi arrivati a Gaza si sono fatti fotografare con indosso l’uniforme delle Brigate al-Quds, il braccio terrorista della Jihad Islamica di Gaza. Le foto della visita a Gaza della delegazione turca sono state pubblicate sul sito web delle Brigate al-Quds per illustrare un servizio sull’arrivo della missione “umanitaria”. Nonostante i visi degli ospiti turchi fossero offuscati, dopo poco tempo le loro immagini sono state rimosse dal sito, probabilmente per timore delle conseguenze.Durante la loro visita a Gaza, i membri della delegazione turca hanno incontrato visitato diverse postazioni della Jihad Islamica. Uno dei “pacifisti” in visita avrebbe dichiarato ai terroristi palestinesi che essi costituiscono “motivo di orgoglio per tutte le persone rispettabili nel mondo arabo e islamico”, definendoli “la prima linea della lotta contro il sionismo”. I “pacifisti” turchi hanno poi celebrato i terroristi palestinesi dicendo: “Siamo fieri di essere qui con voi, che avete sacrificato tanto per il bene della nazione islamica: tutto il popolo turco, come tutti gli arabi e i musulmani, prega per la vostra vittoria, vi sostiene e vi fortifica”.“Le foto dei membri della delegazione turca a Gaza in compagnia dei terroristi della Jihad islamica armata – ha commentato martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – svelano il vero volto di gruppi come l’IHH, la Ong che organizzò la flottiglia turca per Gaza dello scorso maggio”.(Da: YnetNews, israele.net, 25.10.10) http://www.israele.net/
Fu Herzl a volere lo stato Ebraico non uno stato confessionale naturalmente (Herzl era perfettamente laico ma capiva quello che molti dei nostri ebrei laici “liberal” non capiscono ossia che la nostra ragione d’essere è basata sulla Bibbia senza di essa non abbiamo nessuna causa in capitolo) lui volle uno stato per gli ebrei che avrebbero potuto esercitare la propria cultura, la propria vita, anche la propria fede apertamente senza essere perseguitati per la loro volontà di volere mantenere la loro unicità socio-storico-culturale, basta leggere le risoluzioni dell’ultimo Sinodo per percepire l’importanza di questa sacrosanta verità.Ora, caro Zevi, non dimentichiamoci che l’ONU stesso nella sua risoluzione del 1947 decise di creare nella Palestina due stati uno arabo (non Palestinese) ed uno ebraico.Noi israeliani accettammo questa decisione intrernazionale gli arabi non l’assecondarono, ci dichiararono guerra e la persero una, due, tre, quattro… volte; le persero tutte le guerre da loro dichiarate ed escogitate (da quando mondo è mondo chi perde la guerra perde i suoi diritti ma noi ci comportammo con magnanimità e tornammo sempre alle trattative) ora sono sempre loro a non volere riconoscerci come Stato ebraico perché secondo loro noi si dovrebbe accogliere I loro profughi causati dalla loro continua belligeranza nel nostro stato (si tratta secondo loro di 4.5 milioni) e cosi annientarci definitivamente. Se ci riconoscessero come stato ebraico il loro sogno del nostro annientamento svanirebbe! L’unica assicurazione della nostra esistenza è la dichiarazione del nostro territorio come territorio ebraico naturalmente tutti quelli cha abitano in Israele seguiterebbero ad essere cittadini israeliani in tutto e per tutto con tutti i diritti che spettano a tutti gli altri cittadini e naturalmente anche con piena libertà religiosa e culturale il fatto di essere uno stato ebraico eviterà il ritorno di chi ci attaccò e volesse oggi ritornare loro o i loro figli o I figli dei figli! Noi non li abbiamo attaccati sono stati loro a volere la guerra sono stati sconfitti! Traggano pure le conclusioni!!!David Cassuto, http://moked.it/
Confesso che, ogni qual volta leggo su qualche giornale – e accade abbastanza spesso (da ultimo, in occasione del discorso pronunciato alla Fiera di Francoforte domenica 10 ottobre, riportato ne la Repubblica del giorno successivo – i commenti dedicati da David Grossman al conflitto medio-orientale, provo sempre una sottile, indefinibile sensazione di disagio, le cui ragioni appaiono a me stesso non pienamente chiare, ma sono essenzialmente riconducibili alla spiacevole divaricazione tra due moti d’animo di difficile conciliazione. Se è normale, infatti, essere in accordo o disaccordo con qualcuno, e anche avere posizioni intermedie, critiche o dialettiche, non è usuale nutrire, per la medesima persona, e nello stesso momento, sentimenti di profonda ammirazione e di netto dissenso.Ammirazione, innanzitutto, per il grande talento dello scrittore: per quella prosa raffinata, leggera, soffusa di nostalgia, tenerezza, dolore, che ne ha fatto meritatamente una celebrità mondiale. Ma anche per la forza dei valori morali, e per l’infaticabile impegno profuso nel difenderli, sempre e dovunque. L’aspirazione alla pace, in Grossman, assume il carattere di un inderogabile imperativo etico, che scuote la coscienza di tutti gli uomini, richiamandoli a rifuggire da ogni forma di violenza, di sopraffazione, di rassegnazione, a riscoprire un destino comune di fratellanza, a ricordare la dimenticata appartenenza all’unica famiglia umana. Profondamente innamorato del suo Paese, Grossman lega le sofferenze del suo popolo a quelle dei suoi avversari, augurando a tutti un futuro diverso, con parole profetiche, che richiamano le più nobili tradizioni dell’umanesimo e dell’universalismo ebraico.Quando, però, lo scrittore prova a descriverci, nello specifico, quel conflitto che tanto lo addolora, la visione che ne deriva appare del tutto irreale. La sua rappresentazione, infatti, è quella di due popoli, ostinati, da sempre, a combattersi, contro ogni logica di reciproca convenienza e utilità. Israele contro Palestina, israeliani contro palestinesi: sono sempre questi due, nella raffigurazione di Grossman, i protagonisti dell’assurdo, interminabile ‘duello’, e solo un’oscura follia, fatta scendere dagli dèi nelle loro menti, per offuscarle, pare impedire loro di raggiungere quell’obiettivo di pace che sembra così semplice, così vicino: eppure, ogni volta che si profila, finalmente, a portata di mano, viene sempre spinto, perfidamente, “un po’ più in là”.Difficilmente, nelle sue analisi, Grossman menziona altri soggetti, quali la Siria, il Libano, l’Iran o, per esempio, la Malesia, e tutti quegli stati, magari lontani, che pure – spesso, molto più della Palestina – si dicono acerrimi nemici del suo Paese e del suo popolo. Difficilmente parla dell’antisemitismo europeo, delle continue condanne di Israele in sede di Nazioni Unite, delle dure posizioni ecclesiastiche, degli innumerevoli gesti ostili anti-israeliani compiuti da organizzazioni o gruppi che con i palestinesi non hanno assolutamente nulla a che fare. Così facendo, egli sembra cadere in pieno in quella specie di ‘trappola’ mediatica che, a partire dal 1967, ha cambiato le carte in tavola, sostituendo alla contrapposizione tra Israele e mondo arabo quella – propagandisticamente assai più efficace – tra Israele e Palestina, solo Palestina. Gli altri antagonisti sono come scivolati sullo sfondo, e la lotta, da uno contro venti, è parsa diventare “uno contro uno” (con uno dei due, evidentemente, molto più forte, e perciò più responsabile).Un quadro monco, distorto, che deforma la verità storica, e non aiuta – al di là di ogni buona intenzione – a raggiungere delle possibili soluzioni.Francesco Lucrezi, storico http://moked.it/
È dedicato al fumetto e alla cultura ebraica un ampio dossier di approfondimento pubblicato sul nuovo numero di Pagine Ebraiche in distribuzione martedì 2 novembre. Intitolato Comics and Jews, il dossier sarà presentato insieme al giornale ebraico per bambini Daf Daf questo venerdì, 29 ottobre, alle 11.30 nella Sala Incontri della Camera di Commercio di Lucca in occasione di Lucca Comics, la più importante rassegna nazionale dedicata al fumetto e alla fantasia in tutte le sue possibili declinazioni.All’incontro con il coordinatore dei dipartimenti Informazione e Cultura dell’UCEI Guido Vitale, parteciperanno grandi autori del disegno italiano e internazionale, alcune firme che illustrano Pagine Ebraiche e Daf Daf (ai giornali collaborano fra gli altri Giorgio Albertini, Enea Riboldi, Vanessa Belardo, Paolo Bacilieri, Maurizio Rosenzweig e Viola Sgarbi e il critico Andrea Grilli). Ha annunciato la sua presenza anche il Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane con delega alla Cultura Victor Magiar.Il dossier prevede un inedito itinerario alla scoperta dei nessi esistenti tra comics e mondo ebraico in cui sono analizzati matrice culturale degli autori, profilo dei personaggi e contenuti delle strip.Quanti sanno che per disegnare Batman, Bob Kane e Bill Finger si sono ispirati al Golem? O che Superman può essere letto come la proiezione in calzamaglia di Mosè e Sansone? O ancora che le avventure degli X-Men sono indissolubilmente legate alla tragedia della Shoah? Queste e molte altre curiosità tra le pagine del dossier, dove il lettore viaggerà alla scoperta dello straordinario potere della matita in compagnia di Robert Crumb e Art Spiegelman, entrerà nel mondo alla rovescia di Al Jaffee, nell’immaginario della rivoluzione underground americana e scoprirà l’unico Santa Claus che parla yiddish.In apertura di dossier un’intervista con Vittorio Giardino, la grande firma del fumetto italiano che ha dato vita a personaggi indimenticabili come Max Fridman e Jonas Fink ricostruendo con meticolosità luoghi e situazioni legate all’Europa ebraica,http://www.moked.it/
mercoledì 27 ottobre 2010
(AGI/REUTERS) - Gerusalemme, 24 ott. - Cala del 6% congiunturale la produzione industriale in Israele ad agosto dopo una crescita del 2,4% a luglio scorso. Lo ha reso noto l’ufficio centrale di statistiche. Si tratta della seconda flessione negli scorsi tre mesi. La produzione e’ cresciuta a un tasso tendenziale del 7% tra giugno e agosto.
La maggior parte degli ebrei israeliani è favorevole al “giuramento di lealtà” (la proposta governativa di modificare il giuramento di fedeltà dei neo-cittadini allo “stato d’Israele” in un giuramento di fedeltà allo “stato ebraico e democratico di Israele”). Personalmente appartengo alla minoranza di coloro che non sono favorevoli. Tuttavia posso capire come mai molti ebrei che difendono la piena uguaglianza di diritti civili finiscono per approvare la nuova versione della dichiarazione di fedeltà. La mia opinione è che i leader della comunità araba israeliana sono in buona parte responsabili per questo sviluppo.Il giuramento di lealtà costituisce una sorta di “pertinente risposta ebraica” ai vari Hanin Zoabi, Azmi Bishara, al Movimento Islamico israeliano e ai “Documenti sull’Identità” che la dirigenza araba israeliana va elaborando da qualche tempo a questa parte. Sono mosse che vengono percepite come una esagerata sfida al carattere ebraico dello stato d’Israele.Cercherò di dare espressione alle voci che provengono dell’“ebreo della strada”. Israele è in conflitto con la maggior parte dei paesi arabi. I cittadini arabi d’Israele sono strettamente legati ai loro fratelli arabi nei territori occupati e nella “diaspora” palestinese, e costituiscono parte integrante della grande nazione araba, che deve ancora decidere sul significato del legame che lega le sue varie parti. La natura di tale legame non trova concordi nemmeno gli intellettuali arabi israeliani. Ad esempio, l’ex parlamentare arabo israeliano Azmi Bishara, ora incriminato e latitante all’estero, a un certo punto ammise apertamente che “il popolo palestinese” è in gran parte un’invenzione intesa ad adattare le rivendicazioni degli arabi che vivono in Terra d’Israele/Palestina al lessico che ha più corso a livello globale, benché di fatto esso non sia altro che una comunità di “siriani del sud”. E dunque, a che titolo dei “siriani del sud” dovrebbero prendere parte al dibattito sull’identità nazionale dello stato, e che genere di diritti possono rivendicare i seguaci del Movimento Islamico che considerano il mondo di tutti i fedeli musulmani come un’unica regione politica?Il Medio Oriente è una regione povera e arrabbiata, governata da regimi dittatoriali; una regione che opprime le minoranze e disprezza i diritti umani; una regione caratterizzata da smisurato fanatismo religioso e da una pletora di conflitti etnici e religiosi. L’antisemitismo vi dilaga nelle sue forme più schiette ed esplicite. Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi esempi raccapriccianti che attestano l’atteggiamento dalle società arabe e musulmane verso coloro che non sono arabi e musulmani, o che semplicemente non piacciono ad altri arabi e musulmani: Iran, Sudan, Mauritania, Iraq, Afghanistan. I rapporti all’interno della stessa società palestinese suscitano angoscia fra gli ebrei d’Israele. Allo stesso tempo, il mondo arabo e musulmano conta schiere di intellettuali che mancano della minima capacità di introspezione: danno a tutti quanti la colpa per il pietoso stato in cui versa il Medio Oriente, tranne beninteso che ai mediorientali stessi e alle culture da essi prodotte.Gli arabi israeliani tendono a chiedere: cosa ha a che fare tutto questo con noi? E l’ebreo della strada tende a rispondere, come fanno tipicamente gli ebrei, con un’altra domanda: è mai possibile che gli arabi cittadini d’Israele, minuscola frazione della grande nazione araba, siano totalmente diversi dai loro fratelli arabi riguardo a disposizione d’animo, cultura, attitudine alla democrazia?L’ebreo della strada si pone anche svariate altre domande: i nostri concittadini arabi chiedono che Israele si comporti verso di loro secondo i più nobili standard umani, ma nello stesso tempo non dicono una parola di critica verso le ingiustizie che predominano nel mondo arabo. Questi nostri concittadini arabi non hanno proprio nulla da dire sull’atteggiamento verso la minoranza dei cristiani copti in Egitto, o quella verso gli sciiti negli stati sunniti del Golfo, o sulla tirannia alawita in Siria? “Se non siete disposti a criticare i vostri fratelli arabi – pensa l’ebreo della strada in Israele – vuol dire che i vostri codici di valori non sono poi così diversi dai codici di valori che predominano fra la vostra gente. Non si può comodamente ricoprire due ruoli diversi: come cittadini d’Israele avanzare rivendicazioni che solo in Israele si possono avanzare, e allo stesso tempo proclamare che si è cittadini d’Israele contro la propria volontà e che la propria commossa solidarietà va tutta a un mondo che disprezza Israele e che ospita una grande quantità di antisemiti dichiarati.“E già che siamo in tema – conclude l’ebreo della strada – devo ancora sentire una sola parola di reazione da parte dei nostri concittadini arabi al recente discorso tenuto da Ahmadinejad in Libano nel quale il presidente iraniano dava la colpa al sionismo, oltre a tutto il resto, nientemeno che del cambiamento climatico”.(Da: YnetNews, 23.10.10)
I lanci dalla Striscia di Gaza
Tre proiettili di mortaio sono stati sparati dalla Striscia di Gaza contro il territorio israeliano senza tuttavia provocare nessuna vittima. Secondo fonti militari a Gerusalemme, un solo proiettile ha raggiunto lo Stato ebraico finendo in un campo. Gli altri due sono esplosi all'interno della Striscia. Dall'inizio dell'anno, sono circa 120 i razzi e i proiettili di mortaio che da Gaza sono stati lanciati contro Israele.24/10/2010, http://www.tgcom.mediaset.it/
Tra loro,nascosti in container di un camion,9 donne e 6 bambini
Nei primi decenni del secolo scorso l’odio per gli ebrei raggiungeva anche i più remoti angoli d’Europa grazie alle cartoline postali. Queste carte, oggi divenute oggetto di studio da parte degli storici, testimoniano con immediatezza la straordinaria pervasività dello stereotipo antisemita attraverso le loro illustrazioni, tristi e volgari al tempo stesso, che rappresentano caricature di ebrei dal naso adunco, ebrei che come ragni tessono la tela del dominio mondiale o ebrei dalle fattezze sataniche che accumulano patrimoni ai danni del popolo. Un ruolo per tanti versi analogo è quello svolto dalla letteratura di massa che propalando, attraverso intrecci e personaggi, luoghi comuni e pregiudizi raggiunge un pubblico ben più ampio di quello attento alla cosa politica. In Italia, così come nel resto d’Europa, spetta dunque ai romanzi il dubbio compito di inoculare nella mente dei lettori il seme dell’odio antisemita mettendo in scena belle ebree dai liberi costumi che tramano a favore del loro popolo o ebrei malvagi che cospirano contro l’umanità per impadronirsi del potere. Una prima analisi di questo fenomeno culturale la dobbiamo a Riccardo Bonavita (1968 – 2005), intellettuale comunista, studioso di letteratura italiana, autore di un’indagine acuta e originale della storia del razzismo politico italiano che prende le mosse dalla convinzione che la cultura razzista in Italia non si esaurisce nella parentesi delle leggi razziali ma scaturisce da un serbatoio d’idee e pregiudizi che si struttura già nei primi dell’Ottocento. Alcuni dei saggi scritti da Bonavita tra il ‘95 e il 2003 sono stati raccolti nel volume Spettri dell’altro - Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea (il Mulino, 2010) dall’amico Michele Nani, ricercatore al Dipartimento di storia dell’Università di Padova, esperto di storia del razzismo e del nazionalismo in Italia, che ha curato il libro insieme all’italianista Giuliana Benvenuti. “Fin dagli anni dell’università eravamo entrambi amici di Riccardo, con cui abbiamo condiviso molte esperienze. Sentivamo l’urgenza morale di rendere disponibili i suoi contributi disseminati in riviste e altre pubblicazioni e di pubblicare questo lavoro a cui lui stesso lavorando e che la sua scomparsa aveva lasciato in sospeso. Siamo riusciti a ricomporlo grazie alla disponibilità dell’editore, della moglie Cristiana Facchini e di tanti amici dando così conto di un percorso che ha anticipato di alcuni decenni la vague della ricerca sul razzismo italiano”.In che modo il lavoro di Riccardo Bonavita è un anticipatore? Oggi forse è difficile rendersene pienamente conto. Ormai sono tutti disposti, almeno per ciò che riguarda il Novecento, a guardare in faccia la robusta tradizione del razzismo italiano: fino agli anni Ottanta era invece un argomento molto controverso e molte voci negavano il coinvolgimento degli italiani e dello stato italiano nelle iniziative razziste. Le leggi razziali erano viste come mosse tattiche e politicamente inevitabili e spesso venivano rubricate alla voce colonialismo o imitazione della Germania. Già il fatto di eleggere il razzismo a tema di ricerca era controcorrente e ricercarlo nell’alta cultura in un certo senso lo era ancora di più. Siamo dunque davanti a una doppia innovazione che sembrò provocatoria e politica. Altro elemento innovativo è la percezione di come si studia il razzismo.Parla dell’approccio alla letteratura? Le ricerche fino allora si concentravano sull’aspetto della legislazione, Riccardo già si lanciava nella dimensione sociale e culturale: affrontando le idee dominanti e la loro ricezione nella società e nella mentalità collettiva. Studiare la letteratura, alta e bassa, il cinema o le arti figurative ci consente infatti di leggere una cultura impregnata di razzismo assai più ampia di quel che fino a un certo punto si pensava esistesse. Ed è una dimensione che spiega bene l’adesione di massa che avvenne in quegli anni.Riccardo Bonavita analizza la narrativa di consumo di successo negli anni Trenta. Perché proprio questa scelta? Molti di quei romanzi erano intrisi di gerarchie razziali sia nei confronti degli africani sia degli ebrei. Vi si ritrova una visione gerarchica e naturalistica dell’universo in cui le differenze sociali e culturali erano trascritte nel corpo degli individui. Vi è poi uno stretto nesso tra razzismo e sessismo. Il fatto stesso che i lettori amassero questi libri spiega come questi stereotipi venivano assimilati.Che motivi vi si ritrovano? Vi è una perfetta corrispondenza con letteratura antisemita ottocentesca: temi propri della polemica antigiudaica d’ispirazione cristiana s’impastano con le nuove minacce che pesano sulle comunità tradizionali e minacciano di sovvertirle e questi pericoli assumono un volto ebraico. È quanto accade ad esempio con il bolscevismo, che fu uno dei temi preferiti di Giovanni Papini, uno degli autori più apprezzati del filone.Altri autori di successo? Ricorderei Guido Milanesi che nel 1922 scrive Kaddish, il romanzo d’Israel e soprattutto nei primi anni Trenta Maria Magda Sala che scrive Russia & Israel, tra le spire della sacerdotessa d’Israel e Lino Cappuccio che firma L’esagramma, romanzo storico. Nomi come si vede oggi del tutto dimenticati ma che allora conobbero un buon riscontro di pubblico grazie a tematiche di chiaro stampo razzista.Cosa sono gli spettri dell’altro che danno il titolo al volume da lei curato? Sono queste immagini spettrali dell’alterità che abitano le pagine della letteratura e della cultura italiana del Novecento. Ci troviamo davanti a un altro che viene congelato in una rappresentazione costruita come diversa, inferiore e pericolosa e chiama a una controazione.Bonavita parla di un vero e proprio “giacimento di stereotipi”. Di che cosa si tratta? Vi sono materiali tradizionali della tradizione cristiana e prodotti della cultura moderna che vengono messi in movimento nella narrativa. E vi è anche un riuso razzista di Leopardi che viene arruolato dalla rivista La difesa della razza attraverso un sommario florilegio dallo Zibaldone. Il progetto di Riccardo era di non fermarsi alle leggi razziali e al razzismo coloniale ma di risalire il corpo del ventennio fascista alla ricerca delle radici di questa mentalità così da costruire la grammatica e la storia di un’alterità. Nelle sue intenzioni il volume doveva chiudersi sul destino di questi stereotipi nel secondo dopoguerra. Da Pagine Ebraiche, ottobre 2010 - Dossier a cura di Daniela Gross e Daniel Reichel
Il furore antisemita non è frutto di un fuggevole oscuramento delle coscienze né di un improvviso palpito ideologico. L’odio degli ebrei si nutre invece della carne viva della società rielaborandone in modo sistematico temi, paure e ideali. A sostenerlo è Francesco Germinario, ricercatore alla Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, che a quest’argomento ha dedicato un importante studio dal titolo Costruire la razza nemica - La formazione dell’immaginario antisemita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel volume, pubblicato quest’anno da Utet, il professor Germinario analizza, utilizzando la pubblicistica dell’epoca, lo sviluppo del pregiudizio antiebraico. “Se pensassimo che l’antisemitismo è ideologia che sorge in modo spontaneo nella società contemporanea – spiega – commetteremmo un errore grossolano. Come qualsiasi ideologia politica l’antisemitismo non fa altro che riprendere e rielaborare aspetti politici della società in cui vive. E’ una cultura interna alla società”.Professor Germinario, dove possiamo rintracciare la genesi dell’immaginario antisemita contemporaneo in Europa? Per molti aspetti l’immaginario antisemita moderno rielabora in chiave secolarizzata stereotipi appartenenti alla tradizione cattolica antigiudaica, ad esempio l’identificazione tra l’ebreo e il denaro o lo stereotipo della “razza pazza”. Ciò avviene soprattutto per due motivi. Nella seconda metà dell’Ottocento compaiono i primi movimenti politici di contestazione della società liberale, tra cui il socialismo, l’anarchismo e i movimenti sindacali. In questo momento, in cui la modernità liberale mostra le prime crepe, l’antisemitismo è un movimento di contestazione, insofferente della modernità e soprattutto della modernità pluralista e liberale. Non è un vero e proprio movimento di rottura dal punto di vista culturale ma è comunque una teoria politica rivoluzionaria perché intende rovesciare la società liberale e borghese.Quali sono le categorie su cui si fonda? Alla base dell’antisemitismo moderno c’è l’idea che l’ebraismo cospiri per la tirannide mondiale. Vi è la riduzione dell’ebraismo a razza e la convinzione che l’epoca liberale sia quella dell’ebraizzazione degli individui. In quest’epoca tutti assumerebbero atteggiamenti, cultura e relazioni personali e sociali che alcuni autori definiscono “biblici”, “talmudici” o “salomonici”: comportamenti più liberi, ispirati all’egualitarismo. Ciò che l’antisemitismo imputa alla società liberale è proprio il fatto che l’emancipazione dal ghetto non ha affatto deebreizzato gli ebrei, come invece si pensava sarebbe accaduto. Viceversa l’ebreo liberato dal ghetto ha ebraizzato chi non lo era influenzando il suo modo di vivere e di pensare.Come si passa da queste teorie all’antisemitismo novecentesco con le sue tragiche conseguenze? Distinguerei fra un antisemitismo monotematico e uno contaminato. I primi sono di contestazione della società, battono su un solo tema e non riescono ad allargare in modo esplicito la loro udienza. Si ritagliano dunque spazi molto ristretti di mercato politico. L’antisemitismo diventa pericoloso nel momento in cui si contamina e si incrocia, negli anni Venti e Trenta, con altre ipotesi politiche, pensiamo al nazismo e all’estrema destra, che sono antisemiti ma sono anche altro. In quel momento entra in azione una miscela esplosiva. Il problema non è solo di distinguere fra l’una e l’altra forma ma di interrogarsi su questa contaminazione con movimenti politici generalisti esplicitamente totalitari che dimostra come già dall’inizio l’antisemitismo aveva una chiara vocazione totalitaria che non era però riuscito a organizzare in modo autonomo. Anche la versione monotematica può quindi essere considerata un orientamento a chiara vocazione totalitaria, in cerca dei movimenti politici con cui convolare a nozze.Da Pagine Ebraiche, ottobre 2010 - Dossier a cura di Daniela Gross e Daniel Reichel
Sarà inaugurato il 28 ottobre il nuovo centro educativo di Beersheva, risultato di un progetto realizzato dall’associazione Tsad Kadima che comprenderà 6 classi di asilo e asilo nido per bambini provenienti da tutte le popolazioni che abitano la zona del sud di Israele (comprese città in via di sviluppo e tendopoli beduine del deserto).Alessandro Viterbo, presidente del comitato per la raccolta di fondi ha seguito il progetto che ha un notevole apporto italiano, il nuovo centro infatti godrà di alcune donazioni provenienti dall’Italia che finanzieranno il centro di informazione pedagogica e una parte del materiale riabilitativo. L’arredamento della classe speciale per bambini autistici sarà dedicato alla memoria dell’infermiera italiana Agape Terzi che ha dedicato la sua vita alla cura di bambini disabili .All’inaugurazione saranno presenti il sindaco di Beersheva Rubik Danilovich, il ministro per gli affari sociali Isaac Herzog, l’ambasciatore d’Italia in Israele Luigi Mattiolo, il console d’onore italiano Blima Sluzki, la presidente dell’Istituto Villa Santa Maria di Como Gaetana Mariani con il quale Tsad Kadima collabora.http://moked.it/
Nelle scorse settimane si è discusso a lungo sull’opportunità del giuramento di cittadinanza votato dal governo Netanyahu: secondo la nuova formula per diventare cittadini ci si dovrà dichiarare fedeli allo stato «ebraico e democratico». La novità consiste naturalmente nell’esplicita menzione della matrice religiosa, che alcuni - i ministri laburisti che hanno dissentito dalla maggioranza dei loro colleghi - hanno letto come una provocazione nei confronti dei cittadini arabi-israeliani. Chiaramente non ci sono problemi per gli ebrei che usufruiscono della legge del ritorno in virtù della loro appartenenza religiosa (seppur basata sul principio di sangue e non sull’halachà, la legge ebraica).La questione è evidentemente delicata, e il dibattito in Israele incredibilmente acceso. L’idea di definirsi in base alla religione può essere letta come una conseguenza naturale del sionismo, che aspirava a una patria ebraica, oppure come la sua più compiuta negazione, in quanto i pionieri dello stato d’Israele erano in gran parte laici - di destra e di sinistra - e corroboravano la propria epopea con un afflato nazionalista. Ma se si trattasse soltanto di una controversia culturale non se ne sarebbe parlato così a lungo.Il problema è chiaramente politico, e incide su paure profonde di israeliani e palestinesi: per i primi il timore di perdere la maggioranza all’interno dello stato d’Israele (senza i Territori) a causa dell’esplosione demografica degli arabi-israeliani; per gli altri la sensazione di essere sempre più considerati cittadini di serie B, con minori diritti. Entrambe le paure hanno dei fondamenti di verità. Dal punto di vista degli israeliani l’unica soluzione per evitare di trovarsi in minoranza in casa propria è quella di trovare un accordo territoriale con i palestinesi e separarsi dagli arabi di Gaza e della Cisgiordania: come ricorda Sergio Della Pergola l’Israele del futuro non potrà essere grande, democratico ed ebraico, ma dovrà rinunciare a una delle tre caratteristiche.Per questo il giuramento è un errore politico, che sparge solamente sale su ferite sanguinanti. Se vogliamo che Israele rimanga - come io vorrei! - uno stato ebraico e democratico, il primo passo da compiere è fare la pace, non ribadire ciò che, fortunatamente, per adesso già è.Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas, http://moked.it/
Dal sinodo un calcio ad anni di dialogo con gli ebrei
Per misurare la gravità di quanto è accaduto nel sinodo dei Vescovi sul medio oriente è sufficiente un parallelismo storico. Come si comportò la "chiesa del silenzio" sotto i regimi comunisti che praticavano l'ateismo di stato e reprimevano la libertà religiosa? Tentò di ingraziarseli emettendo proclami "anti-imperialisti" nella speranza di ottenere temporanei vantaggi? Non lo fece, si comportò in modo dignitoso e moralmente ineccepibile. Oggi, i vescovi cristiani dei paesi islamici hanno taciuto della tragica realtà in cui vivono i loro fedeli, sottoposti a persecuzioni, in drammatica diminuzione numerica e privi di libertà religiosa. Hanno trovato forza solo per condannare Israele. Soltanto il vescovo libanese Rabula Antoine Beyluni ha osato dire la verità. Ma la triste immagine di una chiesa che tace delle persecuzioni cui è soggetta non dice tutto delle conclusioni del sinodo. Colpisce l'elenco puntiglioso delle colpe di Israele senza alcun riferimento a quelle altrui; senza neppure trovare il coraggio di chiedere la liberazione di Gilad Shalit, un gesto umanitario che sarebbe stato il minimo per dei religiosi. Colpisce il calore con cui ci si è rivolti ai "fratelli" musulmani, da cui soltanto qualche "squilibrio" e "malinteso" divide, e la freddezza riservata agli ebrei, con cui esiste un "conflitto politico". Si, è vero, si è richiamata la "Nostra Aetate" e il dialogo, ma per concludere con una pesante sentenza: "Non è permesso ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne strumento a giustificazione delle ingiustizie". Grossolana gaffe invero, perché il più famoso ricorso a posizioni teologiche bibliche per giustificare secoli di persecuzioni fu l'accusa di deicidio e l'arsenale dell'antigiudaismo cristiano. Un arsenale che gli ultimi due Papi hanno tentato di smantellare. Con scarso successo, a quanto pare, vista l'interpretazione che della frase ha dato l'arcivescovo greco-melkita Cyrille Salim Bustros: "Per noi cristiani non si può più parlare di Terra Promessa al popolo giudeo". Difatti, "la Terra Promessa è stata abolita dalla presenza di Cristo che ha stabilito il regno di Dio", il Nuovo Testamento ha sostituito il "Vecchio" e "non vi è più un popolo scelto". La svolta che ha segnato, dopo secoli, un nuovo rapporto tra ebrei e cattolici è stato proprio l'abbandono della "teologia della sostituzione" - che era il fondamento dell'antigiudaismo cristiano - secondo cui l'elezione di Israele è stata revocata e sostituita con quella conferita all'Ecclesia cristiana. Giovanni Paolo II disse che "chi incontra Gesù, incontra l'ebraismo". Benedetto XVI ricordò, circa l'elezione ebraica, che "i doni di Dio sono irrevocabili". Significa che il cristiano ha il diritto di affermare la verità e anche la superiorità della propria fede, ma deve considerarla come parte di un'unica rivelazione. Si dirà che quel vescovo esprimeva un parere personale. Ma, trattandosi del presidente della commissione che ha redatto le conclusioni, non era uno che passava di là per caso e le sue tesi hanno avuto larga eco in un dibattito disseminato di parole spiacevoli. Quindi, la mancanza di una messa a punto è molto grave. Costui ha anche affermato che "sono stati portati 4,5 milioni di ebrei e si sono cacciati 3-4 milioni di palestinesi dalle loro terre in cui avevano vissuto per 1400-1600 anni". A parte la menzogna storica, lascia attoniti la sfrontatezza morale: mentre si rinnovano i fasti della teologia che giustificò la reclusione degli ebrei nella "mura" dei ghetti e la "pulizia" della Spagna con la "cacciata" degli ebrei nel 1492, si osa parlare di "cacciate", di "muri", di "reclusione" e di "pulizia etnica". In questi anni difficili c'è chi ha lavorato per avvelenare i rapporti ebraico-cristiani. Altri hanno tentato in tutti i modi di svilupparli positivamente a dispetto di tanti ostacoli. Oggi hanno vinto i primi. E' da augurarsi che in questa vicenda non abbia giocato una stima del debole peso dell'ebraismo, una piuma di fronte all'islam. Un simile calcolo sarebbe oltre che cinico, irragionevole. Un cattolico dovrebbe chiedersi se un calcio ai rapporti ebraico-cristiani valga il piatto di lenticchie di un'improbabile benevolenza. Ma soprattutto dovrebbe meditare sulle parole di Ratzinger: "Un congedo dei cristiani dall'Antico Testamento avrebbe come conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo". Giorgio Israel (Da Il Foglio, 25 ottobre 2010)
martedì 26 ottobre 2010
La Terra promessa e la chiesa di Ratzinger
Reduce da un passato che non può essere un vanto e da vicissitudini che negli ultimi anni ne hanno seriamente minato l’autorità e compromesso la credibilità, la chiesa di Ratzinger sembra trovare come via d’uscita un cammino all’indietro verso l’era preconciliare, una reazione che cancella ogni apertura dialogica. E così si erge ad arbitro, non richiesto, della scena internazionale, pontifica sul conflitto arabo-israeliano. Che l’arbitro sia di parte - come è emerso dal Sinodo dei vescovi conclusosi ieri - è fuor di dubbio. Non solo tutta la colpa del conflitto peserebbe su Israele. Ma c’è molto di più: dai «territori occupati» si è passati, con una mossa gravissima e sintomatica, a mettere in questione la «terra promessa». Non si tratta allora dei territori, caduti nelle mani di Israele dopo la guerra che è stato costretto a vincere nel 1967. Si tratta della «terra». La questione politica assume contorni teologici, diventa una questione teologico-politica. E viene articolato a chiare lettere il giudizio di illegittimità emesso su Israele, giudizio che ne intacca l’esistenza. Chi ha mai dato agli ebrei il diritto al «ritorno su quella «terra»? In Eretz Israel? Chi ha concesso al popolo ebraico la «terra promessa»? È questa promessa che appare indigesta alla chiesa. Già prima del 1945 il ritorno è stato mal tollerato: un ritorno imprevisto, indesiderato. A far ritorno non è forse l’antico Israele che già da secoli avrebbe dovuto essere soppiantato dalla «nuova alleanza» della chiesa? Lo scandalo è questo: malgrado tutti gli sforzi per recidere il legame del popolo ebraico con il paesaggio biblico, per appropriarsi della Torah, del «Vecchio Testamento», Israele ritorna al deserto, varco verso la terra promessa. Come può ammettere questo ritorno la chiesa, che sin dall’inizio si è autoproclamata erede del popolo ebraico, mirando a soppiantarlo per giustificare la propria identità? La Legge ebraica abolita fa posto alla croce che salva. Così vengono poste le basi per la «elezione» cristiana contro il popolo ebraico condannato ad apparire illegittimo. La «cattolicità» non può sopportare il resto di Israele che non permette al suo presunto universalismo di trionfare. Sì, perché l’Imperium per eccellenza è la Chiesa, la cui espansione, cioè l’evangelizzazione spesso forzata e coatta di interi popoli, ha assunto nei secoli forme imperialistiche e violente.Da quale pulpito si emettono sentenze sul diritto di Israele ad esistere? Questo diritto si fonda - è bene chiarirlo - sulla storia del popolo ebraico che, se è sopravvissuto a secoli di esilio, è perché è rimasto legato a Sion, rivolto con la sua speranza a Yerushalaim. Negare la sua storia è come negare la sua esistenza.Quanto al «peccato originale» di Israele, quello cioè di appropriarsi di una terra non sua, in cui è anzi un intruso, un estraneo, occorre allora rinviare alla Torà. Quale idea è più grandiosa e più attuale, nel mondo della globalizzazione, di quella della «terra promessa» che il popolo ebraico ha donato all’umanità? L’idea di una terra non rivendicata come luogo di origine, come proprietà e possesso dell’autoctono, ma come promessa, non terra-madre, ma terra-sposa, terra verso cui si è in cammino, non per sacralizzarla, certo, ma per santificarla, per costruire una nuova comunità e abitarla, sul modello di Abramo, come «stranieri residenti». È questa - lo sappiamo bene - la responsabilità che attende Israele al suo bordo escatologico, ben più prezioso di ogni altro confine da preservare.Donatella di Cesare, filosofa, http://moked.it/
Un sinodo contro Israele
Sono anni e anni che la politica mediorientale della Santa Sede si dimostra nettamente antisraeliana. Quando circa 200 palestinesi armati penetrarono nella Basilica della Natività a Betlemme, nel 2002, il Vaticano scatenò una violenta campagna contro Israele su tutti i media cattolici nel mondo. Il solo conflitto mediorientale messo in evidenza nello “Instrumentum laboris” del 6 Giugno scorso, è quello fra Israele e i Palestinesi nel quale Israele eserciterebbe una cosiddetta ingiustizia nei confronti dei palestinesi. Questa sarebbe la causa dell’esodo dei cristiani da tutto il Medio Oriente, affermazione assurda. Il Sinodo ha dato l’occasione ai nemici d’Israele di definirlo “trapianto non assimilabile” in Medio Oriente e “corpo estraneo che corrode”. Ma se non ci fosse Israele, quanti Cristiani rimarrebbero nella regione? Da tempo il Vaticano preferisce una politica di appeasement nei confronti dei fondamentalisti islamici sperando così di comprarsi l’immunità, pagando con moneta israeliana. Ma queste sono pie illusioni. Tre giorni prima della pubblicazione dello Instrumentum laboris per il Sinodo, il vescovo cattolico di Iskanderun e vicenunzio per la Turchia, veniva ucciso dal suo autista islamico. Naturalmente il Vaticano definì subito l’assassino come affetto da pazzia e non ci fu l’ombra di una protesta. Il Sinodo richiede di “metter fine all’occupazione dei differenti territori arabi” attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Ma la famosa Risoluzione 242 prevedeva sì il ritiro israeliano “da territori occupati” solo a condizione di terminare lo stato di belligeranza e di rispettare il diritto di ogni stato di vivere in pace entro frontiere riconosciute. Laddove il risultato del Sinodo si dimostra offensivo è dove esorta gli ebrei a non fare della Bibbia “uno strumento a giustificazione delle ingiustizie”, come se la Chiesa detenesse un monopolio della lettura della Bibbia ebraica. Ritorna anche la preoccupazione per le “iniziative unilaterali che rischiano di mutare la demografia e lo statuto di Gerusalemme”. Quale statuto? Quello previsto dal piano di spartizione dell’Onu nel 1947 che i palestinesi sostenuti dagli Stati arabi rifiutarono con le armi? Ci eravamo illusi ascoltando la lezione magistrale di Benedetto XVI a Regensburg sull’Islam, che finalmente ci fosse un cambiamento di rotta nei confronti del mondo arabo. Ma durò poco e la Curia impose al Pontefice tre mesi dopo di correre a visitare una mosche di Istanbul. Fino a che prevarrà in Vaticano la politica islamica disastrosa che spera di ammansire i fondamentalisti con qualche dichiarazione anti-israeliana, non si potrà sperare in relazioni normali fra la Santa Sede e Israele. Il viceministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon, non ha voluto coinvolgere direttamente il Vaticano e si è limitato a criticare la posizione dell’Arcivescovo Bustros. Il futuro ci dirà se Israele si illuda, o se invece il Vaticano si dimostrerà in grado di aprire gli occhi e di tutelare i reali interessi dei cristiani in Medio Oriente. Sergio Minerbi http://moked.it/
AOSTA. Scade il 31 dicembre il "decreto Pisanu", quello che dal 2006 obbliga, a scopo antiterroristico, tutti gli esercizi pubblici che offrono il wi-fi ad identificare i clienti che ne fanno uso. Una norma che figura indubbiamente tra le concause dell'arretratezza dell'Italia nella diffusione di Internet senza fili, ma che ogni anno viene rinnovata.La "schedatura" dei clienti/navigatori obbliga i gestori dei locali a sottostare ad una serie di regole tutt'altro che incoraggianti. Una piccola odissea burocratica di cui si può fare volentieri a meno, soprattutto perché la tanto sbandierata necessità di sicurezza non è più così avvertita dalla popolazione ed il farsi schedare per poter navigare in rete è una pratica che sempre meno clienti approvano. Consci, forse, anche del fatto che in altri Paesi ben più a rischio di attentati (vedi Usa e Israele) le linee wi-fi sono liberamente accessibili a chiunque abbia una apparecchiatura in grado di riceverle senza dover comunicare le generalità.Il wi-fi "libero" comporterebbe tanti vantaggi. Nel'attuale periodo di difficoltà economica, sarebbe un "atout" per molti locali. Anche su scala regionale i benefici sarebbero evidenti. Maggiore possibilità di navigazione in Internet significherebbe una più ampia presenza dei valdostani in rete, che si tradurrebbe sua volta in uno sviluppo delle attività legate al web (commercio on line, ad esempio) e delle imprese (che potranno infatti farsi conoscere fuori dai confini della Valle e che hanno la possibilità di imparare dalla concorrenza e migliorarsi).Ne gioverebbe anche il turismo, in particolare quello dei giovani, che in Valle d'Aosta è tutto da sviluppare. I ragazzi sono presenti sulle piste da snowboard, ma nel resto del territorio sono da considerare specie rara. Internet, abbinato ad una giusta politica di accoglienza, rappresenterebbe sicuramente un ottimo impulso al turismo dei giovani.L'augurio è che questa limitazione non venga più rinnovata e che dal 2011 queste eteree reti possano contribuire concretamente alla ripartenza economica dell'intero Paese.Marco Camilli, 23/10/2010 http://www.aostaoggi.it/
CITTA' DEL VATICANO - "Il Corano dà al musulmano il diritto di giudicare i cristiani e di ucciderli con la "jihad" (la guerra santa). Ordina di imporre la religione con la spada. Per questo i musulmani non riconoscono la libertà religiosa. Non stupisce vedere tutti i Paesi arabi e musulmani rifiutarsi di applicare i diritti umani sanciti dalle Nazioni Unite". Quando queste parole vengono pronunciate dal palco dell'aula dove, in Vaticano, si sta svolgendo il Sinodo del Medio Oriente, sull'assemblea cala un imbarazzante momento di gelo. Perché tutti si rendono conto delle possibili conseguenze che la terminologia usata può avere quando l'intervento verrà tradotto nei Paesi musulmani. Non è ovviamente l'incidente di Ratisbona, quando Benedetto XVI pronunciò un discorso dal quale poteva evincersi il messaggio che l'Islam è una religione violenta, e l'intero mondo islamico si sollevò pretendendo le scuse del Papa. Ieri, più semplicemente, era monsignor Raboula Antoine Beylouni, vescovo di Antiochia dei Siri, in Libano, a parlare. Ma il suo duro atto di accusa proveniva comunque dall'interno del Vaticano, durante un'importante riunione a cui partecipano tutti i vescovi cattolici dell'area mediorientale.Il suo intervento, condito da altre considerazioni pepate, ha subito trovato la reazione della prestigiosa Università egiziana al-Azhar. "È un falso storico affermare che il Corano e l'Islam si sono imposti con la spada - commenta Abdel Muti Bayoumi, membro della Commissione dei ricercatori - se fosse così non avrebbe resistito per secoli. L'Islam invece si è diffuso attraverso il convincimento". E l'ex portavoce dell'Ucoii (l'Unione delle Comunità islamiche in Italia), Roberto Hamza Piccardo, afferma che la voce del vescovo libanese è isolata. "Sono solo provocazioni - spiega - noi vogliamo rispondere invece con la giornata del dialogo islamo-cristiano del prossimo 27 ottobre. La tensione non è tra cristiani e musulmani, ma con Israele. Al Sinodo è stato presentato "Kairos Palestina", un documento che invita alla resistenza pacifica contro l'occupazione israeliana, ma è stato tenuto sotto traccia".Proprio su questo documento alla vigilia si era verificata una polemica fra Stato ebraico e Santa Sede. E l'ambasciatore israeliano Mordechay Lewy, giudicando "false" le notizie diffuse dall'agenzia cattolica Misna, ha negato che ci siano state ritorsioni contro il clero dopo la pubblicazione del testo, mentre secondo l'agenzia missionaria il governo aveva ridotto i visti. Aspro il braccio di ferro anche sul numero dei cristiani in Israele, che secondo il governo sono aumentati mentre il Vaticano denuncia un esodo.Le battute finali del Sinodo stanno insomma facendo emergere tutta la ricchezza di due settimane di discussione. Oggi, con il messaggio e le proposizioni da consegnare al Papa, i padri sinodali concluderanno i lavori.
(23 ottobre 2010)http://www.repubblica.it/