sabato 30 maggio 2009

Kibbutz Ein Hamfratz

Israele al 24mo posto per competitivita

In base ad un nuovo studio della business school IMD, ripreso dall'Istituto Israeliano per le Esportazioni e la Cooperazione Internazionale, Israele è sceso di tre posti rispetto al 2008 per quanto riguarda la competitività.L'Annuario Mondiale della Competitività della IMD è il più rinomato e completo resoconto annuale sulla competitività delle nazioni, e analizza come l'ambiente di una nazione crea e sostiene la competitività delle imprese.Il resoconto analizza la competitività in base a 329 variabili, raggruppate in quattro categorie: stabilità economica, efficienza governativa, affari, infrastrutture. Il ranking di Israele è sceso in tutte e quattro le categorie.29.05.09,http://www.export.gov.il/

soldatesse israeliane

Cts cerca i nuovi testimonial per promuovere Israele

Alla ricerca del testimonial perfetto. Questo l'intento della nuova iniziativa denominata 'Il bello di Israele', promossa dal Cts in collaborazione con l'Ufficio del Turismo di Israele e la compagnia aerea El Al. Scopo dell'iniziativa, promuovere il Paese come destinazione adatta al target giovani. Il Centro turistico studentesco sta, quindi, selezionando quattro ragazzi che diventeranno i testimonial della nuova campagna pubblicitaria. I testimonial prescelti il prossimo 7 giugno partiranno per un viaggio in Israele in compagnia di un videomaker e un fotografo che realizzerà lo shooting fotografico per la destination campaign. Per partecipare al casting occorre iscriversi a ioGiro, la community Cts per viaggiatori, e candidarsi, caricando online le proprie foto o registrando un videomessaggio. 27/05/2009, http://www.ttgitalia.com/

giovedì 28 maggio 2009

Caro Davide,Al suo primo incontro storico con il Presidente Obama alla Casa Bianca, il Primo Ministro Netanyahu ha ribadito che Israele è uno Stato Ebraico. Perchè è stato necessario?Perchè Israele, e soltanto Israele, è sotto pressione per mettere la sua identità sul tavolo dei negoziati. Alcuni spingono per una soluzione a due Stati, ma insistono sul diritto di centinaia di migliaia di Palestinesi di stabilirsi in Israele, l'unica patria Ebraica.Il prossimo mese ci sarà una conferenza sponsorizzata dall'Università Queen del Canada e dalla York University che esplorerà la cosiddetta soluzione "ad uno stato" per il conflitto israelo-palestinese che, se venisse adottata, distruggerà l'identità Ebraica di Israele. Non possiamo permettere che ciò accada.Il mese scorso, il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese ha detto alla Conferenza delle Nazioni Unite Durban II "chiunque sostenga il diritto di Israele ad esistere come Stato Ebraico è colpevole di razzismo, discriminazione razziale e xenofobia".Nessun Presidente, Primo Ministro, Leader religioso ha mai messo in dubbio il diritto dei 23 stati membri della Lega Araba di essere arabi, o dei 57 membri della Conferenza Internazionale Islamica di definirsi orgogliosamente Musulmani. Così come nessuno sostiene che il Vaticano debba cessare di essere uno Stato Cattolico.Visto che i diritti di Israele ad essere uno Stato Ebraico continuano ad essere messi in discussione, il Simon Wiesenthal Center lancia una petizione mondiale per religiosi, politici, diplomatici, capi di governo e persone che in tutto il mondo sono interessati a sostenere il diritto di Israele ad esistere come uno Stato Ebraico e democratico.Abbiamo urgentemente bisogno del vostro aiuto per raggiungere questo obiettivo:1) Firmate la petizione indirizzata al Quartetto sul Medio Oriente (http://www.wiesenthal.com/siteapps/advocacy/ActionItem.aspxc=lsKWLbPJLnF&b=5183061 ) - Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite - che sono i principali intermediari del processo di pace israelo-palestinese. Questi personaggi chiave devono capire che in nessun caso Israele accetterà quello che non è stato mai chiesto a nessuna altra nazione: rinunciare alla propria identità.2) Mandate il vostro contributo al Simon Wiesenthal Center: https://www.kintera.org/site/apps/ka/sd/donor.aspc=lsKWLbPJLnF&b=4860911&en=ewI0KeOPKkJYJ5OXLmLQKdPZInKbIkPYJlJ2IlNYKmI7InP9IAL . Abbiamo una notevole esperienza sul terreno internazionale e siamo un'organizzazione non-governativa riconosciuta a livello mondiale.Il vostro sostegno darà un duro colpo a questi nemici ed aiuterà Israele in un momento cruciale - un momento in cui stiamo assistendo ad una crisi finanziaria mondiale, ad un aumento delle tensioni in Medio Oriente ed ad una drammatica ripresa dell'antisemitismo.Gli Ebrei del mondo hanno un piccolo Stato, che ha dato un enorme contributo al mondo in tutte le attività umane. Un rifugio sicuro - una patria. Tutti quelli che si identificano in questa visione devono difendere con coraggio Israele e devono farlo ora.Vi sto chiedendo di rispondere velocemente firmando la petizione al Quartetto (http://www.wiesenthal.com/siteapps/advocacy/ActionItem.aspxc=lsKWLbPJLnF&b=5183061 ) ed inviando una donazione al Centro Simon Wiesenthal (https://www.kintera.org/site/apps/ka/sd/donor.aspc=lsKWLbPJLnF&b=4860911&en=ewI0KeOPKkJYJ5OXLmLQKdPZInKbIkPYJlJ2IlNYKmI7InP9IAL ). C'è davvero molto in gioco ed abbiamo bisogno del vostro aiuto. Grazie.http://www.wiesenthal.com/atf/cf/%7B54d385e6-f1b9-4e9f-8e94-890c3e6dd277%7D/STATE_OF_ISRAEL_LETTER_LG.JPG - Lettera originale del riconoscimento dello Stato d'Israele, firmata dal Presidente americano Harry S. Truman, che conferma il sostegno degli Stati Uniti ed il riconoscimento storico di Israele come Stato Ebraico.Cordialmente,Rabbino Marvin Hier

mercoledì 27 maggio 2009


Primi del '900: vita in kibbutz

EBRAISMO E NOVECENTO. Diritti, cittadinanza, identità

Di Francesco Lucrezi, Edizioni Salomone Belforte & C. Livorno, 2009, € 20,00
Un viaggio attraverso le traversie, le speranze e le tragedie che hanno segnato la storia degli ebrei di Europa nel XX secolo (dalle vicende delle Comunità della diaspora di Napoli e di Libia alla Shoah, dalla Resistenza contro il nazifascismo all’indipendenza di Israele, dal controverso rapporto con la Chiesa Cattolica al delicato confronto tra ebraismo e democrazia, fino al ripensamento, nella coscienza ebraica moderna, dei concetti di tempo e di spazio). Un percorso di ricostruzione critica delle trasformazioni conosciute (all’interno e all’esterno del popolo mosaico) dall’identità israelita, dal suo “dover essere” e dalla sua percezione e definizione sul piano culturale, civile e giuridico.
Francesco Lucrezi è nato a Napoli nel 1954, dove si è laureato in Giurisprudenza, nel 1977, con una tesi su Il problema dello stato nell’ebraismo e nel cristianesimo del primo secolo. In seguito ha insegnato materie storico-giuridiche in varie Università italiane, pubblicando diversi saggi e libri sui diritti antichi e le istituzioni giuridiche ebraiche, tanto nel mondo antico quanto nell’età moderna. Già Visiting Professor presso la Hebrew University of Jerusalem, è attualmente Professore ordinario di Storia del diritto romano e di Diritti dell’antico Oriente mediterraneo presso l’Università di Salerno, docente incaricato presso l’Università “l’Orientale” e l’Accademia di Belle Arti di Napoli e Affiliated Professor presso la University of Haifa.

martedì 26 maggio 2009

Karnit Goldwasser
Leader o persone comuni poco importa Sono le donne le protagoniste di Israele

Quando abbiamo programmato il lavoro della settimana alla vigilia di questo viaggio di solidarietà dei leader ebraici italiani, noi della redazione del Portale dell’ebraismo italiano, si era pensato di mettere in cantiere una serie di ritratti che aiutassero il lettore italiano a cogliere la vera essenza dell’Israele di oggi. Abbiamo puntato su tre donne, per dire quanto contino, quanto siano importanti le donne in Israele, ma anche per fare un ritratto di tre protagoniste. I primi due ritratti, quelli dedicati a Tzipi Livni a capo della coalizione Kadima che si candida in queste elezioni a governare Israele e quello di Gabriela Shalev, la giurista di origine tedesca che da qualche mese rappresenta Gerusalemme alle Nazioni unite, come il lettore avrà osservato, sono già stati pubblicati. Il terzo è in cantiere e sarà dedicato a una giornalista israeliana autorevole e controversa: la corrispondente del quotidiano Haaretz Amira Haas, che racconta in presa diretta la vita e il dramma dei palestinesi, graffia, provoca il lettore oltremisura, a volte esagera, ma al tempo stesso tiene alta la bandiera della più assoluta libertà d’espressione e della più grande professionalità giornalistica, due beni su cui Israele non ha nulla da invidiare a nessuno.Ora che la missione, con tutte le emozioni e le passioni che ha suscitato, volge al termine dirigendosi nella residenza del Presidente Shimon Peres, credo sia giusto rivedere le scelte su cosa pubblicare alla luce della realtà.Certo, la sensazione che le donne tengano assieme una realtà difficile e complessa, resta. Certo, Livni, Shalev e Haas sono delle grandissime protagoniste. Ma le donne incontrate nelle scorse ore non erano solo protagoniste per forza. Erano anche donne comuni costrette dalle circostanze a essere delle eroine.E’ così, perché Israele è un tesoro inestimabile e anche chi crede di conoscere a fondo questa realtà non può trascorrerci anche solo un paio di giorni senza essere costretto a modificare profondamente la propria visione delle cose. Così, se è vero che il lavoro dei giornalisti onesti dovrebbe essere quello di rimettersi continuamente in gioco.Vorrei quindi raccontare di tre donne incontrate nelle scorse ore. Non sono celebrità destinate a finire sulle prime pagine delle riviste, ma forse proprio per questo sono drammaticamente vive e appassionanti.Paola Cantori ha lasciato Genova nel 1981. Subito dopo il matrimonio con Desiderio, che oggi è uno stimato pediatra nella regione di Sderot, ha preso il volo per trasferirsi in Israele. Nel villaggio cooperativo di Sdot Negev, dove si è stabilita, si sta bene. Ma la vita in Israele è entusiasmante e difficile al tempo stesso. Da anni sul moshav piovono missili lanciati dalla vicina Gaza. E suonava a ripetizione l’allarme. E solo quindici secondi per mettersesi in salvo.“Per otto anni siamo stati anni a fare da bersaglio”, racconta oggi Paola. E mostra la casa dei vicini sventrata da un missile. Era lo scorso 24 dicembre e gli abitanti snervati da centinaia di allarmi e di esplosioni si trovavano ormai anche in prima linea. Nurit Lazar, la vicina di Paola, era in casa con il marito Ari e i loro tre bambini. Primo allarme, secondo allarme… all terza sirena Ari non ha seguito ancora una volta la moglie in fuga verso il rifugio con i bambini, ma si è fermato sul divano a vedere la tv.. Il missile è entrato sopra la finestra grande, ha attraversato il salotto, ha sfondato il bagno ed è uscito dall’altra parte. Gli è passato sora la testa, mentre la casa gli si sbriciolava intorno. Quando è arrivata la missione italiana, Paola ha portato tutti a conoscere il suo vicino miracolato. Qualcuno gli ha chiesto di giocare assieme al Totocalcio. La casa i Lazar la stanno già ricostruendo. Ma Paola continua a prodigarsi per aiutare i vicini che non possono ancora abitarla. La pioggia di razzi, intanto, si è quietata, anche se una pace stabile si fa ancora attendere.Non c’è da fare molta strada per incontrare al kibbutz Saad Shoshana Cassuto. Arrivata in Israele quando finiva l’inverno del 1945, la sua Firenze assieme al fratello David (architetto a Gerusalemme) era stata già liberata, ma la guerra doveva ancora volgere al termine. Il 31 dicembre Shoshana si trovava nella sala da pranzo collettiva dove tutti i componenti del kibbutz prendono i pasti. Poco prima di prendere il caffè, la sirena ha suonato per l’ennesima volta. Cessato l’allarme, Shoshana ha trovato un missile in casa. E’ la seconda volta che qualcuno le toglie una casa. La volta precedente era una bambina e per le vie di Firenze si dava la caccia agli ebrei.Oggi nella sala da pranzo Shoshana mostra la sua collezione di missili ed esplosivi di tutte le taglie piovuti da Gaza. Li hanno raccolti negli anni, dopo l’esplosione, per mostrarli agli ospiti. Oggi Shoshana ha un progetto. Dotare ognuna delle 800 casette di Saad di un rifugio. “Se tornassero tempi difficili - spiega - dobbiamo pensare a ripararci”.Tutti affrontano il trauma e il dolore con dignità. E dietro ci sono di nuovo sempre le donne di Israele.Infine, a sera, l’ultimo incontro di una giornata travolgente. Si chiama Karnit Goldwasser, suo marito Ehud è stato rapito e ucciso al Nord dai miliziani di Hezbollah. Per farsi restituire la salma Israele ha pagato un prezzo altissimo. Ma non c’è un prezzo troppo alto per rendere omaggio a chi ha donato la propria vita in questo modoSembra fragile, consumata da una vita ingiusta, pietrificata da un destino insopportabile. Poi parla per spiegare come Israele sia un appuntamento irrinunciabile. Per lei come per tutti noi. Chi la conosce garantisce che non si lascerà mai spezzare dal dolore. C’è chi le ha chiesto se non si sente tradita dal suo Paese che mandato il suo Dudu a sorvegliare i confini e non è riuscito a portarlo a casa vivo. “Al contrario - ha ripetuto - sono fiera di un Paese disposto a fare qualunque terribile sacrificio pur di dare a mio marito l’onore di essere seppellito nella sua terra”.Queste e quelle sono le donne di Israele, protagoniste vera di una realtà senza pari. Il loro coraggio, comunque le si guardi, sembra capace di sconfiggere gli eserciti e di restituire speranza in un futuro senza ingiustizie.
Guido Vitale. http://moked.it/

Ops, ultraortodossi simpatici. Separazione non è più "apartheid". Religione e hard rock. Ma per sole donne

Spopolano le Ashira, band femminile i cui concerti sono vietati agli uomini. Anche a mariti e fidanzati
di Francesco Battistini 24 maggio 2009 http://www.corriere.it/
I fazzoletti in testa non somigliano esattamente a bandane trasgressive, stile Little Steven. I sandaloni e le gonne lunghe non sembrano una citazione femminista di Patti Smith. E se qualcuna oscilla avanti e indietro sul palco, non è per fare il verso alle trance lisergiche dei Van Halen. Però alle Ashira, sei ragazze sei tutte rock e sinagoga, non manca nulla per essere una band come le altre. Qualche sera fa, hanno suonato in un pub per religiosi vicino a Gerusalemme e chi c’era - e non era un uomo - racconta d’essersi divertita molto: schitarrate pesanti, batteria in assolo, il basso che martellava. Rock doc, insomma. Musica dura, parola pura: «Siamo partite dall’idea di creare più conoscenza e cultura intorno al mondo religioso - spiega Pnina Weintraub, 24 anni, diplomata violinista - e la scelta è stata di creare un genere che prima non esisteva: un rock femminile che mischi, in ebraico, la Bibbia ai gusti giovanili».
Non suoneranno in modo divino, ma certo suonano per Dio. Le Ashira, nate tre anni fa, sono le prime a farlo e stanno diventando un piccolo fenomeno, in Israele. Si esibiscono in pubblico a capo coperto, com’è tradizione delle ebree ultraortodosse, e soprattutto cantano solo davanti a un pubblico femminile, per non venir meno alla rigida legge Halachic e non incorrere nell’ira dei rabbini estremisti: «Questo è un punto fermo - dice Pnina -, perché secondo il precetto nessun uomo può ascoltare una donna che canta. Noi ci atteniamo alla regola. Se suonassimo e basta, non ci sarebbero impedimenti. Ma la nostra particolarità, più che la musica, sono proprio le parole: i versi della Bibbia, le preghiere messe a ritmo rock. E allora, nessuna eccezione: una volta è venuto a uno spettacolo anche mio padre, ma ha dovuto aspettare fuori». Le Ashira amano l’hardrock e non hanno casa discografica, perché non hanno ancora trovato una - sottolineano: una - producer. Non hanno mai inciso un cd, le loro voci non si possono scaricare da internet (si trovano solo i testi), anche se le loro registrazioni girano. L’unico uomo ammesso ai loro concerti (nel backstage, beninteso) è un tecnico del suono, «che però sostituiremo fra poco con una donna».Le sei si conoscono dai tempi dell’Ulpana, il liceo religioso dei coloni nella West Bank, e si sono messe insieme dopo una serie d’audizioni all’università Bar Ilan: dove studiano diritto, fisioterapia, scienze economiche e dove, questa settimana, s’esibiranno. Nato da un’idea anni ’90 d’un rabbino, Karlibach, il rock religioso degli ultraortodossi è ormai un fenomeno. A ottobre, ogni anno, si celebra a Beit Shemesh un festival con tutto quel che occorre, spinelli e birra compresi. Per le vie di Gerusalemme Ovest, Haifa o Tel Aviv, è piuttosto comune imbattersi in band improvvisate su furgoni, hip hop e rap sparato negli amplificatori, ragazzi con kippa e riccioli scatenati a ballare. Ci sono gruppi e cantanti che vendono migliaia di dischi, da Aron Razel a Adi Ran. Finora, però, ci avevano provato solo i maschi: «Sarebbe bello se le ragazze si buttassero - osserva Ishai Latidot, star degli Uf Simchas, gruppo che musica i salmi e passa spesso sulle radio -. Una volta c’erano le Tofaa, molto popolari in Israele, che rifacevano le canzoni americane in chiave religiosa. Le Ashira sono una bella novità».Ashira è un acronimo di due parole ebraiche - ragazze e canzoni - ed è un fenomeno molto cavalcato dalla destra dei coloni, anche se loro sei preferiscono mantenere una dimensione religiosa. E se, per qualche tempo, resteranno in cinque: Teitz, 25 anni, voce e flauto, è al nono mese di gravidanza, «ma resto fuori solo un mese dopo il parto, perché ci sono le date del tour da rispettare e mia madre mi ha già promesso di tenere il bambino»”. Tre della rockband sono sposate e i mariti non le hanno mai viste esibirsi, né sentite: «Va bene così - dice Baruch Weintraub, 25 anni, che vive con Pnina -. Sono molto curioso, ma capisco che non si può fare». E le altre tre? «Quando ho un fidanzato - ammette Maayan Sweitzer, 23 anni, la batterista -, non è facile tenerlo. A molti uomini non piace quel che facciamo. E poi, finché ai concerti vengono solo donne, mi spiegate come faccio a trovarmene uno?».

lunedì 25 maggio 2009


Israele, la compagnia aerea El-Al lancia una campagna commerciale per i gay

Venerdi' 22 maggio 2009, http://www.babiloniamagazine.it/
EL AL, la compagnia aerea nazionale israeliana, lancia una campagna commerciale per attrarre i gay europei. L’annuncio è caduto proprio qualche giorno prima dell’inizio del “mese gay-friendly” di Tel Aviv, trenta giorni a giugno di eventi glbt che si susseguono l’uno dopo l’altro a confermare che si tratta di una terra mediorientale molto aperta agli omosessuali.Secondo fonti non ufficiali, riportate però da diversi portali web di turismo glbt, dalla compagnia aerea giunge il segnale di una grande quantità di contatti ricevuti a seguito dell’annuncio di questa campagna gay-friendly.

Shoval

Cerchiamo i nuovi volti di Israele Fai il casting ora e parti il 7 giugno!

CTS, l’Ufficio del Turismo di Israele e la compagnia aerea El Al, stanno selezionando 4 giromani (due ragazzi e due ragazze) che diventeranno i testimonial della prossima campagna pubblicitaria della destinazione.I 4 prescelti partiranno il prossimo 7 giugno per un viaggio in Israele che toccherà i posti più suggestivi e divertenti.I 4 giromani saranno seguiti da una troupe con un videomaker, che li riprenderà per tutta la durata del viaggio, e da un fotografo che realizzerà lo shooting fotografico per la campagna.In ogni location uno scatto diverso, che racconti il bello di Israele.Gli scatti più belli saranno utilizzati per la destination campaign, on air da giugno.Se pensi di avere tutte le carte in regola per diventare il nuovo testimonial dell’affascinante destinazione, fai il casting adesso!Puoi vincere una meravigliosa esperienza in uno dei Paesi più belli del mondo.I 4 testimonial inoltre avranno l’opportunità di raccontare su ioGiro la loro Israele attraverso i mezzi espressivi che più gli si addicono: fotografia, report di viaggio, videoblogs, diari di viaggio tenuti durante la loro avventura.I casting sono aperti!Come partecipare?- Iscriviti a ioGiro - Fatti scattare una o più foto in primo piano e figura intera. Carica le foto sul tuo blog su ioGiro, descrivendo perchè dovresti essere tu uno dei 4 testimonial ed inserendo il tag “israele” oppure registra un videomessaggio in cui ci racconti perché dovresti essere tu uno dei 4 testimonial e caricalo* sul tuo blog su ioGiro, inserendo il tag “israele”. - Copia-incolla il codice embed del tuo video, dopo averlo caricato su un qualsiasi sito di videosharing (es. youtube). Requisiti per l’ammissione al casting1. età compresa tra i 18 e i 35 anni;2. aver compiuto almeno un viaggio all’estero;3. passaporto in corso di validità;4. ampia disponibilità personale;5. disponibilità a partire per Israele il prossimo 7 giugno;6. spiccata capacità di relazione, di comunicazione, di adattamento e disponibilità ad essere riprodotti con mezzi fotografici e video. Partecipa ora Guarda i castingBuona fortuna!

Gli autori del cartone animato

La versione israeliana di South Park fa infuriare i musulmani

Due giovanissimi autori israeliani, Tom Trager e Or Paz, hanno creato un esilarante cartone animato in dissacrante "stile South Park", senza immaginare che la loro operazione satirica avrebbe causato un vero e proprio caso diplomatico. Su YouTube, i sei episodi di "Ahmed and Salim" hanno avuto centinaia di migliaia di visite da tutto il mondo nonostante i protagonisti del cartone (politicamente scorretto) in questione siano due teenager musulmani. Ma dove sta la provocazione? Il padre dei due ragazzi cerca di avvicinarli alla Jihad, mentre loro sono molto più interessati a hobby decisamente più occidentali come i videogame e i social network. Nonostante la loro ritrosia per le guerre di religione, i due provano comunque ad accontentare il padre "dandosi da fare", con risultati decisamente poco esaltanti: tra le altre cose, fanno esplodere un autobus palestinese al posto di quello israeliano…Inutile dire che i due autori fanno satira, e che quindi non hanno intenzione di discriminare i musulmani, anzi: "Ahmed and Salim" fa ridere e riflettere, è stato scritto proprio con questo intento. Il problema è che, e forse già lo si sapeva in partenza, nel mondo musulmano più intransigente il cartone animato (firmato da due ventenni israeliani…) non è affatto piaciuto, scatenando una vera e propria rivolta virtuale e non solo: negli Emirati Arabi è stato oscurato, e anche alcuni israeliani lo hanno definito "controproducente". La risposta di Tom Trager e Or Paz non si è fatta attendere: "Faremo satira anche su Israele". Niente sconti. "In caso di domande, minacce di morte o commenti entrate in contatto con noi", hanno detto dopo le polemiche i due autori, lasciando agli utenti la loro mail: sugarzaza@gmail.com. Ora tutti attendono il settimo episodio.21.05.2009 www.affaritaliani.it/

Nomi fittizi e vicende reali scorrono attraverso l’inchiostro delle memorie di guerra.
Ricordi di Sarah, di Francesca Bianco, La Scaletta Matera 2009, propone una storia vera, un esempio di antigiudaismo della Chiesa nei confronti di un’adolescente che negli anni del nazifascismo fu accolta in un Convento di suore, a Firenze, per sfuggire alla deportazione. Clandestinità in cambio di una conversione.Fu questo il tributo imposto ad un’Ebrea colpita e segnata dalle leggi razziali.

"Wir sind allein", dalla hit parade alla polemica sull'uso della lingua tedesca

Saranno anche “solo canzonette”, ma la ultima hit europea Allein Allein rischia di trasformarsi in un caso politico in Israele. Il motivo della controversia? Il testo della canzone, del gruppo Polarkreis 18 (nell'immagine), contiene un verso in tedesco: “Wir sind allein, allein allein”, siamo soli, è il ritornello del pezzo, che per il resto è cantato in inglese e che viene trasmesso dalle radio israeliane.I Polarkreis 18, basati a Dresda, sono una band di “pop sintetico”: il loro ultimo album The Colour of Snow, da cui è tratto il singolo Allein Allein, ha scalato le hit parade di alcune nazioni europee, incluse Svizzera, Danimarca, Belgio e Paesi Bassi, oltre alla stessa Germania. In Israele ha ora raggiunto l'ottava posizione della classifica nazionale. Il singolo di successo è stato trasmesso, tra le altre radio, anche da Galgalatz, l'emittente giovane dell'esercito, un punto di riferimento per il pubblico sotto i 30.La faccenda non è piaciuta però al parlamentare conservatore Arieh Eldad, che ha chiesto a Galgalatz di togliere la hit dalla programmazione perché rischierebbe di offendere la memoria della Shoà: “Non esistono norme che proibiscono di trasmettere canzoni in tedesco, ma c'è un limite a ogni cosa”, ha detto Eldad, che fa capo al partito Unione Nazionale. Il quale però ha poi riconosciuto che si tratta tutto sommato di una bella canzone, il cui significato ben si adatta allo spirito israeliano: “Dovremmo tradurla in ebraico”.Anna Momigliano, http://www.moked.it/


Mario Giacometti, marinaio italiano del dopoguerra e l'immigrazione clandestina in Eretz Israel

“Nel dopoguerra, nel 1947, mi capitò di imbarcarmi su un vecchio bastimento che era stato acquistato dall’Haganà per portare i profughi dei campi di concentramento tedeschi nella terra di Sion. Si presentarono a bordo tre persone, ci spiegarono lo scopo del viaggio e ci raccomandarono di tenere il segreto su tutto: chi non voleva partire poteva rimanere a terra e avrebbe avuto una ricompensa. Io e il mio amico Carlino accettammo, perché allora era difficile trovare un imbarco.”Inizia così il racconto di Mario Giacometti a Sorgente di Vita: una storia scritta con l’aiuto della figlia Daniela in un libro, “Rotta per la Palestina” edito da Mursia.E’ la storia di due viaggi dell’ “alyà beth”, l’immigrazione clandestina, da un punto di vista insolito: non quello degli ebrei sopravvissuti ai campi che cercavano di raggiungere Eretz Israel, nè quello degli organizzatori, come Ada Sereni, che raccontò quella vicenda in prima persona. E’ il punto di vista di un, allora giovane, marinaio italiano.Lo incontriamo al porto di Viareggio, spostandoci da un molo all’altro, tra yacht, motoscafi e pescherecci: il suo mondo di sempre, perché marinaio, e poi comandante, Giacometti (nell'immagine in alto) lo è stato per tutta la vita. Oggi è uno scattante pensionato di ottantuno anni che snocciola i suoi ricordi con una colorita parlata viareggina, infarcita di termini marinari. “Mio padre era cuoco su navi mercantili: dopo le scuole elementari feci anche io il libretto di navigazione e mi imbarcai come mozzo, in piena guerra”. Spirito di avventura, incoscienza giovanile e bisogno di guadagnare negli anni difficili del dopoguerra lo trascinarono poi nella missione della “alyà beth”. Naturalmente Giacometti ignorava che dalle coste italiane tra l’estate del ’45, fino alla proclamazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, partirono tante navi cariche di ebrei scampati ai lager; non sapeva che la sua scelta l’avrebbe portato nel meccanismo di una efficiente organizzazione che riuscì a far partire circa 23.000 persone. Fu così che nel settembre del ’47 si imbarcò sul “Giovanni Maria”.“Era un viaggio diverso dal solito. Questa volta non si trasportava mercanzia varia ma persone. Io non sapevo nulla dei campi di concentramento: solo tra i più anziani era trapelata qualche notizia”. Nel porto di La Spezia la nave fu trasformata: “costruimmo una cabina grandissima sopracoperta, per accogliere le donne, i bambini e creare una specie di infermeria. Nella stiva, a partire dal fondo, montammo dei tubi innocenti e reti metalliche. Così potevamo caricare circa 1200/1300 persone”. Sembra di vedere le scene del film “Exodus” e i particolari sono fedeli ai rari filmati dell’epoca. Partirono di notte dal porto di La Spezia: la prima tappa fu a Bocca di Magra, per caricare i viveri. “Salirono a bordo 7 persone dell’Haganà, tra questi il comandante, Amnon, e c’erano anche dei telegrafisti. Avevamo infatti una sala radio che faceva invidia a un transatlantico, si parlava fino in America”. “Amnon – ricorda Giacometti - aveva circa 30 anni, era un vero comandante di marina, un giovanotto alto con i capelli rasati, sul biondiccio, aveva un accento americano, ma parlava bene italiano. Una volta ci disse: qui siamo tutti pirati”.Il “Giovanni Maria” navigò fino alla costa francese: a La Ciotat, di notte, per non essere scoperti, salirono a bordo 1300 passeggeri. “Erano persone, oserei dire miserabili, pieni di sacchi, borse, tante donne, vecchi, bambini. Il viaggio andò tranquillo, aiutato dal tempo e dalla nebbia. Parlare si parlava con le persone che venivano sopracoperta la sera, ma non ci dicevano molto, erano restie a raccontare”.“Di notte arrivammo davanti a una piccola spiaggia con le dune, vicino a Tel Aviv, si vedevano solo le luci. Ci arenammo con la prua e sbarcammo le persone: chi si buttava a mare, chi si trascinava con le corde lanciate da terra, donne e bambini venivano portati con i battelli. Mi ricordo i pianti, ricordo che piangevano tanto; erano arrivati a casa loro, dopo tutto quello che era successo”.Il viaggio era finito: il “Giovanni Maria” ripartì subito verso l’Italia. Dopo molte disavventure ci fu un secondo viaggio: questa volta l’imbarco dei passeggeri fu sulla spiaggia corsa della Girolata. A poche miglia dalla Palestina furono intercettati da un cacciatorpediniere, curiosamente avvolto da reti metalliche. “Gli ebrei cominciarono a tirare ogni ben di Dio, scatolame e tutto quello che capitava a tiro; tutto rimbalzava sulle reti e cadeva in mare. Ricordo che gli inglesi ridevano di questo, e sghignazzavano”. “Poi gli ebrei spalmarono il ponte con olio e grasso” racconta compiaciuto Giacometti, “e col rollio gli inglesi che salivano a bordo prendevano bastonate dagli ebrei e venivano ributtati a mare dall’altra parte” . Sugli alberi della nave sventolavano tre bandiere bianche e azzurre con la stella di David: “fummo io e Carlino a metterle lassù: per ordine di Amnon facemmo in modo che non si riuscisse a levarle, tagliando tutte le corde e le scalette”. Ormai era finita: passeggeri e marinai furono presi in consegna dagli inglesi. Sbarcati nel porto di Haifa, radunati in capannoni, toccò loro una doccia e una visita medica. I sette marinai italiani, senza documenti, complici di un’attività illegale, correvano seri rischi. “La paura era tanta: se scoprivano che eravamo cristiani, italiani, erano cinque anni di prigione in Inghilterra”. Finirono invece nei campi profughi sull’isola di Cipro. “Lì abbiamo vissuto due mesi: noi sette avevamo una tenda per conto nostro, ma poi si viveva tutti insieme, si giocava a pallone, facevamo un po’ di ricreazione, ma il cibo non era buono, la solita brodaglia inglese. Noi eravamo dei privilegiati, gli ebrei stessi ci davano di più, si toglievano il pane di bocca, perché sapevano chi eravamo. Non avevamo possibilità di fuga, c’era una doppia rete di recinzione, garitte in ogni angolo, la notte era illuminata dai proiettori. Naturalmente gli ebrei erano riconoscenti, anche se secondo me non ce lo meritavamo, avevamo fatto quello che ci eravamo sentiti di fare. Ci hanno aiutato a passare da un campo all’altro, facendoci raggiungere prima la libertà”. Entrati in Palestina i sette italiani trascorsero due mesi in kibbutz, quasi una vacanza. Poi un bel giorno, continua Giacometti “arriva Amnon, e ci dice che è arrivato il momento di tornare a casa”. “Arrivato a casa mia madre mi rifilò uno schiaffo. Io non capii, e lei mi disse: sei un bel mascalzone, dove sei andato a finire tutti questi mesi!” ricorda oggi divertito l’ingloriosa fine dell’avventura. E poi con semplice schiettezza azzarda un bilancio: “naturalmente, stando a contatto con quelle persone ci siamo resi conto che era una cosa grande: non che davamo tanta importanza, ma era qualcosa di bello. A distanza di tutti questi anni, con tutto quello che sta ancora succedendo, penso che rifarei senz’altro una cosa del genere, non mi tirerei indietro: però – conclude Giacometti con il suo colore dialettale - penso anche che abbiamo contribuito a tutto questo ravoglio che c’è nel mondo”. Piera Di Segni www.moked.it/