sabato 19 dicembre 2009


Furto ad Auschwitz, l’antisemitismo odia ancora

di R. A. Segre, 19 dicembre 2009, http://www.ilgiornale.it/
Il furto della scritta in ferro arrugginito all’entrata del campo di sterminio di Auschwitz è significativo. Non si tratta di una delle tante manifestazioni di antisemitismo spesso mimetizzate in anti-israelianismo. È qualcosa di più, perché si tratta di un atto altamente simbolico.Anche se quel campo è stato teatro di assassinii di migliaia di innocenti non ebrei - polacchi, zingari, handicappati ecc. - il fatto che due milioni di ebrei vi siano stati gassati in quanto ebrei lo ha trasformato in un simbolo della Shoah, della tragedia moderna del popolo di Israele. Se c'era un modo per dare pubblicità ad un odio che si camuffa ma non si spegne era proprio rubare questa scritta, una scritta emblematica per due ragioni. Testimoniava nel suo significato letterale («Il Lavoro Rende Liberi») l'ipocrisia diabolica di un sistema nazista che, orgoglioso del suo disprezzo per gli ebrei, come razza inferiore, mentendo ironizzava sulla loro fine. Inoltre quella scritta arrugginita - mi faceva notare la guida che mi accompagnava un anno fa in questa visita degli orrori - conteneva un errore ottenuto col piegamento di una lettera «R» di ferro. Come se l’ignoto fabbro avesse voluto lanciare un avvertimento a chi entrava nel campo di attendersi una sorte ben diversa da quella annunciata. Piccolo, umile atto di disperata resistenza.D’altra parte il taglio dei fili del reticolato, il furto compiuto in apparente tranquillità fa temere che nel clima del voyeurismo perverso presente in certi ambienti della società moderna, gli oggetti personali dei gassati, conservati nelle baracche del lager - cataste di occhiali, borse, capelli, protesi, giocattoli, libri di preghiera - possano anch’essi diventare un’attrattiva per alimentare un mercato dell’orrore.La Polonia, custode del lager, sembra poco sensibile al problema dell'antisemitismo, come del resto altri Paesi dell'Est europeo dove di ebrei non ve ne sono più e i monumenti ebraici si sono trasformati in attrazioni turistiche (come il pletzel - la piazza - del quartiere ebraico di Cracovia, attorno alla quale ristoranti offrono menu «ebraici» da consumarsi al suono di musica yiddish). Del resto anche i nazisti, mentre trucidavano gli ebrei, preparavano materiale per un grande museo ebraico in ricordo di un passato «storico-archeologico» del Terzo Reich.L’Europa - d’Oriente e di Occidente - nonostante gli sforzi di molti suoi governi non riesce a liberarsi del veleno dell’antisemitismo. La violazione dei cimiteri ebrei è diventata una “normalità” che non fa notizia. In quest'anno che finisce, nel giorno del Kippur è stato aperto il fuoco contro una sinagoga a Parigi, due ebrei in Danimarca sono stati feriti a Odense; nella civilissima Svezia un centro di cultura ebraico è stato incendiato due volte nella stessa settimana; a Londra due negozi di ebrei sono stati attaccati e sfasciati e una sinagoga parzialmente incendiata; violenze del genere sono successe in Belgio e - fuori d'Europa - in Australia, Brasile e a Chicago.«Poiché non è più permesso di proclamarsi antisemiti - dice il ministro israeliano delle Telecomunicazioni Yuli Edelstein - gli antisemiti debbono trovare nuove forme e nuovi fori per diffondere il loro veleno. Il posto dell'ebreo da perseguitare è stato preso dall'israeliano che uccide i bambini, attacca le donne incinte, ha causato la guerra d’Irak e d’Afghanistan. Il piccolo Israel è stato addobbato dagli antisemiti come un Golia».In questo contesto più ampio, triste e pericoloso per le vittime quanto per i perpetuatori, deve essere compreso nella sua gravità il furto della scritta all'entrata del lager di Auschwitz. Rubare questo simbolo della malvagità ha senso solo se si vuole rubare anche la memoria dei morti.

Play "save Israel": vivere sotto costante minaccia missilistica

La minaccia di proliferazione iranianaTeheran ha annunciato che il suo primo impianto nucleare civile presso la città di Bushehr ha passato con successo i test di collaudo e, nei prossimi mesi, dovrebbe iniziare la produzione di energia elettrica. La notizia è stata diffusa alla tv iraniana da Ali Akbar Salehi a capo dell’Atomic Energy Organization of Iran (AEOI). La Russia si è incaricata della costruzione del sito di Bushehr fin dai primi anni 90, fornendo tecnologia, componentistica, combustibile nonché capitale umano. Per stessa ammissione iraniana sono oltre 2.500 gli scienziati oggi impegnati a Bushehr. Quel che inquieta è che non si può assolutamente escludere l’eventualità che il know how e l’expertise di Mosca in materia di nucleare militare siano passati nelle mani degli scienziati della Repubblica islamica nel corso di questi anni.Secondo documenti forniti dai servizi segreti di un non meglio paese asiatico e resi noti dal Times, l’Iran sarebbe già molto vicino a testare il componente finale della bomba atomica.Da Teheran ci giunge un’altra notizia bellicosa. E’ stata collaudata la nuova versione del missile Sejil-2; il ministro della difesa Ahmad Vahidi ha dichiarato: “E’ impossibile che un razzo anti missile lo possa distruggere”.
Un rapporto dei servizi segreti americani sostiene inoltre che l’Iran ha raggiunto la capacità di bloccare lo stretto di Hormuz da dove passa molto del petrolio prodotto nell’area.Christian Science Monitor, commentando la posizione di Obama sull’Iran, sostiene che la corsa agli armamenti degli ayatollah se da un lato è un evidente rifiuto del dialogo proposto dal presidente americano, allo stesso tempo gli fornisce la forza morale e politica di chiedere sanzioni alla comunità internazionale.Libano Nonostante l’apparente tranquillità della situazione ai confini tra Israele e Libano, Hezbollah continua ad armarsi e a prepararsi alla guerra. Michael Rubin dell’American Enterprise Institute (AEI) afferma: “All’Amministrazione Obama piacerebbe spostare la Siria nel campo dei paesi arabi moderati, ma vi sono scarse possibilità che Damasco voglia smettere di aiutare le organizzazioni terroristiche. Come l’Iran, la Siria rimane una forza destabilizzante e pericolosa nella regione”.Afghanistan I canadesi stanno facendo sforzi pesanti in Afghanistan e pagano caro questo loro impegno (ben 133 morti dall’inizio del conflitto). Da esperti delle missioni di peace building e seri conoscitori del paese, sollevano qualche dubbio, da annotare con attenzione, sull’efficacia del surge in mancanza di finanziamenti adeguati, viste le condizioni disastrose in cui versa la vita civile in quel paese martoriato da quasi trenta anni di guerre.Pakistan David Ignatius afferma che per la prima volta nella storia il Pakistan ha l’occasione di prendere il controllo delle aeree tribali al nord, fino adesso solo nominalmente sotto la sua sovranità. Il commentatore sottolinea con ragione come sia necessaria una grande idea strategica che tenga unite la missione afghana e pakistana. Scartata sembrerebbe l’altra ipotesi, diametralmente opposta, dell’indipendenza e unificazione delle aeree pashtun a cavallo tra i due paesi.Stati Uniti e la questione ambientaleIn occasione degli incontri di Copenaghen sull’ambiente, si può dare una scorsa ai documenti americani sul protocollo di Kyoto che sono stati ora pubblicati dall’Archivio di Stato e confrontare così le posizioni di Obama con quelle di Clinton del 1997: “Un senso di deja vu”.
Israele: L’amico e apprezzatissimo collaboratore dell'Occidentale, Costantino Pistilli, ci segnala un video gioco divertente (non vi fate scoraggiare al primo impatto dall’homepage del sito) e che ci aiuta comprendere una questione seria: cosa significhi per Israele stare sotto la minaccia continua di missili da Gaza e dal Libano.http://leonardotirabassi.blogspot.com


M.O.: RISOLTO IL CASO DI MUATH, BIMBO PALESTINESE MALATO DI TUMORE ARRIVERA' OGGI A ROMA

Roma, 17 dic. (Adnkronos) - E' di questa mattina la notizia di una soluzione positiva e veloce per il piccolo Muath, il bimbo palestinese di 16 mesi malato di tumore al fegato e impossibilitato fino a ieri a raggiungere Roma per le cure necessarie. Il bimbo e suo padre sono infatti passati questa mattina da Gaza in Israele attraverso il valico di Erez e, assistiti costantemente dal consolato italiano a Gerusalemme, hanno raggiunto l'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv da cui partiranno alla volta dell'Italia. L'arrivo della famiglia e' previsto per le 18.50 all'aeroporto di Roma-Fiumicino. ''Sono molto felice per Muath e la sua famiglia - dice Benedetta Paravia, la portavoce dell'Associazione Angels, www.loveangels.it, che da settembre si occupa del caso. Il compito che Angels svolge non e' sempre semplice e sarebbe certamente impossibile senza il supporto e la collaborazione delle istituzioni. Colgo l'occasione di questa bella notizia per ringraziare in particolare il ministro degli Esteri Franco Frattini e il ministro consigliere dell'ambasciata di Israele Lironne Bar-Sadeh, senza i quali una soluzione positiva e rapida non sarebbe stata possibile".



Gerusalemme la danza degli amputati

Dialogo con Giulio Meotti che racconta i martiri di Israele
GUIDO CERONETTI, 17/12/2009, http://www.lastampa.it/
CERONETTI: «Caro Giulio Meotti, si fanno libri di attualità politica in quantità insensata, e per fortuna, dopo l’immancabile Dibattito, il Buco Nero li risucchia e amen. Ma il tuo libro-inchiesta su «Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele», i morti e i sopravvissuti del terrorismo islamo-palestinese, merita lunga vita e ritorni di attenzione: lo trovo un contributo importante, decisivo, alla verità, o non saremmo qui a parlarne, ad approfondirne un poco il rovente contenuto. Una verità appassionata che si fonda su eventi contemporanei dove ricompare un travolgente enigma metafisico: il destino di Israele. Un sangue su pavimenti e asfalti versato appena ieri, che il pensiero data plurimillenario, e teme di non poter escludere futuro. La danza di cui il tuo titolo parla è una danza di amputati. «Dimmi come ti è nato questo libro di testimonianze».MEOTTI: «Sei anni fa, mi trovavo a Haifa, per documentarmi, sulla seconda Intifada: Haifa, città tradizionalmente di reciproca tolleranza tra arabi ed ebrei... E quel giorno in un ristorante di proprietà palestinese una donna, alla fine del pasto, si alza e si fa esplodere, uccidendo venti persone, arabi ed ebrei. Di queste vittime sulla stampa estera non comparve nessuna descrizione - né un nome, né una storia. L’assassina suicida mirava a distruggere quel convivere pacifico degli uni e degli altri. Tra le famiglie massacrate ci fu anche il figlio, arabo, del proprietario. Compresi allora che dovevo raccontare la storia dei morti dimenticati di Israele.«La mia inchiesta durò cinque anni: tratta di circa 1800 israeliani morti e di 10.000 feriti, una strage enorme, proporzionalmente agli abitanti di Israele, di cui nessuna delle molte guerre è costata tanto. Il libro parte dalla distruzione della squadra olimpica a Monaco nel 1972 e termina con la rievocazione delle Torri Gemelle e qualche storia dei meravigliosi shomrìm, i vigilantes, e altri impensati eroi che fermano i terroristi col loro corpo, sbriciolandosi con loro, salvando vite». CERONETTI: «C’è da domandarsi: dopo, davvero, “Dio riconoscerà i suoi”? Delle giornate olimpiche del 1972 conservo un ricordo dei più vivi, le abbiamo vissute a Roma, mia moglie Erica, e io, con indicibile spasimo. Speravamo che Willy Brandt e la nuova Germania avrebbero compiuto il miracolo di salvare la squadra: rimandando l’attacco, la strage fu inevitabile. Resta l’immensa vergogna di non aver fermato i giochi. E qui non si può dimenticare l’articolo del giornale vaticano, compunto a raccomandare di continuare i giochi, altrimenti... pensa un po’!... i terroristi l’avrebbero avuta vinta... (Dicono che il papa Montini non si perdesse una gara). La teoria di non fermare tutto per non “far vincere i terroristi” prevalse facilmente: così il male ebbe la sua infame corona. Hai fatto il libro tutto da solo?«E alle famiglie come ti presentavi? Come sei stato accolto?».MEOTTI: «Sì, tutto da solo. Nessuno mi ha aiutato, eccetto, si capisce, i famigliari delle vittime. E dato il silenzio, l’apartheid intellettuale e politica che isola oggi Israele, tutti gli interrogati capivano l’importanza di un simile lavoro. Un giornalista non ebreo, di un paese dove prevale sulla stampa un’informazione più o meno sfavorevole allo Stato ebraico, era là per interrogarli umanamente, non per fini politici, sul loro dolore. I soli che hanno rifiutato la mia richiesta sono stati gli ultraortodossi, chiusi nel loro ghetto e nella loro estraneità all’Erez, in attesa di Qualcuno che sempre sta venendo e che non verrà. Anche i coloni oltranzisti, che hanno pagato un tributo di sangue altissimo, gente che non abbandona mai il fucile, perché il loro vivere è un perpetuo rischio, tutti mi hanno parlato... Così è nato questo libro, che non rifà la storia del conflitto, che cerca soltanto di raccontare il martirio ebraico, mezzo secolo dopo la fine della Shoah, negli ultimi anni del XX secolo e nel primo decennio del XXI...«Spero che molti miei lettori siano toccati da fremiti e lacrime dov’è rievocata la strage degli otto giovani seminaristi della yeshivah di Merkaz Harav, la scuola dei talmudisti (le loro belle facce e i loro nomi, così vicini ai personaggi di un Isaac Singer, sono a p. 320)... Merkaz Harav, cuore spirituale della nazione, dov’è accesa giorno e notte, inestinguibile, la lampada della Torah... E se pensiamo che il terrorista autore dello scempio era un palestinese israeliano perfettamente integrato, che godeva di piena fiducia, che guidava gli scuolabus - ma nascondeva il seme dell’odio, la bramosia di un raccapricciante martirio... Nella scuola si festeggiava il mese lunare di Adar, l’avvicinarsi della primavera, quando irruppe quell’orrenda pianta del male...».CERONETTI: «È vano darsi spiegazioni politiche: atti simili sono male-per-il-male. Hai fatto bene a non trascurare mai i nomi, le identità, le genealogie, il principium individuationis, perché il terrorismo vuole l’opposto: la perdita del volto, la distruzione della persona morale, lo spegnimento della nazione nei figli macellati, rendere “la Mano e il Nome” irriconoscibili... Così anche altrove: in ogni popolo preso di mira si vede l’azione di una volontà di annientare l’uomo. Ma in Israele anche da una dentiera sbriciolata sull’asfalto traggono la voce di un nome, come tu dici. Immagino però che la situazione psichiatrica sia delle più amare».MEOTTI: «Dietro tanto amore per la vita e tante prove di coraggio senza limiti, c’è una società di anime morte: là, nelle pieghe dell’anima, è impressa la VU spaventosa di vittoria del terrorismo suicida. Andare in cerca di un bottone, di una traccia di tuo figlio, trovarli sotto la testa (che di solito rimane intatta) di chi ha compiuto il massacro, che cosa produrrà in un povero cervello umano? Il sonno naturale è utopistico, in Israele. A Sderot, nella Striscia, dove a centinaia sono caduti i missili di Hamas, ci sono generazioni invalide nell’anima, molti bambini in regressione psichica. Il piano terrorista mira a creare una società di questo tipo. Atlete amputate nelle gambe, giovani musicisti promettenti accecati; nelle città colpite un abitante su due ha disturbi psichici, i soldati stessi sono avvolti nelle depressioni, come reggere a una guerra che non ha fronti, che non ha fine?«Ad Ashkelon ho parlato con una ginecologa, ferita da schegge di missile mentre era con una paziente. Una scheggia nella spina dorsale l’ha paralizzata per sempre. Se vai nelle case dei superstiti, dei feriti, dei mutilati, il martirologio di Israele lo tocchi con mano - là, un popolo invincibile confessa il suo smarrimento, la sua sfinitezza muta. Neppure la Shoah ha prodotto simili piaghe. E sempre quello sforzo intenso, spossante, per ricordare “quel che ti ha fatto Amalèk”. Il mondo che ormai apertamente detesta Israele ne ravviva, ne allarga le ferite. Perciò ho ritenuto necessario scrivere questo racconto sui morti d’Israele. Non sanno che farsene, loro, dei nostri coccodrilli!».CERONETTI: «Permettimi di chiudere questa nostra intervista con un verso di Giorgio Seferis: “Dove c’è umanità c’è dolore. / Ma non è il fine dell’uomo / Essere solo dolore”». Giulio Meotti è autore del libro Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri d’Israele (ed. Lindau, pp. 353, euro 24)



Tutte le mappe della pubblicistica nazionalista palestinese mostrano senza reticenze l’obiettivo finale: occupare totalmente Israele

Il messaggio è chiaro: “Tutta la Palestina”

Il segreto di Pulcinella è svelato: la Palestina, tutta la Palestina. Parlando davanti a centomila persone nel centro di Gaza, Ismail Haniyeh ha proclamato l’obiettivo del movimento Hamas. Il primo ministro“moderato” della fazione “moderata” del movimento islamista palestinese ha pubblicamente annunciato quella che è la “soluzione di pace” a cui punta il suo governo. La soluzione ultima non è la totale liberazione della striscia di Gaza né uno stato palestinese. È la liberazione di tutta la Palestina. Haniyeh non l’ha detto esattamente in questi termini, ma le sue parole sono chiarissime. Hamas vuole Ramle e Lod, Haifa e Jaffa, Abu Kabir e Sheikh Munis. Vuole la terra su cui questo articolo viene scritto e la terra su cui questo articolo viene stampato: la terra dove si trova la redazione di Ha’aretz e la terra dove si trova la tipografia di Ha’aretz. Vuole la terra, tutta la terra, la Grande Palestina.Negli ultimi anni parecchi esperti ci avevano garantito che Hamas non lo dice sul serio. Hamas gioca solo a fare il duro, ma le sue intenzioni sarebbero nobili: cessate il fuoco, Linea Verde, coesistenza. Vivi e lascia vivere. Ma nessun messaggio trasmesso da un alto membro di Hamas a un diplomatico dietro porte chiuse può competere con lo status del messaggio lanciato da Haniyeh alle masse. Ciò che conta davvero sono i proclami, espliciti e diretti, fatti dal leader palestinese alla sua gente: Palestina, tutta la Palestina, ogni centimetro di terra israeliana su cui vive un cittadino israeliano, la sua casa, la nostra casa, la terra sotto i nostri piedi.Apparentemente il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) rappresenta un’alternativa a Hamas. Due giorni fa, intervistato da Avi Issacharoff per Ha’aretz, ha detto che la pace si può fare in sei mesi. C’è solo un piccolo problema: la stessa cosa ce la siamo sentire dire quando venne elaborato l’accordo Beilin-Abu-Mazen nel 1995. E la stessa cosa ce la siamo sentire dire alla vigilia del summit di Camp David del luglio 2000. E la stessa cosa ci venne promessa alla firma dell’iniziativa di Ginevra nel 2003. E la stessa cosa ci venne promessa quando Israele andò ad Annapolis nel 2007. Ma ogni volta che un leader israeliano fa un significativo passo avanti verso Abu Mazen, Abu Mazen diventa evasivo. Ad oggi non ha ancora risposto positivamente all’offerta del 100% fattagli quindici mesi fa dall’allora primo ministro Ehud Olmert.Possiamo anche capire come mai Abu Mazen sia diffidente rispetto al primo ministro Benjamin Netanyahu e al ministro degli esteri Avigdor Lieberman. Ma non si riesce a capire perché abbia ancora una volta si sfuggito anche a Olmert, al ministro della difesa Ehud Barak, all’ex presidente del Meretz Yossi Beilin, e perché il “leader della pace” palestinese non abbia mai firmato una bozza di accordo di pace né mai abbia offerto una sua proposta di compromesso.Secondo il ministro Benny Begin il motivo è che, a suo modo, anche Fatah è per la Grande Palestina (per cui può firmare accordi provvisori, ma mai un accordo finale). Altri dicono che Abu Mazen, essendo un profugo da Safed, non cederà mai sul cosiddetto “diritto al ritorno”. Alcuni sostengono che Abu Mazen vorrebbe ma non può, altri che potrebbe ma non vuole. Come che sia, Abu Mazen sembra offrire solo un miraggio di pace. È da ventun anni che parla di due Stati senza mostrarsi mai stato disposto a pagare neanche il minimo prezzo che i palestinesi devono pagare se vogliono attuare la soluzione a due Stati.La verità è dura. L’occupazione sta rovinando Israele, ne mina le fondamenta etiche, democratiche e diplomatiche. Ma sia Hamas che Fatah fanno di tutto per rendere difficilissima la fine dell’occupazione. Con Hamas – che controlla la striscia di Gaza e si arma fino ai denti, raccogliendo il plauso di un terzo dei palestinesi ed esercitando un diritto di veto su qualunque progresso diplomatico – e con Fatah – che non vuole riconoscere lo stato nazionale del popolo ebraico e respinge il concetto di uno stato palestine smilitarizzato – non ci sono chance di arrivare a un trattato di pace. Haniyeh e Abu Mazen stanno chiudendo Israele in una trappola, ciascuno a suo modo. Solo gli ingenui possono credere che ulteriori negoziati per un accordo sullo status finale possono districare Israele da questa trappola.Ma l’alternativa a un accordo sullo status finale non è andare avanti con lo status quo. L’alternativa deve essere un’iniziativa di parte israeliana. Il piano di Shaul Mofaz è una i; un’altra è un secondo disimpegno. In ogni caso Israele deve affrontare per proprio conto la minaccia esistenziale posta dall’occupazione. Il tempo stringe e l’il messaggio è scritto sui muri: “la Palestina”; è scritto forte e chiaro: “tutta la Palestina”.(Da: Ha’aretz, 17.12.09) http://www.israele.net/


Gerusalemme

ISRAELE: DONATORI ORGANI AVRANNO PRIORITA' NEI TRAPIANTI

Tel Aviv, 17 dic. (Adnkronos/Dpa)- Israele sara' il primo paese che dara' la precedenza nei trapianti a chi e' portatore di una tessera di donatore di organi e ai parenti stretti di donatori viventi o defunti. La nuova legge entrera' in vigore in gennaio, secondo quanto scrive l'autorevole rivista medica "The lancet". Il provvedimento punta ad aumentare la disponibilita' alla donazione di organi, che rimane molto bassa in Israele: solo il 10% degli adulti e' in possesso di una tessera da donatore, contro la media del 30% comune a molti paesi occidentali. Inoltre il consenso dei parenti all'espianto di organi dai defunti e' fermo da anni al 45%, contro il 70-90% riscontrato in occidente. Il nuovo sistema di priorita' rischia di porre in difficolta' i medici, abituati a ragionare unicamente sulla base di criteri clinici. Ma il dottor Jacob Lavee, dello Sheba Medical Centre, afferma che i casi piu' gravi continueranno comunque ad avere la precedenza. A parita' di gravita' delle condizioni, passera' per primo chi e' donatore o parente di donatore. Sostenitore della nuova misura, il medico israeliano afferma che la legge vuole "essere un incentivo perche' la gente accetti di aiutarsi gli uni con gli altri". In questo spirito avranno la precedenza anche le persone viventi che hanno donato loro organi senza indicare a chi erano destinati.



L’ultima dei no global: rotolarsi nel fango

La ragazza è in bikini ma non si prepara affatto a tuffarsi in piscina. Con lei altre giovani hanno il viso e il corpo imbrattati di fango. Sono le militanti dell’associazione pacifista Code Pink, erinni scatenate che usano fare incursione in massa nei negozi dove sono in vendita i cosmetici dell’azienda israeliana Ahava. Da mesi, la casa, che produce prodotti di bellezza con i Sali del Mar Morto, è nel mirino di organizzazioni e ong: un boicottaggio implacabile tanto che due giorni fa il negozio Ahava a Covent Garden ha dovuto serrare le saracinesche dopo l’ennesima incursione delle scalmanate desnude. E domani, sabato 19 dicembre, nello stesso punto si celebrerà l’International day of action against Ahava. Centinaia di militanti protesteranno, invitando al boicottaggio dei cosmetici che vengono dal kibbutz di Mitzpe Shalem in Cisgiordania, nei pressi del Mar Morto. Le ragazze di Code Pink (associazione, creata nel 2002 negli Usa, ha scelto di chiamarsi Codice Rosa per derisione contro i nomi delle operazioni antiterrorismo: Codice Arancio, Codice Rosso... dati dall'amministrazione Bush.) si infangano il corpo per rappresentare il senso del loro slogan: Ahava is a dirty business (Ahava è uno sporco affare). Dicono che i prodotti di bellezza dell’Ahava (in ebraico significa «amore»), provengono dalle risorse naturali rubate ai palestinesi, perciò eticamente inaccettabili perché vìolano i diritti umani e sono frutto di una rapina. Balle colossali perché Ahava non sorge su un “territorio occupato”: l’area del Mar Morto era deserta prima che gli ebrei ci tornassero e nessun palestinese ha mai lavorato quelle risorse naturali. In Inghilterra, l’ondata antisemita ha trovato nuova energia dall’ordine di cattura (poi ritirato) per l’ex ministro degli Esteri israeliano, oggi capo del partito di opposizione Kadima, Tzipi Livni in relazione all’offensiva “Piombo Fuso”, condotta lo scorso inverno a Gaza. Il fango antisemita aveva già colpito, in agosto, l’attrice Kristin Davis, l’interprete 44enne di Charlotte York, che nei telefilm di Sex and the City si converte all’ebraismo per amore, non è ebrea ma è molto popolare in Israele. Da due anni faceva pubblicità ad Ahava mentre a Natale invitava a comprare i regali dal catalogo dell’ong Oxfam, per aiutare i poveri in Africa. Ora questa ong l’ha cacciata, accusandola di complicità coi massacratori dei palestinesi. Ma la bella Kristin è solo il paradosso mediatico di una campagna ben più solida e capillare che mira a colpire gli interessi economici israeliani in Inghilterra e in patria. I danni più seri all’azienda provengono dal gruppo Boycott, Divestment, Sanctions movement, diretto dal palestinese Omar Barghouti, ma pure il governo mette tutto il suo peso nell’operazione. Il ministero degli Esteri britannico, assieme al Defra, il ministero dell’Alimentazione e degli affari rurali, ha emesso una storica direttiva a tutte le catene di supermercati nel Regno Unito: nelle merci provenienti dalla Cisgiordania dovrà essere indicato se sono prodotte negli insediamenti israeliani. I supermercati dovranno modificare le etichette che attualmente indicano “prodotto della West Bank”, rendendole più specifiche per informare i consumatori sulla provenienza dei cibi o beni acquistati, scrivendo quindi “prodotto palestinese” o “prodotto degli insediamenti israeliani”. Per far fronte alle troppe richieste di boicottaggio, grandi aziende come Tesco, la più importante catena di distribuzione, hanno dedicato un numero speciale ai prodotti israeliani: «Servizio clienti Tesco. Se state chiamando per informazioni sui prodotti da Israele, digitate 1». A questo sono arrivati. E in Italia? Beh, la cagnara è la stessa. La campagna di boicottaggio di Ahava è presente su molti siti. Primi fra tutti quelli dei movimenti no global e dell’antagonismo estremo. Uno di questi, Senza Soste, pubblica l’elenco completo delle aziende da evitare assolutamente, perché compromesse con Israele. Si va da Calvin Klein a Motorola, da Intel a Jaffa fino a una lista dettagliatissima di marche e generi da evitare. Inoltre, il sito consiglia di controllare sempre il codice a barre dei prodotti: «Se riporta il numero 729 non comprateli», dice, «cominciamo a togliere qualche arma a chi ne sgancia a tonnellate sulla popolazione palestinese». Ma l’idea di boicottare Ahava e altri prodotti israeliani era venuta anche a un centinaio di soci equo-solidali della Coop. E come non ricordare la lista dei negozianti ebrei italiani stilata dal sindacato autonomo Flaica-Cub, un richiamo esplicito alle Leggi Razziali del 1938 e alla conseguente chiusura dei negozi non ariani. Così la sinistra più estrema e idiota si salda al nazi-fascismo in nome del comune odio antisemita. Doppia vergogna per i compagni boicottatori che dovrebbero almeno conoscere contro chi combattono. Il capitale di Ahava, ad esempio, è detenuto al 60% da alcuni kibbutz, il simbolo del collettivismo israeliano di sinistra. Forse, la sola società degli uguali mai realizzata in Terra. E nei laboratori di Ahava i dipendenti quasi tutti palestinesi. Che il loro lavoro e dunque sopravvivenza vengano boicottati da forsennati sedicenti solidali fa parte della loro squinternata ideologia comunista. 18/12/09 http://www.libero-news.it/



Kibbutz Kfar Masaryk

Israele, 40 deputati minacciano boicottaggio prodotti Gb

Rappresaglia per restrizioni su esportazioni da colonie ebraiche Gerusalemme, 17 dic. (Apcom) - Quaranta deputati israeliani su 120 hanno minacciato il boicottaggio dei prodotti britannici per protestare contro una misura di Londra che riguarda le esportazioni in provenienza dalle colonie ebraiche. Questi deputati, della maggioranza e dell'opposizione, hanno firmato una petizione di una parlamentare, Ronit Tirosh. Il documento sarà trasmesso dal presidente della Knesset Reuven Rivlin al suo omologo britannico, ha precisato Tirosh, membro del partito Kadima. "Il deputato Ronit Tirosh ha preso l'iniziativa di una petizione che minaccia di invitare gli israeliani a 'riflettere a due volte' prima dio acquistare prodotti britannici nel caso in cui la decisione del governo britannico non dovesse essere annullata", si legge in un comunicato. La petizione fa riferimento a una raccomandazione del ministero britannico dell'Agricoltura che ha consigliato la settimana scorsa ai commercianti locali di precisare chiaramente se i prodotti israeliani venduti in Gran Bretagna provengono dalle colonie ebraiche o dalla Cisgiordania occupata. Le relazioni tra Israele e Gran Bretagna attraversano un periodo di forte tensione a seguito del mandato di arresto emesso da un tribunale britannico nei confronti dell'ex ministro israeliano degli Affari Esteri Tzipi Livni nell'ambito di una controversa legge sui crimini di guerra.


Sinagoga Roma


Pagine Ebraiche e la visita del pontefice in sinagoga

Roma, 18 dic -Presto in edicola il terzo numero di Pagine Ebraiche. Fra gli altri articoli grande spazio è dedicato alla visita del papa in sinagoga il 17 gennaio prossimo. Il papa sarà accolto dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che per l'occasione indosserà un antichissimo talled (il manto rituale con le frange che indossano gli uomini durante le preghiere del mattino e nelle principali ricorrenze) proveniente da una delle sinagoghe della piazza Cinque Scole in seta, finemente lavorata, arricchita degli intarsi e dei rosoni di pizzo opera di antichi artigiani a testimonianza della lunghissima permanenza ebraica sulla sponda del Tevere.Il talled coprirà le spalle del rabbino capo di Roma che molto probabilmente si presenterà all'appuntamento con il papa vestito di scuro e senza utilizzare le vesti tradizionali dei rabbini della sinagoga di Roma come fece l'allora rabbino capo Elio Toaff nel ricevere Giovanni Paolo II. Il pontefice dovrebbe visitare anche il Museo ebraico che sorge all'interno della sinagoga. Tra i mille tesori che l'istituzione conserva, ce n'è uno appena donato. Non si tratta solo di un oggetto prezioso, ma - scrive il mensile - anche di un simbolo. Il cammeo è di papa Pio VII Chiaramonti (1740-1823), pontefice dall'anno 1800. "L'anello - racconta la direttrice del museo, Daniela Di Castro, citata da Pagine Ebraiche - cela all'interno di una doppia fascia chiusa da una cerniera, l'iscrizione in ebraico Immanuel". Unico nel suo genere, il gioiello unisce al realismo del ritratto l'eccezionalità dell'identità ebraica del committente che poi ne fece dono al pontefice. Nei servizi riportati dal mensile ci sono poi un intervento dell'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, titolato "Per molti ebrei ortodossi il dialogo con i cattolici è un cammino difficile", e quello del direttore dell'Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, che mette in rilevo l'intenso lavoro di Ratzinger per avvicinare ebrei e cristiani. (Ansa)


Rehovot Istituto Weizmann

Leggi la rassegna

Mentre l’anno si approssima alla sua conclusione, e le festività cristiane si avvicinano, la nostra rassegna stampa, che pure si occupa di cose eminentemente ebraiche, non può non registrare il «pieno mediatico», ovvero il costante flusso informativo, che il ferimento del Presidente del Consiglio ha ingenerato nei nostri mezzi di comunicazione, occupando il proscenio collettivo per diverse giornate. Non è di nostra pertinenza il trattare la cosa in sé, soprattutto in quanto accadimento nei riguardi del quale si sprecano analisi e giudizi, e tuttavia un piccolo richiamo ci sia consentito nella misura in cui il fatto - e le sue infinite rifrazioni - si riverbera su altri campi, fuoriuscendo dall’ambito che gli è proprio per assurgere a evento-indice e fagocitare l’attenzione comune. Sulla scorta di questo meta-avvenimento, ovvero un qualcosa che impegna l’attenzione collettiva per intero, solleticando l’immaginazione comune, la parte restante delle notizie ha sofferto di un imbarazzato “declassamento”. Segnatamente, un risultato di questo genere lo si aveva già avuto più di un anno fa, sia pure con una vicenda dai contorni ben diversi rispetto all’aggressione ai danni di Silvio Berlusconi, con l’elezione di Barack Obama, salutata come un mutamento da molti, per poi scoprire, a distanza di poco tempo, che una parte della sua fortuna, tributatagli ripetutamente dalla carta stampata, è essa stessa il prodotto di una costruzione mediatica, così come segnala in un ampio dossier l’Internazionale, da oggi in edicola. La rassegna stampa, quindi, un po’ ne risente, non avendo troppo da segnalare (ma comunque molto da dire). Quattro sono stati i temi che, tra gli altri, hanno accompagnato la nostra settimana, sfogliandone i giornali: la vicenda domestica, poiché tutta italiana, degli insulti antisemiti, pronunciati ripetutamente in un mercato romano alla volta di una commerciante di origine ebraica; la tempesta diplomatica ingenerata dalla notizia che un mandato di cattura sarebbe stato spiccato da uno zelante magistrato britannico contro Tzipi Livni, in ragione della responsabilità politica per le violazioni che si sarebbero consumate contro la popolazione di Gaza durante l’operazione «Piombo fuso»; l’annuncio, proveniente da Teheran, che l’Iran ha testato con successo un vettore missilistico, il Sajjil-2, capace di raggiungere Tel Aviv (non a caso richiamata come il target principale da parte dei radicali islamici, di contro a Gerusalemme, che è rimane al-Quds, «la santa»; così facendo, però, si avvalora, per parte della stampa nostrana, che riprende quella allocuzione che è ben lungi dall’essere neutra, l’affermazione per cui quest’ultima non sarebbe l’autentica capitale d’Israele, poiché assurta a tal ruolo illegittimamente); ancora dal triste paese dei pavoni, le minacce rivolte dalla leadership religiosa contro i dissenzienti e la promessa di un redde rationem quanto prima. A quest’ultimo riguardo, ovvero nel merito del discorso sul fenomeno dell’intolleranza sistematica nei paesi musulmani verso qualsiasi forma di pensiero non omologabile, rimandiamo alla lettura di Giulio Meotti, sul Foglio, dove ci parla di quello che si afferma (e si fa) nella grande università cairota di al Azhar, fucina, tra l’altro, delle autorità religiose sunnite. Ciò che fino ad un certo punto è emerso in questi giorni sulla carta stampata nostrana è, invece, l’ennesimo logoramento che stanno subendo le relazioni diplomatiche e politiche tra Israele e i paesi dell’Unione Europea, dove i pronunciamenti di quest’ultima, proprio in merito al futuro di Gerusalemme, acuiscono le divergenze anziché smussarle. Uno dei punti i maggiore conflitto, aperto non solo con i palestinesi ma anche con una rilevante parte dell’Europa, è infatti lo status in divenire della città. Da certuni intesa come la capitale di due Stati; dagli altri rivendicata a sé esclusivamente; dagli israeliani, infine, difesa come la propria capitale. Su quale sia lo stato della situazione nei rapporti con l’Unione si soffermano sia Alberto Stabile, per la Repubblica, che Akira Eldar, per Haaretz. Francesca Marretta, su Liberazione, ci parla di un altro, non inedito capitolo della querelle che i paesi europei intrattengono, a fasi alterne, con lo Stato ebraico, quando si sofferma sulla “guerra delle etichette commerciali” in corso a Londra. I singoli episodi, a partire dal mandato di cattura contro la Livni, sono in realtà il tassello di un mosaico dove all’espressione «stallo negoziale» (la completa mancanza di iniziativa politica nel merito del processo di pace in Medio Oriente) si coniuga quella di «sfiancamento» delle relazioni diplomatiche. Le quali peraltro, nella storia più redente del Mediterraneo, non sono mai state troppo facili. Non di meno, un'altra vicenda che ha sofferto di una secca riduzione di attenzione è quella del destino di Gilad Shalit, dato alcune settimane fa come in procinto d’essere liberato, quanto meno in tempi relativamente stretti, e poi, per così dire, abbandonato a sé, se si fa l’eccezione, ovviamente, della stampa israeliana per la quale, segnaliamo oggi, l’articolo di Avi Issacharoff su Haaretz. Accenni ci sono infatti offerti solo da Benjamin Barthe su l’Express, dove si parla però del prezzo imposto per la liberazione di Shalit, ovvero la messa in libertà di Marwan Barghuti. Non deve sorprendere, peraltro, questo alternarsi di speranze a delusioni, perché, purtroppo, è parte stessa della strategia di Hamas il sottoporre i suoi interlocutori a docce scozzesi. Peraltro, la dilazione e i rinvii, oltre ad essere il prodotto di una volontà politica che cerca in tutti i modi di sfruttare, manipolandole, le opportunità di visibilità mediatica offerte dal prolungamento del rapimento, demanda anche alle oggettive difficoltà che il movimento islamista sta conoscendo in quello che aveva eletto a suo feudo. L’erosione del consenso sarebbe palpabile (certificata anche dai sondaggi compiuti dal Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah), malgrado le “oceaniche” manifestazioni inscenate nei giorni scorsi, in occasione del ventiduesimo anniversario della fondazione del movimento, per testimoniare, dinanzi ad una platea (ancora una volta mediatica) perlopiù araba e musulmana, la sua perdurante forza. In quella occasione, peraltro, il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha ribadito i capisaldi della dottrina radicale, a partire dal rifiuto di riconoscere ad Israele il diritto ad esistere. Probabile, quindi, che dinanzi allo scemare degli entusiasmi da parte di una popolazione, quella della striscia di Gaza, che vive i peggiori disagi derivanti dall’essere di fatto in ostaggio di questa fazione dell’integralismo politico e religioso, si possano registrare anche in un futuro molto prossimo ulteriori manifestazioni di violenza. Su quella che è la condizione di quella piccola porzione di terra si sofferma, con prevedibili accenti polemici nei confronti di Israele, Michele Giorgio per il Manifesto. Si faccia la tara dell’atteggiamento preconcetto che traspare, ancora una volta, dall’articolo e si vada al sodo dei dati: si capirà quanto sia avanzata la condizione di depauperamento degli abitanti e quanto ciò sia determinante nell’agevolare i radicali nelle loro fortune. Aggiungiamo ancora, per comune consapevolezza, che il 2010 sarà anno di elezioni in campo palestinese, sia per il rinnovo del Parlamento dei Territori (il Consiglio legislativo palestinese) sia per l’elezione del Presidente dell’Autorità nazionale. L’impossibilità di raggiungere un ragionevole accordo di medio periodo tra Hamas e il Fatah (dopo sette sessioni di discussione al Cairo l’ipotesi è definitivamente tramontata nel mese settembre) farà sì, con tutta probabilità, che le prossime tornate elettorali possano siano funestate da violenze. Per concludere, un po’ come d’abitudine il rimando ad una recensione, quella di Claudio Toscani su l’Avvenire, dedicata al libro di Antonio Stella sul razzismo e l’intolleranza ieri, oggi (e domani?). Claudio Vercelli http://www.moked.it/




L’Hapoel si sbarazza dell’Amburgo e vince con merito il girone

Troppo bello per essere vero. E invece, quello che qualche mese fa sembrava solo un sogno remoto, ieri sera è diventato realtà. Nella festante cornice del Bloomberg Stadium di Tel Aviv, l’Hapoel ha trionfato nel gruppo C di Europa League, il raggruppamento che gli esperti avevano definito “di ferro”. Questo straordinario traguardo, almeno per gli standard calcistici israeliani, è stato raggiunto al termine di una bella partita nella quale l’Hapoel ha sconfitto per uno a zero i temibili tedeschi dell’Amburgo. Entrambe già qualificate ai sedicesimi di finale con un turno di anticipo, le due squadre si contendevano la leadership del girone, un traguardo non solo simbolico e prestigioso ma anche un modo per evitare brutte sorprese dall’urna di Nyon, località svizzera dove in giornata verranno sorteggiati gli accoppiamenti del prossimo turno di Europa League. Grazie alla vittoria di ieri, infatti, gli israeliani hanno ottenuto lo status di teste di serie e hanno scongiurato il pericolo di incontrare Roma e Juventus, bruttissime gatte da pelare per qualsiasi squadra...........HAPOEL TEL AVIV 1 0 AMBURGO.Yeboah (23’) CLASSIFICA FINALE GRUPPO CHapoel Tel Aviv 12Amburgo 10Celtic Glasgow 6Rapid Vienna 5 .Adam Smulevich http://www.moked.it/


Una piazza in onore di Samuele Alatri,personaggio illustre della Comunità ebraica romana

Un tiepido raggio di sole ha illuminato la cerimonia di inaugurazione della riqualificazione del parco delle mura Aureliane a Roma, nel cui ambito è stato avviato l’iter per dedicare all’interno del parco una piazza a Samuele Alatri, personaggio illustre della comunità ebraica romana a fine dell’800. Alla presenza del sindaco Gianni Alemanno, degli assessori Corsini e De Lillo e dei discendenti appartenenti alla famiglia Alatri, il presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha ricordato la figura di Samuele Alatri, che fu presidente della Comunità ebraica, a cavallo dell’emancipazione, guidandola nel difficile passaggio dalla chiusura del ghetto all’apertura alla società circostante. Eletto già a 28 anni rimase presidente della Comunità per lunghissimo tempo e ricoprì il ruolo di assessore, consigliere comunale e inoltre fu deputato al Parlamento italiano, ponendosi al servizio della propria città. Fra l’altro fu lui a consegnare al Re il plebiscito di annessione di Roma al resto del costituendo Stato.Inoltre Samuele Alatri svolse un importante ruolo di mediazione con il Papato, nonostante l’umiliazione cui erano stati costretti gli ebrei con la chiusura nel ghetto, prodigandosi per ottenere finanziamenti internazionali in un periodo di difficoltà economica della banca Pontificia e ottenne in cambio l’assenso all’allargamento della zona del Ghetto.La sua figura, come sottolineato dall’assessore Fabio De Lillo, costituisce un elemento unificante nella memoria civica e di identificazione per la città.Daniele Ascarelli, http://www.moked.it/


Gerusalemme

Tanto tanto tempo fa, nel lontano 1993, un ministro della Repubblica italiana varò una legge, approvata dalle Camere, che puniva la diffusione di idee fondate sull'odio razziale e etnico e l'incitamento a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi. Ma gli italiani, distratti da altri problemi, come le veline, il gossip il grande fratello e via discorrendo, tutti fondamentali per lo sviluppo della democrazia, se ne sono dimenticati. E così, quando per esempio un venditore abusivo dà dell'"ebrea di merda" a un'altra venditrice, ebrea, tutti esprimono grande solidarietà e si strappano i capelli per capire come fare, perché episodi del genere non si ripetano. Intanto la legge giace, dimenticata da tutti, nel mezzo del nostro Codice penale.Anna Foa,storica, http://www.moked.it/



Mar Morto
Il piccolo Nitzan, il grande paese
Ieri pomeriggio, mercoledì 16 dicembre, Nitzan Cohen, un bambino di otto anni e mezzo, con un lieve ritardo mentale, passeggiava con la sua famiglia ed altri amici in una foresta nella zona di Gerusalemme. Ad un certo punto i genitori non l'hanno più trovato. Nizzan si era perso nella foresta, a poche ore dalla notte. Avvertita la polizia, le ricerche sono subito cominciate. In brevissimo tempo la mobilitazione è stata massiccia: centinaia di poliziotti, squadre cinofile, unità speciali dell'esercito con mezzi per vedere nel buio, elicotteri, centinaia di volontari civili, tutti si sono messi a cercare Nitzan, in corsa contro il tempo. Fra i civili, c'erano gli uomini delle unità di soccorso, squadre di volontari addestrati nel selvataggio di persone in difficolta' durante gite e passeggiate, e fra essi anche quella della vicina cittadina araba di Abu Gosh. Poi sono arrivati uomini dagli insediamenti ebraici nei territori: la famiglia di Nitzan abita ad Ofrà, un insediamento. Con loro, semplici abitanti della zona attorno alla foresta, che avevano sentito alla radio quanto stava succedendo. In poche ore, millecinquecento persone cercavano nella foresta il piccolo Nizzan. Poliziotti, soldati, civili. Uomini, donne, ragazzi. Arabi, ebrei. Religiosi, laici, Uomini di città e contadini. Giovani e vecchi. Sul far della sera la polizia ha diramato un appello chiedendo che la gente non arrivasse più: troppo pericoloso cercare al buio, soltanto le squadre speciali avrebbero continuato. Ovviamente, alla radio servizi in diretta dal luogo delle ricerche. Nell'email mi è arrivata la richiesta di pregare per Nitzan. L'intero paese col cuore in gola. Questo è Israele. Basta che uno sia in pericolo, tutti accorrono. Come nelle ultime guerre: mobilitazione al 100% dei riservisti e persino oltre. Anche chi non era stato chiamato arrivò e pretese di combattere.Nitzan è stato trovato all'inizio della notte, sano e salvo. Le migliaia di volontari che sarebbero arrivati al mattino per riunirsi alle ricerche, hanno tirato un sospiro di sollievo. Ma la prossima volta saranno di nuovo tutti lì dove occorre. Questo è Israele, questa è la sua forza, la sua vera forza. Quella che, più di ogni tecnologia, potrà sconfiggere persino la bomba atomica dell'Iran. http://www.morasha.it/




venerdì 18 dicembre 2009



Eilat parco del ghiaccio

Il governo inglese riflette sul caso Tzipi Livni

“Cambieremo le nostre norme di procedura penale”Londra, 15 dic -All'indomani dell'emissione del mandato di cattura nei confronti dell'ex ministro degli Esteri Tzipi Livni ad opera di un giudice della corte britannica, il governo londinese valuta come cambiare le sue norme di procedura penale ed evitare così il ripetersi di casi analoghi in futuro. "La procedura per la quale i mandati di arresto possono essere richiesti ed emessi" senza informare la procura "è una particolarità rara del sistema inglese e del Galles", ha osservato il ministro degli Esteri britannico, David Miliband, in un comunicato. "Il governo cerca urgentemente i modi di cambiare il sistema britannico per evitare casi simili in avvenire" ha spiegato Miliband, sottolineando che Israele è "un partner strategico e un amico stretto della Gran Bretagna".



Arab Legion in Jerusalem. May 1948

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La notizia del giorno, ripresa da tutti i quotidiani e anche dal GR1 delle 7, è la conferma che Tzipi Livni ha effettivamente dovuto annullare un suo viaggio già organizzato a Londra per evitare il rischio di un processo pronto ad aprirsi contro di lei per crimini commessi nella guerra di Gaza. Oggi la Livni non è protetta da immunità diplomatica che aveva invece Barak, fatto segno di analoghi provvedimenti; il Corriere ricorda che la regina Elisabetta, in 57 anni di regno, ha compiuto 250 visite in giro per il mondo, stringendo la mano a tanti dittatori, ma mai si è recata in Terra Santa. Il Giornale cita la frase pronunciata da un vice premier israeliano: "Ora siamo tutti Livni": in Israele i partiti avversari riescono a unirsi, da sempre, di fronte ai pericoli comuni. Repubblica, unico tra i quotidiani, ricorda la spesso asserita sproporzione del conflitto che ha causato 13 morti israeliani e 1400 palestinesi. Ma la direzione in cui sta andando la Gran Bretagna è ricordata anche con il progredire dell'azione di boicottaggio dei prodotti israeliani: l'Avvenire parla delle etichette dei prodotti alimentari che dovranno indicare se sono originari delle colonie o della Palestina. Ed Il Foglio riporta che una ditta inglese ha addirittura messo a disposizione della clientela un numero verde dove, "digitando il numero 1 si possono avere informazioni sui prodotti da Israele". Grande rilievo viene ancora dato all'aggressione subita da due sorelle commercianti di religione ebraica, apostrofate da due abusivi al grido di "sporchi ebrei" e "vi cacceremo con i treni" (Avanti). E' una situazione che dura da mesi, come ci ricorda anche il Tempo, e ora vedremo se le autorità ed i Vigili bloccheranno questi fenomeni di antisemitismo che speravamo non vedere più, o se invece, passato il clamore, tutto tornerà ad essere come negli ultimi tempi. Il Foglio parla del protrarsi dei bombardamenti con bombe al fosforo dell'aviazione saudita contro i villaggi sciiti dello Yemen, e del tentativo di Hamas di trovare un accordo tra Saudi Arabia e Iran (tentativo stoppato da Ahmadinejad); sempre sul Foglio si legge di una prossima visita di Hariri (forse accompagnato da Jumblatt) dal presidente siriano Assad: "una visita che può cambiare gli equilibri nella regione". E' comunque la dimostrazione del fatto che la Siria continua a considerare il Libano un proprio protettorato. Liberazione, unico tra i quotidiani italiani, informa delle dimissioni improvvise del responsabile dell'agenzia nucleare iraniana Sahidi, e dell'annullamento del previsto incontro a New York dei 5+1: vedremo nei prossimi giorni le evoluzioni di questa vicenda cruciale per il mondo intero. L'Unità descrive la visita del gran Rabbino Ashkenazita Metzeger ai religiosi islamici dopo l'incendio di una moschea avvenuto nei giorni scorsi per colpa di qualche fanatico ebreo; purtroppo ancora una volta De Giovannangeli non coglie il significato di questa visita, e dà alle parole del rabbino (che ha fatto un parallelismo con la notte dei cristalli) un significato che queste non volevano avere. Il Riformista intervista lo scrittore americano Jonathan Rabb, in Italia per la presentazione del suo ultimo romanzo; dice Rabb che la situazione nel mondo non è molto diversa da quella di 80 anni fa; e, parlando delle guerre dell'America, afferma che si deve terminare un processo, una volta intrapreso, e che non serve prima avere gli eroi per poi abbandonare il campo. Il Messaggero descrive due attentati contro chiese cristiane in Iraq: i cristiani si sono ridotti da oltre un milione a 350000, e ora si raggruppano in aree protette da muri, a estrema difesa (nuovi muri). L'Herald Tribune parla dell'intervento della polizia egiziana che ha chiuso un chiesa copta pronta all'inaugurazione, e di quattro piccole moschee con minareto sorte ai quattro angoli di un convento copto a sua limitazione. Il discorso si lega al referendum svizzero del quale si è parlato nei giorni scorsi: due pesi e due misure. In Francia le Figaro propone una forza di interposizione tra ebrei e palestinesi, che è l'esatto contrario di quanto altri sostengono (se non si lasciano ebrei e palestinesi soli a trattare e gestire il tutto, non si arriverà mai ad una soluzione). E le Figaro conclude chiedendosi come, se il mondo non porterà la pace in un territorio pur così piccolo, potrebbe mai trovare una soluzione alle crisi finanziaria ed ecologica. Se torniamo indietro a guardare quanto è stato pubblicato nei giorni scorsi, non si possono non ricordare le inaccettabili parole dell'ambasciatore Sergio Romano che, su Panorama, a proposito del discusso scambio di Gilad Shalit con un migliaio di detenuti palestinesi, ha scritto che questo è dovuto "soprattutto all'innato sentimento che un israeliano valga molto più di un palestinese". Ha anche, ma non solo, dimenticato con ignominia il ricatto cui sono sottoposti da oltre tre anni i governanti israeliani. Criticata è stata anche Barbara Spinelli che, su La Stampa, in un commento al discorso pronunciato da Obama in occasione della cerimonia per la consegna del premio Nobel, ha infilato senza ragione alcuna una considerazione su Israele scrivendo che sarebbe la "sua non dichiarata potenza atomica che incita un'intera regione al risentimento costante e al riarmo"; insomma, dell'Iran è sempre meglio non parlar male, per la penna de La Stampa, ma contro Israele tutto è dovuto. A seguito invece della dura polemica tra il cardinale Tettamanzi ed il leghista Calderoli, sul Foglio del 10 dicembre Giulio Meotti ha scritto un articolo di grande giornalismo, ricostruendo tutto ciò che sta dietro le quinte nella Arcidiocesi Milanese. Infine, per coloro che desiderano leggere quanto scritto da un inviato straniero nei territori palestinesi, raccomando l'articolo di Tom Gross ne appare una realtà della vita dei palestinesi decisamente diversa da quella che ci viene regolarmente descritta dai nostri quotidiani, e che potrà dare a tutti utili informazioni.

Emanuel Segre Amar http://www.moked.it/


Mappa istituto Weizmann
Delegazione di tecnici della Provincia di Ragusa partecipa a seminario in Israele sul restauro

Una delegazione di quattro unità tra imprenditori e tecnici della provincia di Ragusa parteciperà in Israele, domani e venerdì, ad un seminario sul restauro, diagnostica degli edifici, promosso dall’Istituto nazionale per il commercio estero. La missione a Tel Aviv, dove si tiene l’appuntamento, è coordinata dalla Cna provinciale di Ragusa con la collaborazione dell’Ordine degli architetti dell’area iblea. Il mercato del restauro e della conservazione in Israele è cresciuto in maniera molto significativa negli ultimi anni. Secondo un piano delineato dalle autorità responsabili, circa diecimila edifici tra Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme, saranno soggetti a lavori di restauro nel prossimo futuro. “Tale nuovo approccio da parte delle autorità locali – afferma il presidente provinciale della Cna, Giuseppe Massari – crea le giuste condizioni per una pubblicizzazione e promozione della notevole e riconosciuta esperienza delle nostre imprese in materia. Ecco perché abbiamo promosso l’invio di tale delegazione che può rendersi conto da vicino delle occasioni di sviluppo che è possibile concretizzare. E’ un seminario di due giorni che può aprirci le porte di un nuovo mercato che, anche per le nostre imprese di settore, potrebbe rivelarsi molto redditizio. Un’occasione da non lasciarsi sfuggire in termini di sviluppo”.16/12/2009, http://www.radiortm.it/


Obama arriva ad Oslo

Obama, il Nobel, la guerra e la pace

“Non aver mai usata la guerra per arte, perché l'arte mia è governare i miei sudditi e defendergli, e, per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra” scriveva, Niccolò Machiavelli nel suo Dell'arte della guerra. Cinquecento anni dopo, il comandante in capo della prima potenza mondiale, durante la cerimonia per l'assegnazione del premio Nobel per la pace, dichiara: “In quanto capo di Stato che ha giurato di proteggere e difendere la mia nazione [...] devo affrontare il mondo così com'è e non posso rimanere inerte di fronte alle minacce contro il popolo americano. Perché una cosa dev'essere chiara: il male nel mondo esiste. Un movimento nonviolento non avrebbe potuto fermare le armate di Hitler. I negoziati non potrebbero convincere i leader di al Qaeda a deporre le armi. Dire che a volte la forza è necessaria non è un'invocazione al cinismo, è un riconoscere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione”.La guerra, dunque, come uno strumento necessario e a volte inevitabile per raggiungere la pace. A Oslo il presidente Obama si è presentato con un discorso deciso e profondamente realista e, a giudicare dall'interminabile applauso finale, le sue parole hanno riscosso un notevole successo fra i presenti. Fatto poco scontato perché in Norvegia, come ha ricordato su “La Stampa” Molinari, il presidente americano è partito con il piede sbagliato: mal digerita dai locali è stata la sua decisione di disertare la colazione con il sovrano Herald V; ancor meno quella dei suoi sostenitori dell'ala pacifista di inviare trentamila soldati in Afghanistan. Ai primi Obama ha chiesto subito scusa, adducendo come giustificazione un'agenda stracolma di appuntamenti. Ai secondi e a coloro che criticano aspramente gli Usa, il comandante in capo delle forze armate americane ha spiegato che “lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e ha consentito alla democrazia di insediarsi in luoghi come i Balcani. Abbiamo sopportato questo fardello non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà. Lo abbiamo fatto per interesse illuminato, perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e siamo convinti che la loro vita sarà migliore se altri figli e nipoti potranno vivere in libertà e prosperità”. L'America come paladina della giustizia, argomentazione un po' retorica ma, in molti frangenti, incontestabile. I soldati americani e degli alleati, per Obama, portano la pace e non fanno la guerra; un’interpretazione sul filo del rasoio che non ha convinto chi respinge del tutto l’utilizzo delle armi. Il presidente Obama ha poi fatto appello ha tutte le nazioni, perché si uniscano nella tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e puniscano severamente paesi o regimi che li violano. Lo sguardo corre immediatamente verso l’Iran, dove libertà di espressione, informazione, riunione sono duramente represse, con tanti saluti al rispetto della carta dei diritti del 1948. Le istituzioni internazionali devono prendersi la responsabilità di difendere e tutelare la dignità di tutti i cittadini, che siano birmani, congolesi o del Darfur. Dopo una richiesta dura di intransigenza, Obama ritorna sulla strada della politica della mano tesa “le sanzioni senza la sensibilizzazione - e la condanna senza dialogo - possono produrre un immobilismo disastroso. Nessun regime repressivo sceglierà di percorrere una strada nuova se non gli si lascerà una porta aperta.” Due punti nodali: unirsi per tutelare e difendere i diritti, anche con la forza e con sanzioni pesanti; promuovere attivamente una via alternativa a coloro che sbagliano. Siamo fallibili, possiamo cadere in errore e spesso lo facciamo, è nella natura umana che non è perfetta ma perfezionabile, dunque dobbiamo aiutarci a migliorare. Obama riprende le parole di Martin Luther King: “Io rifiuto di accettare la disperazione come risposta finale alle ambiguità della storia. Rifiuto di accettare l'idea che la presente natura umana, che preferisce le cose come stanno ci renda moralmente incapaci di conseguire l'eterno dover essere con cui dobbiamo sempre confrontarci”. Non rimanere passivi testimoni della storia ma protagonisti del nostro presente e futuro. Non esattamente un compito facile.L’ottimismo si mischia a un pessimismo realista: la globalizzazione ha abolito i confini, le persone possono entrare sempre in contatto l’una con l’altra ma questo può comportare una comprensibile paura di perdere sé stessi. Se non c’è un limite il rischio è di confondersi col tutto, perdere la propria identità, pericolo che per alcuni si trasforma in aggressività per difendere, dice Obama, “le identità specifiche, la razza, la tribù e, forse più forte di tutte, la religione”. In questo quadro secondo lui si inserisce il conflitto fra israeliani e palestinesi o, utilizzando le sue parole, fra “arabi ed ebrei”. E’ così? Israele è l’esempio del tanto chiacchierato “scontro di civiltà”? La barriera che divide i due popoli è la paura? Certo è che se Hamas vuole cancellare Israele dalla faccia della terra avviare un dialogo non sarà mai possibile. Arrigo Levi qualche giorno fa (La Stampa, 21 novembre 2009) ha fatto una proposta interessante e provocatoria “in qualche modo, se i Palestinesi sono ancora oggi, come sempre, incapaci di badare a se stessi, Israele dovrebbe saper farsi carico anche di loro, delle loro sofferenze e dei loro sogni. Chi, meglio degli ebrei, potrà mai capirli?”. Torniamo all’Obama-pensiero, concreto e allo stesso tempo idealista: “possiamo riconoscere che l'oppressione non sarà mai sconfitta, ma nonostante questo continuare a lottare per la giustizia. Possiamo ammettere che la depravazione è impossibile da sconfiggere, ma nonostante questo continuare a lottare per la dignità. Possiamo essere consapevoli che ci sarà la guerra, e nonostante questo continuare a lottare per la pace. Possiamo farlo, perché questa è la storia del progresso umano, questa è la speranza di tutto il mondo; e in questo momento di sfide dev'essere il nostro compito, qui sulla Terra”. Davvero si può fare tutto questo? La storia dà, a onor del vero, più torto che ragione al presidente Obama; certo è che le sue parole sono un nobile auspicio e un bel modo per ritirare il Nobel per la Pace.Daniel Reichel, http://www.moked.it/


Gianni Pennacchi

Con Gianni Pennacchi è scomparso un grande giornalista, irriverente su tutto e con tutti, carico di umanità e curioso come pochi. Negli ultimi tempi mi aveva confessato che voleva lavorare su una "storia impossibile". "A Maurì - mi disse, vestito tutto di bianco - vojo scrive sulla Menorah d'oro che forse sta nascosta in Vaticano". Ed a chi gli replicava parlando di difficoltà insormontabili, replicava alzando le mani al cielo: "E' per questo che la vojo fa..".MaurizioMolinari,giornalista, http://www.moked.it/

la Traviata de Verdi interpretados en p l eno Mercado Centra l de Va l encia
איזה רעיון שיווקי מבריק!
http://tinyurl.com/y9a2u4k
abso l ute l y beautifu l !!!
חנוכה שמח!


Gerusalemme - cimitero


Se l’intransigente non è più Netanyahu

L’Autorità Palestinese del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) stenta a credere che stia avvenendo davvero, ma pare proprio che inizi ad essere vista nel mondo come la parte che respinge la pace.Circa un anno fa i palestinesi erano sicuri che li attendevano tempi buoni e che un presidente americano ideale, dal loro punto di vista, avrebbe realizzato i loro desideri. E invece, nel giro di un solo anno le carte sembrano essersi ribaltate, e anziché vedere l’Autorità Palestinese che denuncia Netanyahu come intransigente, il mondo inizia sempre più a capire che in effetti quelli intransigenti sono i palestinesi. Due mosse di Netanyahu sono ciò che ha ribaltato il quadro.Dapprima, la sua dichiarata disponibilità a sostenere uno stato palestinese (purché senza ritorno dei profughi in Israele e senza Gerusalemme): una mossa che i palestinesi avrebbero afferrato a due mani se fossero seriamente interessati a questa soluzione.Poi c’è stato il congelamento temporaneo degli insediamenti, che ha posto Abu Mazen davanti a un altro problema. Ora si sente dire dai leader mondiali: Israele si è mosso, dunque perché vi rifiutate di negoziare? L’onere della prova è passato ad Abu Mazen, in un momento in cui egli non fa nessuna concessione rispetto a Israele. Anzi, al contrario: la sua Autorità Palestinese continua a aizzare contro Israele. Mentre Israele è pronto a negoziare qui e ora, i palestinesi pongono precondizioni e vanno perdendo il sostegno occidentale.Precondizioni per parlare con Israele? Come se non vi fossero mai stati il processo di Oslo, il reciproco riconoscimento, gli accordi firmati. Curiosamente quegli accordi congiunti sono vivi e vegeti quando si tratta dei diritti dei palestinesi; quando invece si tratta di riconoscere Israele, improvvisamente si dileguano nel nulla.Non basta. Poco fa la dirigenza palestinese si è presa una sberla in faccia quando se ne è uscita con l’idea della “dichiarazione d’indipendenza unilaterale”. Gli Stati Uniti hanno messo in chiaro, nel modo più deciso e seccato, che non vi è nessuna chance che possano appoggiare una tale mossa. Ma, ancora peggio per i palestinesi, persino l’Unione Europea ha detto in modo esplicito che non avrebbe approvato una mossa o uno “stato unilaterale”. Sarebbe una mossa in totale contraddizione con la concezione europea che si fonda sul principio del riconoscimento reciproco e dei negoziati.E tutta quell’ostilità verso Israele? brontolano i palestinesi; senza riuscire a capire che detestare Israele non equivale ad avere in simpatia i palestinesi. Confondono sentimenti anti-israeliani e sentimenti filo-palestinesi: non capiscono che, nel mondo, molti che odiano Israele usano i palestinesi semplicemente come una foglia di fico per coprire questo loro odio pregiudiziale.I palestinesi sono scioccati anche nel veder crescere le relazioni fra Israele ed Europa, cosa che essi hanno tentato di ostacolare in ogni modo. Il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Riyad al-Maliki (in passato membro del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) la denuncia con forza. I palestinesi non si raccapezzano: come può l’Europa avvicinarsi a Israele? Per anni e anni hanno prestato ascolto all’odio diffuso dai canali tv arabi, che sottolineano sempre e solo gli aspetti negativi – veri o presunti – di Israele; e come tutti coloro che prendono questi resoconti per oro colato, semplicemente non capiscono il quadro reale delle cose.Ancora più deludente, per i palestinesi, l’assenza di appoggio arabo alla loro prospettata dichiarazione unilaterale. Anzi, non è mancato, fra gli arabi, chi ha causticamente ricordato ai palestinesi d’aver già appoggiato lo stato palestinese che essi dichiararono nel 1988…E così i palestinesi sono ancora una volta da soli. Apparentemente tutti li appoggiano e fanno a gara a sostenerli more a voce sempre più alta; ma al momento della verità, come sempre, si ritrovano da soli. Con la loro dichiarazione unilaterale volevano isolare Stati Uniti e Israele e hanno finito per isolare se stessi, offrendo di sé l’immagine degli intransigenti che respingono la pace rifiutando reali contatti con Israele, come se volessero imporre a tutto il mondo il loro particolare punto di vista. La stessa amministrazione Obama nutre riserve sempre più forti sul loro conto: in gran parte si sono già giocati il nuovo presidente americano.La dichiarazione d’indipendenza unilaterale sta costando un caro prezzo ad Abu Mazen e soci, i quali al momento non hanno la minima idea di come rispondere a Netanyahu, che è lì che aspetta di negoziare con loro.(Da: YnetNews 12.10.09) http://www.israele.net/



Banias: donna drusa

Israele, deputato druso incriminato: “Contatti con la Siria”

Naffaa è sospettato di aver incontrato agenti della Siria - inserita da Israele nella lista dei Paesi nemici - a margine di un incontro a Damasco con un esponente di una fazione radicale palestinese (il Fplp, Fronte di liberazione nazionale della Palestina) druso d'origine e rifugiato in territorio siriano

«Contatti con gli agenti nemici siriani»: questa l’accusa per un deputato israeliano di etnia drusa aderente al Balad (formazione della minoranza arabo-israeliana alla Knesset).Secondo quanto reso noto dal procuratore , per il parlamentare è stato sospeso il beneficio dell’immunità.Naffaa è sospettato di aver incontrato agenti della – inserita da nella lista dei Paesi nemici – a margine di un incontro a Damasco con un esponente di una fazione radicale palestinese (il , Fronte di liberazione nazionale della Palestina) druso d’origine e rifugiato in territorio siriano.Il deputato ha definito “strana” l’apertura dell’inchiesta contro di lui, lasciando intendere di considerarsi discriminato in quanto druso e di volersi difendere “con tutti i mezzi legali” a sua disposizione. “Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto in quanto pubblico rappresentante dei miei elettori”, ha detto.La procura lo accusa invece di essersi non solo recato in per incontrare l’esponente del , malgrado il ministero dell’Interno gli avesse negato l’autorizzazione per “ragioni di sicurezza nazionale”, ma anche di aver preso contatto nell’occasione con funzionari siriani.13 dicembre 2009, http://www.blitzquotidiano.it/