venerdì 18 dicembre 2009


Obama arriva ad Oslo

Obama, il Nobel, la guerra e la pace

“Non aver mai usata la guerra per arte, perché l'arte mia è governare i miei sudditi e defendergli, e, per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra” scriveva, Niccolò Machiavelli nel suo Dell'arte della guerra. Cinquecento anni dopo, il comandante in capo della prima potenza mondiale, durante la cerimonia per l'assegnazione del premio Nobel per la pace, dichiara: “In quanto capo di Stato che ha giurato di proteggere e difendere la mia nazione [...] devo affrontare il mondo così com'è e non posso rimanere inerte di fronte alle minacce contro il popolo americano. Perché una cosa dev'essere chiara: il male nel mondo esiste. Un movimento nonviolento non avrebbe potuto fermare le armate di Hitler. I negoziati non potrebbero convincere i leader di al Qaeda a deporre le armi. Dire che a volte la forza è necessaria non è un'invocazione al cinismo, è un riconoscere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione”.La guerra, dunque, come uno strumento necessario e a volte inevitabile per raggiungere la pace. A Oslo il presidente Obama si è presentato con un discorso deciso e profondamente realista e, a giudicare dall'interminabile applauso finale, le sue parole hanno riscosso un notevole successo fra i presenti. Fatto poco scontato perché in Norvegia, come ha ricordato su “La Stampa” Molinari, il presidente americano è partito con il piede sbagliato: mal digerita dai locali è stata la sua decisione di disertare la colazione con il sovrano Herald V; ancor meno quella dei suoi sostenitori dell'ala pacifista di inviare trentamila soldati in Afghanistan. Ai primi Obama ha chiesto subito scusa, adducendo come giustificazione un'agenda stracolma di appuntamenti. Ai secondi e a coloro che criticano aspramente gli Usa, il comandante in capo delle forze armate americane ha spiegato che “lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e ha consentito alla democrazia di insediarsi in luoghi come i Balcani. Abbiamo sopportato questo fardello non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà. Lo abbiamo fatto per interesse illuminato, perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e siamo convinti che la loro vita sarà migliore se altri figli e nipoti potranno vivere in libertà e prosperità”. L'America come paladina della giustizia, argomentazione un po' retorica ma, in molti frangenti, incontestabile. I soldati americani e degli alleati, per Obama, portano la pace e non fanno la guerra; un’interpretazione sul filo del rasoio che non ha convinto chi respinge del tutto l’utilizzo delle armi. Il presidente Obama ha poi fatto appello ha tutte le nazioni, perché si uniscano nella tutela dei diritti fondamentali dell’uomo e puniscano severamente paesi o regimi che li violano. Lo sguardo corre immediatamente verso l’Iran, dove libertà di espressione, informazione, riunione sono duramente represse, con tanti saluti al rispetto della carta dei diritti del 1948. Le istituzioni internazionali devono prendersi la responsabilità di difendere e tutelare la dignità di tutti i cittadini, che siano birmani, congolesi o del Darfur. Dopo una richiesta dura di intransigenza, Obama ritorna sulla strada della politica della mano tesa “le sanzioni senza la sensibilizzazione - e la condanna senza dialogo - possono produrre un immobilismo disastroso. Nessun regime repressivo sceglierà di percorrere una strada nuova se non gli si lascerà una porta aperta.” Due punti nodali: unirsi per tutelare e difendere i diritti, anche con la forza e con sanzioni pesanti; promuovere attivamente una via alternativa a coloro che sbagliano. Siamo fallibili, possiamo cadere in errore e spesso lo facciamo, è nella natura umana che non è perfetta ma perfezionabile, dunque dobbiamo aiutarci a migliorare. Obama riprende le parole di Martin Luther King: “Io rifiuto di accettare la disperazione come risposta finale alle ambiguità della storia. Rifiuto di accettare l'idea che la presente natura umana, che preferisce le cose come stanno ci renda moralmente incapaci di conseguire l'eterno dover essere con cui dobbiamo sempre confrontarci”. Non rimanere passivi testimoni della storia ma protagonisti del nostro presente e futuro. Non esattamente un compito facile.L’ottimismo si mischia a un pessimismo realista: la globalizzazione ha abolito i confini, le persone possono entrare sempre in contatto l’una con l’altra ma questo può comportare una comprensibile paura di perdere sé stessi. Se non c’è un limite il rischio è di confondersi col tutto, perdere la propria identità, pericolo che per alcuni si trasforma in aggressività per difendere, dice Obama, “le identità specifiche, la razza, la tribù e, forse più forte di tutte, la religione”. In questo quadro secondo lui si inserisce il conflitto fra israeliani e palestinesi o, utilizzando le sue parole, fra “arabi ed ebrei”. E’ così? Israele è l’esempio del tanto chiacchierato “scontro di civiltà”? La barriera che divide i due popoli è la paura? Certo è che se Hamas vuole cancellare Israele dalla faccia della terra avviare un dialogo non sarà mai possibile. Arrigo Levi qualche giorno fa (La Stampa, 21 novembre 2009) ha fatto una proposta interessante e provocatoria “in qualche modo, se i Palestinesi sono ancora oggi, come sempre, incapaci di badare a se stessi, Israele dovrebbe saper farsi carico anche di loro, delle loro sofferenze e dei loro sogni. Chi, meglio degli ebrei, potrà mai capirli?”. Torniamo all’Obama-pensiero, concreto e allo stesso tempo idealista: “possiamo riconoscere che l'oppressione non sarà mai sconfitta, ma nonostante questo continuare a lottare per la giustizia. Possiamo ammettere che la depravazione è impossibile da sconfiggere, ma nonostante questo continuare a lottare per la dignità. Possiamo essere consapevoli che ci sarà la guerra, e nonostante questo continuare a lottare per la pace. Possiamo farlo, perché questa è la storia del progresso umano, questa è la speranza di tutto il mondo; e in questo momento di sfide dev'essere il nostro compito, qui sulla Terra”. Davvero si può fare tutto questo? La storia dà, a onor del vero, più torto che ragione al presidente Obama; certo è che le sue parole sono un nobile auspicio e un bel modo per ritirare il Nobel per la Pace.Daniel Reichel, http://www.moked.it/

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